Belt and Road Initiative: a che punto siamo in ASEAN?

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Dall’entusiasmo dei primi anni allo stop della pandemia. Pechino non si arrende, alcuni governi tentennano e i dati mostrano pericoli incombenti, ma l’unione dei dieci paesi in diplomazia vede di buon occhio i capitali cinesi.

L’ASEAN ha bisogno della Belt and Road Initiative (BRI). O è la Cina ad avere bisogno dell’ASEAN per portare avanti le nuove Vie della seta? La risposta sta nel mezzo. E cosa sta accadendo dell’ultimo anno racconta qualcosa in più di come evolve il progetto più ambizioso dell’amministrazione Xi, che dal 2014 è molto cambiato nella sostanza e negli obiettivi.

L’arrivo della pandemia e lo stop alle attività produttive non potevano che dare un ulteriore colpo d’arresto ai piani di Pechino. Le previsioni di crescita delle economie del Sud-Est asiatico continuano a mantenere toni cauti, mentre il governo cinese sembra più attento sulla distribuzione dei propri investimenti diretti esteri. Questo non ha impedito alla Cina di mantenere il suo primato come maggiore investitore nella regione, mentre gli Stati Uniti iniziano ad avanzare per sostituire Pechino laddove inizia a perdere terreno. Che siano dispute territoriali nel Mar Cinese Meridionale, oppure semplice scetticismo unito a maggiore potere negoziale, la Cina si trova davanti a una BRI che sta cambiando.

BRI chiama Cina

Come Pechino gestisce i suoi investimenti all’estero è da tempo un fenomeno conosciuto. Gli accordi stretti tra Cina e nazioni più povere nel quadro BRI sono spesso inseriti in obbligazioni che vengono ripagate, in assenza di liquidità, con la fornitura di materie prime, o la concessione a uso proprio di un asset agli investitori. Il fascino dei capitali cinesi rimane, però, uno degli strumenti più potenti della politica estera della Repubblica popolare. Lo scorso 1° settembre al Belt and Road summit i rappresentanti ASEAN hanno annunciato che serve investire di più nei progetti BRI per aiutare l’economia dell’unione a riprendersi dopo la battuta d’arresto della pandemia.

Sono tanti i progetti promossi dall’inizio della crisi Covid19, ma arrivano anche alcuni stop dati dall’incertezza dell’identità delle joint venture tra imprese cinesi e locali. Solo nei primi quattro mesi del 2021 sono stati firmati 61 nuovi progetti con il Vietnam, per il valore totale di 1 miliardo di dollari. È stata avviata la fase di analisi per la Kyaukphyu Special Economic Zone (SEZ) in Rakhine, Myanmar. Un luogo dove la cinese China International Trust and Investment Corporation Group (CITIC) promette collaborazioni con un consorzio cinese-birmano ad hoc, anche se gli incentivi ambiziosi (9-10 miliardi di dollari) stanno lasciando spazio a progetti su “piccola-media scala”. In Malesia l’ultimo progetto nel quadro BRI prevede la costruzione di un nuovo impianto fotovoltaico. Anche in questo caso, le compagnie cinesi (quasi sempre statali) promettono 10,1 miliardi di dollari di lavori.

La Thailandia è un caso a parte. Sebbene come i vicini Cambogia e Laos la guida del Paese sia di facto autocratica, c’è maggiore attenzione e cautela da parte del governo verso i promettenti capitali cinesi. Ci si è accorti che, spesso, si sono favorite soluzioni onerose invece di sistemare i problemi alla radice, e che molti dei progetti cinesi potrebbero finire nel vuoto degli investimenti senza ritorno. Più basso il potere negoziale di nazioni come Cambogia e Laos, dove Pechino sembra dettare le regole con maggiore assenso dei governi, spesso perché le altre forme di organizzazione indipendenti sono più deboli.

Cina chiama BRI

La Cina dal canto suo rimane cauta, anche se i progetti in ambito BRI proseguono. È il caso della ferrovia Thailandia-Cina, che parte da Bangkok, passerà da Vientiane e punta a raggiungere Kunming. Pechino si è anche offerta di farsi carico del progetto di spostamento delle acque dei fiumi, un’ambizione del governo thailandese vecchia di trent’anni, ma che fino a oggi sembrava infattibile date le enormi spese che il progetto richiederebbe. La proattività della Cina, in questo senso, punta a toccare i bisogni dei singoli Paesi, anche se proprio dagli ambientalisti thai arriva la denuncia che un sistema idrico efficiente salverebbe i cittadini dall’acqua persa ogni anno (il 40% di quella trasportata).

A fare da polo attrattivo verso Pechino ci sono anche le numerose iniziative che coinvolgono i dieci paesi del Sudest asiatico. La Cina ha ospitato il primo incontro in presenza dopo 16 mesi con i rappresentanti ASEAN lo scorso 7 giugno, mentre la 18° China-Asean expo del 10-13 settembre ha permesso di avanzare nuove proposte sulla questione degli scambi commerciali. Questa relazione ha ispirato da tempo Pechino, che da allora si propone di superare il concetto di investimenti nella regione come capitale per costruire infrastrutture “vuote”, con una maggiore attenzione alla cooperazione per la ricerca e lo sviluppo avanzati.

Trappola del debito o debiti fantasma?

AidData, centro di ricerca affiliato alla William & Mary University, ha annunciato che i debiti accumulati dai Governi asiatici nei confronti della Cina potrebbero essere molto più onerosi di quanto preventivato. La ricerca ha analizzato i 13,427 progetti cinesi in Laos a partire dal 2000, calcolando un monte spese che si aggira attorno agli 800 miliardi di dollari. Di questi, almeno 385 miliardi sarebbero di debito “fantasma”. In totale sarebbero almeno 44 i paesi che hanno debiti con la Cina pari al 10% del proprio PIL.

Il G20 dello scorso anno aveva stabilito che nel 2020 andava sospeso il debito di 73 economie meno sviluppate per affrontare emergenza Covid. Questo tipo di investimenti, considerati rischiosi per la salute dei bilanci statali, possono però essere nascosti tra le svariate eccezioni contemplate dal diritto internazionale. Per esempio, gli accordi possono essere presi direttamente da aziende statali, joint venture e privati senza necessariamente ricevere la delibera del governo cinese. In questo modo, come nel caso della ferrovia Laos-Cina, il buco finanziario potrebbe essere ben maggiore del previsto. Una questione complessa, che vede protagonisti gli ultimi due progetti più importanti in corso: la ferrovia Laos-Cina e 580 km di autostrada.

I rischi per le nazioni più deboli dell’ASEAN in termini di governance spaventano gli analisti, che temono un ritorno alla “trappola del debito”. Con questo tipo di prassi la Cina ha già risolto diverse controversie ottenendo la concessione di alcuni asset laotiani, tra cui parte della rete elettrica. Anche in questo caso il debito è molto meno nascosto di quanto possa apparire: basta osservare la combinazione della joint venture per osservare che la maggioranza del capitale è controllata da tre compagnie statali cinesi. Un mix complicato di sfide e opportunità, che per ora non ha frenato in modo significativo la corsa di Pechino lungo le nuove Vie della seta, ma ha comunque contribuito a evolvere il ragionamento in alcuni dei governi ASEAN. Un’esperienza utile, che ora richiede più coesione per evitare il rischio di default tra gli stati membri più fragili.

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