L’esodo, non così facile, delle aziende straniere dal Myanmar

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Le aziende straniere attive in Birmania faticano a continuare le loro operazioni vista la situazione politica ed economica. Ma faticano anche ad andarsene: vediamo perché.

A seguito della pandemia da COVID-19 e della crisi politica ed economica innescata dal golpe militare dello scorso febbraio, le aziende straniere presenti in Myanmar si trovano in una situazione molto critica, come confermato dal crollo degli investimenti che tali imprese hanno effettuato nel Paese, ai minimi negli ultimi otto anni. 

L’economia birmana, secondo la Banca dello Sviluppo Asiatico, ha subito nell’ultimo anno una contrazione del 18,4% e la situazione non sembra destinata a migliorare nel futuro prossimo, tanto che il Fondo Monetario Internazionale ha recentemente rivisto al ribasso le sue previsioni per il tasso di crescita economica nel 2022. Alla base il crollo  della valuta locale, il kyat, e il significativo aumento dei prezzi dei prodotti alimentari,  tutti fattori che contribuiscono al crescente disagio della popolazione.

L’incertezza politica, il crollo della domanda locale e la volatilità della valuta hanno  spinto molte aziende straniere alla chiusura o al ridimensionamento delle attività locali. La scarsità di liquidità e le disfunzioni del settore bancario hanno inoltre limitato la capacità delle imprese di pagare dipendenti e fornitori. Anche l’accesso a internet è stato pesantemente limitato nei tre mesi successivi al golpe. Questi shock hanno indebolito i consumi, gli investimenti e il commercio e hanno limitato le operazioni delle imprese anche per ciò che concerne  la fornitura di manodopera e degli altri fattori produttivi.

Già nei primi mesi dopo il rovesciamento del regime, grosse aziende come i colossi dell’energia EDF e Petronas, ma anche il gruppo thailandese Amata e la società di ingegneria di Singapore Sembcorp hanno cessato o sospeso le operazioni in Myanmar. Inoltre, lo scorso ottobre la British American Tobacco (BAT) ha annunciato che lascerà il mercato birmanoalla fine del 2021, benché ufficialmente la sua partenza sia stata motivata in base a mere decisioni commerciali. In realtà, avendo iniziato ad operare  in loco nel 2013 con un investimento iniziale di 50 milioni di dollari, l’uscita di BAT dal Myanmar dopo meno di un decennio riflette la criticità della situazione in cui è precipitato il Paese. Sempre nello stesso mese ha poi cessato le operazioni il Kempinski Hotel, nella capitale Naypyidaw, che avendo anche ospitato il presidente Barack Obama durante la sua visita di stato nel 2014 era un importante simbolo dell’  apertura del Paese. 

Ma l’uscita dal Myanmar non è un passo semplice per tutte le aziende. Molte, infatti, hanno investito in infrastrutture pluriennali, e una exit strategy immediata risulta impraticabile. E’ il caso, per esempio, del colosso australiano del gas naturale Woodside Energy che si limita ad affermare che “tutte le decisioni commerciali in Myanmar sono in fase di revisione”. 

Un’altra azienda che si trova in difficoltà a lasciare il Paese, seppur per altri motivi, è il gigante norvegese delle telecomunicazioni Telenor. Quest’ultima è fortemente motivata a cessare le operazioni in Myanmar non solo a causa del grave deterioramento del contesto commerciale, che ha fatto registrare una perdita di oltre 782 milioni di dollari americani, ma anche per non soccombere ai tentativi del governo di controllare le attività dell’azienda.  La giunta militare avrebbe infatti tentato diverse volte, seppur invano, di costringere Telenor a limitare il traffico web e intercettare gli utenti per permettere alle autorità di spiare le chiamate e i messaggi. 

L’azienda sta però ancora aspettando di ottenere l’approvazione per la vendita delle attività alla compagnia libanese M1. Ciò accade in seguito a un ordine confidenziale, emesso lo scorso giugno, che impone agli alti dirigenti delle imprese di telecomunicazioni, sia stranieri che burmesi, di poter lasciare Naypyidaw solo con un’autorizzazione speciale, la quale sembra però non arrivare. 

Inoltre, non va sottovalutato che la problematica situazione finanziaria non fa che complicare la possibile uscita delle aziende. Le banche, prese d’assalto dalle lunghe code che si sono formate ai bancomat all’inizio di quest’anno, sono ancora sotto pressione e la liquidità scarseggia, rendendo così estremamente arduo il rimpatrio del capitale residuo. Come se non bastasse, è sopraggiunta anche la pandemia, che impone restrizioni di viaggio e onerosi requisiti di quarantena per coloro che attraversano i confini.

Rimane una profonda imprevedibilità sulla situazione politica nel medio e lungo termine, che va ad aumentare il margine di incertezza delle imprese straniere sull’opportunità di rimanere o meno nel Paese. Queste aziende, che hanno iniziato ad investire in Myanmar dal 2011, quando si sperava che il processo di transizione democratica potesse essere irreversibile, vivono nel dilemma se fare le valigie o aspettare che passi la tempesta. 

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