Myanmar

Il punto della situazione in Myanmar

Il numero delle vittime continua a salire e le sanzioni di UE e USA non bastano a fermare l’escalation di violenza in Myanmar.

Da ormai due mesi il Myanmar è teatro di terribili violenze. Il 1° febbraio le forze armate hanno attuato un colpo di stato, arrestando la leader di fatto Aung San Suu Kyi e i vertici della Lega Nazionale per la Democrazia, partito di maggioranza nel Parlamento, che ha vinto le ultime elezioni nel novembre 2020. Il potere è adesso nelle mani del generale Min Aung Hlaing, mentre Suu Kyi è accusata di brogli e irregolarità. 

L’Assistance Association for Political Prisoners ha dichiarato che, dall’inizio del colpo di stato in Myanmar, almeno 521 civili sono stati uccisi durante le proteste, di cui 141 persone nella sola giornata di sabato 29 marzo, il giorno più tragico finora. La situazione è sempre più grave e l’uso della forza letale contro i civili da parte dell’esercito e delle forze di sicurezza non accenna a fermarsi.

La Giornata nazionale delle Forze Armate è diventata l’ennesimo bagno di sangue con oltre 100 morti, tra cui diversi bambini. L’esercito ha continuato a reprimere le manifestazioni civili a colpi d’arma da fuoco, mentre a Naypyidaw si tenevano le parate militari per commemorare la resistenza contro l’occupazione giapponese durante la Seconda Guerra Mondiale. L’inaudita violenza del “giorno della vergogna” per l’esercito del Myanmar ha infatti scatenato varie reazioni della comunità internazionale. Tom Andrews, relatore speciale ONU per i diritti umani in Myanmar, ha invocato l’urgenza di un summit internazionale, qualora il Consiglio di Sicurezza non potesse agire. Come Stati membri, Russia e Cina potrebbero infatti esercitare il diritto di veto sulle eventuali proposte di intervento volte a ripristinare la democrazia. Entrambe le nazioni erano presenti alla festa delle forze armate, insieme ai rappresentanti militari di Bangladesh, India, Laos, Pakistan, Thailandia e Vietnam; Mosca si è contraddistinta inviando il vice Ministro della Difesa. Tempestiva anche la risposta dei capi di Stato Maggiore della Difesa di 12 Paesi, tra cui l’Italia, che hanno firmato una dichiarazione congiunta per condannare l’uso della forza letale dell’esercito birmano contro persone disarmate, esortando la fine degli attacchi e il rispetto degli standard internazionali di condotta.

Nelle scorse settimane pesanti condanne erano già arrivate dal fronte occidentale. Il 10 febbraio il Presidente Biden aveva annunciato l’imposizione di sanzioni per impedire ai generali birmani di accedere al fondo da loro detenuto negli Stati Uniti, includendo anche il congelamento dei beni USA a beneficio del governo birmano, pur mantenendo il sostegno all’assistenza sanitaria e ai gruppi della società civile. In coordinamento con gli USA, il 22 marzo l’UE ha imposto sanzioni a 11 persone legate al colpo di stato. Il Consiglio d’Europa ha sancito il divieto di viaggio e il congelamento dei beni, unitamente alle precedenti restrizioni relative all’embargo sulle armi e all’esportazione di attrezzature per il monitoraggio delle comunicazioni. Le sanzioni UE hanno colpito il capo della giunta birmana Min Aung Hlain, altri nove alti ufficiali militari e il capo della commissione elettorale. Ciò si configura come l’atto più concreto e ampio dell’Europa nel rimarcare il suo irremovibile sostegno alla transizione democratica del Myanmar. Dopo le orribili violenze dell’ultimo fine settimana, gli USA hanno ha preso in considerazione misure aggiuntive e ordinato la sospensione degli accordi commerciali con il Myanmar, nonché il ritiro del personale non essenziale dell’ambasciata. Le nuove azioni mirano al patrimonio personale della famiglia di Min Aung Hlaing,  incluse le imprese di proprietà statale o delle loro sussidiarie, e conglomerati legati ai militari. 

In relazione all’ambito economico, molti analisti ritengono che la Birmania possa essere in grado di fronteggiare le sanzioni economiche occidentali, dato che la maggior parte degli investimenti  proviene dall’Asia, con Singapore, Cina e Hong Kong in testa. Tuttavia, è atteso un calo significativo degli IDE nei prossimi due anni a causa dei disordini sociali e dell’incertezza politica e dell’impatto delle sanzioni, ma per ora l’impatto sul commercio e sulle esportazioni potrebbe restare contenuto, data la probabile ammortizzazione da altri mercati, in particolare Thailandia e Cina. 

Il Vicepresidente Pipan conversa con l’Inviata Speciale ONU in Myanmar

In data 26 marzo 2021, il Vicepresidente esecutivo dell’Associazione Italia-ASEAN, Ambasciatore Michelangelo Pipan ha svolto una conversazione con l’Ambasciatrice Christine Schraner Burgener, Inviata speciale delle Nazioni Unite in Myanmar, sugli sviluppi del recente colpo di Stato birmano. Durante la discussione, sono stati toccati diversi temi quali l’impatto del golpe sulla società civile, la reazione della comunità internazionale, l’impatto sulla popolazione di eventuali sanzioni e il futuro degli investimenti esteri nel Paese.

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Richiamando gli spiacevoli accadimenti del 2018 con il genocidio dei Rohingya, il Vicepresidente Pipan ha posto l’accento su come il recente colpo di Stato rappresenti il culmine di una situazione di instabilità politica, notevolmente alimentata nel corso degli anni. I recenti sviluppi in Myanmar, infatti, riportano dati allarmanti ed è stato chiesto all’Ambasciatrice Schraner Burgener, Inviata speciale delle Nazioni Unite in Myanmar, un parere sull’impatto che l’attuale situazione politica avrà sulla popolazione. In tal senso, l’Ambasciatrice ha sottolineato come l’avvento al governo delle forze armate, i Tatmadaw, abbia rallentato drasticamente il processo di democratizzazione nel Paese e nonostante essi abbiano previsto la realizzazione di una roadmap istituzionale prima di svolgere nuove elezioni, il percorso non sarà affatto semplice. Le forze armate intendono, in primo luogo, procedere all’identificazione e all’arresto dei soggetti legati al governo democraticamente eletto lo scorso novembre e, in secondo luogo, dimostrarne l’illegittimità. In questo contesto, la popolazione è impossibilitata a lavorare e la chiusura delle banche ostacola i cittadini nel poter gestire i propri risparmi, incentivando spostamenti e migrazioni e mettendo a rischio la delicata situazione sanitaria nella regione.

In riferimento a quanto detto, il Vicepresidente Pipan ha rivolto una domanda sulla reazione da parte della comunità internazionale, interrogandosi, inoltre, sulla possibilità di un eventuale rallentamento delle proteste da parte della società civile, come nel caso della Thailandia, che ha assistito a diverse manifestazioni durante lo scorso anno, rallentate poi verso la fine del 2020. Per quanto concerne il primo quesito, l’Amb. Schraner Burgener ha analizzato la reazione delle grandi super potenze, Stati Uniti e Cina, che hanno condannato i recenti sviluppi, invitando tramite dichiarazioni ufficiali a un ritorno allo status quo. In relazione al secondo punto, l’Ambasciatrice ha espresso ottimismo e fiducia sul futuro delle relazioni tra la popolazione locale e le minoranze etniche. In seguito all’esperienza dei Rohingya, infatti, la popolazione birmana ha mostrato maggiore vicinanza e comprensione nei confronti del variegato tessuto etnico del Paese, creando relazioni più solide con altri gruppi armati etnici. Il contesto attuale ha, quindi, promosso un dialogo più aperto sull’adozione di una strategia comune.

Un ulteriore punto di discussione è stato fornito ponendo l’accento sul ruolo assunto dall’ASEAN durante l’attuale emergenza in Myanmar. In tal senso, l’Amb. Schraner Burgerner ha confermato come l’Association stia reagendo in modo inedito rispetto agli schemi del passato, maggiormente improntati invece sul principio di non-interferenza. È stato, infatti, menzionato l’appello fatto dal Presidente indonesiano Joko Widodo a svolgere un vertice dedicato alla risoluzione della crisi in Myanmar e parallelamente sono stati elogiati lo spirito d’iniziativa da parte dei Ministri degli Affari Esteri di alcuni Paesi Membri, quali Indonesia e Singapore. Nonostante, infatti, alcuni Paesi ASEAN siano ancora restii alla possibilità di interferire direttamente a livello istituzionale, come nel caso del Laos e della Thailandia, c’è un forte interesse a mantenere la stabilità socioeconomica, nonché politica, della regione e ad interessarsi direttamente alla grave fase storica vissuta dal Myanmar.

L’ultima domanda del Vicepresidente Pipan, infine, ha evidenziato il ruolo delle sanzioni nella risoluzione delle crisi internazionali e come queste possano impattare l’afflusso di investimenti esteri nel Paese. In tal senso, l’Amb. Schraner Burgener ha osservato che il tipo di sanzioni da applicare dovranno essere mirate e volte ad intaccare i mezzi di sostentamento delle forze armate. La stessa popolazione locale, stando alle parole dell’Inviata speciale, fa appello alla comunità internazionale, richiedendo che i Tatmadaw vengano isolati e privati dei mezzi finanziari dei conglomerati dell’industria mineraria e del settore alberghiero (Myanma Economic Holdings Limited e Myanmar Economic Corporation). L’Amb. Schraner Burgener ha evidenziato, infatti, la necessità di imporre sanzioni che non abbiano ricadute gravi sulla società e che possano promuovere il ritorno in carica del precedente governo di Aung San Suu Kyi. Per quanto concerne, infine, il futuro del commercio, l’Inviata Speciale delle Nazioni Unite auspica un aumento degli investimenti nel Paese, soprattutto per progetti rivolti al potenziamento delle infrastrutture, che si pongano come obiettivo primario il netto miglioramento delle condizioni sociali dei cittadini birmani.

 

Aung San Suu Kyi

Ritratto di una donna contestata in un Paese lacerato dal conflitto

Metà del mondo la odia, metà la ama. Non è facile tratteggiarne il ritratto senza rimanere invischiati in una consistente zona d’ombra, che rende il suo profilo sfocato e misterioso. 

Aung San Suu Kyi, Consigliere di Stato della Birmania, Ministro degli Affari Esteri e Ministro dell’Ufficio del Presidente. Premio Nobel per la pace, premio Rafto per la difesa dei diritti umani, premio Sakharov per la libertà di pensiero, Medaglia d’Oro del Congresso degli Stati Uniti. Ma anche moglie, madre, figlia. Posta sotto arresti domiciliari, a fasi alterne dal 1988 al 2010, mentre il marito in Inghilterra moriva di cancro. Sfuggita per un pelo ad una sparatoria organizzata esplicitamente per colpire lei e i suoi sostenitori. Poi condannata dalla critica internazionale per legittimare, o quantomeno negare, il genocidio perpetrato ai danni della minoranza musulmana dei Rohingya in Myanmar. 

Myanmar che è tornato sulla bocca di tutti pochi giorni fa, con la notizia del colpo di stato delle forze militari, il Tatmadaw. Tutti i principali leader del partito di maggioranza NLD (National League for Democracy) guidato da Aung San Suu Kyi sono stati arrestati, è stato dichiarato lo stato d’emergenza, e linee telefoniche e trasmissioni televisive sono state interrotte. Per il momento, le accuse sono quelle di aver violato le leggi riguardanti l’import-export, di possedere in casa propria illegalmente quattro radio walkie-talkie. La notizia ha fatto scalpore, ma non ha sorpreso coloro che seguono già da tempo gli sviluppi nel Paese. Difatti, il coup d’etat si inserisce in un contesto dove le frizioni tra la leader politica e le forze militari esistono ormai da numerosi decenni. Così come lo stretto controllo della giunta sulla vita politica, sociale, e religiosa del Paese.

La giunta militare birmana è strettamente legata alla politica del Myanmar dal 1962, quattordici anni dopo l’indipendenza dalla Gran Bretagna e un breve periodo di transizione democratica. Dapprima con il supporto al Partito Socialista, poi con l’annullamento della sua stessa vittoria elettorale, la scusa del broglio è divenuta una costante che ha permesso alla giunta di mantenere il controllo e di reprimere tutti i movimenti pro-democratici che si sono succeduti negli anni. Il più famoso di questi, sfociato nella “Rivolta 8888” (un’insurrezione nazionale il cui fine era la democrazia), iniziata l’8 agosto 1988 e finita appena un mese dopo, è passato tristemente alla storia per essersi concluso in un bagno di sangue. Migliaia di monaci e civili (principalmente studenti) furono uccisi dal Tatmadaw. A causa delle rivolte, venne fondato il Consiglio di Stato per la Restaurazione della Legge e dell’Ordine. Fu in questo contesto che Aung San Suu Kyi emerse come icona nazionale. Aveva vissuto all’estero per gran parte della propria vita, ma proprio quell’anno era tornata nel Paese, per accudire la madre malata.

Figlia del generale e politico birmano Aung San, la vita di Suu Kyi è stata segnata dai risvolti politici del suo Paese fin dalla tenera età. Il padre fu eroe dell’indipendenza birmana dalla Gran Bretagna e primo Ministro della Difesa del governo. Tuttavia, all’apice del suo successo, venne assassinato lasciando una pesante eredità alla figlia, di appena due anni, agli altri due figli, e alla moglie, che pochi anni dopo sarebbe divenuta Ambasciatrice del Myanmar in India. Suu Kyi frequentò le migliori università occidentali ed entrò nelle Nazioni Unite, a New York, dove visse fino alla Rivolta del 1988. Dopo la tragedia, aveva deciso che sarebbe rimasta in Myanmar e avrebbe fondato la NDL. Appena un anno dopo, era agli arresti domiciliari.

Gli anni che seguono il 1988 si alternano tra libertà vigilata e nuovi arresti, la vittoria del suo partito alle elezioni (schiacciante ma annullata, ancora una volta, da un colpo di stato della giunta militare), il premio Nobel della pace, e l’appello della comunità internazionale per il suo rilascio, da Kofi Annan a Papa Giovanni Paolo II. Sopravvive ad una sparatoria, il marito muore di cancro in Inghilterra a migliaia di chilometri di distanza, i suoi figli crescono lontani da lei.

Nel 2010 viene finalmente liberata, e nel 2015 si hanno le prime elezioni libere dal colpo di Stato del 1962. Secondo la costituzione redatta dai militari nel 2008, Aung San Suu Kyi non può essere eletta presidente: i cittadini con familiari stranieri (nel suo caso, due figli britannici) non possono accedere alla massima carica dello stato. Si potrebbe presumere che l’articolo sia stato inserito apposta per impedirle di accedere alla carica, ma di certo non l’ha fermata: per lei è stato creato un nuovo ruolo ad hoc, “Consigliere di stato”, de facto un Primo Ministro.

Dopo qualche anno, l’euforia della comunità internazionale per le sue conquiste si spegne improvvisamente, e viene sostituito dallo sdegno. La paladina dei diritti umani e della democrazia prima nega le violenze perpetrate dalla giunta militare nei confronti della minoranza etnica dei Rohingya nello stato del Rakhine. Poi nel 2019 parla di “quadro fuorviante e incompleto” davanti al Tribunale internazionale dell’Aja per difendere il suo Paese dall’accusa di genocidio. Sebbene la crisi abbia demolito la sua immagine pubblica all’estero, la difesa del suo Stato gli ha valso grande seguito tra la popolazione del Myanmar, assieme al consenso sempre maggiore per come ha saputo gestire la crisi del Covid-19 nel Paese.

Il giudizio sulla sua figura è diviso in due profonde spaccature. Da un lato, chi punta il dito verso il suo silenzio, e impone che le vengano ritirati onorificenze e premi. Dall’altro, chi conosce bene la delicata situazione in cui versa Suu Kyi, e sa che non è facile contrastare la giunta militare e l’immensa influenza politica del Sangha, l’ordine monastico buddhista che di fatto legittima il potere politico di chi governa il Paese. Chi ha l’approvazione del Sangha, militare o politico che sia, ha l’approvazione del popolo. La sua fazione più radicale e nazionalista è nota per gli atti violenti e per diffondere discorsi di incitamento all’odio verso i Rohingya, e potrebbe avere un peso non indifferente nell’influenzare le azioni e le scelte di Suu Kyi per tenere assieme il Paese.

Influenza o meno, nel discorso alla nazione per il nuovo anno Suu Kyi aveva promesso un nuovo approccio verso le negoziazioni di pace, volte a risolvere la fitta rete di conflitti civili nel Paese. Aveva posto le basi per un piano, il “New Peace Architecture”, per raccogliere maggiore partecipazione da diverse forze politiche, organizzazioni della società civile, e i cittadini. Il nuovo colpo di Stato getta un’ombra oscura su questi progetti, e non è dato sapere se essi riusciranno ad avere mai seguito. 

Intervista all’On. Fassino sul recente golpe in Myanmar

Piero Fassino, già inviato UE in Myanmar nel 2007 e Presidente della Commissione Esteri della Camera dei Deputati, ci spiega il perché del golpe e delinea alcune tendenze del Paese per capire la situazione locale e quali i possibili sviluppi



Che ruolo giocano i militari nel Paese? Ci si poteva aspettare un loro ritorno al potere? Davvero si pensava avrebbero lasciato il potere definitivamente ai civili? Davvero i militari lasceranno il potere fra un anno?

Per rispondere a queste domande bisogna andare alle radici dell’indipendenza birmana e della guerra di liberazione contro l’occupazione giapponese nella Seconda Guerra Mondiale guidata con successo proprio dal generale Aung San, il padre di Aung San Suu Kyi. Intorno ad Aung San si formò un gruppo dirigente costituito da ufficiali, alcuni dei quali ordirono il complotto che portò all’uccisione dello stesso Aung San alla vigilia dell’indipendenza.

Da allora l’esercito è parte integrante della storia e dell’identità nazionale. Non bisogna dimenticare poi che, sebbene la stragrande maggioranza della popolazione sia di fede buddista, la Birmania è uno stato non solo multireligioso, ma anche multietnico e plurilinguistico, con assetto federale, con spinte autonomistiche – e anche secessionistiche – che hanno consentito alle forze armate di presentarsi come i garanti dell’unità nazionale.

Altro punto di analisi da non trascurare è che la transizione alla democrazia non è avvenuta per una sconfitta della giunta militare, ma con un processo octroye’ dalle autorità militari che hanno accettato la formazione di un governo civile e l’avvio di una transizione democratica in cambio di una riserva del 25% dei seggi parlamentari e del mantenimento di tre ministeri chiave: difesa, interni e appunto coesione nazionale. Processo che sia la comunità internazionale, sia Aung San Suu Kyi hanno accettato scommettendo sul fatto che la gradualità della transizione avrebbe via via ridotto il peso dei militari e favorito una completa e compiuta democratizzazione del Paese. I fatti di queste settimane hanno spezzato quel disegno. Ed è difficile credere che al termine dello stato d’emergenza, ovvero tra un anno, si ritorni ad una dinamica democratica.

Aung San Suu Kyi governa dal 2015 e ha dovuto affrontare il problema dei Rohingya. Su quest’ultimo tema è stata molto criticata dalla comunità internazionale e ha perso credibilità (anche alla luce del suo essere stata un campione dei diritti per il quale aveva vinto il Nobel). Può aver messo da parte i principi per agire in modo realista? Ovvero sacrificare qualcosa per mostrarsi in grado di governare il Paese e quindi essere un attore politico responsabile agli occhi dei militari? Alla fine si può dire che la sua azione non abbia pagato e ne sia uscita screditata?

Aung San Suu Kyi, liberata a fine 2010, è entrata in Parlamento con le elezioni suppletive del 2012 in cui si rinnovarono 42 seggi, la gran parte conquistati dall’NLD. Successo replicato alle elezioni del 2015 che diedero alla Lega Nazionale per la Democrazia una larga maggioranza assoluta che le consenti di formare il primo governo democratico e avviare una transizione che ha liberato tutti i detenuti per ragioni politiche, abolire ogni forma di censura, aprire il Paese a investimenti stranieri, modernizzare il Paese e concludere accordi di pacificazione e autonomia con le minoranze etniche. La repressione dei Rohingya è stata una iniziativa dei generali che, sfruttando la generale ostilità della popolazione birmana verso i Rohiynga, ha fatto fare ad Aung San Suu Kyi la parte del carnefice quando invece l’azione dei militari è stata da lei totalmente subita. Come abbiamo visto, secondo la Costituzione birmana i ministeri della difesa e degli interni, non rispondono al Parlamento ma alle gerarchie militari. Contrastare apertamente i generali voleva dire opporsi a un sentimento diffuso di ostilità verso i Rohingya presente nell’opinione pubblica nazionale; non contrastare i generali ha voluto dire opporsi a un sentimento diffuso nell’opinione pubblica internazionale giustamente sensibile alla tutela delle minoranze e dei diritti umani. La prudenza manifestata da Aung San Suu Kyi in quel frangente non è frutto di cinismo o insensibilità, ma della consapevolezza di stare dentro a un processo difficile e incompiuto che come tale conosce dei rallentamenti, ma del quale non si può abbandonare la guida. Questa complessità è stata del tutto sottovalutata in Occidente che ha assunto posizioni che hanno avuto l’unico effetto di indebolire Aung San Suu Kyi.

E quindi la severità dell’Occidente è stata controproducente?

Sì. La scelta del Parlamento Europeo di ritirare il Premio Sacharov all’esponente politica birmana è stata una decisione moralistica e profondamente impolitica, assunta senza valutarne le conseguenze. Max Weber ci aveva ammonito da questo rischio. La politica non può essere guidata soltanto dall’etica della testimonianza, che valuta solo la mera coerenza dei principi. In politica vale l’etica della responsabilità che non si ferma alla coincidenza tra scelte e valori, ma si interroga sulle conseguenze di quelle scelte. Ora non vi è dubbio che aver voluto “punire” la prudenza di Aung San Suu Kyi è stata letta dai generali come una forma di isolamento internazionale della Lady, contro la quale dunque si poteva agire. E se il colpo di stato ha una connessione con la vicenda Rohingya, non è per la “prudenza” di Aung San Suu Kyi, ma per il fatto che il generale a capo del golpe sia sotto inchiesta da parte del tribunale penale internazionale per i diritti umani proprio perché ritenuto responsabile della repressione dei Rohingya.

Dalla sua esperienza di inviato in Myanmar cosa ha capito della politica e società locale? Ritiene che il Paese sia pronto per una democratizzazione? Ci sono le basi e se si quanto sono solide per una democrazia?

I militari hanno tenuto per 60 anni la popolazione in uno stato di oppressione politica e di arretratezza economica e culturale. Ad esempio il sentimento ostile nei confronti dei Rohingya, su cui come abbiamo visto hanno speculato i generali, è un segno di arretratezza. Ma non ci si può fermare solo al dato negativo. Le conquiste democratiche e civili avvengono per tappe e dentro un processo. La mia esperienza mi dice che il Paese è pronto all’apertura al mondo e alla democratizzazione. E ha dato ampiamente prova di questa maturazione democratica alle ultime elezioni, quelle dell’8 novembre quando il percorso intrapreso dalla Lega Democratica di Aung San Suu Kyi è stato fortemente confermato da una grande maggioranza della popolazione e le manifestazioni di piazza di questi giorni che sfidano il regime militare dicono bene di questa maturazione e di questa consapevolezza acquisita.

 Che influenza può avere l’ASEAN? Sappiamo che uno dei principi dell’ASEAN è proprio quello di non interferenza negli affari degli Stati membri, ma è una politica che potrebbe cambiare? Potrebbe l’ASEAN “suggerire” un ritorno al processo democratico? In fondo il Paese era stato criticato per l’affare Rohingya e molti Stati (Indonesia in primis) si erano spesi per la democratizzazione in passato.

Il principio della non interferenza negli affari degli altri Stati in Asia è una regola applicata da tutti i governi. Nonostante ciò, agire sui Paesi asiatici è indispensabile, puntando sia sui vicini della Birmania, sia sull’ASEAN, l’istituzione multilaterale nel Sud-Est asiatico. E l’Associazione di amicizia Italia-ASEAN può avere un ruolo importante da svolgere. La Birmania si trova a un bivio. Essere attratta nell’orbita cinese con un ruolo di sparring partner sostanzialmente subalterno, oppure tuffarsi convintamente nel partenariato dell’Indo-Pacifico, dove sarebbe un soggetto alla pari con tutti gli altri. L’ASEAN è un esempio di multilateralismo economico che vuol dire pace e apertura. Certo abbiamo visto che cooperazione economica non porta immediatamente alla democrazia e allo stato di diritto. Ma i mercati aperti, se non sono una condizione sufficiente, sono comunque una condizione necessaria e propedeutica a qualsiasi sviluppo in senso dell’ampliamento delle libertà civili e politiche delle popolazioni di tutti i Paesi del mondo. Compresa ovviamente quella del Myanmar.  

Che ruolo possono giocare l’UE, gli USA con il nuovo Presidente Biden e la comunità internazionale in generale per favorire la democrazia e fare pressione sui militari?

Dobbiamo considerare che l’80 % degli scambi del Myanmar avvengono con i Paesi vicini, in gran parte con la Cina e l’ASEAN. Mentre con l’Europa e gli USA l’interscambio rappresenta meno del 20%. Ergo una classica risposta occidentale come le sanzioni avrebbe un’incidenza limitata e peraltro in Asia nessun Paese adotta misure sanzionatorie. Anche qui ritorna la distinzione weberiana tra etica della testimonianza e etica delle responsabilità. La storia ci insegna che le conseguenze di comportamenti sanzionatori da parte della comunità internazionale hanno spesso come conseguenza il consolidamento dei regimi autoritari e repressivi e non il loro indebolimento. Per questo ciò che possono fare l’Unione Europea e gli USA è intraprendere una diplomazia triangolare che agisca sia su organismi multilaterali come l’ASEAN, sia sull’influenza della Cina e di alcuni Paesi della regione. Ricordo bene che nel 2010-11 nello smuovere i militari birmani ad accettare la transizione ebbe un ruolo importante l’Indonesia. 

Where China meets India: quanto pesa la geopolitica nei destini del Myanmar? 

Come si evince da questa sua citazione, che è il titolo di una importante pubblicazione del politologo Thant Myint-U uscita proprio 10 anni fa, la Birmania è l’unico Stato del Sud-Est asiatico che confina e per un lungo tratto, sia con la Cina che con l’India. Questo conferisce al Paese un’importanza geopolitica e geoeconomica fondamentale. Se pensiamo alle tensioni geopolitiche che attraversano il Mar Cinese Meridionale e che contrappongono la Cina ora a Taiwan, ora alle Filippine, ora all’Indonesia, è facile vedere come la Birmania abbia per la Cina un interesse strategico essendo la via più diretta per accedere all’Oceano Indiano, senza dover passare attraverso il Mar Cinese Meridionale e soprattutto lo stretto di Malacca. Non solo, ma la Cina è il principale partner commerciale della Birmania e ha programmato grandi investimenti infrastrutturali nel Paese. E la Birmania è inserita nei percorsi della nuova Via della Seta. Del resto non è certo passata inosservata la visita del Ministro degli Esteri cinese Wang Yi in Birmania pochi giorni prima del golpe, segno di un’attenzione speciale che Pechino ha dimostrato e continua a dimostrare per i destini del Myanmar. È proprio perché la Cina ha interesse a una Birmania stabile, bisogna convincere Pechino che una Birmania sotto il tallone dei generali rischia di essere assai meno stabile di una Birmania democratica. Così come in questi anni di apertura è cresciuta la presenza dell’India. Non va mai dimenticato che la Birmania è ricca di risorse naturali: è seduta su una gigantesca nuvola di gas; gode di consistenti risorse idriche che gli consentirebbero un’agricoltura fiorente; è leader nelle gemme preziose; beneficia del miglior tek per le costruzioni navali; è ricco di molte materie prime.  È importante che anche l’Occidente mostri un’attenzione all’altezza della situazione e usi la leva degli investimenti per impedire una involuzione autoritaria della Birmania.

Intervista a cura di Niccolò Camponi 

Le reazioni delle Istituzioni europee al colpo di Stato in Myanmar

Non si sono fatte attendere le reazioni delle Istituzioni europee alla notizia del colpo di Stato in Myanmar in cui il Tatmadaw, le forze armate del Paese, hanno arrestato il Presidente Win Myint, il Consigliere di Stato Aung San Suu Kyi ed altri membri del governo civile invocando l’art.418 della Costituzione del 2008, a causa di presunti brogli durante le ultime elezioni a novembre 2020, e dichiarando lo stato di emergenza per un anno.

Dura la presa di posizione di Josep Borrell, Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, che ha chiesto l’immediato ripristino del legittimo governo civile in Myanmar e la rapida apertura del Parlamento con la partecipazione di tutti i rappresentanti eletti, come previsto dalla Costituzione.

La medesima condanna è arrivata anche dalla Presidente della Commissione Europea, dal Presidente del Consiglio Europeo e dal Presidente del Parlamento Europeo, nonché da alcuni membri del Parlamento Europeo

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Colpo di Stato in Myanmar

Dopo giorni di crescente tensione tra il governo civile e le forze armate, la leader Aung San Suu Kyi, vincitrice delle ultime elezioni, e altri alti esponenti del partito al governo, sono stati arrestati. I militari hanno dichiarato lo stato di emergenza per un anno e hanno annunciato che l’ex generale Myint Swe sarà presidente ad interim per tutta la durata dello stato d’emergenza. 

I militari hanno giustificato il colpo di stato sostenendo “enormi irregolarità” nelle elezioni di novembre che la commissione elettorale non era riuscita a risolvere.

Il Presidente dell’Associazione Italia-ASEAN Enrico Letta, condannando fortemente la mossa dei militari, ha dichiarato che “ogni transizione democratica è fatta di tappe e di prassi che si affermano. Oggi il Myanmar fa un grave e inaccettabile passo indietro arrestando i leader che dovevano guidare questa transizione”.

La premio Nobel per la Pace Aung San Suu Kyi ha lanciato un appello al popolo affinché si opponga ai militari. “Esorto la popolazione a non accettarlo, a rispondere e a protestare con tutto il cuore contro il colpo di stato”. Fonti Reuters riportano anche un appello a non fare uso di violenza e ad agire secondo la legge.

Le reazioni internazionali non si sono fatte attendere e vanno tutte nella stessa direzione. La portavoce della Casa Bianca Jen Psaki  ha riferito che “Gli Stati Uniti si oppongono a qualsiasi tentativo di alterare l’esito delle recenti elezioni o di impedire la transizione democratica del Myanmar, e prenderanno provvedimenti contro i responsabili se questi passi non saranno invertiti”.

Il segretario generale delle Nazioni Unite Guterres, condannando il golpe, ha affermato che “Questi sviluppi sono un duro colpo alle riforme democratiche. Le elezioni generali dell’8 novembre 2020 davano un forte mandato alla Lega nazionale per la democrazia, riflettendo la chiara volontà del popolo birmano di continuare sulla strada conquistata a fatica della riforma democratica”.

Il Myanmar dal 1997 ha aderito all’ASEAN, l’Associazione delle Nazioni del Sud-est asiatico, un’organizzazione politica, economica e culturale, fondata nel 1967 con lo scopo di promuovere la cooperazione e l’assistenza reciproca fra gli stati membri per accelerare il progresso economico e aumentare la stabilità della regione. Il Myanmar, indipendente dalla Gran Bretagna dal 1948 e guidato da una giunta militare dal 1962, nel 2010 ha avviato una transizione verso la democrazia con una serie di graduali riforme politiche, instaurando un governo civile, scarcerando gli oppositori politici tra cui Aung San Suu Kyi, leader della Lega Nazionale per la Democrazia, e convocando libere elezioni parlamentari.

Ad oggi il Myanmar resta uno dei paesi più poveri e meno sviluppati del pianeta e dopo decenni di stagnazione, embargo internazionale e isolamento economico, dal 2011 il paese sta registrando un forte sviluppo economico in tutti i settori. Il colpo di stato di oggi mette a rischio la transizione democratica e mina quella stabilità politica indispensabile alla crescita economica.

Elezioni in Myanmar, Suu Kyi annuncia la vittoria

La Lega Nazionale per la Democrazia conquista la vittoria e accoglie nuove sfide di riforma del Paese 

In Myanmar è terminato lo spoglio dei voti delle elezioni generali di domenica 8 novembre e la Lega Nazionale per la Democrazia (NLD), guidata dalla popolare leader e vincitrice del premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi, rivendica già la vittoria, dichiarando di aver ottenuto più dell’80% dei seggi in palio.

Il Myanmar è un Paese ancora alle prime armi quando si parla di democrazia elettorale, infatti è solo la seconda volta che i suoi cittadini si recano alle urne, dopo cinquant’anni di dittatura militare. Il voto di domenica scorsa arriva per il rinnovo di 500 dei 664 seggi delle due Camere del Parlamento e la NLD, partito di governo nella precedente legislatura, contava di ottenere ancora più voti di quelli conquistati nelle elezioni del 2015. Aspettative confermate dai conteggi, che conferiscono a Suu Kyi 396 dei 498 seggi assegnati. Una vittoria schiacciante per la maggioranza, che dovrà comunque fare i conti con il potere di veto dell’esercito, che secondo le disposizioni costituzionali detiene il 25% dei seggi.

La chiamata alle urne è arrivata a seguito di una recrudescenza dei casi di Covid-19 in Myanmar, che da metà agosto ha registrato più di 60.000 contagi e 1.390 morti. I partiti di opposizione avevano chiesto un rinvio delle elezioni a causa dell’aumento esponenziale dei casi, ma la NLD e la Commissione elettorale hanno insistito per andare avanti. Agli elettori più anziani è stato consentito di votare in anticipo, mentre il governo ha promesso la fornitura di adeguati strumenti di protezione individuale per gli scrutatori e la garanzia del distanziamento sociale in ogni seggio. 

L’emergenza sanitaria e motivi di sicurezza legati alle tensioni etniche hanno reso problematico l’accesso al voto in 51 circoscrizioni elettorali, corrispondenti a circa 1,5 milioni di persone, secondo le stime della Commissione elettorale. La popolazione maggiormente colpita dalle limitazioni al voto risiede nella regione del Rakhine, dove sono al momento presenti ostilità tra le minoranze indipendentiste e la giunta militare. La parte occidentale del Paese ospita, inoltre, anche la minoranza dei Rohingya che, considerati immigrati del Bangladesh e dunque non parte della popolazione nazionale, non hanno potuto recarsi alle urne.

Il Partito di Unione Solidarietà e Sviluppo (USDP), sostenuto dai militari è stato il principale oppositore dell’NDL nelle elezioni dell’8 novembre. Il comandante in capo del Myanmar, l’Alto Generale Min Aung Hlaing, la scorsa settimana ha rifiutato di impegnarsi ad onorare i risultati delle elezioni generali, criticando la controversa gestione delle procedure elettorali. Tuttavia domenica, dopo aver espresso il suo voto, il generale ha dichiarato che “deve accettare il risultato, in quanto espressione della volontà popolare”.

Nonostante le diffuse critiche sull’amministrazione delle elezioni, definite “fondamentalmente imperfette”, il riscontro sul piano nazionale è decisamente favorevole a Suu Kyi e alla Lega Nazionale per la Democrazia. Le elezioni generali sono state viste come un vero e proprio referendum sull’operato dell’NLD nella precedente legislatura e le interviste fuori dalle cabine elettorali confermano come la maggior parte dei cittadini sia rimasta soddisfatta dai risultati del partito, grazie al quale il Myanmar sembra essersi avviato verso un futuro di libertà. Da parte sua, nell’ultimo comizio pre-elettorale, Suu Kyi ha promesso di rafforzare le strutture democratiche del Paese, se rieletta. Riconoscendo le lamentele originate dalla gestione del voto, ha affermato che “l’importante è risolvere questi problemi con mezzi pacifici entro i limiti delle leggi” e ha esortato gli elettori a rimanere calmi e preservare la stabilità.

Un risultato così favorevole alla NLD potrebbe fornire al partito di Suu Kyi la possibilità di emanciparsi in maggior misura dalla giunta militare e tentare perfino di riscrivere le disposizioni costituzionali che assegnano alle forze armate il controllo di tre ministeri chiave: Interni, Difesa ed Esteri. La leader birmana ha, d’altronde, già lasciato intendere quali saranno le priorità del suo secondo mandato. In primo luogo si parla di lotta alla pandemia, che ha investito il Myanmar con una seconda ondata proprio durante il periodo delle elezioni, ma anche di misure di contrasto alla crisi economica e accelerazione del processo di pace tra le varie minoranze etniche in disaccordo con il governo centrale.

A cura di Emilia Leban 

Myanmar, l’apparente stabilità alla prova elettorale

L’ombra del Covid-19 sulle elezioni politiche generali, tra diritti delle minoranze e conflitti in corso

L’8 novembre prossimo il Myanmar è chiamato alle urne per le elezioni parlamentari generali. Cinque anni fa, nel 2015, nel Paese si tennero le prime elezioni democratiche, dopo decenni di dittatura militare, che videro il trionfo del partito National League for Democracy (NLD) di Aung San Suu Kyi, premio Nobel e icona pro-democrazia. 

Nonostante la schiacciante vittoria del 2015, l’NLD non è stato in grado di apportare cambiamenti significativi al sistema politico birmano e non è riuscito nel suo intento di emendare la Costituzione. Per modificare la carta costituzionale serve infatti una maggioranza qualificata del 75% dei parlamentari, e considerando che al momento ai militari è garantito il 25% dei seggi e tre ministeri chiave (Esteri, Interni, Difesa), il governo di Suu Kyi non è riuscito a raggiungere i suoi obiettivi di riforma. 

Non solo, per negare a Suu Kyi la Presidenza, i militari hanno incluso una disposizione nella Costituzione secondo cui il Presidente non può avere un coniuge o figli in possesso di cittadinanza straniera. E, sfortunatamente, questo è proprio il caso della leader dell’NLD. In questi anni Suu Kyi ha parzialmente aggirato l’ostacolo creando il ruolo del Consigliere di Stato, che ha ricoperto finora, ma rimane esclusa per lei la possibilità di accedere alla Presidenza del Myanmar. 

Quasi certamente le prossime elezioni, che si svolgeranno nel contesto delle restrizioni imposte a causa del Covid-19, vedranno nuovamente la vittoria dell’NLD di Aung San Suu Kyi che, tuttavia, potrebbe perdere la maggioranza assoluta di cui dispone attualmente per governare da sola. Secondo i sondaggi pre-elettorali i partiti più piccoli, che rappresentano minoranze specifiche, dovrebbero ottenere molti più seggi e costringere l’NLD ad un governo di coalizione. Anche se Aung San Suu Kyi e il suo partito rimangono ancora molto popolari tra la maggioranza buddista Bamar, il gruppo etnico dominante, molti analisti concordano nel ritenere che il loro consenso si è ridotto tra i tanti e diversi gruppi etnici minori sparsi per il Paese e che costituiscono oltre il 40% della popolazione. È bene evidenziare infatti che Il Myanmar risente, forse più delle altre nazioni del Sud-Est asiatico, delle diverse convergenze geografiche e culturali che caratterizzano il tessuto sociale del Paese. Elementi questi che hanno condizionato la formazione dell’unità nazionale, particolarmente difficoltosa, sia sotto il profilo etnico che politico e sociale.

Sulle elezioni dell’8 novembre incombe inoltre lo spettro della crescente diffusione del nuovo coronavirus, che potrebbe avere effetti imprevedibili sui risultati. Secondo alcuni osservatori, le restrizioni ai raduni andranno probabilmente a vantaggio dei grandi partiti come l’NLD e il Partito per la solidarietà e lo sviluppo dell’Unione (USDP) sostenuto dai militari. Tuttavia, molto dipenderà da come il Myanmar gestirà la diffusione del virus nelle settimane a venire. Sicuramente però, il combinato di rigide disposizioni anti-Covid, conflitti etnici e scarso monitoraggio da parte degli osservatori internazionali fanno sorgere dubbi sulla regolarità del processo elettorale in Myanmar.

L’attuale opposizione e gli stessi militari chiedono addirittura il rinvio delle elezioni, ma Suu Kyi teme che accogliere tale richiesta verrebbe percepito come un segno di debolezza, un’evidenza della sconfitta nei confronti della pandemia. Inoltre, parte della popolazione non può accedere alle votazioni.  A soffrire di tale condizione sono in particolare i Rohingya, popolo musulmano che vive nel Nord del Paese, a cui si aggiungono migliaia di cittadini che risiedono in zone di conflitto, che difficilmente riusciranno a recarsi ai seggi elettorali. Una situazione complessa che presuppone comunque la vittoria dell’NDL, sia per la sua storia pregressa che per il ricorso privilegiato ai media nazionali.

Quali, dunque, le prospettive per il Myanmar all’indomani delle elezioni? Le ostilità tra gruppi etnici non sono affatto concluse e una possibile strada da percorrere per garantire maggiore stabilità al Paese potrebbe essere quella del decentramento amministrativo, in aggiunta ad un rafforzamento della tutela delle minoranze e delle specificità culturali dei popoli residenti nel territorio nazionale. Tra pandemia globale e tensioni interne non mancano le difficoltà, ma queste elezioni svolgeranno un ruolo cruciale nel determinare il prossimo futuro del Myanmar. 

Articolo a cura di Emilia Leban

Myanmar, verso una progressiva liberalizzazione

Negli ultimi anni, il Myanmar ha approvato importanti riforme di liberalizzazione, volte ad attrarre investimenti esteri.

Dopo 35 anni, nel 2015 si sono tenute in Myanmar le prime elezioni generali libere con la vittoria della Lega Nazionale per la Democrazia. Da quel momento nel Paese è iniziata una progressiva liberalizzazione ed apertura all’internazionalizzazione, dopo anni di isolamento dettato dal governo militare.

Le nuove politiche di liberalizzazione puntano all’ingresso di investitori stranieri nel Paese soprattutto nei settori bancario, assicurativo e del commercio (al dettaglio e all’ingrosso). La strategia di attrazione di nuovi investimenti diretti esteri punta in particolar modo su una semplificazione e standardizzazione delle procedure burocratiche e ad un ammodernamento del diritto d’impresa.

Queste misure sono state valutate positivamente dalla Banca Mondiale, che – prima dell’emergenza COVID-19 – stimava una crescita del PIL al 6,5% sia per il 2020 sia per il 2021, a fronte invece di un rallentamento dell’economia globale.

Già nel 2016, era stata inaugurata la Borsa Yangon di Myanmar (YSX), joint-venture tra la Myanmar Economic Bank, il giapponese Daiwa Institute of Research e il Japan Exchange Group, tuttavia l’afflusso di investimenti diretti esteri era ostacolato dai rigorosi controlli istituiti dal governo militare, attenuati gradualmente nel 2018 con la diminuzione delle restrizioni all’ingresso di capitali stranieri nel settore del commercio al dettaglio e all’ingrosso.

Le nuove norme sul diritto d’impresa società sostituiscono una legge del 1914 e permettono agli investitori stranieri di poter detenere fino al 35% delle azioni di una società locale. Gli analisti prevedono che l’afflusso di capitali stranieri diffonderà nel Paese una maggiore cultura della trasparenza, best practices e know how, importanti per lo sviluppo del tessuto imprenditoriale del Myanmar

Inoltre, è stato avviato anche un processo di semplificazione burocratica: nell’autunno 2018 è stato istituito il Myanmar Companies Online (MyCO), un sistema online di registrazione delle società online, volto a favorire la trasparenza e a ridurre il numero di documenti necessari per avviare un’attività.

Dal novembre 2019, poi, la Banca centrale del Myanmar permette a compagnie assicurative e banche estere di accedere al mercato locale, fornendo loro le licenze necessarie. Nei prossimi anni il governo sosterrà l’apertura e la liberalizzazione di nuovi settori di investimento.

Da marzo 2020 invece gli investitori stranieri sono ammessi agli scambi nel mercato azionario del Myanmar. Per partecipare alla negoziazione, gli investitori stranieri (residenti e non) dovranno aprire un conto presso intermediari nazionali specializzati nella detenzione di fondi di investimenti.

Per ora solo cinque società sono quotate nella YSX, di cui tre aperte agli investimenti esteri, per un toltale di circa 9 milioni di dollari di azioni disponibili per l’acquisto. Tuttavia, è probabile che dagli investitori arriveranno richieste per allentare ulteriormente determinati aspetti: ad esempio, ad oggi è obbligatoria una verifica di persona dell’identità, che richiede la presenza fisica in Myanmar.

Le liberalizzazioni nel settore bancario

Sulla scorta del graduale processo di liberalizzazione del settore finanziario, all’inizio di aprile 2020 la Banca Centrale del Myanmar ha approvato l’entrata graduale nel mercato del Paese di sette banche provenienti da tutta l’Asia, che inizieranno ad operare dal 2021 dopo il rilascio delle dovute licenze.

Si tratta di una novità rilevante per il settore bancario, su cui il governo di Aung San Suu Kyi ha investito molto, se si pensa che fino al 2019 il Myanmar concedeva “licenze di filiale”, consentendo alle banche estere di operare solo verso le imprese, ma senza poter accettare depositi. Solo dal novembre 2019 vi era stata una prima apertura all’offerta di servizi a famiglie e consumatori.

Le nuove licenze consentiranno alle banche estere di offrire una gamma completa di servizi come concedere prestiti ai clienti privati e ad aziende, scambiare valuta estera e permettere a società, banche e private di gestire liquidità e prelevare depositi sia in valuta estera che locale. Queste informazioni sono state confermate dalla Siam Commercial Bank, una delle più grandi banche della Thailandia, prossima all’entrata nel Myanmar.

Rimane tuttavia la limitazione per cui le banche estere potranno aprire nel Paese solo filiali, quindi con un’entità legale separata e costituite come società con sede in Myanmar.

Una possibile alternativa per le società bancarie estere sarà investire nelle banche locali, nel massimo del 35% del capitale sociale.

Tuttavia, sul settore bancario del Myanmar continua a pesare la legislazione dell’ex governo militare. Sean Turnell (consigliere economico di Aung San Suu Kyi) ha affermato che il maggiore ostacolo risiede nelle norme che fissano per legge i tassi di interesse al 13% per i prestiti con garanzie reali e al 16% per i prestiti non garantiti. Ciò impedisce di valutare e premiare adeguatamente i clienti che rientrano in una bassa classe di rischio. Anche il tasso sui depositi è fissato dalla legge al 10%. Sempre secondo le parole di Turnell, il governo mira ad eliminare tali limiti nel prossimo futuro.

Un ulteriore ostacolo è rappresentato, inoltre, dalle barriere culturali che ancora esistono nel Paese. I cittadini hanno scarsa fiducia nel settore bancario e preferiscono conservare valuta fisica o immagazzinare ricchezza sotto forma di oro e giada. A riprova di ciò, basti considerare che il 90% dei cittadini del Myanmar non possiede un conto corrente.

Tuttavia, anche in Myanmanr come in tutta l’ASEAN, cominciano a diffondersi servizi di digital wallet (il primo è stato Wawe Money nel 2017), che potrebbero permettere una rapida evoluzione del mercato dei servizi finanziari da mobile, malgrado le enormi barriere regolamentarie che ancora pesano sul settore.

La proattività mostrata negli ultimi anni dal Governo sembra dunque andare nella direzione giusta, nonostante negli investitori permanga preoccupazione per l’instabilità del Paese, per la poca trasparenza nei processi decisionali e per lo scarso coordinamento tra i vari livelli e organi istituzionali ai quali è preposta l’emissione di licenze e permessi per operare nel Paese.

Il processo di liberalizzazione e ammodernamento del Paese sta comunque procedendo molto rapidamente, anche supportato dal fatto che il Myanmar può contare su una grande disponibilità di forza lavoro, su bassi costi di produzione e sulla ricchezza di risorse naturali, oltre che sui legami commerciali con le dinamiche economie dell’ASEAN.

Articolo a cura di Gabriel Zurlo Sconosciuto

Fallito il tentativo di riforma costituzionale in Myanmar

Il Partito per l’Unione, la solidarietà e lo sviluppo (USDP) e i militari del Tamtadaw bloccano le riforme di Aung San Suu Kyi

A partire dal 10 Marzo il Parlamento del Myanmar ha iniziato le votazioni sulla legge di revisione costituzionale fortemente voluta dalla Lega Nazionale per la Democrazia, partito della Consigliera di Stato Aung San Suu Kyi.

L’attuale Carta Costituzionale birmana è entrata in vigore nel 2008 e garantisce di diritto ai militari un quarto dei seggi in Parlamento. Garantisce loro, inoltre, la maggioranza in diversi organi statali, uno su tutti il Consiglio Nazionale di Difesa e Sicurezza. La stessa Carta prevede una maggioranza dei tre quarti per il procedimento di revisione costituzionale, maggioranza che, de facto, senza il voto dei militari è impossibile da raggiungere.

L’opposizione dei militari in Parlamento è stata quindi efficace. Nei primi giorni di votazione, infatti, sono state bocciate le due principali proposte della riforma: quella riguardante la riduzione, gradualmente e in 15 anni, dei seggi spettanti alle Forze Armate e quella finalizzata alla modifica dell’articolo 59 della Costituzione, che nega ai cittadini con parenti di nazionalità straniera la possibilità di poter concorrere alla Presidenza del Paese. Proprio quest’ultima disposizione rappresenta l’ostacolo più importante per la Consigliera Suu Kyi, vedova dello studioso inglese dell’Università di Oxford, Michael Aris, e madre di due figli con cittadinanza britannica. Le due proposte hanno raggiunto rispettivamente 404 e 393 “sì”, non sufficienti, quindi, per raggiungere il 75% di voti favorevoli previsto dalla Costituzione.

Altro obiettivo della riforma presentata è, inoltre, proprio quello di ridurre la maggioranza necessaria per la revisione della Carta Costituzionale da tre quarti a due terzi.

Il boicottaggio da parte dei militari e del USDP era iniziato già qualche mese fa, quando, i componenti dei due schieramenti, erano fuoriusciti anzitempo dal Comitato per l’Emendamento, organo che avrebbe dovuto studiare e preparare il nuovo assetto istituzionale del Myanmar. Il loro obiettivo è sicuramente quello di arrivare, con l’attuale assetto costituzionale, alle prossime elezioni limitando il potere della Lega Nazionale per la Democrazia.

Gli Stati Uniti e l’Unione Europea aspettano ormai da anni una svolta nel Paese che, nonostante le grandi aspettative riposte in Aung San Suu Kyi, stentano ad arrivare. Il Myanmar è ‘sotto osservazione’ su temi come il riciclaggio di denaro e le violazioni dei diritti umani nei confronti delle minoranze etniche, una su tutte quella dei Rohingya, gruppo a maggioranza musulmano perseguitato e, per questo, costretto a rifugiarsi in Bangladesh. Non sono dello stesso avviso Cina e Giappone che, in una continua “disputa regionale”, non perdono occasione per rafforzare i rapporti con il Paese.

Anche questo tentativo di riformare le istituzioni, con l’obiettivo di ridurre definitivamente il potere dei militari, sembra ormai naufragato. Per ora tutto rinviato alle prossime elezioni nazionali in programma per l’Autunno del 2020.

Articolo a cura di Alessio Piazza