Myanmar

Myanmar, futuro in bilico a tre anni dal golpe

Per qualcuno, per la prima volta, l’ipotesi di una vittoria della resistenza civile alla giunta militare non sembra così remota. Per altri, il Tatmadaw rimane la forza meglio armata. L’Operazione 1027 potrebbe rinvigorire l’opposizione al regime e trovare nel 2024 un incastro inedito tra i tasselli del puzzle birmano

Di Agnese Ranaldi

“Direi che la rivoluzione ha raggiunto il livello successivo, piuttosto che dire che ha raggiunto un punto di svolta. Quello che abbiamo ora è il risultato della nostra preparazione, organizzazione e costruzione degli ultimi tre anni”. Lo ha detto di recente il portavoce del governo di unità nazionale del Myanmar, Nay Phone Latt, alla Associated Press. Quella a cui fa riferimento è la “Operazione 1027”, una delle offensive più potenti ed estese che la resistenza anti-golpista abbia mai lanciato contro il Tatmadaw, l’esercito responsabile del colpo di stato del 1° febbraio 2021 in Myanmar. Ha messo in difficoltà la giunta militare che fa capo al generale Min Aung Hlaing, e a cavallo del terzo anniversario dall’inizio della guerra civile potrebbe riconfigurare i rapporti di potere cambiando le sorti del conflitto. 


Il puzzle

Come in un déja-vu, dopo anni dall’ultimo golpe militare, i risultati delle elezioni legislative birmane del 2020 vinte dalla Lega Nazionale per la Democrazia di Aung San Suu Kyi hanno lasciato scontenti i militari, che hanno fatto quello che sanno fare meglio: contrarre i muscoli e riprendersi il potere. La forza politica vicina all’esercito, il Partito dell’Unione della Solidarietà e dello Sviluppo, aveva conquistato solo qualche decina di seggi. Dopo essersi visto negare dalla commissione elettorale la richiesta di un riconteggio dei voti, il generale e capo delle forze armate Min Aung Hlaing ha optato per le maniere forti. Con una campagna di raid e incarcerazioni, ha arrestato la cancelliera di Stato Aung San Suu Kyi e il presidente Win Myint, insieme ad altre figure di spicco dell’esecutivo, riportando il Paese alla dittatura militare.

Il regime golpista, che esprime l’etnia maggioritaria bamar (la più numerosa tra le circa 135 etnie riconosciute ufficialmente), ha armato però il suo stesso nemico. Come ha spiegato il docente dell’università del Sussex David Brenner su Twai, il Myanmar era già teatro della più lunga guerra civile in corso tra movimenti ribelli etnonazionali e l’esercito di una democrazia etnocratica e “disciplinata” – così la definisce la Costituzione del 2008, che concedeva ampio potere discrezionale alla classe dei militari. Il colpo di stato è riuscito a ricomporre gli interessi e le rivendicazioni identitarie di uno degli stati più compositi al mondo. Con non poca fatica, i gruppi di etnia Chin, Kachin, Karen, Kayah, Mon, Rakhine, Shan, e altri, hanno variamente imbracciato le armi. 

Dapprima in modo frammentato, scoordinato. Come avevano sempre fatto: divisi in milizie etniche, ciascuno sul proprio territorio, con le proprie modalità di addestramento e di azione. Come sottolinea Brenner, non tutte si sono posizionate in modo chiaro. Il movimento di resistenza civile, rappresentato dal governo di unità nazionale, è appoggiato dalle milizie karen e kachin. L’esercito dell’Arakan, spiega il ricercatore, “sembra aver optato per un’ambiguità strategica”, mentre lo Stato wa è stato dichiarato zona neutrale (e il rispettivo United Wa State Army è supportato anche finanziariamente dalla Cina perché tuteli la stabilità dell’area). 

Nell’ultima fase del conflitto, i militari stavano perdendo terreno e consenso. Hanno cercato di rafforzare e rinfoltire la milizia Pyusawhti, dal nome di un leggendario re guerriero, menzionato in alcune cronache reali per aver fondato nel IX secolo il primo impero Bamar di Bagan. Hanno promesso alle nuove reclute armi, terre e denaro. Ma molti membri hanno iniziato a disertare. Frontier Myanmar riporta l’esperienza di un giovane identificato con il nome di fantasia Ko Tun Min, che racconta di essere stato costretto a unirsi a una delle milizie pro-giunta a Sagaing, nel Myanmar centrale. La milizia guidata dal monaco ultranazionalista U Wasawa aveva minacciato i residenti del suo villaggio che avrebbe sequestrato le loro case se avessero rifiutato di arruolarsi. Il 28 ottobre, a un giorno dall’inizio di “Operazione 1027”, il leader ha convocato i suoi per dire che ci sarebbero stati scontri imminenti di lì a poco. Una settimana dopo, Ko Tun Min è riuscito a scappare. “Ho detto al mio superiore che dovevo lasciare la base per comprare le sigarette e non sono più tornato”, ha raccontato a Frontier Myanmar.

Il tassello

Se il Tatmadaw perde terreno, consenso, forza militare, allora “è al collasso”. “Stiamo già ricevendo molti disertori – ha detto a Nikkei Asia Zin Mar Aung, portavoce del governo ombra birmano – e buona parte dei militari è pronta ad arrendersi”. Secondo Zin Mar Aung il morale della giunta militare e dei suoi soldati è al minimo storico perché stanno perdendo il loro “fondamento logico”: la pretesa di porsi come garanti della coesione e della sicurezza nazionali. 

L’offensiva da nord-est è arrivata con tempismo, e ha ispirato la resistenza in tutto il Myanmar. È iniziata il 27 novembre nello stato Shan, a nord-est del Paese, ma ben presto si è trasmessa anche negli stati orientali Rakhine e Chin. Si è trattato di un attacco coordinato contro una dozzina di avamposti militari nello Stato Shan settentrionale, lungo il confine orientale del Paese con la Cina. L’operazione era organizzata dalla Three Brotherhood Alliance, composta da: Esercito dell’Alleanza Nazionale Democratica di Myanmar,  dall’Esercito di Liberazione Nazionale di Ta’Ang e dall’Esercito Arakan. Secondo Al Jazeera, si tratta di un gruppo che fa parte di una coalizione di sette organizzazioni armate etniche che mantengono stretti legami con la Cina e hanno basi o territori vicino alla frontiera con il Paese.

“Il fatto che la Three Brotherhood Alliance stia partecipando con vigore alla lotta contro la giunta ha influenzato notevolmente l’equilibrio di potere. La forza della rivoluzione sta aumentando”, ha dichiarato Tayzar San, un attivista che ha guidato la prima manifestazione del Paese contro il colpo di Stato. Come racconta un cooperante identificato con il nome Victor da Al Jazeera, fino a quel momento l’Alleanza si era tenuta a distanza dalla crisi, mentre i suoi membri combattevano individualmente sostenendo la resistenza di vari gruppi armati. Secondo lui era questione di tempo prima che entrassero in guerra. “Questo è l’inizio del gioco finale”, ha detto.  

L’incastro
Capire il presente del Myanmar è cosa complessa. Come ha raccontato in Myanmar Swing Carla Vitantonio, che ha lavorato per anni nel paese come cooperante, più ci si addentra nella storia di questo territorio e più il panorama etnico, sociale, politico, si infittisce. Diventa difficile tirare fuori una narrazione coerente. Persino ricomporre la matrice delle relazioni che hanno animato la guerra civile degli ultimi due anni, per quanto sia storia recente, è un’opera ambiziosa. Per qualcuno, come Victor, per la prima volta l’ipotesi di una vittoria della resistenza civile alla giunta militare non sembra così remota. Il 5 dicembre il generale Min Aung Hlaing ha invitato i gruppi etnici armati a risolvere “politicamente”  i loro problemi con i golpisti al potere. Ma come sottolinea Bertil Lintner sull’Irrawaddy, “sebbene l’esercito del Myanmar possa essere sparso su molti fronti e incapace di sconfiggere la resistenza, rimane la forza combattente più efficace e meglio armata del paese”. Quel che è certo, però, è che l’Operazione 1027 ha rinvigorito la resistenza civile alla giunta militare. Chissà che non possa trovare nel 2024 un incastro inedito tra gli infiniti tasselli del puzzle birmano.

In Myanmar ritornano i fantasmi del passato

A due anni dal golpe, il Paese affronta anche un altro problema sulle sostanze stupefacenti

Il primo febbraio scorso una silenziosa protesta si è riversata sulle strade delle città birmane. I negozi sono stati chiusi e la popolazione si è ritirata in casa per lanciare un segnale alla giunta militare a due anni esatti da quel golpe che, nel 2021, costrinse Aung Sang Suu Kyi ai domiciliari mentre la giunta militare riprendeva il potere. Scene, purtroppo, familiari a questo Paese asiatico da decenni tormentato da attacchi alla sua democrazia. In questi due anni più di 3000 persone hanno perso la vita durante le proteste e le manifestazioni di dissenso contro la giunta militare, e più di un milione e mezzo di persone sono dovute fuggire dalle proprie case, inasprendo problemi endemici come insicurezza alimentare e abbandono scolastico fin dalla scuola primaria. 

La grave crisi politica in cui versa il Paese si va ad aggiungere ad una situazione economica sempre più precaria, iniziata con la pandemia da COVID-19 che ha colpito gravemente il Paese, dipendente dal turismo internazionale, e aggravatosi poi con la partenza di molte multinazionali da Yangon, il che ha contratto significativamente le opportunità lavorative e quindi economiche. Più recentemente, l`invasione russa dell’Ucraina, che ha causato un forte aumento dei prezzi dei fertilizzanti e dunque del costo della vita per una popolazione prevalentemente povera e rurale, ha fatto scivolare la situazione nel baratro. 

L’impoverimento delle condizioni economiche ha portato anche come conseguenza il Myanmar a riprendere ed aumentare la coltivazione di papaveri da oppio, di cui attualmente è il secondo produttore al mondo dopo l’Afghanistan.

Il cosiddetto “triangolo d’oro”, ovvero la regione dove si incontrano Laos, Myanmar e Thailandia, è storicamente un’ importante area di produzione di sostanze stupefacenti, in particolare eroina e metanfetamine. Decenni di instabilità politica hanno reso particolarmente porose le regioni di frontiera del Myanmar, trasformandole in un facile bersaglio per produttori e trafficanti di droga data la mancanza di controlli. La produzione e la vendita di oppio rappresentano di fatto una delle principali fonti di reddito per molte famiglie: il papavero cresce facilmente, e la sua coltivazione richiede uno sforzo minore rispetto ad altri prodotti. Tuttavia, il Paese negli ultimi anni, con il perdurare di una certa stabilità politica sotto la guida di Aung San Suu Kyi, si era gradualmente allontanato da questo imbarazzante fattore di reddito, tanto che nel 2020 si era raggiunto un minimo storico di aree coltivate. Ma secondo un recente rapporto dell’ UNDOC (Agenzia delle Nazioni Unite contro la Droga e il Crimine), che ha utilizzato immagini satellitari per monitorare la superficie adibita a coltivazioni di oppio, è emersa l’evidenza  che nel 2022 la produzione di oppio è quasi raddoppiata rispetto al 2020: il cambio di rotta si è pertanto reso palese. 

L’aumento della produzione e delle aree coltivate si riscontra attraverso l’intero Paese, particolarmente nelle zone di confine con la Cina e la Thailandia, ma la svolta più pronunciata si è avuta nella regione di Shan, dove i dati raccolti hanno confermato uno sfruttamento del terreno per la coltivazione del papavero da oppio che arriva fino all’84% del territorio coltivato. 

Ma il caos e l’instabilità che scuotono il paese non aumentano solo il commercio di oppio: diversi raid condotti dall’esercito e dalla polizia del Myanmar negli ultimi anni hanno portato al sequestro di ingenti quantità di stupefacenti chimici come metanfetamine e metilfentanil, gran parte dei quali destinati all’esportazione nei paesi limitrofi. Già da anni infatti, il Paese era diventato celebre per la produzione della “yaba”, ovvero una droga sintetica contenente caffeina. A riprova che le operazioni illecite dei produttori locali oltre confine non sono state ostacolate dal COVID-19 o dai disordini post-golpe in Myanmar; piuttosto, come si è visto,  è vero il contrario.

L’ASEAN resta unita sul Myanmar

La questione birmana continua a essere una complicata sfida per i Paesi del Sud-Est asiatico. Il blocco prova a mostrare comunione di intenti

Unità. Questo il concetto citato più volte al summit dei Ministri degli Esteri dei governi dei Paesi dell’ASEAN, svoltosi a Giacarta lo scorso fine settimana. Il vertice ha rappresentato l’avvio ufficiale della presidenza di turno dell’Indonesia per il 2023. E l’amministrazione del Presidente Joko Widodo si è subito mostrata risoluta nel tentativo di compattare i ranghi sulla questione più spinosa a livello politico e diplomatico: la crisi in Myanmar. Dopo due anni dal golpe militare, la situazione è ancora ben lontana dall’essere risolta. La recente decisione dell’esercito birmano di prolungare di sei mesi lo stato di emergenza nazionale ha suscitato polemiche in patria e condanne all’estero, in quanto la mossa è stata percepita come un segnale che le elezioni generali promesse per la prossima estate saranno rinviate. La transizione del Paese verso un governo civile appare dunque allontanarsi, mentre il consenso in cinque punti raggiunto tra la giunta militare e l’ASEAN resta in larga parte inapplicato. Al termine del summit, la Ministra degli Esteri indonesiana Retno Marsudi ha dichiarato che Giacarta ha proposto ai Paesi membri un piano di pace attuativo del consenso in cinque punti, che chiedeva innanzitutto la fine delle violenze e il dialogo tra militari e ribelli. Secondo Marsudi, tutti i rappresentanti dei governi regionali hanno accettato la proposta. Un segnale positivo per l’Indonesia, la cui presidenza di turno si preannuncia come molto proattiva sulla questione. “Questo piano è molto importante come guida per affrontare la situazione in Myanmar in modo unitario”, sostiene il governo indonesiano. Dall’esterno e dall’interno dell’area del Sud-Est asiatico arrivano peraltro richieste all’ASEAN di adottare una postura più decisa e compiere dunque un salto di qualità di fronte a una delle sfide più complesse che il blocco ha dovuto affrontare in tempi recenti. L’Indonesia sembra disposta a favorire questo processo, ma allo stesso tempo il Presidente Widodo ha avvisato le grandi potenze di non utilizzare il Sud-Est asiatico come proprio campo di sfida. A conferma che l’ASEAN non è intenzionato a prendere parte a contese o a contribuire al ritorno di una logica da blocchi contrapposti. 

Cambogia e Myanmar nuovi hub manifatturieri nel Sud-Est asiatico

Alcune pressioni esogene su Pechino hanno favorito la delocalizzazione degli impianti produttivi del manifatturiero dalla Cina al Sud-Est asiatico. I primi beneficiari di questa transizione oltre al Vietnam sono Cambogia e Myanmar

Le catene globali del valore nel settore manifatturiero spostano il loro baricentro produttivo dalla Cina al Sud-Est asiatico. Si tratta di uno di quei fenomeni che il diffondersi della pandemia ha accelerato, innescato dall’aumento del costo della manodopera cinese e poi confermato da fattori esogeni come la guerra commerciale tra Washington e Pechino degli ultimi anni. L’esodo del settore manifatturiero sembra premiare così alcuni paesi del vicinato meridionale: anche se il Vietnam è sempre stato una destinazione popolare per gli ordini di esportazione dalla Cina, ora sono Cambogia e Myanmar i contendenti del ruolo di hub manifatturiero in Asia orientale. 

La dinamica di delocalizzazione intraregionale era stata inaugurata dall’aumento del costo del lavoro in Cina, che aveva spinto diverse aziende dei settori manifatturiero e tessile a esplorare altri mercati della regione. Date le restrizioni causate dalla pandemia da Covid-19, ad esempio, Apple, Samsung e Xiaomi hanno recentemente spostato le loro linee di assemblaggio in Vietnam, mentre Pechino era alle prese con le nuove varianti del virus. Hanoi ha offerto a quelle multinazionali che un tempo avevano costruito gli stabilimenti produttivi in Cina nell’ottica minimizzare i costi e massimizzare i profitti un accesso agevolato al promettente mercato del Sud-Est asiatico, che ha ereditato dal vicino settentrionale il ruolo di nuova frontiera della globalizzazione. 

Ma oltre al Vietnam, da tempo considerato la locomotiva del Sud-Est asiatico, altri paesi del blocco ASEAN si contendono la funzione di hub produttivi regionali. Secondo Wang Huanan, un esperto del settore manifatturiero, “il Vietnam è stata una destinazione molto popolare (…) ma Myanmar e Cambogia stanno recuperando terreno negli ultimi anni”. Naypyidaw e Pnom Penh hanno infatti implementato oculate strategie di politica economica per attirare quanti più investimenti diretti esteri possibile, e incentivare così la propria crescita interna. Tra esenzioni fiscali e incentivi politici, si sono resi appetibili agli occhi delle multinazionali con sede in Asia orientale, alla ricerca di nuove opportunità di profitto nei mercati emergenti del Sud-Est. 

In Cambogia, il volume totale degli scambi commerciali ha raggiunto i 22,47 miliardi di dollari nei primi cinque mesi del 2022, con un aumento del 19,7% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Le esportazioni totali hanno visto un aumento del 34,5% su base annua, mentre i beni più esportati sono stati gli indumenti, gli articoli in pelle e le calzature. D’altra parte, il Myanmar è una destinazione molto popolare per le fabbriche di abbigliamento cinesi. Il numero di queste aziende, secondo gli esperti, è passato da meno di 100 nel 2012 a più di 500 nel 2019. Tra il 2012 e il 2019, la crescita media annua delle esportazioni di abbigliamento del Myanmar ha superato il 18% e in alcuni anni ha superato il 50%. Lo sviluppo del settore è stato rallentato solo dalla pandemia nel 2020 e dal golpe militare dello scorso anno. 

Mentre l’economia cinese si riprende dalle restrizioni della severa politica “Zero Covid”, le multinazionali che avevano beneficiato del basso costo della manodopera cinese guardano ora al vicinato meridionale alla ricerca di nuove opportunità di profitto. Tra i mercati emergenti del blocco ASEAN, il Vietnam guida la crescita regionale. Ma occorre tenere d’occhio l’incipiente sviluppo di Cambogia e Myanmar, tra i maggiori beneficiari dell’esodo manifatturiero cinese.

Gli effetti della guerra in Ucraina sul Myanmar

Mentre Mosca è impegnata nel conflitto, Naypyidaw torna a contare poco nell’elenco delle priorità russe. E la Cina si prepara a riempire questo vuoto nonostante la diffidenza di entrambe le parti

“Né con la Russia, né con l’Ucraina” è uno slogan che suonerebbe poco piacevole alle orecchie della giunta militare al potere in Myanmar. Gli amici dell’esercito birmano, il Tatmadaw, si contano sulle dita di una mano. E tra questi proprio Mosca e Kiev erano i migliori partner sul mercato delle armi, unico mezzo per legittimare il proprio potere con la forza dopo il golpe del 1° febbraio 2021. Con la crisi ucraina il Myanmar ha alcuni inevitabili punti in comune, gli stessi di tutti i conflitti: povertà, distruzione e caos. Come denuncia l’inviato della Nazioni unite in Myanmar Andrew Kirkwood, il numero di birmani in condizioni di povertà assoluta ha raggiunto i tre milioni, mentre crollano i servizi pubblici di base, soprattutto nelle aree rurali. A fermarsi non è invece la violenza degli scontri, che continuano a provocare morti tra i civili. In questo contesto di profonda crisi economica e politica non è quindi più così certo che il Tatmadaw riesca a (ri)modellare il paese a sua immagine e somiglianza. Soprattutto non ha più le spalle coperte. Con la Russia distratta potrebbe dover cercare altrove un protettore, guardando verso la Cina. Una scelta che l’esercito birmano ha sempre cercato di ritardare per le storiche diffidenze nei confronti di Pechino, che intratteneva peraltro rapporti profondi col governo di Aung San Suu Kyi.

Da quando le forze armate hanno ripreso il potere è emersa subito la lotta impari tra cittadini pressoché disarmati e un Tatmadaw dotato tanto di mezzi militari quanto di strumenti per la sorveglianza e il tracciamento dei nuclei ribelli, i gruppi che si riconoscono nelle People’s defence forces (Pdf) o nei più strutturati eserciti etnici. Anche a loro, in qualche modo, la notizia di due attori in meno sul mercato aggiunge ulteriori difficoltà in un contesto di crescente scarsità. Le Pdf faticano a trovare il pieno appoggio armato del governo democratico in esilio (il National Unity Government of Myanmar, o Nug), e ancora più sfuggente è il sostegno dei paesi occidentali. Nelle ultime settimane, il dipartimento di Stato americano ha ufficialmente definito “genocidio” la repressione dei Rohingya ma sul piano concreto le pressioni occidentali sul governo golpista si sono affievolite anche a causa della “distrazione” ucraina. Lo stesso vale per gli eserciti delle realtà etniche, spesso in conflitto tra loro. Il conflitto russo-ucraino potrebbe erodere sia le reti commerciali tradizionali, che i traffici più opachi di materie prime e droghe – spesso alla base delle entrate degli eserciti informali. 

Nel frattempo, il golpe ha tagliato la maggior parte dei legami commerciali e diplomatici con l’Occidente, lasciando pochi spazi di manovra agli affari della giunta militare. La minaccia di una Russia sempre più concentrata su se stessa rischia di ridurre non solo il potenziale bellico del Tatmadaw, ma anche il commercio di farmaci e altri beni essenziali a favore – ancora una volta – di Pechino. Ad aggravare il quadro della situazione, il fatto che le potenze occidentali fatichino a trovare i canali giusti (e slegati dalla giunta) per fornire gli aiuti necessari. Sui 350 milioni di dollari richiesti dall’inviato Onu nel 2021, per esempio, ne è arrivato solo un terzo e ciò non rimuove il rischio di ripercussioni da parte dell’esercito. Le stesse risorse naturali che abbondano in Myanmar non sembrano rappresentare un incentivo abbastanza allettante da richiamare l’attenzione dei partner occidentali oltre le sanzioni emanate in passato e l’embargo alla vendita di armi.

Prima dell’invasione russa dell’Ucraina, il Myanmar sembrava naturalmente diretto verso la nascita di nuove istituzioni pseudo-democratiche. Il Tatmadaw, infatti, si sta attrezzando per togliersi la divisa e indossare gli abiti della politica. L’attuale State Administrative Council (Sac), l’istituzione governativa creata ad hoc dopo il golpe, parla di indire nuove elezioni entro l’agosto del 2023: una competizione plurale di facciata, necessaria a tentare di riguadagnare la fiducia di partner commerciali, investitori e donatori internazionali. Tra questi, la Cina sta giocando d’anticipo: il Nug è sparito dalle dichiarazioni ufficiali e le iniziative bilaterali ora coinvolgono il braccio diplomatico del Tatmadaw, l’ex colonnello Wunna Maung Lwin. 

Maung Lwin è stato invitato a marzo 2022 come parte di una delegazione Asean in visita a Pechino per parlare degli “effetti negativi della crisi ucraina nel Sud-Est asiatico”. Il 1° aprile il ministro degli Esteri cinese Wang Yi lo ha poi incontrato nello Anhui per confermare il “massimo sostegno” della Cina allo sviluppo del Myanmar “indipendentemente da come muterà la situazione geopolitica”. Queste dichiarazioni, insieme a progetti come la costruzione di nuove infrastrutture (per esempio, un nuovo gasdotto-oleodotto) e l’avvio di zone industriali lungo il confine, arrivano in un momento cruciale. Un momento in cui un “no” diventa sempre più impensabile, anche a fronte della storica diffidenza del Tatmadaw nei confronti della Repubblica popolare. Nel frattempo, l’eventualità di un Myanmar instabile ancora per molto tempo con l’allontanamento della Russia fa avvicinare Pechino anche ai gruppi etnici. Una strategia che tiene aperte tutte le possibilità, ma che il presidente del Nug (criticando Pechino per l’avvicinamento a un governo che definisce “illegittimo”) ha definito “pericolosa” perché passibile di “continuare, e non cessare, i conflitti interni”.

Il ruolo dei social nel Myanmar post golpe

Articolo di Agnese Loreta

Dal boom di Internet e dei social media nel 2013 al loro shutdown ad intermittenza a partire dal 2021. Come ha cambiato l’utilizzo dei social media il golpe dell’esercito birmano.

Guerra e social media, un binomio fondato da una dipendenza reciproca e che si è sviluppato a partire dalla metà del XIX secolo con i nascenti moderni strumenti di informazione. Da allora questa relazione, quasi intrinseca, non è più venuta a mancare ma, anzi, si è rafforzata ed ha portato a una crescita dell’esposizione informativa dei conflitti.

Di tale relazione sono interessanti due elementi: il primo è il tentativo di controllare il traffico di informazioni, il secondo è l’utilizzo intensivo dei social media come armi.

Di entrambi questi processi sono a conoscenza, rispettivamente, la Giunta militare ed il Movimento di Disobbedienza Civile (CDM), due degli attori primari della situazione in Myanmar. Dopo il 1° febbraio 2021, data che segna il terzo colpo di Stato avvenuto nella storia del Paese, e conseguentemente all’arresto di Aung San Suu Kyi, il malcontento da tempo celato è scoppiato tra le strade birmane ed ha preso gran voce tramite il CDM, con i social media che hanno giocato un ruolo centrale nella sua creazione e nella sua lotta. 

La storia del Myanmar è tristemente contornata da conflitti, a partire da quelli anglo-boeri fino all’invasione del Giappone. Stavolta però il ruolo dei social media ha assunto una forte centralità, complice il fatto che solo nel 2013 è terminato il monopolio statale sui servizi telefonici, permettendo quindi una fruizione maggiore di Internet e dei servizi ad esso associati.  Ciononostante, le politiche della Giunta militare contro la libertà d’opinione e d’espressione, poste in essere a partire da febbraio 2021, hanno notevolmente modificato l’assetto degli utenti dei social media. Di fatto, se nel gennaio 2021 si registravano 23,65 milioni di utenti in Internet e 29 milioni di utenti di social media; un anno dopo, il numero è salito a 25,68 milioni – con un aumento del +7,1% nel corso del 2021 – mentre si registra un netto crollo in quelli dei social media, che a gennaio 2022 erano di 20,75 milioni, praticamente ⅓ di utenti in meno. Secondo Statcounter Global Stats a marzo 2022 il social media maggiormente utilizzato in Myanmar è Facebook (87,21%), seguito da YouTube (5,48%), Pinterest (3,5%), Twitter (1,67%), VKontakte (1,21%) e Instagram (0,38%). 

Oltre che per la sua predominanza nel Paese, Facebook è noto anche per avere avuto un ruolo complesso in Myanmar. Di fatto, se da una parte è riuscito ad unire i cittadini birmani ed a creare una comunicazione diretta tra popolo e governo in carica, dall’altra parte non è stato capace di controllare le difficoltà sorte dalla rapida diffusione dei social media in un lasso di tempo breve, come l’hate speech e la disinformazione problemi correlati all’assenza della cosiddetta “alfabetizzazione digitale critica”. Nonostante Facebook abbia adottato strumenti e politiche volte alla risoluzione delle problematiche sopra citate, queste non sono scomparse ma sono riemerse con prepotenza in occasione delle elezioni del 2020 e, successivamente, dopo il colpo di Stato a cui ha fatto seguito il divieto dell’utilizzo di Facebook. La Giunta militare riteneva che con questa mossa si potessero bloccare le manifestazioni e l’attivismo del CDM ma, al contrario, ha comportato un aumento esponenziale nell’uso di Twitter che però non è stato in grado di risolvere i problemi di disinformazione e di hate speech che affliggevano il fratello-Facebook. 

Secondo l’analisi di Freedom House, la libertà di Internet in Myanmar ha subito una brusca battuta d’arresto dopo il colpo di Stato ed ha segnato “il più grave declino mai documentato da Freedom on the Net”, come si legge nell’introduzione al Rapporto che dà un punteggio complessivo di 17/100 al Paese.  

Nonostante le piattaforme social ed Internet vengano oscurate e bloccate in Myanmar da parte del governo militare, i manifestanti sono capaci di aggirare questi divieti grazie alla messaggistica criptata – come Signal, Viber e Messenger – e le VPN; inoltre, applicazioni come Bridgefy hanno garantito ai dimostranti di comunicare tra loro anche durante i momenti di blackout totale di Internet. Questo dimostra come la pratica dello shutdown di Internet sia limitata e antiquata ma anche quanto sia forte la resistenza dei cittadini. 

In conclusione, sebbene i social media non siano privi di difetti e di grattacapi e la strada per un loro uso consapevole, efficace sia ancora lunga, è doveroso riconoscergli una parte nodale per la nascita e la sopravvivenza stessa del CDM. Hanno saputo mantenere accesa l’attenzione sulla questione a livello internazionale, sono stati capaci di portare tra i cittadini birmani il valore dell’inclusività, poiché la lingua principale usata nei social era il birmano e sono stati un luogo – seppur virtuale – in cui le parole chiave erano resistenza e solidarietà. 

Il Myanmar divide l’ASEAN

Il Myanmar promette di essere ancora al centro delle dinamiche del Sud-Est asiatico nel corso del 2022. Con l’acuirsi delle lacerazioni interne e in assenza di un governo nazionale riconosciuto, la recente visita del Primo Ministro cambogiano Hun Sen ha dato fuoco alle polveri

Articolo a cura di Tommaso Grisi

Il Myanmar continua a far parlare di sé. A seguito del golpe che ha destituito il governo di Aung San Suu Kyi, il rapporto da tenere nei confronti della giunta militare ha creato non pochi problemi alle diplomazie del Sud-Est asiatico e del resto del mondo. Se da un lato era prevedibile la presa di posizione dei Paesi occidentali, con Stati Uniti e Unione Europea che hanno adottato fin dal primo momento sanzioni economiche verso la giunta, è sull’ASEAN che ad oggi sono rivolti gli interrogativi maggiori. L’organizzazione del Sud-Est asiatico sembra essere infatti l’unico attore in grado di poter esercitare una seria pressione sul Paese, vista l’inefficacia delle misure economiche adottate e l’impossibilità di intervento da parte delle Nazioni Unite, dove Cina e Russia hanno posto il veto in seno al Consiglio di Sicurezza. Consapevole di questo anche il Segretario di Stato americano Antony Blinken, che lo scorso dicembre ha condotto una missione diplomatica nel Sud-Est asiatico esprimendo ai leader dei Paesi partner forti preoccupazioni per quanto sta avvenendo in Myanmar.

Dal canto loro, i Paesi Membri dell’ASEAN hanno già dichiarato di non voler seguire la via delle sanzioni economiche e di voler prediligere un approccio più morbido, ma costruttivo. È in quest’ottica che in un primo momento era stato redatto un piano in cinque punti che mirava a fornire aiuti umanitari alla popolazione e ad instaurare un dialogo politico tra le parti.

Le divisioni tra gli Stati membri e la mancanza di collaborazione delle parti coinvolte hanno però portato a un nulla di fatto, con le cancellerie della regione indecise sul da farsi. Nonostante la comune volontà di portare al più presto il Paese in una condizione di maggiore stabilità, infatti, rimangono diversi nodi da sciogliere all’interno dell’organizzazione a cominciare dal riconoscimento o meno del ruolo di governo assunto dalla giunta militare, attualmente esclusa dalle riunioni dell’ASEAN, e dalla necessità di rivedere il tradizionale principio di non ingerenza che ha sino ad oggi guidato l’azione degli Stati Membri.

A tal riguardo, significativa è stata la visita del Primo Ministro cambogiano Hun Sen, che è stata oggetto di forti critiche. L’accusa, portata avanti dagli oppositori alla giunta, è di voler legittimare il regime instaurato, soprattutto alla luce del fatto che lo stesso Hun Sen abbia assunto il potere in Cambogia con un colpo militare nel 1997. La questione assume ancor più rilevanza considerando la doppia veste con cui il Primo Ministro si è trovato a far visita alla giunta, ovvero di Presidente di turno dell’ASEAN e di primo capo di governo a recarsi nel Paese dal momento in cui i militari hanno assunto il potere. Questo non costituisce di certo una novità per il Primo Ministro cambogiano, dal momento che già in passato era stato criticato per aver assunto posizioni troppo aperturiste nei confronti della giunta burmese, in particolar modo dopo aver proposto di estendere l’invito di partecipazione agli incontri dell’ASEAN anche ai responsabili del golpe. Nonostante ciò, il Primo Ministro cambogiano sembra intenzionato a proseguire su questa strada, avendo nominato il suo Ministro degli Esteri, Prak Sokhonn, nuovo inviato speciale in rappresentanza dell’ASEAN presso il Myanmar.

Proprio l’esclusione dalle riunioni dell’ASEAN potrebbe in effetti rappresentare un punto su cui far leva. L’accesso alle riunioni dei governi del Sud-Est asiatico costituirebbe un riconoscimento di fatto per la giunta militare, fondamentale per potersi interfacciare da pari a pari con gli altri Paesi della regione. Ed è proprio su questo punto che sembra giocarsi la credibilità dell’ASEAN. Qualora l’organizzazione dovesse cedere alle pressioni della giunta, infatti, sarebbe impossibile non subire un duro colpo alla propria immagine internazionale, dato che già negli scorsi mesi non sono mancate tensioni tra gli Stati membri proprio in riferimento alla questione birmana.

Ad oggi si pongono in forte contrasto con le posizioni della Cambogia i governi di Malesia e Indonesia, che hanno osservato con malumore la visita di Hun Sen nel Paese, affiancati da Singapore, mentre a suo supporto si sono schierati i rappresentanti di Laos, Thailandia e Vietnam. Insomma, le crepe interne all’organizzazione sembrano approfondirsi.

Myanmar, il futuro dopo il golpe

Il 1° febbraio 2022 saranno passati 365 giorni dal colpo di stato che ha riportato Naypyidaw sotto il controllo della giunta militare. Le prospettive per il paese che rappresenta un dilemma per il Sud-Est asiatico. Dal mini e-book di China Files “In Cina e Asia 2022”, realizzato in collaborazione con Associazione Italia-ASEAN

È un giorno qualunque di dicembre 2021. Digitando sulla barra di ricerca “Myanmar 2022” tra i risultati tre riguardano una possibile riapertura per il turismo, altri 3 riprendono l’allarme Onu sull’escalation della crisi umanitaria. Questa schizofrenia di immagini rafforza l’incertezza sul futuro del Myanmar, che a quasi un anno dal golpe si trova cristallizzato in un conflitto sociale (e armato) che sembra destinato a continuare. Il 1° febbraio 2022 saranno passati esattamente 365 giorni dalla deposizione del governo eletto ad opera del Tatmadaw, l’esercito nazionale.

Crisi umanitaria

Il programma per lo sviluppo delle Nazioni Unite (UNDP) ha rilevato un netto arretramento delle condizioni di vita dei cittadini birmani dall’arrivo del generale Min Aung Hlaing al governo. Secondo una sua indagine, quasi la metà dei cittadini birmani (46,3%) potrebbe finire sotto la soglia di povertà entro la fine del prossimo anno. Per la popolazione urbana significherebbe un picco di residenti poveri tre volte superiore ai valori del 2019 (37,2% contro il precedente 11,3%).  Su 1200 famiglie intervistate, quasi la metà afferma di aver esaurito i risparmi. Il 68% sta stringendo la cinghia sul consumo di cibo, il 65,5% ha chiesto dei prestiti ai propri cari, altri a strozzini o istituti di credito. In poche parole: la doppia emergenza Covid19-golpe sta riportando il paese indietro al 2005, azzerando i risultati politici e socioeconomici degli ultimi 16 anni. 

A questa situazione si aggiunge la grave situazione del settore sanitario, che già prima del 2021 non godeva di buona salute. A oggi gli interessi della dirigenza militare sono lontani dai servizi per la cittadinanza, con il risultato che molte strutture mediche rimangono senza personale – fattore dovuto anche al movimento di disobbedienza civile, che rifiuta di lavorare per un governo che non riconosce. A oggi il 74% delle spese mediche sono ancora a carico dell’individuo: il Myanmar è il paese Asean con la spesa privata per le cure pro capite più alta.

Infine, non è meno preoccupante la continuità della violenza interna tra gruppi etnici e forze armate. Da un lato i giovani si sono uniti al movimento di disobbedienza civile, altri hanno raggiunto gli eserciti etnici per ricevere una formazione militare. Il Tatmadaw, a sua volta, ha riesumato l’addestramento obbligatorio per i figli dei soldati dai 14 anni in su, nonostante i trattati firmati con l’Onu per ostacolare l’arruolamento dei bambini-soldato. La partecipazione agli addestramenti è oggi estesa anche alle mogli del personale militare.

Stagnazione economica e politica

La situazione economica non è buona a livello nazionale, nonostante c’era chi sperava in una prima fase di caos seguita da una lenta stabilizzazione degli affari. Il pil pro capite sta tornando a decrescere ai livelli precedenti alle prime elezioni libere del 2015. La moneta locale, il kyat, ha perso più del 60% del suo valore rispetto al dollaro Usa. Nel frattempo, i prezzi aumentano e la carenza di benzina ha già portato alla chiusura temporanea di molte stazioni. L’International Food Policy Research Institute prevede un calo nell’acquisto di fertilizzanti durante la stagione dei monsoni, con gravi conseguenze per la produzione agricola. I commerci rallentano, e le restrizioni lungo i confini dovute all’emergenza sanitaria non fanno che contribuire allo stop alle attività. La giunta ha già ristretto le importazioni dei beni considerati “non essenziali”, mentre altri beni come i prodotti farmaceutici stanno diventando sempre più costosi e difficili da reperire.

In un clima di grave assenza di governance è probabile una concentrazione del potere economico in mano al Tatmadaw e alle milizie etniche nelle loro aree di influenza. Ritorna lo spettro, mai veramente scacciato, dei traffici illeciti legati al contrabbando di droghe, pietre preziose, legname e metalli. E del traffico di esseri umani: secondo il Global Slavery Index nel 2018 almeno 575 mila cittadini birmani vivevano in condizioni di schiavitù, una cifra che potrebbe tornare a crescere a causa dei crescenti debiti personali. 

Relazioni internazionali

Il Myanmar oggi sembra un paese sempre più isolato, un’immagine che risuona familiare con quella di soli pochi anni fa. Le compagnie straniere stanno lentamente lasciando il paese, come nel caso del gigante delle telecomunicazioni norvegese Telenor, il grossista tedesco Metro e la British American Tobacco. Non tutta l’economia è congelata. Nonostante le sanzioni contro individui e organizzazioni legate al Tatmadaw, alcuni grandi flussi di capitale continuano a portare armi e finanziamenti alle forze armate birmane. Come denuncia il gruppo Justice for Myanmar, sono ancora tante le aziende che vendono armi e sistemi di sorveglianza all’esercito birmano (Italia inclusa). 

Mentre la risposta delle potenze occidentali – soprattutto Usa, Ue, Australia e Canada – rimane sulle corde delle restrizioni economiche, l’Asean fatica ancora a trovare la sua posizione. O, meglio, rimane aperta alle trattative. Dopo una prima fase di dialogo con il generale Min Aung Hlaing, anche il gruppo ha interrotto i contatti: la giunta non ha mantenuto la promessa di aderire ai cinque punti richiesti dall’Associazione, ed è quindi isolata anche tra i vicini (tra cui “cessare immediatamente la violenza nel paese”). L’arrivo della Cambogia alla presidenza, però, potrebbe normalizzare i rapporti aumentando l’engagement con la giunta militare. Il primo ministro cambogiano Hun Sen si è espresso in difesa di Naypyidaw: “Secondo la carta dell’ASEAN, nessuno ha il diritto di espellere un altro membro”. Dopo la visita di inizio gennaio potrebbero seguire altri tentativi di dialogo. Negli stessi giorni delle dichiarazioni di Hun Sen è arrivata la condanna ufficiale di Aung San Suu-Kyi a quattro anni di carcere. La strada per il ritorno alla democrazia, ancora una volta, è lontana.

L’esodo, non così facile, delle aziende straniere dal Myanmar

Le aziende straniere attive in Birmania faticano a continuare le loro operazioni vista la situazione politica ed economica. Ma faticano anche ad andarsene: vediamo perché.

A seguito della pandemia da COVID-19 e della crisi politica ed economica innescata dal golpe militare dello scorso febbraio, le aziende straniere presenti in Myanmar si trovano in una situazione molto critica, come confermato dal crollo degli investimenti che tali imprese hanno effettuato nel Paese, ai minimi negli ultimi otto anni. 

L’economia birmana, secondo la Banca dello Sviluppo Asiatico, ha subito nell’ultimo anno una contrazione del 18,4% e la situazione non sembra destinata a migliorare nel futuro prossimo, tanto che il Fondo Monetario Internazionale ha recentemente rivisto al ribasso le sue previsioni per il tasso di crescita economica nel 2022. Alla base il crollo  della valuta locale, il kyat, e il significativo aumento dei prezzi dei prodotti alimentari,  tutti fattori che contribuiscono al crescente disagio della popolazione.

L’incertezza politica, il crollo della domanda locale e la volatilità della valuta hanno  spinto molte aziende straniere alla chiusura o al ridimensionamento delle attività locali. La scarsità di liquidità e le disfunzioni del settore bancario hanno inoltre limitato la capacità delle imprese di pagare dipendenti e fornitori. Anche l’accesso a internet è stato pesantemente limitato nei tre mesi successivi al golpe. Questi shock hanno indebolito i consumi, gli investimenti e il commercio e hanno limitato le operazioni delle imprese anche per ciò che concerne  la fornitura di manodopera e degli altri fattori produttivi.

Già nei primi mesi dopo il rovesciamento del regime, grosse aziende come i colossi dell’energia EDF e Petronas, ma anche il gruppo thailandese Amata e la società di ingegneria di Singapore Sembcorp hanno cessato o sospeso le operazioni in Myanmar. Inoltre, lo scorso ottobre la British American Tobacco (BAT) ha annunciato che lascerà il mercato birmanoalla fine del 2021, benché ufficialmente la sua partenza sia stata motivata in base a mere decisioni commerciali. In realtà, avendo iniziato ad operare  in loco nel 2013 con un investimento iniziale di 50 milioni di dollari, l’uscita di BAT dal Myanmar dopo meno di un decennio riflette la criticità della situazione in cui è precipitato il Paese. Sempre nello stesso mese ha poi cessato le operazioni il Kempinski Hotel, nella capitale Naypyidaw, che avendo anche ospitato il presidente Barack Obama durante la sua visita di stato nel 2014 era un importante simbolo dell’  apertura del Paese. 

Ma l’uscita dal Myanmar non è un passo semplice per tutte le aziende. Molte, infatti, hanno investito in infrastrutture pluriennali, e una exit strategy immediata risulta impraticabile. E’ il caso, per esempio, del colosso australiano del gas naturale Woodside Energy che si limita ad affermare che “tutte le decisioni commerciali in Myanmar sono in fase di revisione”. 

Un’altra azienda che si trova in difficoltà a lasciare il Paese, seppur per altri motivi, è il gigante norvegese delle telecomunicazioni Telenor. Quest’ultima è fortemente motivata a cessare le operazioni in Myanmar non solo a causa del grave deterioramento del contesto commerciale, che ha fatto registrare una perdita di oltre 782 milioni di dollari americani, ma anche per non soccombere ai tentativi del governo di controllare le attività dell’azienda.  La giunta militare avrebbe infatti tentato diverse volte, seppur invano, di costringere Telenor a limitare il traffico web e intercettare gli utenti per permettere alle autorità di spiare le chiamate e i messaggi. 

L’azienda sta però ancora aspettando di ottenere l’approvazione per la vendita delle attività alla compagnia libanese M1. Ciò accade in seguito a un ordine confidenziale, emesso lo scorso giugno, che impone agli alti dirigenti delle imprese di telecomunicazioni, sia stranieri che burmesi, di poter lasciare Naypyidaw solo con un’autorizzazione speciale, la quale sembra però non arrivare. 

Inoltre, non va sottovalutato che la problematica situazione finanziaria non fa che complicare la possibile uscita delle aziende. Le banche, prese d’assalto dalle lunghe code che si sono formate ai bancomat all’inizio di quest’anno, sono ancora sotto pressione e la liquidità scarseggia, rendendo così estremamente arduo il rimpatrio del capitale residuo. Come se non bastasse, è sopraggiunta anche la pandemia, che impone restrizioni di viaggio e onerosi requisiti di quarantena per coloro che attraversano i confini.

Rimane una profonda imprevedibilità sulla situazione politica nel medio e lungo termine, che va ad aumentare il margine di incertezza delle imprese straniere sull’opportunità di rimanere o meno nel Paese. Queste aziende, che hanno iniziato ad investire in Myanmar dal 2011, quando si sperava che il processo di transizione democratica potesse essere irreversibile, vivono nel dilemma se fare le valigie o aspettare che passi la tempesta. 

Il dilemma delle aziende estere in Myanmar

Il boicottaggio dei manifestanti, l’opinione della comunità internazionale e la crisi economica stanno facendo vacillare le aziende presenti nel Paese.

Il colpo di Stato in Myanmar ha inflitto un duro colpo all’economia del Paese, già resa fragile lo scorso anno dall’emergenza del COVID-19. Le imponenti proteste degli ultimi cinque mesi, gli scioperi degli operai e le azioni violente perpetrate dall’esercito birmano hanno portato i lavoratori ad abbandonare le grandi città e i propri posti di lavoro nelle aziende per rifugiarsi nei piccoli villaggi e nelle foreste.

Con l’interruzione dei servizi pubblici e bancari e con il blocco quotidiano di internet la crisi economica si è ampliata a dismisura e i dati dell’ultimo report stilato dalla World Bank parlano chiaro: il settore industriale birmano ha subito una contrazione di 11 punti percentuali rispetto al 2020 mentre il settore relativo ai servizi ha perso oltre 13 punti. Nel corso degli anni entrambi i settori hanno dato un contributo importante alla crescita economica del Paese: dal 2014 al 2019 il 6% della crescita annua del PIL birmano proveniva dal settore secondario e terziario, ma questi numeri sono scesi fino all’1% nel 2020 e con un 2021 che prospetta dati ancora più negativi.

Questi segnali erano già stati percepiti già all’inizio di marzo quando, a causa del colpo di Stato della giunta militare, il 13% delle aziende in Myanmar aveva dovuto chiudere i battenti nell’attesa di un ritorno alla normalità. L’instabilità del sistema bancario e il non poter effettuare pagamenti online ha inflitto un notevole colpo alle aziende: secondo una ricerca che ha coinvolto 372 compagnie che operano in Myanmar, il 77% ha affermato che è proprio il fragile sistema bancario che ha portato ad una netta diminuzione del fatturato.

Inoltre, non essendoci molta liquidità di denaro, i cittadini sono stati costretti in questi mesi ad acquisti essenziali fatti grazie ai pochi kyat che potevano essere ritirati presso le banche birmane.

Dopo cinque mesi dal golpe militare, le aziende internazionali oggi sono costrette a due scelte: chiudere gli stabilimenti oppure stringere i denti nell’attesa che ritorni una situazione stabile nel Paese. Foodpanda, azienda leader nel settore food-delivery di proprietà della tedesca Delivery Hero, ha deciso di continuare ad operare in Myanmar nonostante le difficoltà incontrate in questi mesi con il blocco di internet e degli acquisti online. Scelta diversa è stata quella della Telenor, il colosso delle telecomunicazioni norvegese che si è vista costretta ad annullare contratti e tutte le operazioni nel Paese per una perdita stimata intorno ai 780 milioni di dollari. Nei confronti delle aziende, anche il movimento di protesta civile birmano (CDM) sta giocando un ruolo importante nel boicottare quelle aziende che collaborano e foraggiano il governo militare del generale Ming Aung Hlaing: negli scorsi mesi è stata creata l’applicazione “Way Way Nay” che permette di sapere se un’azienda o una compagnia sono direttamente collegate alla giunta militare, in modo da non acquistare prodotti presso di loro. Ciò ha portato al boicottaggio dei prodotti creati dalle aziende cinesi, come ritorsione nei confronti di Pechino che fino ad oggi non ha mai assunto una posizione netta e che più volte ha votato contro le sanzioni economiche previste dall’ONU nei confronti del regime militare.

Per il movimento di disobbedienza civile boicottare le aziende collegate alla giunta militare potrebbe essere la soluzione migliore per indebolire i militari e le loro finanze. Un caso interessante è quello della vendita della birra birmana, le cui aziende appartengono alla giunta militare, che hanno visto una diminuzione delle vendite pari al 90%. Per colpire maggiormente le finanze della giunta militare, anche i membri della Lega Nazionale per la Democrazia in una nota dello scorso marzo avevano chiesto agli investitori internazionali nel campo dell’estrazione di petrolio e gas di non pagare le tasse alla Myanmar Oil and Gas Enterprise, la principale società di estrazione di petrolio e gas controllata dall’esercito birmano.  

Da non sottovalutare infine il peso della comunità internazionale: alcuni brand internazionali hanno deciso infatti di interrompere i contatti con il governo militare spinti dal timore di episodi che potrebbero danneggiarne il marchio, come già accaduto per alcuni brand internazionali come Nike e Adidas che recentemente hanno annunciato di non voler più utilizzare il cotone prodotto nella regione dello Xinjiang.  H&M ad esempio, l’azienda leader nel settore del vestiario, ha fatto sapere lo scorso marzo di aver interrotto per il momento il rapporto con i propri fornitori in Myanmar a causa delle drammatiche vicende di violazione dei diritti umani degli ultimi mesi.Come H&M, altre società internazionali come McKinsey, Coca Cola e l’agenzia media Reuters hanno abbandonato i propri uffici presenti a Sule Square, un imponente complesso commerciale presente a Yangon e di proprietà dell’esercito birmano, in modo da non foraggiare la giunta militare.

Min Aung Hlaing: Il generale che pensava di capire il “suo” popolo (ma si sbagliava)

Lo scorso 8 novembre, giornata di elezioni semi-libere nella “democrazia disciplinata” birmana, Min Aung Hlaing, Comandante in Capo delle Forze Armate del Myanmar, si impegnò ad accettare la volontà popolare ed i risultati del voto. Meno di tre mesi dopo, però, un colpo di stato guidato dai militari ha portato all’arresto di Aung San Suu Kyi, leader del partito risultato vincitore alle elezioni, alla dichiarazione dello stato di emergenza e alla nomina del Comandante a Presidente del neocostituito Consiglio di Amministrazione dello Stato. Eppure, il sessantaquattrenne generale non è persona che cambia facilmente idea.

Min Aung Hlaing è nato nel 1956 a Tavoy, oggi Dawei, capitale del Tenasserim, regione all’estremo sud del Paese, al confine con la Thailandia, anticamente contesa dai regimi birmani e siamesi. Come scrive Le Monde, il generale non è dunque homme du sérail (‘uomo di palazzo’), ma, piuttosto, “un provinciale”, trasferitosi a Yangon a seguito del padre, impiegato ministeriale, e con il sogno di perseguire carriera militare. Min Aung Hlaing si iscrisse così alla facoltà di giurisprudenza dell’Università di Rangoon (ora Yangon) mentre preparava l’esame di ammissione alla prestigiosa Defense Services Academy, dove infine entrò nel 1974, al suo terzo tentativo.

I compagni di classe lo ricordano come un uomo di poche parole che preferiva mantenere un basso profilo. Silenziosamente, dunque, il futuro generale cominciò la sua scalata al vertice del Tatmadaw. La svolta arrivò nel 2002 con la nomina a responsabile militare dello Stato Shan, situato nel cuore del Triangolo d’Oro, dove viene prodotto l’82% dell’oppio birmano. Qui Min Aung Hlaing avrebbe imparato a trattare con i numerosi gruppi etnici che da decenni combattono tra loro e contro l’esercito birmano. L’offensiva del 2009 contro i ribelli cinesi-birmani del Kokang, zona auto-amministrata al confine con la Repubblica Popolare, gli fece guadagnare la fiducia di Than Shwe, l’uomo forte del Myanmar dal 1992 al 2011.

Proprio nel 2011, un po’ a sorpresa, il “vecchio” leader lasciò al “giovane” Min Aung Hlaing, “guerriero temprato dalle molte battaglie” ma anche “studioso serio e gentiluomo”, il comando dell’esercito nel momento in cui il Myanmar si preparava ad una transizione democratica. La costituzione del 2008 aveva messo al sicuro il ruolo del Tatmadaw di guardiano dell’unità nazionale e il Comandante in Capo era realisticamente l’uomo più potente del Myanmar”. Min Aung Hlaing era infatti in grado di scegliere personalmente i Ministri di difesa, interno, e questioni confinarie, nominare direttamente un quarto dei parlamentari, ed impedire ogni tentativo di limitare il proprio potere.

La Lega Nazionale per la Democrazia (LND), uscita vittoriosa dalle elezioni del 2015 (le prime libere dal 1990 dopo il primo tentativo “controllato” del 2010), dovette quindi scendere a patti con il generale, che, negli anni successivi, si presentava accanto ad Aung San Suu Kyi negli eventi ufficiali e instaurava relazioni con dignitari stranieri. La violenta repressione della minoranza musulmana dei Rohingya, nel 2016-2017, gli costò un’accusa di genocidio da parte del Consiglio ONU per i diritti umani ma aumentò la sua popolarità presso la maggioranza buddista del Paese. Prima di essere bloccato da Facebook, il suo profilo attirava centinaia di migliaia di likes e Min Aung Hlaing si era persuaso che avendo accesso alle “giuste informazioni” le persone avrebbero capito che l’esercito difendeva “i loro interessi”.

Quando le elezioni dello scorso novembre hanno decretato una vittoria schiacciante della Lega, tra le accuse di brogli da parte dell’esercito, si era parlato di un possibile compromesso che avrebbe portato Min Aung Hlaing alla presidenza. Quando questa eventualità non si è materializzata e l’LND ha deciso di non accettare condizioni, il Generale, convinto da tempo che “la storia del Paese non può essere separata dalla storia del Tatmadaw” ha deciso di valersi del diritto dell’esercito ad “assumere ed esercitare il potere sovrano dello Stato”. Nella prima intervista dopo il colpo di stato, concessa a fine maggio ad un’emittente cinese ad Hong Kong, Min Aung Hlaing ha confidato di essere stato un po’ sorpreso dalla mobilitazione del popolo: “Devo ammettere che non pensavo sarebbe stata così tanta”.

Myanmar, l’UE impone nuove sanzioni ai golpisti

Terzo ciclo di sanzioni imposto dal Consiglio Europeo a 8 individui, 3 entità economiche e un’organizzazione per il golpe e la repressione delle proteste

Fonte: consilium.europa.eu

L’Unione Europea batte un nuovo colpo in risposta al golpe militare birmano e alla successiva repressione violenta delle proteste. Il Consiglio Europeo ha infatti imposto nuove sanzioni a 8 persone, 3 entità economiche e all’Organizzazione dei veterani di guerra. Tra gli 8 individui sono inclusi ministri, viceministri e la procuratrice generale, che l’Ue ritiene responsabili di aver “compromesso la democrazia e lo Stato di diritto e commesso gravi violazioni dei diritti umani nel Paese”. Le quattro entità colpite sono invece di proprietà dello Stato o sono comunque controllate dalle forze armate e contribuiscono in maniera più o meno diretta alle attività del Tatmadaw.

Lo scopo delle misure, che si concentrano sui settori delle pietre preziose e del legname, è quello di limitare la capacità della giunta militare di trarre profitto dalle risorse naturali birmane e sono concepite in modo da “evitare danni indebiti alla popolazione”. Si aggiungono alle precedenti misure restrittive imposte dall’UE, che includono un embargo sulle armi e sulle attrezzature che possono essere utilizzate per reprimere le proteste, un divieto di esportazione di beni a duplice uso destinati ai militari e alla polizia di frontiera, restrizioni all’esportazione di apparecchi per il monitoraggio delle comunicazioni e un divieto di addestramento e cooperazione militare col Tatmadaw.

Allo stesso tempo, l’UE continua a fornire assistenza umanitaria alla popolazione birmana, nel 2021 ha stanziato 20,5 milioni di euro in aiuti per far fronte alle necessità immediate delle comunità sfollate e colpite dal conflitto in corso. Bruxelles, che si dice pronta a cooperare con il centro di coordinamento ASEAN per l’assistenza umanitaria, si contraddistingue per le azioni messe in atto in riferimento al golpe. Mentre, nel frattempo, il Giappone continua a non applicare sanzioni e il generale Min Aung Hlaing viene ricevuto in Russia.

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