I Facebook Papers scuotono anche l’ASEAN

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Incitamento all’odio, propaganda politica senza contraddittorio e traffico di esseri umani. Problemi di cui il colosso di Mark Zuckerberg era a conoscenza ma non ha agito, secondo le accuse dell’inchiesta denominata Facebook Papers.

Nelle ultime settimane, Facebook è stato nell’occhio del ciclone dopo che diverse testate giornalistiche statunitensi ed europee hanno pubblicato contemporaneamente articoli basati sui documenti interni diffusi dalla whistleblower ed ex dipendente Frances Haugen su alcune faccende controverse riguardo la stessa azienda.

I documenti trapelati, conosciuti inizialmente come “Facebook Files” e successivamente denominati “Facebook Papers”, raccontano nel dettaglio i fallimenti della dirigenza dell’azienda nel contenere la disinformazione e l’incitamento all’odio e alla violenza sulla piattaforma. La situazione è aggravata dalla presunta conoscenza di Facebook di questi problemi, che non è però riuscita ad arginare, talora per inerzia, talora per mancanza di mezzi tecnici, ma soprattutto, sostiene l’inchiesta, per la scelta di anteporre il profitto e la ricerca dell’engagement alla sicurezza e al benessere degli utenti.

Per oltre un decennio, Facebook ha spinto per diventare la piattaforma online dominante nel mondo. Tuttavia, i suoi sforzi per mantenere il social sicuro ed inclusivo non hanno tenuto il passo con la sua espansione globale. Dai documenti sono anche emersi diverse vicende legate ai Paesi dell’ASEAN, in particolare Vietnam, Myanmar e Filippine, nei quali l’uso dei social network è cresciuto esponenzialmente negli ultimi anni, così come l’accesso alle reti mobili. Per molte persone in questi Paesi, Facebook rappresenta l’unico punto di accesso alle informazioni, e molti considerano i post come vere e proprie notizie.

Uno dei principali aspetti dell’inchiesta riguarda il fatto che Facebook sia in gran parte impreparato a contrastare la disinformazione fuori dagli Stati Uniti e da pochi altri Paesi occidentali. Se consideriamo infatti che, secondo un documento interno pubblicato dal New York Times, l’87% delle risorse della piattaforma sono dedicate a combattere la disinformazione negli Stati Uniti, il 13% rimanente per il resto del mondo appare una cifra assai esigua. Come altre aziende tecnologiche, il gigante dei social network usa degli algoritmi per segnalare ed eventualmente eliminare contenuti ritenuti dannosi prima che si diffondano rapidamente online, ma molti post sono scritti in linguaggi e dialetti locali o presentano riferimenti culturalmente specifici che gli algoritmi comprendono con estrema difficoltà. Ad esempio, fino al 2020 l’azienda non aveva algoritmi di screening in lingua birmana, una falla che ha permesso al linguaggio aggressivo e all’incitamento all’odio razziale di fiorire sulla piattaforma. Facebook è stato accusato di aver svolto un ruolo chiave nella diffusione dell’odio razziale nei confronti della minoranza Rohingya in Myanmar, quando i militari hanno effettuato “operazioni di pulizia” del gruppo etnico, costringendo 650.000 rifugiati Rohingya a fuggire in Bangladesh a causa delle persecuzioni.

Anche il Vietnam si è ritrovato coinvolto nello scandalo dei Facebook Papers, seppur per altre ragioni. Secondo una serie di documenti interni emersi nel corso dell’inchiesta, l’amministratore delegato Mark Zuckerberg avrebbe ceduto alle richieste del governo vietnamita di censurare i post di dissidenti anti-governativi per non rischiare di perdere un miliardo di dollari di entrate annuali nel Paese, cifra stimata da un report di Amnesty International. Il Vietnam è uno dei mercati asiatici più lucrativi di Facebook, con più di 53 milioni di utenti attivi (oltre la metà della popolazione). Secondo Huynh Ngoc Chenh, un influente blogger che si occupa di democrazia e questioni relative ai diritti umani, il colosso di Menlo Park “ha maltrattato gli attivisti eliminando la libertà di parola, trasformandosi in uno strumento mediatico a servizio del Partito Comunista del Vietnam”. Per tutta risposta, l’azienda ha affermato che la scelta di censurare è giustificata “al fine di garantire che i servizi rimangano disponibili per milioni di persone che si affidano a loro ogni giorno”, secondo una dichiarazione fornita al Washington Post.

Ma non finisce qui. Sono infine emersi scandali anche sul comportamento di Facebook nelle Filippine, dove peraltro post e contenuti spesso fuorvianti continuano ad alimentare la popolarità del controverso Presidente Duterte. All’inizio di quest’anno, un rapporto interno di Facebook ha identificato l’esistenza di lacune nel rilevamento di gruppi criminali che si servono della piattaforma per il traffico di esseri umani. Infatti, nonostante il governo delle Filippine abbia una task force impegnata a prevenire tali situazioni, le piattaforme della società sono utilizzate per la recluta e compravendita di collaboratori domestici.

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