Mar Cinese meridionale, i Paesi ASEAN investono nelle forze aeree

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Le manovre di Pechino sconfinano dall’acqua all’aria. Le aviazioni militari dei Paesi ASEAN richiedono un aumento degli investimenti per far fronte alle tensioni.

Che il Mare Cinese meridionale sia una delle aree più calde del pianeta è ormai dato acquisito e la tensione non sembra prossima a diminuire. Le dispute tra alcuni Paesi ASEAN e Cina sul controllo delle acque intorno alle isole Spratly, un arcipelago di micro-isole dall’elevato valore strategico, hanno spinto tutti gli attori ad aumentare la propria spesa militare, in particolare quella navale. Gli unici pezzi adatti a questa scacchiera – potremmo pensare – sono le navi, i sottomarini o addirittura le isole artificiali. D’altronde, la partita si gioca per l’accesso alle risorse dei fondali marini e per il controllo delle rotte commerciali marittime. Le recentissime novità che provengono dalla regione indo-pacifica sembrano confermare questa lettura: il discusso patto AUKUS è salito agli onori di cronaca innanzitutto per una commessa di sottomarini multimiliardaria. Non possiamo però dimenticare che l’influenza sul Mare Cinese meridionale passa anche per il controllo dei suoi cieli, non solo delle sue acque. Un recente contatto tra l’aviazione militare di malese e quella cinese ha riportato la corsa agli armamenti aerei al centro delle agende dei governi ASEAN. 

I diritti sulle acque del Mare Cinese meridionale sono contesi tra alcuni Paesi ASEAN (Vietnam, Malesia, Brunei, Filippine), Cina e Taiwan. Più nello specifico, questi Stati dichiarano in varia misura la propria sovranità sulle isole Spratly, al fine di estendere il perimetro delle proprie acque territoriali in mare aperto. Queste “isole della discordia” sono di dimensioni minuscole – a volte poco più che scogli – e inadatte a ospitare insediamenti umani. Eppure, il loro valore strategico è immenso. Nel 2016 in queste acque sono transitati merci per 3.37 trilioni di dollari e quasi il 40% del gas naturale liquefatto globale. L’importanza del Mare cinese meridionale per l’approvvigionamento energetico mondiale non si limita però al transito delle risorse naturali: sui suoi fondali giacciono almeno 7 miliardi di barili di petrolio e circa 25 trilioni di metri cubi di gas naturale. Inoltre, lo sfruttamento economico di queste acque riguarderebbe anche la pesca. 

La posta in palio è alta. Ormai da alcuni decenni, gli Stati che si affacciano sul Mare cinese meridionale si sfidano costruendo nuovi avamposti, rivendicando atolli disabitati od organizzando esercitazioni navali nelle acque sotto il proprio controllo. È il Vietnam a controllare il maggior numero di isolotti (21), seguito da Filippine (9), Cina (7) e Malesia (5), mentre Brunei e Taiwan occupano un’isola ciascuno. Alcuni di questi elementi geografici sono stati trasformati in isole artificiali adatte ad ospitare basi militari, in particolare da Cina e Vietnam. La crescente presenza delle flotte militari nell’area ha portato in passato anche a scontri a fuoco tra la Cina e i Paesi ASEAN. Il confronto con Pechino sulle Spratly è un interessante caso di studio per comprendere l’evoluzione dell’ASEAN. Presi singolarmente, ciascuno Stato del Sud-Est asiatico avrebbe poco potere negoziale nei confronti della ben più grande Cina e infatti i cinesi hanno sempre cercato di impostare le trattative a livello bilaterale, ma senza successo. I Paesi ASEAN si sono infatti sempre opposti alla strategia divide et impera cinese e hanno accettato di negoziare con Pechino solo in via multilaterale, sedendosi al tavolo tutti insieme. Tali esercizi diplomatici hanno permesso nel 2002 di definire un Codice di condotta ASEAN-Cina per il Mare cinese meridionale. 

Le manovre cinesi sono seguite con attenzione dagli USA, decisi a rilanciare la propria presenza nella regione, ma anche da Giappone, India, Unione Europea (più recentemente) e Australia. Proprio da Canberra – che aveva inaugurato anni fa una fase di avvicinamento a Pechino, ora bruscamente interrotta – giunge l’ultima novità dello scenario indopacifico: l’accordo strategico AUKUS con USA e Regno Unito. Accordo che ha destato preoccupazione nei governi ASEAN, dato che potrebbe spingere Pechino ad aumentare la propria presenza militare nel Mare cinese meridionale. Il nuovo Premier malese Ismail Sabri Yaakob ha commentato in modo molto duro l’Accordo, esprimendo il timore che possa “rendere le altre potenze più aggressive” e aprire la strada a “una nuova corsa alle armi nucleari”. L’allarme di Kuala Lumpur si spiega alla luce di alcuni recenti incidenti con le avanguardie di Pechino. Lo scorso 31 maggio è avvenuto un contatto tra i jet malesi e uno stormo di velivoli militari cinesi impegnati in un’esercitazione ai confini dello spazio aereo della Malesia. Questo episodio ha ricordato a tutti i governi ASEAN che la partita per il Mare cinese meridionale si gioca anche nell’aria – e che la Cina ha un notevole vantaggio.

Una efficiente difesa aerea richiede lo sviluppo di un sistema integrato di velivoli moderni, impianti di rilevazione e installazioni missilistiche, nonché personale preparato. E molti investimenti. Singapore e Vietnam sono gli unici Paesi ASEAN con un’aviazione militare adeguata, commentano gli analisti. Hanoi sta investendo molto anche per modernizzare la sua flotta. La Malesia invece ha forze aeree ridotte, armate con velivoli obsoleti –  e nel suo bilancio, ancora in affanno a causa della crisi Covid, non pare possibile inserire previsioni di spesa in questo settore. Anche le Filippine sembrano impreparate, tanto che Manila sta mettendo in ordine le proprie regole sulle forniture militari in vista di futuri investimenti. L’Indonesia appare più attrezzata, anche se gli investimenti sono ancora insufficienti e poco efficienti. Il Paese non avanza pretese di sovranità sulle Spratly, ma la nine-dash line cinese che delimita le rivendicazioni di Pechino passa vicino al territorio indonesiano e non è vista di buon occhio da Giacarta.

Alla luce di questi elementi, è possibile aspettarsi negli anni a venire ingenti investimenti nelle forze aeree da parte dei Paesi ASEAN. Risulta però difficile fare previsioni sull’entità e l’efficacia di tale sforzo da parte dei singoli Stati. Come abbiamo visto, mentre alcuni governi sono riusciti ad ottenere buoni risultati in passato, altri sembrano poco preparati nella spesa efficiente delle ingenti risorse da stanziare e nella formazione del personale militare. Gli altri attori internazionali interessati a bilanciare l’influenza cinese – Stati Uniti, Unione Europea, Giappone – potrebbero supportare questi governi nel capacity building. Anche l’industria della difesa avrà un ruolo importante, dato che i Paesi ASEAN avranno necessariamente bisogno di partner affidabili per ottenere le forniture necessarie. Le aziende italiane del settore già collaborano con i governi ASEAN. Per fare qualche esempio: Leonardo con Singapore, Malesia e Thailandia; Fincantieri con l’Indonesia.

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