Il risultato conferma le divisioni tra Marcos e i Duterte. La vicepresidente Sara guadagna rilevanza al Senato
Di Francesco Mattogno
Nelle Filippine, il 12 maggio oltre 69 milioni di aventi diritto sono stati chiamati a rinnovare più di 18mila cariche elettive, locali e nazionali. Si sono presentati alle urne più di 57 milioni, registrando così un’affluenza dell’82,2%, la più alta di sempre per un’elezione di metà mandato. Il voto di “mid-term”, anche nelle Filippine, viene visto come una sorta di referendum utile a giudicare l’operato del presidente a seguito dei suoi primi tre anni di governo (il mandato per il capo di stato filippino è di sei anni, e non c’è possibilità di rielezione).
Anche se in palio c’erano oltre 18 mila cariche elettive, tra cui i 317 deputati da assegnare alla Camera dei Rappresentanti, quasi tutto si giocava sui 12 senatori che avrebbero rinnovato metà dei 24 seggi del senato. Sia Marcos che i Duterte sono riusciti a far eleggere a senatori 5 dei propri alleati, mentre i restanti 2 senatori (Bam Aquino e Francis “Kiko” Pangilinan) provengono dall’area più progressista e liberale, e stanno entrambi con la rilevante famiglia Aquino. Quello che può sembrare un pareggio (5-5), non lo è. Marcos puntava a fare quasi piazza pulita dei seggi al senato e i sondaggi, nonostante l’evidente calo di popolarità del Presidente, ritenevano probabile che almeno 8 candidati presentati dalla sua Alyansa sarebbero rientrati nella lista nazionale dei 12 più votati per diventare senatori.
Se il voto per sindaci, governatori e funzionari locali non ha prodotto grosse sorprese (i Marcos hanno stravinto nel proprio feudo a Ilocos Norte, i Duterte hanno nuovamente dominato a Davao), l’esito dell’elezione al senato promette di generare nuove grandi incertezze per il futuro delle Filippine.
Il dato dell’affluenza può spiegare in parte la sconfitta dell’amministrazione in carica. Lo scorso marzo, dopo mesi di minacce di morte, accuse reciproche di tossicodipendenza e processi parlamentari (qui per maggiori dettagli), lo scontro dinastico tra i Marcos e i Duterte si è definitivamente infuocato a seguito dell’arresto di Rodrigo Duterte, predecessore di Bongbong Marcos (2016-2022) e padre della vicepresidente Sara Duterte.
La sorte dell’ex presidente ha rafforzato la chiamata alle armi dei sostenitori dei Duterte in vista delle elezioni di metà mandato, mentre la popolarità di Marcos ha cominciato a ridursi vertiginosamente. Bongbong e i suoi candidati senatori, forse rassicurati dai numerosi sondaggi che si sono infine rivelati sbagliati, non hanno fatto molto per invertire la tendenza.
L’elezione di 5 alleati dei Duterte al senato complicherà di molto il processo di impeachment a carico di Sara Duterte. A febbraio la vice di Marcos è stata messa sotto stato d’accusa dalla camera, che le ha imputato l’utilizzo illecito dei fondi pubblici destinati al Dipartimento dell’Istruzione (di cui è stata segretaria fino all’estate scorsa) e le minacce di morte rivolte al presidente e alla sua famiglia.
Il senato sarà di fatto la giuria che dovrà decidere se avallare o annullare l’impeachment, che verrà confermato con il voto favorevole di due terzi della camera alta, cioè di 16 senatori su 24 (con 9 voti contrari passa il “no”). In questo processo, che comincerà a luglio, la vicepresidente si gioca tutto. Se dovesse essere condannata, Duterte non verrebbe solo rimossa dal suo ruolo, ma le sarebbe anche impedito di ricoprire nuove cariche pubbliche, affossando così la sua corsa alla presidenza nel 2028.
Prima delle elezioni, solo 1 dei 12 che sarebbero rimasti al loro posto si era espresso a favore di Duterte (tutti gli altri si erano astenuti dal posizionarsi pubblicamente), quindi ora è certo che la vicepresidente potrà contare su almeno 6 senatori: per l’assoluzione le serviranno altri 3 voti. Le trattative dietro le quinte sono già in corso e le probabilità che Duterte venga salvata sono aumentate di molto dopo il 12 maggio.