Il dilemma delle aziende estere in Myanmar

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Il boicottaggio dei manifestanti, l’opinione della comunità internazionale e la crisi economica stanno facendo vacillare le aziende presenti nel Paese.

Il colpo di Stato in Myanmar ha inflitto un duro colpo all’economia del Paese, già resa fragile lo scorso anno dall’emergenza del COVID-19. Le imponenti proteste degli ultimi cinque mesi, gli scioperi degli operai e le azioni violente perpetrate dall’esercito birmano hanno portato i lavoratori ad abbandonare le grandi città e i propri posti di lavoro nelle aziende per rifugiarsi nei piccoli villaggi e nelle foreste.

Con l’interruzione dei servizi pubblici e bancari e con il blocco quotidiano di internet la crisi economica si è ampliata a dismisura e i dati dell’ultimo report stilato dalla World Bank parlano chiaro: il settore industriale birmano ha subito una contrazione di 11 punti percentuali rispetto al 2020 mentre il settore relativo ai servizi ha perso oltre 13 punti. Nel corso degli anni entrambi i settori hanno dato un contributo importante alla crescita economica del Paese: dal 2014 al 2019 il 6% della crescita annua del PIL birmano proveniva dal settore secondario e terziario, ma questi numeri sono scesi fino all’1% nel 2020 e con un 2021 che prospetta dati ancora più negativi.

Questi segnali erano già stati percepiti già all’inizio di marzo quando, a causa del colpo di Stato della giunta militare, il 13% delle aziende in Myanmar aveva dovuto chiudere i battenti nell’attesa di un ritorno alla normalità. L’instabilità del sistema bancario e il non poter effettuare pagamenti online ha inflitto un notevole colpo alle aziende: secondo una ricerca che ha coinvolto 372 compagnie che operano in Myanmar, il 77% ha affermato che è proprio il fragile sistema bancario che ha portato ad una netta diminuzione del fatturato.

Inoltre, non essendoci molta liquidità di denaro, i cittadini sono stati costretti in questi mesi ad acquisti essenziali fatti grazie ai pochi kyat che potevano essere ritirati presso le banche birmane.

Dopo cinque mesi dal golpe militare, le aziende internazionali oggi sono costrette a due scelte: chiudere gli stabilimenti oppure stringere i denti nell’attesa che ritorni una situazione stabile nel Paese. Foodpanda, azienda leader nel settore food-delivery di proprietà della tedesca Delivery Hero, ha deciso di continuare ad operare in Myanmar nonostante le difficoltà incontrate in questi mesi con il blocco di internet e degli acquisti online. Scelta diversa è stata quella della Telenor, il colosso delle telecomunicazioni norvegese che si è vista costretta ad annullare contratti e tutte le operazioni nel Paese per una perdita stimata intorno ai 780 milioni di dollari. Nei confronti delle aziende, anche il movimento di protesta civile birmano (CDM) sta giocando un ruolo importante nel boicottare quelle aziende che collaborano e foraggiano il governo militare del generale Ming Aung Hlaing: negli scorsi mesi è stata creata l’applicazione “Way Way Nay” che permette di sapere se un’azienda o una compagnia sono direttamente collegate alla giunta militare, in modo da non acquistare prodotti presso di loro. Ciò ha portato al boicottaggio dei prodotti creati dalle aziende cinesi, come ritorsione nei confronti di Pechino che fino ad oggi non ha mai assunto una posizione netta e che più volte ha votato contro le sanzioni economiche previste dall’ONU nei confronti del regime militare.

Per il movimento di disobbedienza civile boicottare le aziende collegate alla giunta militare potrebbe essere la soluzione migliore per indebolire i militari e le loro finanze. Un caso interessante è quello della vendita della birra birmana, le cui aziende appartengono alla giunta militare, che hanno visto una diminuzione delle vendite pari al 90%. Per colpire maggiormente le finanze della giunta militare, anche i membri della Lega Nazionale per la Democrazia in una nota dello scorso marzo avevano chiesto agli investitori internazionali nel campo dell’estrazione di petrolio e gas di non pagare le tasse alla Myanmar Oil and Gas Enterprise, la principale società di estrazione di petrolio e gas controllata dall’esercito birmano.  

Da non sottovalutare infine il peso della comunità internazionale: alcuni brand internazionali hanno deciso infatti di interrompere i contatti con il governo militare spinti dal timore di episodi che potrebbero danneggiarne il marchio, come già accaduto per alcuni brand internazionali come Nike e Adidas che recentemente hanno annunciato di non voler più utilizzare il cotone prodotto nella regione dello Xinjiang.  H&M ad esempio, l’azienda leader nel settore del vestiario, ha fatto sapere lo scorso marzo di aver interrotto per il momento il rapporto con i propri fornitori in Myanmar a causa delle drammatiche vicende di violazione dei diritti umani degli ultimi mesi.Come H&M, altre società internazionali come McKinsey, Coca Cola e l’agenzia media Reuters hanno abbandonato i propri uffici presenti a Sule Square, un imponente complesso commerciale presente a Yangon e di proprietà dell’esercito birmano, in modo da non foraggiare la giunta militare.

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