Blue foods: alleanza a Sud-Est tra oceano e innovazione

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Il ruolo di questa galassia di alimenti provenienti da ambienti acquatici è sempre più cruciale nello sviluppo sostenibile dell’area ASEAN

Di Tommaso Magrini

Nel cuore del Sud‑Est asiatico, dove il mare non è solo orizzonte ma fonte quotidiana di cibo, lavoro e identità, si sta facendo strada una nuova visione per uno sviluppo più giusto e sostenibile: quella delle blue foods. Questo termine, ancora poco noto al grande pubblico, racchiude una galassia di alimenti provenienti da ambienti acquatici — mari, fiumi, lagune — che spaziano dal pesce ai molluschi, dalle alghe commestibili fino a organismi minori che però hanno un impatto enorme, sia nutrizionale che economico. E oggi, più che mai, queste risorse stanno rivelandosi un punto chiave per affrontare le sfide interconnesse di malnutrizione, disoccupazione e degrado ambientale in tutta la regione ASEAN.

Il potenziale nutrizionale delle blue foods è straordinario: ricche di proteine facilmente assimilabili, di acidi grassi omega-3 e di micronutrienti fondamentali come il ferro e la vitamina B12, queste risorse costituiscono una vera ancora di salvezza in contesti dove la malnutrizione infantile e la carenza di proteine animali restano diffuse. In Indonesia, ad esempio, più della metà dell’apporto di proteine animali deriva proprio dal pesce e da altri prodotti marini, rendendo queste risorse cruciali per la sicurezza alimentare di oltre 280 milioni di persone. Ma il valore delle blue foods non si limita all’aspetto nutrizionale. Esse rappresentano anche un pilastro economico e culturale per centinaia di milioni di persone che vivono nelle comunità costiere: famiglie che da generazioni praticano la pesca artigianale o l’allevamento ittico, spesso in condizioni di forte vulnerabilità.

Tuttavia, proprio queste risorse così vitali sono messe sempre più sotto pressione da un sistema economico che, fino a poco tempo fa, ha privilegiato quantità a scapito della sostenibilità. La sovrapesca, l’inquinamento marino, la distruzione delle mangrovie e il cambiamento climatico stanno minacciando l’equilibrio di interi ecosistemi, compromettendo anche la sopravvivenza di chi da essi dipende. A ciò si aggiunge un’acquacoltura intensiva, spesso mal regolamentata, che ha prodotto impatti negativi sia ambientali che sociali: foreste di mangrovie convertite in vasche per i gamberi, contaminazione delle acque, perdita di biodiversità.

Eppure, in questo scenario complesso, stanno emergendo segnali incoraggianti che ci parlano di un cambiamento possibile — e in larga parte già in atto. Uno dei protagonisti più promettenti di questa trasformazione è rappresentato dalle startup locali attive nel mondo delle blue foods. Giovani imprese, spesso fondate da innovatori, scienziati o membri delle stesse comunità costiere, stanno reinventando il rapporto tra uomo e oceano con soluzioni che uniscono tecnologia, sostenibilità e inclusione.

In Indonesia, Cambogia, Vietnam e Filippine, molte startup stanno sviluppando modelli di acquacoltura rigenerativa, come l’integrazione tra allevamenti di pesce, alghe e molluschi (noto come Integrated Multi-Trophic Aquaculture) oppure la riforestazione delle mangrovie accanto alla coltivazione di gamberi, in un modello sostenibile noto come silvoacquacoltura. Non solo queste pratiche aiutano a rigenerare gli ecosistemi locali, ma spesso migliorano anche la resilienza economica delle famiglie coinvolte.

Altre realtà, come Collabit in Indonesia, stanno dimostrando che anche gli scarti della pesca possono diventare risorse preziose: utilizzando ciò che normalmente verrebbe buttato via — come le parti non commestibili del tonno — per produrre mangimi sostenibili o biofertilizzanti. Sono esempi concreti di economia circolare applicata al mare, capaci di coniugare riduzione degli sprechi e creazione di valore.

Questo fermento innovativo non è casuale, ma alimentato da iniziative regionali come l’ASEAN Blue Economy Innovation Challenge, promossa con il supporto delle Nazioni Unite e della Banca Asiatica di Sviluppo. Il programma finanzia decine di startup che propongono tecnologie e modelli di business capaci di rigenerare gli ecosistemi marini e al tempo stesso migliorare le condizioni di vita dei pescatori. A queste si affianca la Blue SEA Finance Hub, che mira a mobilitare capitali pubblici e privati verso l’economia blu, con un occhio di riguardo alle piccole e medie imprese del settore.

Un aspetto importante di questa trasformazione riguarda la governance e l’inclusività. Troppe volte, in passato, le politiche del mare sono state decise senza ascoltare chi il mare lo vive ogni giorno. Ora invece si sta facendo strada un approccio più partecipativo, che valorizza il ruolo dei piccoli pescatori e soprattutto delle donne, spesso invisibili nelle catene del valore ma fondamentali per la lavorazione, il commercio e la trasmissione dei saperi locali. Esperienze in Indonesia, dove donne imprenditrici guidano cooperative legate alla pesca del granchio blu, mostrano come una blue economy davvero sostenibile debba essere anche equa e inclusiva.

Guardando al futuro, appare sempre più evidente che le blue foods non sono una nicchia, ma una componente chiave delle strategie nazionali di sviluppo. L’Indonesia, con le sue oltre 17.000 isole e una delle coste più lunghe del mondo, ha già avviato collaborazioni con università internazionali per integrare le risorse blu nelle politiche alimentari, sanitarie ed economiche del Paese. Ed è una direzione che anche altri Paesi ASEAN sembrano pronti a intraprendere.

Il valore potenziale della blue economy a livello globale è immenso: si parla di oltre 15 trilioni di dollari in prospettiva futura e della possibilità di mitigare fino al 40% delle emissioni climalteranti grazie a pratiche rigenerative nei mari e nelle coste. Ma per sbloccare questo potenziale servono visione politica, investimenti mirati e, soprattutto, il coraggio di dare fiducia a chi sta già innovando dal basso.

Le startup del Sud‑Est asiatico ci dimostrano ogni giorno che un’altra economia blu è possibile: non quella dello sfruttamento cieco, ma quella della rigenerazione, della dignità, della resilienza. E forse proprio dal mare, che spesso è stato trattato come risorsa da saccheggiare, può nascere una nuova idea di sviluppo. Più giusta, più profonda, più umana.

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