Thailandia al voto, ma la sfida resterà endemica

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In vista delle elezioni del 2023, i poteri “tradizionali” di esercito e monarchia danno cenni di frammentazione interna. Cala l’intensità delle proteste antigovernative, ma i manifestanti si compattano su alcune epocali battaglie comuni

La Thailandia contemporanea spesso appare cristallizzata in una perenne lotta tra un establishment arroccato su posizioni conservatrici e impegnato a difendere il proprio controllo sulla vita politica e sociale da una parte, e periodiche spinte progressiste esterne che gli gravitano intorno, nel tentativo di penetrarlo o quantomeno scalfirlo dall’altra. Tutto ciò che esula dal binomio imprescindibile Palazzo-Forze Armate sembra destinato a non restare. In preparazione alle prossime elezioni, fissate preventivamente per il 7 maggio 2023, i recenti sviluppi mostrano che in realtà i pilastri dei “poteri forti” sono tutt’altro che monolitici.

In questo contesto, figure imponenti come quella del primo ministro Prayuth Chan-o-Cha possono apparire irremovibili, ma in realtà sottotraccia qualcosa si muove. Ad agosto, il generale che ha preso il potere con il colpo di stato del 2014 è stato sospeso dal suo incarico per cinque settimane, su petizione dell’opposizione, nell’attesa che si deliberasse sul presunto superamento del limite del suo mandato di otto anni. La sentenza della Corte costituzionale thailandese del 30 di settembre ha poi riabilitato Prayuth, aprendo alla possibilità per il generale di correre per un secondo mandato (seppur parziale, fino al 2025) alle elezioni del prossimo anno. 

Una diatriba abbastanza sterile, in quanto non metterebbe in discussione le vere fondamenta dell’architettura di potere che in Thailandia si regge su tre pilastri: Nazione, Religione, Monarchia. Infatti, il giorno della delibera della Corte, le manifestazioni da parte dei movimenti pro-democrazia non hanno raggiunto i numeri e l’intensità degli scontri antigovernativi del 2020. Nella percezione locale, si tratta dei soliti “giochi di palazzo”. 

La divisione del partito di maggioranza

“Quello che però la vicenda ci racconta è lo spaccamento interno al Palang Pracharath (PPRP), il principale partito di governo”, sottolinea Francesco Radicioni, corrispondente di Radio Radicale dall’Asia orientale. Lo stesso Prayuth sembrerebbe non essere in cima alle preferenze del partito, che, secondo alcuni analisti, sarebbe piuttosto orientato verso il generale Prawit Wongsuwon. L’attuale vice primo ministro, che ha ricoperto l’incarico di primo ministro ad interim durante la sospensione di Prayuth ed è considerato il vero architetto del golpe del 2014, sembrerebbe essere l’uomo su cui il PPRP punterà come prossimo candidato primo ministro. 

Confermano le profonde divisioni interne le dimissioni da membro del consiglio di amministrazione del PPRP del ministro del Lavoro Suchart Chomklin annunciate alla fine di novembre, insieme alla notizia che altri quaranta parlamentari sarebbero intenzionati a lasciare il partito per seguire Prayuth nel nuovo partito Ruam Thai Sang Chart (Nazione Thailandese Unita). Il numero due Prawit ha presto chiarito che PPRP e RTSCP sono in sostanza “lo stesso partito” sottolineando il legame di “fratellanza” che l’ha legato al leader negli scorsi 40-50 anni. In ogni caso, con un senato eletto dalla giunta militare e una legge elettorale che sfavorisce i partiti più piccoli, la diatriba tra i due anziani generali rappresenta l’ennesima conferma che la promessa di svecchiare la classe politica resterà verosimilmente disattesa anche in occasione di questa tornata elettorale.

Il ritorno dei Shinawatra

Anche sul fronte dell’opposizione, alcuni vecchi nomi ritornano, primo fra tutti quello della famiglia Shinawatra, nella persona di Paetongtarn, figlia dell’ex leader estromesso con il golpe del 2006 e attualmente in esilio, nonché nipote di Yingluck Shinawatra, primo ministro destituito nel 2016 per mano della giunta guidata Prayuth.

Nonostante il partito d’opposizione Pheu Thai non abbia fatto menzione ad una sua eventuale candidatura come primo ministro per le prossime elezioni, Thitinan Pongsudhirak, professore e direttore dell’Istituto di Sicurezza e Studi Internazionali dell’Università Chulalongkorn, sostiene che si possa considerare a tutti gli effetti il leader simbolico del partito. La famiglia Shinawatra, coinvolta negli scorsi anni in diversi scandali di corruzione e abuso di potere, può ancora contare su alcune roccaforti, principalmente nelle zone rurali del nord del paese, e attira attorno a sé quel che rimane del movimento delle Camicie Rosse, protagoniste di violenti scontri contro le forze di sicurezza tra il 2006 e il 2014 e vittime di una sanguinosa repressione da parte dell’esercito di Prayuth.

L’unica vera ventata di novità arriva dalla piazza. Al netto delle differenze generazionali e di estrazione sociale, i “veterani” della protesta pro-democrazia in t-shirt rossa e i nuovi manifestanti, perlopiù membri della generazione Z urbanizzata, critica dei tratti più conservatori del sistema e sensibile ai temi delle disuguaglianze economiche, civili e di genere, convergono su alcune battaglie comuni. 

Durante le ultime proteste a margine del vertice APEC ospitato a Bangkok dal 14 al 19 novembre, i manifestanti non si sono limitati a chiedere la cancellazione del vertice economico e ad intonare attacchi personali alla figura Prayuth, la cui popolarità già da tempo declinante è stata ulteriormente affossata da un’inefficiente gestione dell’emergenza Covid e da un’economia prossima a scivolare in recessione. Il generale è visto più che altro come simbolo del dominio dell’élite militare, fedele alleata della famiglia reale, nella politica, nonché come l’uomo che ha avvicinato il paese alla Cina di Xi Jinping.

Le proteste di fine novembre, seppur sottotono rispetto al passato, hanno infatti rivendicato trasformazioni più profonde ed epocali, come l’abrogazione delle severissime leggi sulla lesa maestà, una nuova costituzione che metta fine all’intromissione dei militari nella vita politica e, soprattutto, una riforma dell’onnipotente monarchia. Come suggerisce Radicioni, nel frammentato e sempre cangiante panorama della politica thailandese, l’unico filo rosso costante resta l’endemico scontro tra l’establishment bicefalo rappresentato dalla tradizionale alleanza monarchia-esercito e le spinte progressiste che riflettono le aspirazioni modernizzatrici e democratiche di crescenti segmenti della popolazione. Pur con tutte le limitazioni, la tornata elettorale del 2023 potrebbe rappresentare un’occasione privilegiata per osservare più da vicino lo stato degli equilibri di potere tra queste due forze contrastanti che sembrano destinate a segnare il futuro del paese. 

“Discutere della monarchia ha preso piede”, ha spiegato Arnon Nampa, avvocato, attivista thailandese per i diritti umani e figura di spicco nelle proteste del 2020-2021. “Forse non assisteremo a un cambiamento radicale come una rivoluzione… ma una cosa è certa: la società thailandese non farà marcia indietro”.

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