Malaysia

Peranakan

Storia di come la multiculturalità è divenuta norma in Malesia

“Sono italiano”, “sono giapponese”, è una risposta piuttosto comune da dare per un cittadino italiano, o giapponese, se interpellato sulla sua nazionalità. Più difficile è, invece, che qualcuno proveniente dalla Malesia risponda “sono malese”. I confini tra stati, che noi siamo abituati a pensare come distinti e separati, in molti paesi del Sud Est asiatico sono percepiti in maniera più labile. Questo perché in molti casi furono decisi in passato a tavolino dalle potenze straniere, spesso senza tenere conto della geografia, delle etnie e delle culture differenti.

Oggi per Malesia si intende l’unione di 13 stati federati (9 regni, ognuno governato da un Sultano, e 4 repubbliche), e 3 territori federali dell’Asia sud-orientale. Essa comprende la parte peninsulare (o Occidentale), sulla punta meridionale della Penisola di Malacca, e la parte Orientale, un’ampia fetta dell’isola di Borneo. Oltre il 60% della popolazione è musulmana, circa il 19% buddhista, il 10% cristiana, il 6% induista. La maggioranza, musulmana e indigena, detiene le redini politiche del paese, ma il potere economico è appannaggio della minoranza etnica cinese.

Tornando alla domanda iniziale, una persona proveniente dalla Malesia potrebbe rispondere “sono malese”, se nativo del luogo. Ma anche: sono cinese, indiano. O ancora baba nyonyakristangchitty. Oppure un’altra delle innumerevoli etnie che in Malesia vengono raggruppate sotto la denominazione comune di peranakan (lett.: “discendente”). Il temine identifica una persona nata in territorio malese dall’unione tra un nativo del luogo e una persona di un’etnia differente.

Tutto ebbe inizio nel XVI secolo a Malacca, capitale dell’omonimo stato malese e sede di uno dei porti commerciali più importanti del Sud-Est asiatico. Qui le spezie pregiate, provenienti e dirette verso tutta l’Asia, si commerciavano in grandi quantità.

A causa di questa fiorente rete di scambi commerciali, la Malesia iniziò ben presto ad attrarre le mire espansionistiche dei Paesi europei: la prima volta del Portogallo, che se ne impossessò nel 1511; la seconda dell’Olanda, che scacciò i portoghesi e se ne appropriò a partire dal 1641; infine della Gran Bretagna, che sconfisse a sua volta gli olandesi ed estese il suo dominio sulla penisola dal 1795 fino alla sua indipendenza, avvenuta ufficialmente nel 1957. Durante il periodo britannico, la regione venne conquistata anche dai giapponesi per un breve periodo, dal 1942 al 1945.

Le varie epoche di dominazione straniera, unite ad una prospera attività commerciale, diedero vita a Malacca ad una mescolanza continua tra nativi del luogo, europei, e mercanti indiani, cinesi o arabi. A cui seguirono presto numerosi matrimoni misti in tutta la Malesia, tra religioni ed etnie diverse. Ai discendenti di queste unioni, oggi, risulta impossibile definire la propria identità con termini standard e facilmente identificabili, come “cinese”, “europeo”, o “malese”. Anche il termine malese orang Cina bukan Cina (“Cinese non-cinese”), a volte utilizzato per descrivere i peranakan, risulta fuorviante. Ognuna di queste etnie infatti ha sviluppato usi e tradizioni unici, sia derivanti dalla cultura dei propri antenati, sia nati in maniera del tutto autonoma grazie al fatto di essere figli a metà tra due mondi.

Esistono innumerevoli varietà di peranakan, ma i più numerosi oggi sono i baba nyonya, i kristang, e i chitty.

baba nyonya discendono dall’unione in secoli passati di mercanti cinesi immigrati in Malesia, solitamente maschi, e donne del luogo. Sono il gruppo etnico più numeroso, tanto che spesso si ricorre erroneamente ai termini perakan e baba nyonya come sinonimi. Quando il discendente è maschio, è un baba (“uomo”), altrimenti, una nyonya (“donna”). Le generazioni più anziane parlano il baba malay, una lingua creola che mescola malese e molte parole del dialetto cinese della regione del Fujian. La religione praticata è generalmente quella buddhista, ma non è raro trovare praticanti cristiani grazie alla forte influenza culturale europea nel Paese: difatti, le festività osservate sono sia quelle del calendario lunare che di quello gregoriano.

kristang sono peranakan di origini europee (principalmente portoghesi), e malesi, cinesi o indiani. La particolarità di questo gruppo consiste nell’essere non solo multietnico, ma anche multireligioso: in esso cercarono rifugio e protezione, a partire dalla metà del 1500 d.C., anche gli ebrei di Malacca, perseguitati dall’Inquisizione Portoghese. I quali espansero ulteriormente la varietà di usi, costumi, religioni e tradizioni dei kristang. Oggi vengono osservate festività cristiane come il giorno San Pedro e il Natale, e in queste occasioni si può ammirare tutta la multiculturalità della cucina kristang, un vero e proprio incontro tra oriente e occidente. Circa 300 parole portoghesi sono integrate nella loro versione creola di malese, il “portoghese di Malacca”. Una di queste, kristang (dal portoghese Cristão, “cristiano”), ha dato origine al nome del gruppo etnico. Nei secoli scorsi era piuttosto comune che kristang e gente del luogo convenissero a nozze, ma negli ultimi anni è diventato più raro: la riforma legislativa del 1976 prevede infatti che chiunque sposi un musulmano debba obbligatoriamente convertirsi all’Islam, religione che è seguita dalla maggior parte dei malesi. I kristang, che posseggono una forte identità religiosa e culturale cristiana, trovano difficile adattarsi alla nuova regola e tendono sempre più a legarsi a peranakan, cinesi, o indiani, dove tale pratica non è presente.

chitty discendono dall’unione tra indiani e malesi, cinesi o baba nyonya. Parlano malese, la ricorrenza che festeggiano è il diwali (il “festival delle luci”, una delle più importanti feste indiane) e la loro cucina è fortemente permeata da influenze sia indiane che malesi. In Malesia, è facile riconoscere l’abitazione di un peranakan chitty: basta osservare la porta d’ingresso. Se questa è adornata da foglie di mango, è molto provabile che un discendente di questo gruppo etnico viva all’interno.

Sebbene i peranakan siano considerati alla stregua di un patrimonio culturale immateriale, oggi il 55% della popolazione della Malesia è malese, il 35% cinese, l’8% indiano, e solo il restante 2% comprende la dicitura “altri”, in cui sono compresi i peranakan. La sopravvivenza di queste innumerevoli, variegate identità linguistiche e culturali è sempre più a rischio. Per questo motivo, sono state fondate numerose associazioni e persino un museo peranakan a Singapore, per fare in modo che esse non vadano perdute.

Sfide e opportunità per la malese Top Glove nell’anno del Covid-19

Il più grande produttore mondiale di guanti in lattice ha collezionato profitti record quest’anno, ma ha anche chiuso 28 fabbriche a causa del virus 

Top Glove è un’azienda malese produttrice di guanti in gomma, specializzata anche in mascherine per il viso e altri prodotti. L’azienda possiede e gestisce 41 fabbriche in Malesia, Cina, Thailandia e Vietnam, e produce 220 milioni di guanti di gomma usa e getta al giorno, esportando in 195 Paesi con oltre 2.000 clienti in tutto il mondo. Due terzi dei guanti in lattice del pianeta sono realizzati in Malesia, con Top Glove che ne produce uno su cinque. I mercati più grandi dell’azienda sono il Nord America e l’Europa. 

“La richiesta urgente di materiale sanitario sembra diventata la normalità per Top Glove”, ha dichiarato ai giornalisti il Direttore esecutivo Lim Cheong Guan, aggiungendo inoltre che la domanda dovrebbe continuare a crescere. “Prevediamo che nei prossimi tre anni ci sarà ancora carenza di guanti”, ha aggiunto. “Il potenziale aumento della domanda è dovuto principalmente al fatto che le attuali scorte di guanti sono a livelli estremamente bassi nei magazzini dei nostri clienti”. L’azienda stima infatti che la domanda di guanti crescerà del 20% quest’anno, del 25% l’anno prossimo e del 15% dopo la pandemia.

A causa del forte aumento della domanda durante la pandemia, il valore dell’azienda si è moltiplicato di almeno sei volte quest’anno, alterando la composizione del mercato azionario della Malesia e diventando una delle società più quotate nel Paese. Nell’anno finanziario terminato il 31 agosto 2020, la domanda di guanti di gomma era così forte che l’azienda ha aumentando i guadagni dell’intero anno a oltre 1 miliardo di dollari, una cifra record che ha accresciuto in maniera significativa il valore delle azioni della società. Forte di questi risultati, nel novembre 2020, l’azienda ha anche donato un totale di $45 milioni al fondo governativo Covid-19 istituito per combattere la pandemia.

Tuttavia, nello stesso mese, un focolaio è emerso nello stabilimento di Meru, cittadina nel distretto di Klang a Selangor, lo stato più sviluppato della Malesia, costringendo la dirigenza ad optare per la chiusura temporanea di 28 stabilimenti nel Paese, facendo crollare del 10% il valore delle azioni della società. La settimana scorsa il valore delle azioni dell’azienda è diminuito ancora del 3,5%, ma è comunque aumentato del 337% dall’inizio dell’anno. Su 5.767 impiegati sottoposti ai controlli, ben 2.453 sono risultati positivi al virus, evidenziando la necessità di azioni drastiche per contenere i danni sul piano epidemiologico. La maggior parte dei casi positivi nel cluster sono operai, per lo più stranieri immigrati dal Nepal, che vivono spesso in condizioni igieniche precarie in grandi e affollati complessi abitativi.

Quest’anno infatti Top Glove è stata sotto i riflettori globali non solo per i suoi profitti da record, ma anche per le accuse di pratiche di sfruttamento del lavoro. A luglio, gli Stati Uniti hanno vietato l’importazione di guanti da due delle filiali dell’azienda a causa delle preoccupazioni sul lavoro forzato. Glorene Das, Direttrice esecutiva di Tenaganita, una ONG con sede a Kuala Lumpur, ha dichiarato alla BBC che “questi lavoratori sono vulnerabili perché vivono in appartamenti condivisi e affollati e svolgono un lavoro che non consente di praticare un rigoroso distanziamento sociale”.

Di fronte alle polemiche, il Ministro della Difesa malese Ismail Sabri Yaakob ha annunciato che le autorità inizieranno immediatamente a far rispettare le nuove regole sugli alloggi dei lavoratori e ad imporre multe di circa $12.300 per ogni dipendente che vive in alloggi non regolamentati. Inoltre, le autorità del Paese hanno testato tutti i lavoratori di Top Glove nelle fabbriche e nei dormitori interessati con l’obiettivo di circoscrivere al più presto il focolaio e limitare i danni. Secondo il Ministro del commercio internazionale e dell’industria Mohamed Azmin Ali infatti è necessario mettere l’azienda nelle condizioni di continuare la produzione, dal momento che Top Glove è una delle poche aziende in Malesia orientata alla produzione di materiale sanitario in plastica e una delle più importanti del mercato globale.

Malgrado questo ostacolo inaspettato, la presenza e l’attività di Top Glove continua ad avere grande importanza per la Malesia e per il resto del mondo che utilizza i suoi prodotti di qualità. L’azienda infatti ha messo da parte durante l’anno risorse sufficienti per espandere la capacità di produzione a 100 miliardi di pezzi nei prossimi cinque anni. La crisi globale di quest’anno ha messo a dura prova le decine di fabbriche produttrici di guanti in gomma sparse nel Sud-Est asiatico, ma allo stesso tempo le ha messe nelle condizioni di aumentare la produzione e svolgere un ruolo di primo piano nella battaglia al Covid-19. 

  A cura di Diego Mastromatteo           

L’avvenire della Malesia

Il Paese lavora per raggiungere gli obiettivi fissati per il 2030, ma restano alcuni problemi: il divario di reddito e il tema dell’olio di palma

Nel corso degli anni, lo sviluppo economico della Malesia è stato impressionante. Dalla sua indipendenza dal Regno Unito nel 1957, il Paese ha concentrato tutti i suoi sforzi sul potenziamento dell’economia e sul miglioramento del benessere dei suoi cittadini. Secondo un rapporto dell’OECD, per quasi 5 decenni (fino al 2018) la Malesia ha registrato una crescita stabile del PIL ad un tasso annuo medio del 6,1%. Il Paese vanta anche un indice di sviluppo umano relativamente alto, pari a 0,804, il terzo più alto dell’ASEAN dopo Singapore e Brunei Darussalam. 

Oltre a questi risultati già raggiunti, la Malesia ha fissato uno standard elevato anche per i suoi obiettivi di medio e lungo termine. Kuala Lumpur mira a conquistare lo status di Paese ad alto reddito entro il 2024, e sta anche lavorando per raggiungere una crescita sostenibile ed equa per tutte le fasce di reddito, le etnie e le diverse aree geografiche – come delineato nel documento Shared Prosperity Vision 2030. Ciononostante, nel lavorare verso questi obiettivi, il Paese deve ancora affrontare diverse sfide sia in patria che all’estero. 

Uno dei problemi più urgenti in Malesia è quello delle differenze strutturali nella popolazione. Ufficialmente, il tessuto sociale è diviso in due segmenti: la maggioranza Bumiputera o popolazione malese, e la minoranza non-Bumiputera, che è composta principalmente da popolazioni cinesi e indiane. Storicamente, la disparità economica è sempre stata un problema tra i due gruppi, in quanto la ricchezza nazionale era in gran parte concentrata nelle mani della popolazione cinese dominante sul mercato. Sebbene si stiano facendo progressi per quanto riguarda le pari opportunità tra i gruppi, ad oggi il divario è ancora evidente. La differenza di reddito tra Bumiputera, indiani e cinesi è aumentata di quattro volte negli ultimi 27 anni. Per questo motivo, il governo sta cercando di ridurre le disuguaglianze tra gruppi etnici, adottando un’agenda di empowerment dei Bumiputera, che mira a rafforzare la loro posizione socioeconomica. Inoltre, il governo è anche impegnato a porre maggiore attenzione sullo sviluppo di altre popolazioni non Bumiputera, per garantire a tutti parità di accesso all’istruzione, al lavoro e alle opportunità che la società offre.

Un’altra questione che potrebbe ostacolare lo sviluppo economico della Malesia è quella dell’olio di palma, e i suoi effetti sulle relazioni commerciali con l’UE. L’olio di palma è una delle industrie principali della Malesia, rappresenta il 2,8% del PIL, e il Paese ne è il secondo produttore mondiale dopo l’Indonesia. Dal 2010, il governo malese e l’UE stanno lavorando per raggiungere un accordo di libero scambio, tuttavia, le trattative sono sospese a causa di opinioni divergenti sull’impatto ambientale e sulle questioni di sostenibilità associate alla produzione di olio di palma. La reazione iniziale del Parlamento Europeo sulla questione è stata quella di vietarne l’uso per i biocarburanti fino al 2030. Tuttavia, considerando le conseguenze economiche di questa decisione, l’UE ha stabilito invece di limitare la quantità di biocarburanti ad alto rischio Indirect Land Use Change (ILUC) nel suo mercato. Per definizione, l’ILUC si verifica quando terreni agricoli precedentemente utilizzati per la coltivazione di alimenti vengono convertiti in favore di produzione di biocarburanti, con conseguente rilascio di ingenti emissioni di carbonio nell’aria. I biocarburanti classificati nelle categorie ad alto rischio ILUC sono quelli prodotti da aree che hanno una maggiore concentrazione di carbonio come le foreste e le zone umide. 

Sebbene l’UE abbia in qualche modo aperto all’uso di biocarburanti sostenibili, è ancora difficile per l’olio di palma malese qualificarsi nella categoria di carburanti a basso rischio ILUC. Il governo sta ora lavorando per aumentare la produzione sostenibile di olio di palma, limitando l’espansione di zone paludose e fangose, vietando la conversione delle riserve forestali per la produzione di olio di palma e stabilendo una particolare certificazione di sostenibilità, chiamata Malaysian Sustainable Palm Oil (MSPO). Permangono dubbi sul fatto che questo sistema di certificazione possa essere riconosciuto dall’UE, e una soluzione vantaggiosa per tutti sembra ancora lontana dall’essere trovata. Gli esperti però invitano entrambe le parti a rivalutare le loro posizioni al fine di raggiungere un risultato più favorevole sia per l’industria dell’olio di palma che per la sostenibilità ambientale a livello globale. 

Considerando gli elementi sopra menzionati, la Malesia si trova ad affrontare una situazione difficile. Il divario di reddito e le questioni di sostenibilità rimangono pregiudizievoli, in quanto possono influire in modo significativo sul Paese sia nelle dinamiche interne che in quelle relazionali con l’estero. Tuttavia, il governo si è molto impegnato ad affrontare queste problematiche e il Paese sembra essere sulla strada giusta per riprendersi dalla pandemia di Covid-19 e continuare verso il raggiungimento dei suoi obiettivi entro il 2030.

A cura di Rizka Diandra e Alessio Piazza 

All’origine delle tensioni UE-Malesia

La divergenza di opinioni sui combustibili a base di olio di palma rischia di impedire una collaborazione più efficace tra le parti.

Secondo stime del Servizio europeo per l’azione esterna del 2014, l’UE è il terzo partner commerciale più grande della Malesia, contribuendo per al 9.9% del suo export totale. Al contempo, la Malesia è il 23esimo partner commerciale dell’UE e il secondo più grande nell’intero Sud-Est Asiatico. Nel 2010 entrambe le parti erano decise ad avviare i negoziati per un accordo di libero scambio commerciale; tuttavia, il dialogo si è presto interrotto, a causa della divergenza di opinioni sulla questione dell’olio di palma, e su come conciliare interessi economici e imperativi ambientali.

Il punto nevralgico del conflitto si colloca nella decisione, da parte della Commissione Europea, di eliminare gradualmente il carburante a base di olio di palma come fonte di energia, e passare a combustibili più ecosostenibili. Se la Direttiva sull’energia rinnovabile (RED I) del 2009 incoraggiava i Paesi ASEAN come Malesia e Indonesia a esportare olio di palma in Europa, con il tempo l’approccio è cambiato, dal momento che questo combustibile si è rivelato pericoloso per l’ambiente.

Le conseguenze della produzione dell’olio di palma sull’ambiente sono infatti particolarmente aggressive, poiché si tratta di una produzione agricola intensiva: un modello che porta alla deforestazione massiccia, alla degradazione del suolo e ad un preoccupante aumento dell’inquinamento dell’aria, principalmente attraverso l’emissione di gas serra.

Boicottaggi da parte dei consumatori in Europa negli anni hanno convinto il Parlamento Europeo a vietare progressivamente l’uso dell’olio di palma entro il 2030, e a rivedere la Direttiva (RED II) nel 2018 per stabilire dei parametri di riferimento per i biocarburanti. Tale cambiamento, tuttavia, ha complicato le relazioni tra UE e Malesia. Quest’ultima infatti, assieme all’Indonesia (i due paesi assieme producono più dell’85% dell’olio di palma sul mercato mondiale), ha interpretato il cambiamento come una misura di protezionismo, e ha cercato l’appoggio di altri Paesi ASEAN per portare la questione di fronte all’Organizzazione Mondiale del Commercio. Sebbene dopo mesi di negoziati con il Commissario Europeo Kadri Simson la Malesia abbia desistito dal fare causa all’Unione, fin quando la questione non sarà risolta continuerà a penalizzare alcuni prodotti fondamentali per l’export europeo, e a sospendere i negoziati per l’accordo di libero scambio.

In Malesia, come in molti altri paesi in via di sviluppo, per ora la priorità del governo è concentrata più sulla crescita economica che sull’ambiente. Si stima infatti che tale carburante contribuisca del 5% al Prodotto interno lordo malese. Una percentuale significativa, che contribuisce a sostenere intere fasce della popolazione, fornendo un impiego e un salario stabili a milioni di persone. Pertanto, le preoccupazioni non sono soltanto economiche, ma anche politiche e sociali.

La Malesia è decisa a convincere l’Unione che il suo olio di palma sia molto più ecosostenibile di quanto le critiche affermino, e a portarla a rivedere la sua decisione entro il 2021. Fino ad allora, la controversia tra priorità economiche e impegno sul fronte ambientale rimane, e costituisce un ostacolo significativo per ulteriori discussioni su un accordo commerciale.

 

Articolo a cura di Valentina Beomonte Zobel.

La Malesia durante l’emergenza Covid-19

La crisi ha colpito il Paese soprattutto sul piano economico, ma le opportunità non mancano

Con l’obiettivo di meglio comprendere come la Malesia abbia affrontato l’emergenza sanitaria del Covid-19 e il suo impatto economico e sociale, il 19 maggio l’Associazione Italia-ASEAN ha organizzato un webinar sulla Malesia con la Ministra malese per l’Housing e il Local Government, Zuraida Kamaruddin e il Presidente e Amministratore Delegato di PwC Italia, Giovanni Andrea Toselli.

Oggi infatti, come la maggior parte dei Paesi, la Malesia è duramente colpita dalla pandemia di Covid-19 e dalle sue conseguenze. Tuttavia, il governo malese ha messo in campo una risposta importante sia sul piano sanitario, che su quello economico e sociale, che dovrebbe mettere il Paese nelle condizioni migliori per reagire alla crisi.

Sul versante del contenimento sanitario, non appena i numeri hanno iniziato a crescere a metà marzo, il governo ha immediatamente disposto il lockdown per i cittadini, lasciando aperti e attivi solamente i servizi essenziali in ambito medico e alimentare. Persino per celebrare l’importante festa religiosa del Ramadan non sono state consentite grandi adunate o visite presso amici e parenti. Per isolare il Paese da flussi esterni, il governo ha poi deciso che tutte le persone che arrivano dall’estero dovranno obbligatoriamente essere sottoposte a due settimane di quarantena in apposite strutture e, soltanto quando risulteranno negative ai tamponi, potranno rientrare nelle proprie abitazioni. Per meglio gestire la situazione dei tanti lavoratori malesi che operano a Singapore invece, sono stati firmati accordi tra i due Paesi con un protocollo comune a tutela della sicurezza di tutti i cittadini. Infine, la Malesia è impegnata con i partner dell’ASEAN a sviluppare un protocollo unico di coordinamento per gestire efficacemente l’emergenza sanitaria in tutta la regione. Ad oggi l’intento delle autorità malesi è quello di revocare le misure di contenimento gradualmente fino al 9 giugno, nella speranza che i contagi non aumentino in maniera significativa.

Per quanto riguarda invece la situazione economica, il governo è subito intervenuto con forti misure di stimolo all’economia e di sostegno alle imprese, ai lavoratori e alle fasce sociali più deboli. Tra gli interventi principali varati dal governo malese, sono da evidenziare la sospensione degli affitti, il prolungamento delle scadenze fiscali per le PMI, le misure di sostegno ai disoccupati e gli investimenti infrastrutturali. I pacchetti di stimolo all’economia sono stati tra i più sostanziosi nell’area dell’Asia-Pacifico e per il momento la Malesia guida la classifica dei Paesi ASEAN, con un intervento da circa 65 miliardi di dollari. Nonostante lo sforzo tuttavia, la Banca Centrale malese stima per il Paese una crescita del PIL tra -2% e 0.5% nel 2020. A soffrire maggiormente per il momento è il settore turistico, asset fondamentale dell’economia malese. Il governo ha quindi in programma grandi piani di sostegno, con l’obiettivo di sostenere il turismo locale e rilanciare quello internazionale, quando le condizioni lo consentiranno.

È interessante notare che durante l’emergenza, alcuni settori hanno avuto l’occasione di espandersi e svilupparsi. Le piattaforme di e-commerce sono aumentate nel Paese, e sta aumentando esponenzialmente anche la domanda di servizi digitali. La pratica dello smart-working sta poi aprendo nuovi scenari nel mondo del lavoro, creando interessanti opportunità. Sembra anche che dopo questa crisi i cittadini malesi abbiano sviluppato una maggiore sensibilità ai temi della sanità e dell’ambiente, temi importanti per costruire una società migliore dopo l’emergenza.

È utile sottolineare dunque che malgrado le difficoltà economiche e sociali che questa crisi sta causando in Malesia, la pronta risposta del governo e il dinamismo dell’economia malese permettono ancora al Paese di attirare attenzione e presentare interessanti opportunità, soprattutto per quanto riguarda la tecnologia e il settore digitale.

 

Articolo a cura di Tullio Ambrosone.