La strategia malese, pur operando lontano dai riflettori internazionali, incarna quindi un modello di equilibrio e pragmatismo in un contesto regionale segnato da forti tensioni
Di Emanuele Ballestracci
Situato nel cuore delle rotte commerciali del Sud-Est asiatico, con oltre 3 trilioni di dollari di merci che transitano ogni anno nelle sue acque, il Mar Cinese Meridionale (MCM) è una delle regioni marittime più strategiche al mondo. Ricco di idrocarburi e risorse ittiche, rappresenta un corridoio cruciale che collega l’Oceano Indiano e quello Pacifico. Vi si affacciano Cina, Vietnam, Filippine, Malesia, Brunei e Taiwan: tutti con rivendicazioni territoriali sovrapposte. Il MCM è così diventato una delle aree più contese, soprattutto a seguito della scoperta negli ultimi decenni di nuovi ricchi giacimenti di idrocarburi.
Le rivendicazioni di Pechino sono le più estensive e si basano su una narrazione basata sui propri presunti “diritti storici”. Queste sono state codificate nella cosiddetta “linea dei dieci tratti”, che si sovrappone alle Zone Economiche Esclusive (ZEE) degli altri Stati contestanti. Tali rivendicazioni sono state respinte nel 2016 dalla Corte Permanente di Arbitrato nel caso “Filippine contro Cina”, che ha affermato la supremazia della Convenzione delle Nazioni Unite sul Diritto del Mare (UNCLOS). Nonostante ciò, le manovre di Pechino si sono intensificate nel tempo, con le tensioni aumentate soprattutto con Manila.
In questo contesto, la Malesia ha da sempre adottato un approccio equilibrato, in cui ambiguità strategica e attivismo diplomatico – anche informale – sono stati generalmente preferiti a contestazioni esplicite. Tale modus operandi è considerato un esempio di successo nella gestione delle dispute nel MCM. Putrajaya è infatti riuscita a mantenere il controllo sui propri possedimenti, nonostante le limitate risorse operative, e a garantire la stabilità delle relazioni con gli altri reclamanti. Tale approccio si contrappone parzialmente a quello delle altre medie potenze impegnate nelle dispute territoriali. Le Filippine hanno infatti più volte utilizzato lo strumento del contenzioso internazionale, mentre l’azione del Vietnam si è fatta progressivamente più assertiva, tra l’altro intensificando le provocazioni navali.
Essendo una nazione marittima la cui identità e sviluppo economico sono profondamente legati ai mari che la circondano, gli interessi della Malesia nel Mar Cinese Meridionale hanno carattere esistenziale. Il MCM collega, infatti, la Malesia Peninsulare agli Stati di Sabah e Sarawak nel Borneo, facendo del controllo su isole e atolli nell’area – sette sui dieci reclamati – e della stabilità nella regione due delle priorità di politica estera di Putrajaya. La strategia malaysiana deve però fare i conti con diversi limiti strutturali: capacità militari e budget ridotti; bilanciare le proprie relazioni con Cina e Stati Uniti; mantenere buoni rapporti con Beijing, considerati gli stretti legami economici. Putrajaya ha quindi fondato la propria azione su una coerenza legale basata sull’UNCLOS (Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare), che legittima le rivendicazioni malesi; una diplomazia attiva, sia bilaterale sia multilaterale; e il sostegno alla centralità dell’ASEAN nella gestione delle dispute. Sul fronte della difesa, la Malesia adotta un approccio pragmatico, basato sul non-allineamento militare e su un’efficace presenza sul campo, seppur ridotta rispetto alle controparti considerate per via delle scarse risorse.
Nonostante l’efficacia dell’approccio malaysiano, la sua sostenibilità futura appare sempre più incerta, soprattutto considerato l’intensificarsi delle tensioni sino-americane che potrebbe portare ad un’escalation nel MCM. Tuttalpiù, negli ultimi dieci anni, la presenza cinese nelle aree rivendicate da Putrajaya è aumentata, in particolare attorno alle secche di Luconia e alle coste della regione malaysiana di Sabah. Navi della guardia costiera cinese hanno ripetutamente ostacolato le operazioni di Petronas, il campione nazionale nel settore energetico, mentre aerei militari cinesi sono penetrati più volte nello spazio aereo malese. Questi episodi sono stati gestiti con riservatezza per evitare un’escalation, ma riflettono una crescente pressione strategica sulla Malesia. La forte dipendenza economica dalla Cina, primo partner commerciale con un interscambio che nel 2022 ha superato i 190 miliardi di dollari, limita ulteriormente le opzioni di Putrajaya, che deve bilanciare queste relazioni con la crescente assertività di Pechino. Nel contempo, i meccanismi regionali e multilaterali non sono riusciti a bilanciare efficacemente questa situazione: l’ASEAN resta divisa e i negoziati per stabilizzare le contese tramite il Codice di Condotta con la Cina sono in stallo. L’affidarsi solo agli strumenti legali e diplomatici potrebbe quindi non bastare a garantire capacità di deterrenza, soprattutto di fronte al declino del ruolo delle organizzazioni internazionali.
La strategia malese, pur operando lontano dai riflettori internazionali, incarna quindi un modello di equilibrio e pragmatismo in un contesto regionale segnato da forti tensioni. Putrajaya dimostra che è possibile difendere la sovranità nazionale e tutelare interessi strategici senza ricorrere a confronti diretti con le potenze dominanti, mantenendo al contempo la stabilità indispensabile per lo sviluppo economico e politico. Tuttavia, il successo del modello malaysiano potrebbe essere messo in discussione dalle crescenti tensioni sino-americane e dell’assertività cinese. L’efficace perseguimento dei propri obiettivi dipenderà quindi dalla sua capacità di trovare un nuovo equilibrio tra l’affermazione della propria sovranità e flessibilità diplomatica.

