Asian Development Bank: intervista E. Letta

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Dopo l’elezione di Trump e il ritiro americano dai negoziati per il Partenariato Trans-Pacifico (TPP) è iniziata una nuova fase per le relazioni commerciali tra ASEAN e Stati Uniti. La strategia americana, archiviata la possibilità di siglare un accordo di libero scambio con gli 11 Paesi dell’Associazione, punta infatti a proseguire solo sulla strada dei rapporti bilaterali con i singoli Stati dell’area. Che cosa significa questo per il commercio mondiale?

Il commercio mondiale si alimenta di tutti quegli accordi che tendono a ridurre le barriere tariffarie e non-tariffarie e ad aumentare gli standard di protezione dell’ambiente, dei consumatori, dei lavoratori e della proprietà intellettuale. Il problema è che ogni accordo fa storia a sé e si rischia di creare un mondo di regole tutte diverse e impossibili da capire, soprattutto per le piccole e medie imprese. Gli accordi multilaterali o region-to-region, seppur più difficili da negoziare e spesso, per forza di cose, meno ambiziosi, creano però dei golden standard che influenzano anche gli altri attori del panorama mondiale. Due piccoli, ma significativi esempi sono le produzioni di carni non trattate con gli ormoni da parte dell’Argentina, per accedere alla quota europea 481, e quelle cinesi di cosmetici per il mercato europeo. Questi sono solo due dei tantissimi miracoli che l’Unione Europea, la prima vera area di libero scambio al mondo, ha prodotto, anche al suo esterno. Un accorINTERVISTA Intervista al Presidente dell’Associazione Italia-ASEAN, Enrico Letta D do bilaterale, ad esempio tra Italia e Spagna, non sarebbe mai arrivato a risultati di questo genere. I consumatori italiani e spagnoli si sarebbero dovuti accontentare di meno scelta, in questi casi in termini di cosmetici e di carni, oppure avrebbero dovuto accettare prodotti poco sicuri per la salute. Diverso è il caso degli accordi bilaterali tra colossi, come sarebbe potuto essere il TTIP tra UE e USA. Ma anche qui l’amministrazione Trump sembra abbia chiaramente scelto di non procedere. In sostanza possiamo dire che la scelta americana di rinunciare al TPP farà male agli Stati Uniti e, solo marginalmente, al commercio mondiale. Il TPP-11, ovvero nella versione senza gli USA, sta andando avanti. Inoltre, tutti i Paesi coinvolti stanno già trattando da soli, o nei lori rispettivi raggruppamenti regionali, con l’Unione Europea o con la Cina (UE-ASEAN, UE-MERCOSUR, o il RCEP tra ASEAN, Australia, Cina, Corea del Sud, India, Giappone e Nuova Zelanda).

In questo contesto quali sono le opportunità che potrebbero aprirsi per l’Europa e, nello specifico, per l’Italia? Ritiene che il negoziato Paese-Paese sia una strategia destinata a (ri)prendere piede, sulla scorta della scelta americana?

Dal punto di vista negoziale non esiste nessun cambiamento di prospettiva per l’Italia. La politica commerciale per fortuna è una competenza esclusiva dell’Unione Europea e non esiste ragione alcuna per cambiare lo stato delle cose, anzi… Per quanto riguarda, invece, le opportunità per l’Europa, si aprono delle autostrade. La vera difficoltà sarà imboccarle con la giusta decisione, che ci permetta di cogliere questa epocale occasione. L’accelerazione che hanno avuto i negoziati con Canada e Giappone e il fatto che dopo anni di stallo si siano riaperte le discussioni con ASEAN e MERCOSUR sono il segnale che l’Europa è considerata un partner di primissimo livello dal punto di vista commerciale e che, in assenza degli Stati Uniti dalla scena, l’UE diventa il campione mondiale del free and fair trade. Per quanto riguarda la possibilità dei negoziati Paese-Paese, che per noi è UE-Paese terzo, ribadisco l’importanza del pragmatismo e del portare a casa il risultato. La lista delle priorità dovrebbe partire dai negoziati multilaterali, poi quelli regionali e in ultima istanza quelli bilaterali. Fare piccoli passi, però, è sempre meglio di non farne.

Nel 2016 le esportazioni italiane in ASEAN sono state pari a 7,2 miliardi di euro, un valore ancora limitato rispetto alle potenzialità dell’area. Secondo alcune stime dell’Asian Development Bank (ADB), nel 2018 le economie dei Paesi membri dell’Associazione cresceranno a un tasso del 5,1%.Quali sono gli Stati che possono offrire maggiori opportunità alle aziende italiane? E i settori più promettenti per le nostre imprese?

Il potenziale italiano cresce a una velocità maggiore rispetto alla crescita economica dell’area. Il brand Italia è un fattore determinante per fare da traino a tutto il Sistema Paese. Va però tenuto bene in considerazione che la brand awareness del made in Italy non è ai livelli a cui siamo abituati, per esempio in Nord e Sud America, nell’area ex CSI o in Medio Oriente. Inoltre, l’ASEAN per quanto si provi a considerarlo nel suo insieme, è ancora un raggruppamento di Stati abbastanza eterogeneo. Nell’ultimo report dell’EU-ASEAN Business Council sul sentiment delle imprese europee nel sud-est asiatico, si vede chiaramente che ci si dirige verso ciascuno dei dieci Paesi per delle ragioni specifiche. A Singapore, per esempio, si va per la facilità di fare business, la semplicità delle norme, le infrastrutture materiali e immateriali efficienti e la sua rilevanza logistica e finanziaria; all’opposto, si scelgono le Filippine per questioni giuslavoristiche e di basso costo del lavoro. Per quanto riguarda i settori più promettenti, sposo solo parzialmente la versione del Ministro degli Esteri indonesiano, che abbiamo incontrato a ottobre. Il Ministro Marsudi ci consigliava di concentrarci sulle tre ‘f’ della creatività: fashion, food e furniture. E’ chiaro che design, moda e agroalimentare sono i migliori ambasciatori del brand Italia, ma questi comparti devono essere il grimaldello per aprire i mercati emergenti anche per tutto il resto del Sistema Paese. Non possiamo ignorare che siamo tra i migliori al mondo nella costruzione di macchinari, nello sviluppo di reti energetiche e tecnologie per le energie rinnovabili, nella fornitura di servizi e nella ricerca scientifica. Mi sembra dunque importante ribadire ancora la necessità di fare sistema. Non bisogna solo tentare di vendere prodotti finiti, ma è fondamentale invece integrarsi nelle catene globali del valore, quindi anche attrarre talenti con la cooperazione scientifica, promuovere la nostra offerta turistica e culturale per fare brand awareness, creare joint ventures, attrarre investimenti e importare materie prime e semilavorati a prezzi più competitivi.

L’Italia utilizza soltanto lo 0,88%, pari a circa 1,5 miliardi di euro, dei finanziamenti messi a disposizione dalla Asian Development Bank per la realizzazione di progetti di sviluppo nei Paesi dell’area asiatica. Perché accade questo?

Dagli anni ‘60 in poi abbiamo versato in ADB oltre 2,5 miliardi eppure la situazione è quella che raccontano i numeri che lei cita. Se evidentemente lo scopo dell’ADB è assecondare lo sviluppo di quell’area del mondo, non vi è alcuna ragione per la quale le imprese italiane non debbano essere le beneficiarie di commesse almeno pari alla quota di capitale che l’Italia versa ogni anno, ovvero l’1,81%. Il delta che si è creato tra quanto versiamo in ADB e quanto riceviamo indietro è dato dal fatto che l’Asia è un continente lontano e sterminato, che conosciamo poco e per il quale serve uno sforzo di comprensione maggiore. Il Sistema Paese deve fare di più per far conoscere le opportunità che ci sono in Asia e con l’ADB e fare da facilitatore delle relazioni. Dall’altro lato, le imprese devono essere lungimiranti e investire in personale e conoscenza per radicarsi nei nuovi mercati, partecipare agli appalti e usufruire delle opportunità offerte. La guida che abbiamo realizzato con il MAECI e PwC va in questa direzione. I finanziamenti offerti da ADB non sono di più difficile ottenimento di quelli europei o di altre istituzioni finanziarie, sono solo meno conosciuti.

Quali sono i limiti incontrati dalle nostre aziende? Ritiene che l’abitudine ancora poco radicata a prendere parte in raggruppamento d’impresa alle gare possa rappresentare un limite, al pari della dimensione poco rappresentativa dei campioni italiani rispetto ai competitor internazionali? Come possono essere superati?

I limiti sono essenzialmente due: la conoscenza delle opportunità e la volontà di metterci testa e risorse. Sul primo limite deve lavorare il Sistema Paese nel suo complesso, sul secondo devono essere le imprese lungimiranti e uscire dalla logica che l’internazionalizzazione si possa affrontare da amatori. Ci tengo a dire che un serio processo di internazionalizzazione si trasforma velocemente in maggiore giro d’affari ed è in tutto e per tutto assimilabile a un’espansione aziendale, per tanto ricade totalmente nel rischio imprenditoriale. Le aziende che abbiamo incontrato, di cui abbiamo raccontato le esperienze con ADB, non sono dei colossi e rappresentano bene il tessuto imprenditoriale italiano. Non c’è, quindi, una vera necessità di consorziarsi o essere campioni nazionali e internazionali. Non consiglierei a una micro-impresa a conduzione familiare di rivolgersi all’ADB, ma una piccola impresa, con un po’ di attivo, che decida di formare un proprio dipendente e di assumerne un altro e dedicarli a questa missione, può vedere risultati già in un anno.

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