I dazi minacciati da Trump rischiano di mettere in grave difficoltà diverse economie del Sud-Est asiatico, ma non sono l’unico motivo di frizione tra i paesi ASEAN e gli Stati Uniti. La nuova amministrazione americana non sembra avere le idee chiare su come rapportarsi con la regione, mentre la sua imprevedibilità sta spingendo gli Stati ASEAN ad accelerare la diversificazione dei propri partner economici e diplomatici
di Francesco Mattogno
Quando la senatrice Tammy Duckworth gli ha chiesto di citare almeno uno degli Stati membri dell’Associazione delle Nazioni del Sud-Est asiatico (ASEAN), durante l’udienza di conferma della sua nomina a segretario alla Difesa degli Stati Uniti, Pete Hegseth ha fatto scena muta. Era il 14 gennaio, Donald Trump si era insediato solo da qualche giorno alla presidenza degli Stati Uniti. Alla domanda su quanti fossero i paesi ASEAN, Hegseth aveva poi iniziato a parlare di Giappone, Corea del Sud e Australia, in evidente imbarazzo.
Di fatto, l’attuale capo della Difesa statunitense non solo non aveva idee o proposte su come portare avanti la strategia americana in quello che Washington chiama “Indo-Pacifico”: non aveva proprio idea di cosa fosse, l’Indo-Pacifico.
Sei mesi dopo, il segretario di Stato americano Marco Rubio è volato a Kuala Lumpur per il suo primo viaggio in Asia da responsabile della politica estera dell’amministrazione Trump. In Malaysia, nel cuore del Sud-Est asiatico, Rubio ha dichiarato che «l’Indo-Pacifico rimane un punto focale della politica estera degli Stati Uniti» e che Washington non si farà distrarre da ciò che accade nel resto del mondo, perché «la storia dei prossimi 50 anni sarà in gran parte scritta in questa regione».
Il segretario di Stato americano era in Malaysia per partecipare ad alcuni dei vari incontri che tradizionalmente accompagnano la ministeriale degli Esteri dei paesi ASEAN. Al di là delle belle parole sulla partnership tra Washington e il blocco, definita «non solo resiliente, ma cruciale», il viaggio di Rubio è stato fugace e aveva principalmente uno scopo: indorare la pillola dei dazi minacciati da Trump agli Stati regionali, bersagliati come poche altre aree del mondo.
Dazi, trattative, accordi
Nei giorni che hanno preceduto la ministeriale ASEAN (8-11 luglio) il presidente americano aveva infatti aggiornato le tariffe sulle importazioni promesse a vari paesi del Sud-Est asiatico, posticipando la loro ufficiale entrata in vigore dal 9 luglio al 1° agosto. Con una serie di lettere, tutte uguali, Trump si è rivolto ai leader regionali reiterando le minacce del “Liberation Day” dello scorso 2 aprile, seppur con qualche correzione.
Alcuni dazi sono stati rivisti al ribasso (la Cambogia per esempio è passata dal 49% al 36%, Laos e Myanmar entrambe al 40% rispettivamente dal 48% e 44% iniziale), con le notevoli eccezioni di Filippine (dal 17% al 20%) e Malaysia (dal 24% al 25%). Così come per i calcoli economicamente discutibili del Liberation Day, la logica alla base di tali aggiornamenti non è chiara nemmeno ai diretti interessati.
Quello che è certo è che da mesi sono in corso delle trattative tra le delegazioni dei singoli Stati ASEAN e la Casa Bianca per trovare un accordo che possa ridurre l’ammontare delle tariffe e dunque gli impatti sulle economie regionali, come quello che gli Stati Uniti hanno firmato con il Vietnam. Stando agli annunci di inizio luglio, Hanoi sarebbe riuscita a fissare i dazi sull’export negli Stati Uniti al 20%, dal 46% di partenza. Il verbo è al condizionale perché sembrano esserci ancora alcune questioni da chiarire, secondo Politico.
Se il contenuto dell’accordo dovesse essere confermato, in cambio il Vietnam aprirebbe completamente il suo mercato ai prodotti americani, cancellando le tasse doganali in entrata, e si impegnerebbe a comprare dagli Stati Uniti prodotti agricoli, combustibile, Boeing e armamenti. Quasi tutti i paesi regionali si stanno muovendo su questa linea, aprendo alla possibilità di fare numerose concessioni a Washington per cercare di compiacere la Casa Bianca. Per esempio la Thailandia, che ha bisogno di un accordo anche per placare una grave crisi politica interna, le sta provando tutte, mentre l’Indonesia ha appena nominato un ambasciatore negli Stati Uniti, dopo due anni trascorsi con il ruolo vacante. E alla fine Giacarta è riuscita a raggiungere un’intesa per ridurre i dazi dal 32% al 19%.
L’aspetto più interessante dell’accordo siglato tra Washington e Hanoi è però quello che riguarda le cosiddette “merci trasbordate”, che verranno tassate al 40%. Il termine dovrebbe fare principalmente riferimento a quei beni prodotti in paesi terzi e fatti passare per il Vietnam prima della loro esportazione finale negli Stati Uniti. Si tratta di una chiara allusione alla Cina, accusata di usare i paesi del Sud-Est asiatico come tappa intermedia delle proprie merci, così da venderle negli Stati Uniti aggirando i dazi imposti da Washington alla Repubblica popolare.
Il tema è al centro di tutte le trattative tra la Casa Bianca e gli Stati ASEAN, e preoccupa anche per la sua vaghezza: c’è chi teme che per merci trasbordate si possano intendere anche quei beni assemblati in un paese ASEAN con tecnologia o materiali cinesi, un’interpretazione che rischierebbe di mettere in ginocchio le industrie di mezzo Sud-Est asiatico. Andrebbero poi valutate le potenziali conseguenze nelle relazioni tra la regione e la Cina, che ha già dichiarato di non aver preso bene la clausola inserita nell’accordo siglato dal Vietnam.
Non-allineamento e diversificazione
Contrastare l’influenza di Pechino nel Sud-Est asiatico è uno degli obiettivi conclamati dell’amministrazione Trump, che nelle intenzioni non si discosta da quelle che l’hanno preceduta. A cambiare sono atteggiamento e modalità di manovra. Minacciare di colpire le economie della regione, così da ottenere concessioni e deferenza, rischia però di rivelarsi una strategia controproducente per Washington, almeno sul lungo periodo. Soprattutto se nemmeno gli “amici” godono del privilegio di essere risparmiati.
Se già il Liberation Day aveva fatto irritare Singapore, Manila ha accolto con un certo stupore la decisione di Trump di aumentare il livello dei dazi minacciati contro le Filippine, che dall’insediamento del presidente Ferdinand Marcos Jr. nel 2022 sono tornate a essere uno dei principali alleati degli americani nella regione. Un po’ come per quanto accade a Tokyo e Seul, in Asia nord-orientale, la sensazione è che gli Stati Uniti di Trump si stiano rivelando sempre di più come un partner inaffidabile.
Anche i rapporti con un paese da decenni considerato vicino alla Cina come la Cambogia, parzialmente recuperati negli ultimi mesi, potrebbero tornare a deteriorarsi a causa dell’impatto delle tariffe: nel 2024 le esportazioni verso gli Stati Uniti hanno rappresentato il 24,8% del PIL cambogiano, una quota enorme, messa a repentaglio dai dazi insieme a decine di migliaia di posti di lavoro nel tessile (un disastro economico simile potrebbe toccare anche al Bangladesh).
Nel suo discorso di apertura della ministeriale ASEAN di luglio, il premier malaysiano Anwar Ibrahim ha denunciato l’uso dei dazi come «strumento geopolitico». La Malaysia è forse il paese che più di altri nella regione si sta sottraendo alle intimidazioni americane. Tengku Zafrul Aziz, il ministro malaysiano dell’Industria, della Tecnologia e del Commercio, ha detto che se un eventuale accordo dovesse violare gli interessi nazionali del paese, allora «non si farà nessun accordo».
Ma le frizioni con Washington non si fermano ai dazi. Da tempo Kuala Lumpur sta criticando gli Stati Uniti – e più in generale i paesi occidentali – per il supporto a Israele nel massacro dei palestinesi. Nei due grandi paesi ASEAN a maggioranza musulmana, Malaysia e Indonesia, il sentimento anti-occidentale è in aumento, ma la popolarità di Washington sta calando un po’ in tutta la regione (anche per la decisione di Trump di tagliare drasticamente i fondi da destinare agli aiuti umanitari internazionali chiudendo USAID, che ha provocato serie conseguenze in buona parte del Sud-Est asiatico).
Proseguendo con il proprio tradizionale equilibrismo diplomatico («amici di tutti, nemici di nessuno») e spinti dall’inaffidabilità dell’amministrazione americana, i paesi ASEAN stanno quindi accelerando la diversificazione dei propri partner diplomatici ed economici. Gran parte del blocco non ha mai smesso di avere buone relazioni con la Russia, nonostante la guerra in Ucraina, mentre le controversie nel mar Cinese meridionale non sembrano rappresentare un ostacolo al rafforzamento delle relazioni con la Cina (con cui a maggio è stato ultimato un accordo di libero scambio regionale).
Minacciando dazi aggiuntivi del 10% ai membri dei BRICS, in nome del contrasto «alle politiche anti-americane» del gruppo, Trump sta inoltre bersagliando di nuovo anche il Sud-Est asiatico: nell’ultimo anno l’Indonesia è diventata un membro a tutti gli effetti dei BRICS, mentre Malaysia, Thailandia e Vietnam sono entrate a far parte dei paesi partner. Eppure, dopo anni di isolamento diplomatico, il presidente americano ha inviato la sua lettera copia-incolla con tutti gli onori («Sua eccellenza») anche al generale a capo della giunta militare birmana, Min Aung Hlaing.
A oltre quattro anni dal golpe del 1° febbraio 2021, e dalla ripresa di una guerra civile che ha causato decine di migliaia di vittime civili e milioni di sfollati, il regime militare birmano non aveva mai ricevuto una legittimazione internazionale di questo tipo. Quando si tratta di Sud-Est asiatico, la sensazione è che i membri dell’amministrazione Trump debbano studiare un po’ meglio il (cruciale) oggetto del loro discorso.

