Filippine

Elezioni presidenziali Filippine: ecco chi sono i candidati

A Manila ci si chiede come sarà il post-Rodrigo Duterte. Sono molti i nomi che hanno scelto di concorrere all’ufficio più alto dello Stato, la Presidenza della Repubblica.

Rodrigo Duterte non può ricandidarsi alla presidenza e ha rinunciato a concorrere alla vicepresidenza. La Costituzione filippina prevede infatti un unico mandato di sei anni per il Presidente che viene eletto a turno unica, indipendentemente dallo scarto di voti con i rivali.

I candidati principali alle presidenziali filippine del 2022 sono Panfilo Lacson, senatore ed ex capo della polizia, Ferdinand Marcos Jr, figlio del dittatore Marcos, Manny Pacquiao, senatore ed ex pugile di fama internazionale, Ronald dela Rosa, l’ex capo della polizia a capo della “guerra alla droga” di Duterte, e Leni Robredo, l’attuale Vicepresidente. Per ora, tra i candidati non figura Sara Duterte-Carpio, figlia del presidente. Tuttavia, in quanto candidata per un terzo mandato da sindaca di Davao, lì dove lo fu il padre, ha tempo fino al 15 novembre per cambiare idea e concorrere alla presidenza. Questo stesso escamotage fu utilizzato dal padre nel 2016.

Ad oggi, nessuno sembra nettamente favorito nel divenire il futuro inquilino di Palazzo Malacañang, la sede presidenziale. La corsa sta per cominciare: la campagna elettorale inizierà ufficialmente l’8 febbraio 2022 per chiudersi il 7 maggio e si andrà alle urne il 9 maggio.

Riguardo ai vari concorrenti, alcuni presentano elementi di continuità e altri di discontinuità con l’amministrazione uscente.

Ferdinand “Bongbong” Marcos Jr, 64 anni, vorrebbe traghettare il Paese verso l’uscita dalla crisi pandemica cercando la collaborazione degli altri gruppi politici. Questa intenzione sembra difficile da realizzare in quanto gli attivisti per i diritti umani, memori del passato del padre, sperano che non diventi presidente. Proteste in strada chiedono che i Marcos restituiscano la ricchezza accumulata durante la dittatura (si stimano più di 10 miliardi di dollari) e che scontino una pena detentiva. Oltre ai fondi, un altro asset importante di Marcos Jr. è il legame con Duterte: la base elettorale del Presidente nel sud insieme a quella dei Marcos nel nord ha il potenziale di raggruppare un’ampia e diffusa quantità di voti nel Paese. Concorre con il Partido Federal Ng Pilipinas, fondato nel 2018 proprio in supporto a Duterte.

Il Senatore Ronald “Bato” dela Rosa, 59 anni, è il più vicino alla linea politica di Duterte, che lo pose a capo della controversa guerra alla droga che dal 2016 ha provocato la morte di più di 6100 persone. La sua candidatura in extremis voluta dal PDP-Laban, partito di governo di cui fa parte anche Duterte, ha il fine dichiarato di raccogliere l’eredità dell’attuale amministrazione.

Seguono una linea diversa Manny Pacquiao e Francisco “Isko Moreno” Domagoso. Entrambi condividono un passato di estrema povertà e un presente di riscatto economico, oltre che di fama.

Pacquiao, 42 anni e orgogliosamente cristiano, è senatore dal 2016 e la sua agenda include l’aiuto ai poveri. Ha contestato la disparità con cui Duterte ha distribuito gli aiuti economici e sanitari per far fronte alla pandemia. Secondo la giornalista Maria Ressa, Pacquiao sarebbe politicamente acerbo per mancanza di esperienza e per essere stato poco presente e poco propositivo nelle sedute parlamentari. Partecipa sotto le insegne del PROMDI, di base a Cebu, e non del PDP-Laban di cui è presidente dal dicembre 2020. Secondo Rappler, Pacquiao avrebbe scelto di candidarsi con questo partito in seguito a dissidi con la fazione Cusi del PDP-Laban che ha contestato la legittimità del cambio di insegne dopo la candidatura ufficiale. Questo ha destato l’attenzione della Commissione elettorale che indaga per illegittimità della candidatura e conflitto d’interessi.

Domagoso, il quarantaseienne sindaco di Manila in rapida ascesa, è stato un noto attore negli anni ’90 ed è in politica dal ’98. È considerato un populista come Duterte ma dai toni molto più pacatiDice di avere intenzione di essere un presidente risanatore e di voler continuare la lotta alla droga ma senza permettere “omicidi legali”. Concorre con Aksyon Demokratiko, partito nato nel ’98.

Panfilo Lacson, 74 anni, senatore di lungo corso ed ex capo della polizia, concorse anche nel 2004. Probabilmente all’ultima falcata della vita politica, sostiene di puntare a contrastare la corruzione, il traffico di droga e il crimine candidandosi col Partido Reporma.

Infine, Leni Robredo, 56 anni, è la candidata più in contrasto con la presidenza attuale. La Vicepresidente è un avvocato dei diritti umani da sempre critica verso le campagne di Duterte. Nel sistema filippino, la vicepresidenza viene votata separatamente e può essere di schieramento opposto a quello del Presidente. Robredo dice di essersi candidata per “assicurare un futuro di pari opportunità” ai filippini. La sua base elettorale è molto ampia grazie all’operato nel suo mandato e si candida da indipendente, pur essendo leader del Partito Liberale.

Lo scorso settembre, uno studio di Pulse Asia ha analizzato le probabilità di vittoria e i fattori che determinano le proiezioni di voto per ciascun candidato. Quel che è fondamentale per avere buone chance di vittoria sono grandi fondi e un’organizzazione nazionale diffusa che dia visibilità. Marcos possiede la ricchezza di famiglia ma non ha un’organizzazione alle spalle; Lacson, Moreno e Robredo non possiedono alcuno di questi requisiti ma fanno leva principalmente sulla loro immagine e fama; dela Rosa è spalleggiato dal PDP-Laban ma la sua candidatura improvvisa e last minute può essere un malus. Chi potrebbe avere grandi chance, qualora si candidasse, è Sara Duterte-Carpio. Le risorse economiche e le alleanze del padre potrebbero darle un vantaggio importante per ottenere i voti necessari per insediarsi a Palazzo Malacañang. Ma la partita è ancora tutta da giocare.

Le Filippine, estremo oriente o estremo occidente?

Con l’allentamento delle rigide norme sugli investimenti esteri diretti, il mercato filippino si apre agli investitori stranieri

Le Filippine rappresentano un caso molto particolare nel panorama ASEAN.  L’arcipelago, situato al centro del Mar della Cina, viene geograficamente indicato come “parte dell’Estremo Oriente”. Tuttavia, per la sua storia e le sue origini, sarebbe più opportuno definirlo “Estremo Occidente”. Le Filippine, infatti, oltre a costituire una delle roccaforti contro l’espansionismo cinese nella zona ed una delle basi di sbarramento poste dagli USA nel Pacifico, continuano ad essere una delle più importanti pedine della politica economica occidentale nel Sud-Est asiatico. 

La dicotomia tra Est e Ovest si riflette anche in politica interna. Negli ultimi anni, il Presidente Rodrigo Duterte, ha cercato di aprire sempre di più il mercato interno alle aziende occidentali, spingendo per un allentamento delle rigide regole sugli investimenti diretti esteri (IDE), considerate dall’OCSE, in un rapporto del 2019, tra le più restrittive nel loro genere dell’intero Sud-Est asiatico.

Gli ostacoli agli investimenti esteri nell’arcipelago hanno, infatti, dato vita ad un mercato dominato in diversi settori da grandi conglomerati locali. Ecco perché il Senato filippino è ormai pronto ad adottare, per la fine di maggio, una legislazione che modifica tre leggi – la legge sugli investimenti esteri, la legge sulla liberalizzazione del commercio al dettaglio e la legge sui servizi pubblici – approvate dalla Camera dei rappresentanti del Paese lo scorso anno.

Attualmente, ai sensi della sua Costituzione e delle leggi adottate, le Filippine rimangono un Paese con forti restrizioni agli investimenti stranieri, a cui si aggiungono una serie di limitazioni riguardanti altre aree, come la proprietà privata o il lavoro. A seconda dei settori d’attività, le restrizioni agli investimenti esteri possono essere molto severe, in particolare per aziende con capitale sociale inferiore a 200.000 di dollari. Inoltre, per alcune professioni, l’esercizio di esse da parte di uno straniero è vietato o viene reso molto difficile. Uno straniero o una società con capitale estero non possono possedere più del 40% di un terreno. La quota di corporation che può essere detenuta da stranieri varia in genere dallo 0% al 40%, a seconda del settore in questione, con alcune eccezioni se l’investimento supera determinate soglie. La piena proprietà privata è consentita agli stranieri solo nella vendita al dettaglio, ma vengono imposte pesanti restrizioni sul capitale versato e sugli investimenti, scoraggiandone l’ingresso. Le imprese straniere di solito entrano nel mercato filippino attraverso joint venture con partner locali o catene di franchising, ma spesso emergono le inefficienze del sistema dovute alla mancanza di controllo di gestione e alla maggior protezione di cui godono di solito i concorrenti locali, scoraggiano ulteriormente l’intervento estero. 

Non a caso, secondo la Banca Centrale delle Filippine, gli investimenti diretti esteri netti nel Paese sono scesi a $ 6,5 miliardi nel 2020, segnando il terzo anno consecutivo di calo. Per contrastare il trend, nel giugno 2020, il governo filippino ha annunciato l’approvazione di 12 nuove zone economiche, che saranno gestite dalla Philippine Economic Zones Authority, la più grande Agenzia di investimento del Paese che ha l’incarico di assistere gli investitori stranieri e facilitare le loro operazioni commerciali nel Paese, con il potere di concedere incentivi fiscali e non fiscali. Tuttavia, ai sensi del Corporate Recovery and Tax Incentives for Enterprises Act (CREAT), considerato il più grande programma di stimolo fiscale nella storia del Paese, il Governo ridurrà immediatamente l’aliquota dell’imposta sul reddito delle società dal 30% al 25% e gli incentivi (come le agevolazioni fiscali, il supporto logistico e procedure doganali facilitate) saranno decisi dal Presidente su consiglio del Fiscal Incentives Review Board. Aprire il mercato filippino agli investitori stranieri e ridurre i vincoli burocratici legati al business sono dunque tra le maggiori priorità del governo Duterte. Un traguardo che appare ormai vicino, dopo i falliti tentativi delle precedenti amministrazioni e che sposterà l’asse delle Filippine ancora più verso l’Occidente.

L’outsourcing nelle Filippine

Come le Filippine sono diventate un hub del BPO

Il Business Process Outsourcing (BPO) è uno dei settori in più rapida crescita nelle Filippine, al punto da rappresentare uno dei tre pilastri dell’economia del paese, insieme alle rimesse inviate dai lavoratori filippini all’estero ed al turismo.

La crescita del BPO nelle Filippine ha mostrato infatti un tasso di espansione medio annuo del 20% nel corso dello scorso decennio. Secondo i dati dell’Oxford Business Group, il settore rappresentava solo lo 0,075% del PIL nel 2000, dato cresciuto progressivamente fino a raggiungere il 12% nel 2019.

Secondo gli ultimi dati del governo filippino l’industria del BPO impiega 1,35 milioni di lavoratori, la maggior parte dei quali (87,6%) nei call center, mentre quasi il 12% lavora in aziende di computer e servizi informatici. Nell’ultimo anno, è emerso un forte trend di crescita anche del segmento del Data Analytics.

La Roadmap 2016-2022 della IT and Business Process Association of the Philippines (IBPAP) si pone tuttavia obiettivi di crescita ancora maggiori per il settore, puntando a toccare – entro un paio di anni – 1,8 milioni di persone occupate, 40 miliardi di dollari di fatturato complessivo e una quota del 15% nel mercato globale del BPO.

Il settore BPO è fortemente internazionalizzato nelle Filippine: il 55% delle aziende opera a livello globale (il 65% delle quali esporta verso gli Stati Uniti), il 27% a livello regionale e solo il 18% all’interno del Paese. Sono tre le ragioni principali per cui le Filippine sono riuscite a diventare un hub internazionale del BPO.

In primo luogo, il governo filippino si è attivato fin dai primi anni 2000 per incentivare gli investitori ad esternalizzare nel Paese. Ha infatti messo in atto diverse politiche liberali, inclusi benefici fiscali e misure di semplificazione nelle procedure in materia di occupazione.

Il secondo aspetto riguarda il bilinguismo. Oltre al filippino, gli studenti imparano fin da subito l’American English. La padronanza della lingua inglese e l’affinità con la cultura occidentale conferiscono alle Filippine un vantaggio concorrenziale rispetto ai suoi diretti competitors nel BPO, come l’India.

Infine, il salario medio dei lavoratori filippini nel settore è meno della metà di quello delle loro controparti nei paesi occidentali. Gli Stati Uniti ed altre imprese anglofone sfruttano questo fattore per abbassare i loro costi fissi.

Nonostante la crisi legata al COVID-19 abbia avuto un impatto negativo e rallentato la crescita del BPO nelle Filippine, le multinazionali straniere non hanno abbandonato il paese. Se la crisi continuerà a favorire la domanda di servizi telematici è infatti probabile che il settore riprenda presto la propria traiettoria positiva di crescita.

Articolo a cura di Amiel Masarap e Maria Viola.