La politica estera indipendente di Marcos Jr

In molti prevedevano una continuazione della linea internazionale di Rodrigo Duterte, ma con il nuovo Presidente le Filippine sono tornate “amiche di tutti e nemiche di nessuno” 

Articolo a cura di Geraldine Ramilo

Ferdinand Marcos Jr., figlio dell’ex dittatore Ferdinand Marcos, si è insediato come nuovo Presidente filippino a giugno 2022, ottenendo il mese prima una schiacciante vittoria alle elezioni. Durante la sua campagna elettorale i riferimenti alle sue intenzioni di politica estera sono state vaghe. Alcune speculazioni iniziali hanno predetto un continuamento della linea del suo predecessore, Rodrigo Duterte, di avvicinamento e collaborazione con la Cina. Ora invece, ad alcuni mesi dal suo insediamento ufficiale, Marcos Jr. sembra non avere intenzioni di sbilanciarsi troppo nel delicato confronto tra USA e Cina. 

Le Filippine, grazie alla loro posizione strategica, sono un’area di influenza contesa nella rivalità tra le due superpotenze per il dominio nella regione indo-pacifica. Da una parte, le Filippine e gli Stati Uniti hanno un rapporto privilegiato dal punto di vista economico e di sicurezza. I due Paesi hanno infatti stabilito una relazione diplomatica formale nel 1946 e hanno stretto un patto di mutua difesa nel 1951. Dall’altra parte, la Cina è oggi uno dei principali partner economici delle Filippine grazie ai suoi ingenti investimenti nelle infrastrutture domestiche filippine. Il rapporto con Pechino è stato inoltre promosso dal precedente capo di stato Duterte, il quale condusse una linea politica apertamente ostile all’Occidente ed agli Stati Uniti in modo particolare.

Alcuni episodi recenti hanno dato modo di contemplare un riavvicinamento dell’amministrazione di Marcos Jr. verso Washington. Già durante la campagna elettorale il poi eletto Presidente aveva citato l’importanza e i vantaggi che le Filippine traggono dal rapporto con gli USA. Anche dalla Casa Bianca era stato espresso l’interesse a reinstaurare la “normalità” dei rapporti tra i due Paesi interrotta con Duterte. L’attuale Presidente statunitense Joe Biden è stato addirittura il primo capo di stato estero a congratularsi con Marcos Jr. per la sua vittoria. Questo riavvicinamento agli Stati Uniti non deve però far pensare ad un venir meno del rapporto costruito con la Cina. Marcos e la sua famiglia hanno da sempre un rapporto stretto con il gigante asiatico, tanto che lo stesso presidente, dopo essere stato eletto, ha avuto una lunga conversazione telefonica con il Presidente cinese Xi Jinping, dove entrambi hanno espresso interesse a rafforzare il rapporto bilaterale.

Si prevede dunque che Marcos Jr. non prenderà per il momento nessuna posizione drastica né a favore degli Stati Uniti né per la Cina, ma manterrà una posizione collaborativa e bilanciata tra i due poli. A riprova di ciò, durante il suo primo discorso sullo stato della Nazione tenutosi nel luglio 2022, Marcos Jr. ha dichiarato le sue intenzioni di attuare una politica estera di tipo indipendente, mantenendo buoni rapporti con entrambe le potenze. Ha annunciato l’ambizione delle Filippine di essere “amiche di tutti e nemiche di nessuno”, e appellandosi poi alla generalità dei Paesi costituenti la comunità internazionale, il neoeletto presidente ha aggiunto: “Se siamo d’accordo, coopereremo e lavoreremo assieme. Se siamo in disaccordo, dialogheremo di più fino ad essere d’accordo”. 

Marcos Jr. sembra quindi essersi distaccato dalla politica anti-occidentale e fortemente anti-statunitense del suo predecessore, seguendo invece una linea di politica estera indipendente più simile a quella delle presidenze precedenti a Duterte, compresa quella del proprio padre. L’idea alla base di una politica di questo tipo è assicurarsi i massimi benefici da entrambi i poli e lasciare spazio di manovra per muoversi in base agli interessi nazionali. Marcos Jr. sembra dunque essere orientato a costruire un delicato bilanciamento tra USA e Cina, lasciando aperta la possibilità di esplorare opportunità di cooperazione su entrambi i fronti.  

Nel contesto di riavvicinamento a Washington dopo la rotture con Duterte, si inserisce la visita della Vice presidente statunitense Kamala Harris nelle isole Palawan ed il suo incontro con il Presidente filippino avvenuto nei giorni scorsi con il fine da parte degli USA di rinforzare e riaffermare i rapporti con gli alleati storici. Le Filippine rappresentano infatti un punto cruciale per l’amministrazione Biden e la sua strategia diplomatica volta a contenere le ambizioni cinesi nel Pacifico. Nonostante la vicinanza geografica di Palawan al Mar Cinese Meridionale e il messaggio implicito da parte degli USA, la visita non necessariamente costituisce una minaccia diretta alla Cina. Ma alcuni esperti filippini sono preoccupati per la posizione scomoda in cui si ritroverà il proprio Paese con Pechino e il rischio per gli interessi nazionali nel caso la contesa tra le due potenze dovesse acuirsi.

L’Indonesia e il biodiesel di palma

L’Indonesia è il più grande produttore di olio di palma al mondo. La domanda che Giacarta si pone è: la miscela di diesel combinato al 40% di “olio da cucina” può aiutare a raggiungere gli obiettivi del governo?

L’Indonesia sta testando una miscela biodiesel da usare come carburante per automobili, di cui l’olio di palma ne compone il 40%. In particolare, Giacarta sta testando se questa combinazione di diesel e olio di palma (detto anche “olio da cucina”) possa funzionare ad alta quota. Infatti, in generale, l’olio di palma tende a indurirsi nei climi più freddi. La miscela biodiesel con olio di palma non è una novità in Indonesia. Il Paese del Sud-Est asiatico attualmente impone alle automobili l’utilizzo di una miscela al 30% (o “B30” – “requisito B30”), e sta cercando di aumentarla al 40% (“B40” – “requisito B40”). Per scoprire se l’olio tropicale è in grado di adattarsi ad altitudini più elevate, poche settimane fa gli addetti all’esperimento sono partiti da Dieng, una regione vulcanica attiva nel centro di Giava, per un tour di collaudo. Pertanto, nelle prossime settimane, sei minivan Toyota Innova, alimentati con biodiesel al 40% con olio di palma, gireranno in prova sull’isola di Java. 

Nell’eventualità che i test dovessero dare il risultato sperato, il target del governo sarebbe quello di aumentare il requisito da B30 a B40, e quindi di imporre la miscela di diesel combinato al 40% di “olio da cucina”. La conseguenza sarebbe una ridistribuzione dell’olio di palma: le esportazioni di olio di palma si ridurrebbero e ci sarebbe invece un maggior consumo a livello locale. L’obiettivo dell’Indonesia è proprio questo: da una parte aumentare il consumo interno di olio di palma dall’altra invece ridurre le importazioni di combustibili fossili. Inoltre, un maggior uso del biodiesel di palma porterebbe anche una riduzione delle emissioni. Quindi la spinta per un utilizzo maggiore dell’olio di palma è data dalla speranza di ridurre le emissioni, ridurre le importazioni di combustibili fossili e consumare le scorte di olio di palma in eccesso.

Come già anticipato, un risultato positivo ai test porterebbe anche a minori quantità di olio di palma da esportare e ciò sicuramente avrebbe un impatto sulle esportazioni del prodotto. Il piano del governo indonesiano potrebbe far salire i prezzi a livello globale, con conseguente aumento del prezzo dell’olio. Infatti, seguendo le regole di base dell’economia, se c’è una minor offerta a fronte di una maggiore domanda il prezzo del prodotto è destinato a salire. Questa non è la prima volta in cui l’Indonesia prova a diminuire le esportazioni dell’olio di palma. Già all’inizio dell’anno in corso il Paese aveva provato a vietare le esportazioni nel tentativo di ridurre l’inflazione locale. A seguito di questa politica i prezzi dell’olio di palma avevano raggiunto livelli record. Il paese ha cambiato strategia solo quando si è ritrovato con molte più scorte di olio di palma rispetto a quello che i cittadini potevano realisticamente consumare. Le esportazioni, quindi, sono ripartite e i prezzi hanno cominciato a scendere.

Per capire se ci sarà un’altra diminuzione delle esportazioni da parte dell’Indonesia, dobbiamo però aspettare la fine dei test e il possibile annuncio del governo di Giacarta sull’implementazione del requisito “B40”. I risultati definitivi arriveranno verso dicembre quando la sperimentazione sarà terminata. Secondo Dadan Kusdiana, direttore generale delle energie nuove e rinnovabili presso il Ministero dell’Energia e delle Risorse Minerarie, i risultati dei test su strada finora effettuati indicano che l’efficienza di utilizzo di questa miscela sono generalmente paragonabili alla miscela “B30”. Il ministero spera in risultati positivi così poi da formulare le specifiche tecniche per il “requisito B40”. Come dichiarato dal direttore generale Kusidiana, con il requisito B30, l’obiettivo del governo di Giacarta era quello di raggiungere un consumo annuale di 11 milioni di chilolitri. Ad ottobre 2022 già 8 chilolitri erano stati utilizzati. Se il requisito B40 verrà applicato, l’uso domestico di biodiesel di palma aumenterà di circa 3,4 milioni – 3,5 milioni di chilolitri. Quando il B40 sarà a regime, il governo prevede che il carburante a base di olio di palma che si prevede di utilizzare salirà a 15 milioni di chilolitri all’anno.

Il dialogo globale riparte dall’ASEAN

Cambogia, Indonesia e Thailandia i tre punti cardinali dei vertici multilaterali che hanno segnato il ritorno della diplomazia in coda a un anno a dir poco turbolento

La difficile ripresa dalla pandemia di Covid-19, l’aumento a ritmo record dell’inflazione, la guerra in Ucraina, le tensioni tra Stati Uniti e Cina. Insomma, c’erano tutti gli ingredienti per un enorme buco nell’acqua. E invece le due settimane di vertici multilaterali nel Sud-Est asiatico si sono chiuse con ottimi risultati. La Cambogia può tirare un sospiro di sollievo dopo aver ospitato il summit dell’ASEAN senza intoppi. Le preoccupazioni per l’economia globale, le minacce di recessione e la sicurezza alimentare ed energetica sono state messe in primo piano rispetto all’impasse del conflitto tra Russia e Ucraina e al problema del Myanmar. Non solo: i 10 membri dell’ASEAN sono riusciti a prendere alcune decisioni difficili su questioni di vecchia data. A partire dall’annuncio del blocco di aver accettato “in linea di principio” Timor Est come 11° membro del blocco, dopo oltre 10 anni di riflessione. Mentre per l’eventuale adesione a pieno titolo sarà necessaria una “road map basata su criteri”, Timor Est potrà partecipare a tutte le riunioni in qualità di membro osservatore, anche se senza diritti decisionali. I rapporti con Stati Uniti e India sono stati elevati a Partenariati Strategici Complessivi dell’ASEAN, diventando così il terzo e il quarto partner di dialogo a cui viene riconosciuto questo status, dopo la Cina e l’Australia. Phnom Penh ha dimostrato la sua abilità nel gestire la rivalità tra grandi potenze. Ha partecipato e co-presieduto due vertici con gli Stati Uniti, nonostante le scarse relazioni bilaterali, mostrando la capacità di gestire situazioni difficili. Stesso risultato ottenuto da Indonesia e Thailandia, che hanno ottenuto una dichiarazione congiunta finale con cui è stata condannata la guerra in Ucraina ma con un testo equilibrato accettato come “costruttivo” anche dalla controparte russa. Soprattutto, i summit di G20 e APEC sono serviti come trampolino di un dialogo ritrovato tra Washington e Pechino, con l’importante faccia a faccia tra Joe Biden e Xi Jinping di Bali. Incontro a cui ha fatto seguito un’intensa attività diplomatica dove Occidente, Asia e Pacifico sono sembrati volenterosi nel costruire ponti nelle relazioni. Per il Sud-Est asiatico e l’ASEAN una prova di maturità superata a pieni voti.

Malesia, Anwar Ibrahim è il nuovo premier

Dopo un’impasse di cinque giorni, il consiglio dei sultani ha scelto il nuovo primo ministro della Malesia. Una panoramica delle elezioni più complesse mai tenutesi nel Paese

La Malesia ha un nuovo premier. Ci sono voluti cinque giorni, ore di consultazioni e l’intervento del sultano prima di cristallizare (per ora) i risultati delle quindicesime elezioni generali. Giovedì 24 novembre l’attuale monarca Sultan Abdullah Sultan Ahmad Shah ha convocato un incontro speciale con le controparti dei nove stati malesi (qui una panoramica sul sistema di turnazione dei sultani) e ha preso la decisione finale. Normalmente, lo Yang di-Pertuan Agong svolge un ruolo di rappresentanza, ma può intervenire in situazioni di emergenza o incertezza, come accaduto negli ultimi giorni.

Il Primo Ministro della Malesia è ora Anwar Ibrahim, leader del Pakatan Harapan (PH), la coalizione che aveva trionfato alle elezioni del 2018 per poi venir affossata dai cambi di fazione di alcuni leader chiave. Oggi 75enne, è stato membro del partito storicamente al potere in Malesia, la United Malays National Organisation (UMNO). Nel 1997, con l’arrivo della peggiore crisi finanziaria della storia asiatica, si è scontrato con i vertici del partito per le sue idee riformiste, dando il via a una nuova generazione di attivisti per la democrazia con il movimento Reformasi. Espulso dal partito e imprigionato nel 1998 per sodomia e corruzione (capi d’accusa comuni a molte incarcerazioni politiche in Malesia) è tornato sulla scena politica nel 2004, dopo le dimissioni dello storico premier UMNO Mahathir Mohamad. Con il suo ingresso ai vertici del PH, Anwar avrebbe il merito, affermano gli osservatori, di aver creato la prima vera coalizione veramente multietnica della Malesia, capace tanto di ottenere il sostegno della maggioranza musulmana malese e che quello delle principali minoranze del paese (sinodiscendenti e indiani).

I risultati delle elezioni

Le elezioni del 19 novembre si erano concluse senza una maggioranza netta, sebbene la bilancia dei voti pendesse a favore del Pakatan Harapan (PH). Allo spoglio dei voti il PH aveva guadagnato 82 su 222 seggi alla Camera bassa, contro i 73 del Perikatan Nasional (PN) e i 30 del Barisan Nasional (BN). Ma per avere la fiducia il PH doveva conquistare il sostegno di almeno 112 parlamentari, tentativo avanzato anche da BN e PN. A cinque giorni dal voto, non era ancora chiaro chi avrebbe guidato il paese per i prossimi anni. Fin da subito, una parte dell’opinione pubblica malese si è schierata contro l’ostruzionismo di BN e PN: “È assurdo che il partito che ha vinto più seggi si trovi in qualche modo sconfitto. I malesi hanno votato, Anwar deve diventare premier”.

Le elezioni del 2022 hanno dimostrato quanto lo scenario politico stia cambiando: prima del 2018 non sono mai accadute delle crisi di governo di questa portata, né sono emerse tante frizioni tra i protagonisti della politica malese. I risultati delle quindicesime elezioni generali hanno però confermato il lento declino della fazione etnonazionalista United Malays National Organisation (UMNO). Un tempo il partito del governo malese per quasi sessant’anni, oggi è passato dall’altro lato della competizione politica dopo la peggiore sconfitta elettorale di sempre.

Nella riunione prevista prima dell’incontro con il sultano di martedì 22 novembre, infatti, l’ex premier ad interim dell’UMNO Ismail Sabri Yaakob (subentrato alla guida del governo dopo il rimpasto del 2020) aveva poi confermato di voler rimanere all’opposizione. Successivamente, lo stesso UMNO si dirà favorevole alla fiducia purché non venisse eletto premier il leader del PN, Muhyiddin Yassin.

Vincitori e vinti

Il vero vincitore di queste elezioni, affermano gli osservatori, sarebbe la coalizione del PN. Formatasi dopo la crisi del 2020, il gruppo ha saputo portarsi a casa una maggiore percentuale di voti in più del previsto con la sua forte connotazione identitaria musulmana e malese. A conquistare le anime dei suoi elettori, sottolineano gli analisti, anche la ricerca di una terza via al conflitto tra PH e BN.

Questa scelta non ha convinto tutti: c’è chi accusa il PN di aver così favorito l’ascesa del Malaysian Islamic Party (44 seggi), partito emblematico di quell’ala della politica malese favorevole alla totale implementazione della Sharia. Tanto che su Twitter un cittadino si sfoga: “Ora è evidente. I malesi sono razzisti e fanatici religiosi. Bentornati al passato. Sayonara al nostro futuro.”

Ora di cambiamenti?

Niente slancio significativo del voto dei giovani, come anticipato da alcuni analisti. Con l’abbassamento del diritto di voto a 18 anni l’elettorato ha accolto 1,4 milioni di nuovi elettori, e questo può aver influito sull’affossamento di alcuni leader storici e dello stesso UMNO. Tra i grandi sconfitti di queste elezioni, infatti, l’uomo che per quasi vent’anni ha guidato il governo malese, il novantasettenne Mahatir Mohamad. La sua coalizione, il Gerakan Tanah Air (GTA), non ha raggiunto il 20% delle preferenze, e l’ex premier ha perso la possibilità di ottenere un seggio nel Langkawi, nel nord del paese: è la prima volta che gli accade dal 1969. La reazione dei mercati è stata coerente con l’incertezza delle ore successive alla chiusura dei seggi: nella giornata di lunedì il ringgit è sceso di 0,8% contro il dollaro e i titoli in borsa hanno dimostrato le basse aspettative degli investitori sulla stabilità della classe politica malese.

L’impasse non ha tenuto a freno l’ironia su internet. Sui social media sono circolati meme con un annuncio di lavoro dal titolo: “Posizione aperta per il ruolo di decimo primo ministro della Malesia”. Altri utenti hanno parlato dell’imbarazzo di sentire il proprio destino in mano alla classe politica: “Sembra di stare tutti al tribunale per il divorzio, in attesa che qualcuno decida chi deve prenderci in custodia”.I social sono stati, però, anche motivo di preoccupazione. Piattaforme molto utilizzate come TikTok sono state allertate dalle autorità malesi per timore che spopolassero contenuti che incitassero alla violenza, o fake news.

I risultati del summit dell’APEC a Bangkok

Il vertice dei leader APEC 2022 a Bangkok si è chiuso con una dichiarazione congiunta, risultato inaspettato all’apertura degli incontri. Per la Thailandia è un successo. Il resoconto di quello che è accaduto dal punto di vista diplomatico (con Cina e Stati Uniti protagonisti) e i risultati del summit

Articolo di Francesco Mattogno

Si sono visti tempi migliori, questo è certo. Ma il vertice annuale della Cooperazione economica Asia-Pacifico (APEC), in scena a Bangkok dal 14 al 19 novembre, è filato meglio del previsto e si è chiuso con una dichiarazione congiunta dei leader delle 21 economie del gruppo. Risultato non banale: il fallimento annunciato è stato a lungo dietro l’angolo. Con un sospiro di sollievo finale, il primo ministro thailandese Prayut Chan-o-cha (a cui spettava la presidenza 2022 del forum economico) ha definito il summit “un successo”.

Venerdì, poche ore prima dell’apertura ufficiale delle riunioni tra i leader – che erano attesi negli ultimi due giorni di meeting APEC –, è arrivata in Thailandia la notizia del lancio di un missile balistico intercontinentale da parte della Corea del Nord. La vicepresidente degli Stati Uniti Kamala Harris, presente in supplenza del presidente Joe Biden, ha convocato una riunione di emergenza con i numeri uno di Giappone, Corea del Sud, Australia, Canada e Nuova Zelanda per “condannare fermamente” le azioni di Pyongyang.

Per tre giorni, Xi Jinping è stato protagonista indiscusso a Bangkok. Reduce da un vertice G20 carico di impegni e colloqui bilaterali, Xi ha confermato il proprio ritorno sulla scena diplomatica mondiale facendo altrettanto in Thailandia. “L’Asia-Pacifico non è il cortile di nessuno e non dovrebbe diventare un’arena per la competizione tra grandi potenze”, ha esordito con una lettera presentata alla riunione tra i rappresentanti dei paesi APEC. Ribadendo il no a una nuova “guerra fredda”, Xi ha rassicurato i partner sulla volontà della Cina nel perseguire la “cooperazione economica” e rigettato il “protezionismo” e la “politicizzazione delle relazioni commerciali”. Poi è passato ai faccia a faccia.

Il più significativo, anche se non il più importante in termini di contenuti, è stato quello (breve) di sabato con Kamala Harris. È servito per confermare quanto detto con Biden a Bali: Cina e USA devono “mantenere aperte le linee di comunicazione”. Più denso invece l’incontro con il premier giapponese Fumio Kishida. Al di là dei convenevoli diplomatici, durante il loro primo colloquio di persona i due leader hanno discusso di sicurezza e delle preoccupazioni di Tokyo riguardo il mar Cinese meridionale, le isole Senkaku (che la Cina rivendica come proprie chiamandole Diaoyu) e Taiwan. Se Kishida ha ribadito l’importanza di mantenere la “pace” sullo stretto, Xi ha confermato che la Cina non accetta “ingerenze esterne”.

Le stesse preoccupazioni dell’omologo giapponese le ha sollevate anche la premier della Nuova Zelanda, Jacinda Ardern, nel suo colloquio con il leader cinese. Sul tema Taiwan interessante lo scambio di battute che Xi Jinping ha avuto con il rappresentante di Taipei al vertice, il fondatore di TSMC Morris Chang. Una conversazione lampo ma “piacevole ed educata”, ha dichiarato Chang in conferenza stampa. Oltre che con il padrone di casa Prayut, Xi si è poi intrattenuto per parlare di “affari” con i primi ministri di Singapore (Lee Hsien Loong) e Papua Nuova Guinea (James Marape), e con i presidenti di Cile e Filippine, rispettivamente Gabriel Boric e Ferdinand Marcos Jr.

Le Filippine sono uno dei paesi con i quali la Cina ha delle contese aperte sul mar Cinese meridionale. Il segretario generale del Pcc ha chiesto a Marcos di “non schierarsi” e di non scegliere tra Washington e Pechino, ma su questo fronte Harris ha segnato un punto. A seguito del vertice APEC, la vice di Biden è partita per Manila. Lì ha messo in programma degli incontri con Marcos Jr. e la sua vicepresidente, Sara Duterte, prima di viaggiare martedì 22 nella provincia di Palawan, proprio a ridosso della zona di mar Cinese meridionale contesa con Pechino. 

Durante i due giorni a Bangkok, Harris ha cercato di sfidare Xi sia sul piano della diplomazia (tanti i bilaterali anche per lei, che ha parlato di semiconduttori con lo stesso Morris Chang) che della retorica. “Gli Stati Uniti sono un’orgogliosa potenza del Pacifico”, ha dichiarato al summit, “e hanno un impegno economico duraturo con la regione”. Insomma: siamo qui per restare. La numero due americana è stata accompagnata dalla rappresentante per il commercio Katherine Tai – che ha parlato con i ministri omologhi di Corea del Sud e Cina – e dal segretario di stato Antony Blinken.

Dopo aver ricevuto da Prayut il testimone della presidenza APEC (il prossimo vertice si terrà a San Francisco nel 2023), Harris ha impegnato gli USA nello sviluppo del nucleare thailandese. “I nostri investimenti sono trasparenti, rispettosi del clima” e non “indebitano” i paesi, ha detto con chiara allusione alla Cina.

Nonostante gli inviti alla cooperazione e alla liberalizzazione commerciale, il sottotesto sembra sempre essere quindi quello del confronto/scontro Washington-Pechino. Per il presidente francese Emmanuel Macron, ospite esterno del summit, evitare questo tipo di “scelta tra le due superpotenze” è fondamentale per garantire lo sviluppo economico della regione. Ed è anche quanto emerge dalla dichiarazione congiunta finale dei leader.

Non era il rafforzamento dei legami commerciali, però, il motivo per il quale si è rischiato di non produrre il documento conclusivo del vertice. A fare da ago della bilancia restavano i disaccordi sulla guerra in Ucraina, risolti con un compromesso in linea con quello già raggiunto al G20. Pur “riconoscendo che l’APEC non è il forum [adatto] per i problemi di sicurezza, i problemi di sicurezza possono avere conseguenze significative per l’economia globale”, si legge nella dichiarazione. Ecco quindi che si è deciso di inserire che “la maggior parte dei membri ha condannato fermamente la guerra in Ucraina”, fermo restando che esistono “altri punti di vista” sul conflitto.

Un equilibrismo linguistico che ha permesso alla Thailandia di portare a casa la dichiarazione, e dunque di far condividere anche dalle altre 20 economie del gruppo la propria agenda. I leader hanno approvato un piano di lavoro per un futuro accordo di libero scambio regionale – che si basi sui già esistenti RCEP e CPTPP – e per l’agevolazione dei viaggi transfrontalieri, resi più complicati dal covid. Soprattutto, con la dichiarazione i paesi APEC hanno di fatto adottato il progetto Bio-Circolare-Verde (BCG) di Bangkok, con il quale i membri si impegnano a investire in attività economiche che tutelano la sostenibilità ambientale. Quelle sull’effettiva sostenibilità dei progetti APEC e l’integrazione economica regionale saranno tutte questioni delegate al futuro. Si è visto qualche segno di disgelo, ma le divisioni tra Cina e USA restano, sul commercio e sulla guerra in Ucraina: in generale, sul destino dell’attuale sistema internazionale. Probabilmente, solo l’assenza di un profilo veramente di peso a rappresentare la Russia a Bangkok (c’era il vice primo ministro Andrei Belousov) ha permesso di evitare il fallimento del vertice. Di questi tempi, un successo.

Il successo del G20 indonesiano

Il summit di Bali si è concluso con una dichiarazione congiunta in cui si esprime il disagio di fronte alla guerra in Ucraina. E ha mostrato i primi segnali di disgelo tra Occidente e Cina

Ora lo si può dire. Il summit del G20 di Bali è stato un successo. La presidenza di turno indonesiana di turno ha dovuto fare i conti con l’anno più complicato dei tempi recenti. Con il mondo ancora alle prese con la coda della pandemia di Covid-19, la guerra in Ucraina ha ulteriormente complicato i piani delle economie mondiali. Non solo, ha anche esacerbato il clima tra Russia e Occidente, ma anche tra Stati Uniti e Cina. Con queste premesse, il rischio che il vertice si rivelasse un flop era alto. E invece non è stato così. Vero che la discussione è stata ampiamente dominata dal conflitto, ma è altrettanto vero che tutti i presenti si sono dimostrati pronti e disponibili al dialogo. Dopo il preambolo del bilaterale tra Joe Biden e Xi Jinping, è un po’ tutto venuto a cascata, col Presidente cinese che ha incontrato tutti i vari leader europei. La presidenza di turno indonesiana ha ottenuto la firma di una dichiarazione congiunta in cui i leader delle principali economie auspicano cooperazione per affrontare le varie sfide poste dalla pandemia di Covid-19 e aggravate dalla guerra in Ucraina, impegnandosi a fornire il necessario sostegno ai Paesi più vulnerabili del mondo. Giacarta ha celebrato tre “risultati concreti” del vertice. Il primo: la creazione di un fondo sanitario, che aiuterà i Paesi a prepararsi a future pandemie. Il fondo ha ricevuto promesse per un totale di 1,5 miliardi di dollari dai Paesi membri e dalle organizzazioni internazionali. Il secondo, salutato con favore da tutto il blocco ASEAN: la creazione di un fondo fiduciario per aiutare i Paesi a basso reddito, i piccoli Stati e i Paesi a medio reddito vulnerabili ad affrontare i problemi macroeconomici, compresi quelli causati dalla pandemia e dal cambiamento climatico. Il terzo, più interno: l’impegno di 20 miliardi di dollari di finanziamenti pubblici e privati da parte di Stati Uniti e Giappone nei prossimi 5 anni per aiutare l’Indonesia ad accelerare la transizione verso le energie rinnovabili. La dichiarazione finale segna un passo importante di cooperazione di tutto il G20, comprese Cina e India, e apre forse uno spiraglio di dialogo con la Russia, che ha accolto favorevolmente “l’equilibrio” delle conclusioni del summit. Il Sud-Est asiatico si conferma come una piattaforma irrinunciabile per far avanzare la diplomazia globale.

Elezioni in Malesia, decisivo il voto dei giovani

Per circa sei milioni di persone, in Malesia, le elezioni anticipate del 19 novembre rappresentano la prima volta alle urne. Una riforma costituzionale del 2019 ha abbassato l’età del voto dai 21 ai 18 anni. Ma un elettorato più giovane non si traduce automaticamente in visioni progressiste

Sei milioni tra nuovi elettori ed elettrici saranno chiamati alle urne alle prossime elezioni politiche del 19 novembre in Malesia. Grazie a una riforma costituzionale del 2019, infatti, il parlamento malese ha abbassato l’età del voto da 21 a 18 anni, oltre ad aver inserito un sistema di registrazione automatizzato che estende ulteriormente il bacino elettorale. Poiché i movimenti giovanili asiatici sono spesso iconicamente associati alla lotta contro l’autoritarismo, si tende a considerare i giovani dei “liberali naturali” e a dare per scontato che opteranno per politiche più progressiste rispetto ai loro concittadini anziani. Ma le preferenze dell’elettorato più giovane in Malesia sono per tutti un’incognita.

Le prossime elezioni politiche avrebbero dovuto tenersi nel 2023. Il Primo Ministro Ismail Sabri Yaakob, del partito conservatore United Malays National Organisation (UMNO), ha indetto invece elezioni anticipate perché ritiene che le sfide dell’economia malese rendano incerto il futuro della coalizione di cui è a capo, la Barisal Nasional (Fronte nazionale). Il conflitto russo-ucraino, il rallentamento dell’economia cinese, le irrisolte controversie sullo scandalo 1MDB, costituiscono la tempesta perfetta che torna a far tremare i consensi del Fronte nazionale. 

Come sottolinea il Guardian, nessun partito in Malesia è mai riuscito a governare da solo. Alle prossime elezioni generali, le principali coalizioni saranno il Barisan Nasional, la Perikatan Nasional e la Pakatan Harapan (Alleanza della speranza), che ha governato dal 2018 fino alla crisi politica del 2020. Proprio l’Alleanza, con una riforma costituzionale del 2019, ha ampliato il bacino elettorale nazionale abbassando l’età del voto da 21 a 18 anni. L’emendamento aveva anche inserito un sistema automatizzato di registrazione che snellisce anche il sistema burocratico malese per la registrazione dei nuovi aventi diritto al voto. Così, l’elettorato nazionale è passato dai 14,9 milioni di persone del 2018 ai 21 milioni alle prossime elezioni generali del 19 novembre. Movimenti sociali come Undi18 hanno lottato per l’approvazione della legge, a riprova del desiderio dei giovani e delle giovani della Malesia di partecipare al processo decisionale della democrazia parlamentare asiatica. La Malaysian United Democratic Alliance (MUDA) vorrebbe porsi come catalizzatore delle istanze di questa fascia demografica. Si pensi che le persone che hanno un’età compresa tra i 15 e i 39 anni ammontano a circa il 45% della popolazione, ma si tratta un campione ancora poco rappresentato nella politica malese. Circa il 70% dei legislatori ha più di 50 anni. 

Ma quali temi smuoveranno gli animi del giovane elettorato? Il professor James Chin, direttore dell’Asia Institute dell’Università della Tasmania, ha affermato che non è detto che il MUDA riesca a raccogliere tutte le istanze dei nuovi aventi diritto al voto. Il leader del movimento, Syed Saddiq, ha dichiarato che il movimento si concentrerà su temi come il costo della vita, l’istruzione, l’accesso ai trasporti pubblici e le opportunità di lavoro. Ma in realtà “non sappiamo (…) come votano i giovani”, ha detto Chin al Diplomat, “perché non ci sono precedenti di voto”. Non è detto che in Malesia l’elettorato giovane sia necessariamente orientato verso politiche progressiste, per una serie di ragioni. Primo, pur garantendo una maggiore partecipazione democratica, la legge per l’abbassamento dell’età di voto aggrava i problemi di malapportionment delle circoscrizioni elettorali malesi. Questa disomogeneità smorza l’impatto dei nuovi arrivati sulla partecipazione politica, poiché la maggior parte dei nuovi elettori tra i 18 e i 20 anni si trova nelle aree urbane. La legge elettorale, però, è incentrata sul principio maggioritario del “first past the post”. Non c’è alcuna corrispondenza proporzionale tra l’assegnazione dei seggi e la popolazione, quindi l’alta concentrazione di persone che vive nelle circoscrizioni urbane – giovani compresi – è sottorappresentata. In secondo luogo, i giovani non sono necessariamente più orientati verso la “nuova politica” multirazziale e inclusiva auspicata dal MUDA, perché i tassi di natalità variano a seconda della composizione demografica. I nuovi giovani elettori appartengono perlopiù ai gruppi malesi e indigeni, che sostengono spesso le politiche ispirate al nazionalismo identitario del Fronte nazionale.

La Malesia al voto

I malesi si preparano a votare in quelle che potrebbero essere elezioni decisive per far ripartire il Paese. Ma l’instabilità è dietro l’angolo

È tutto pronto per il voto del 19 novembre, quando oltre 21 milioni di malesi potranno scegliere i loro rappresentanti. Si tratta della quindicesima elezione generale nella storia dell’ex colonia britannica e forse una delle più tormentate di questi anni. Di certo, affermano gli analisti, quella dai risultati più difficili da prevedere. Perché nella politica malese sembrava andare tutto liscio, fino al 2018. La United Malays National Organisation (UMNO), il partito di maggioranza, dominava la scena politica con rarissimi cambi di leadership mentre non si risolvevano le annose questioni della rappresentanza interetnica (solo il 50% dei cittadini è malese, mentre la restante parte è costituita da sinodiscendenti, indiani e altri gruppi – di cui alcuni considerati come indigeni). Poi sono arrivati gli scandali finanziari (il più eclatante è stato quello legato al fondo statale 1MDB) e le crisi di governo.

Il nuovo panorama politico

Dopo quasi sessant’anni di stabilità la Malesia ha visto cambiare tre governi nel giro di quattro anni, e due primi ministri in meno di 20 mesi. Il vaso di pandora della politica malesiana si è aperto del tutto nel 2020, quando alcuni politici di spicco hanno cambiato coalizione, facendo crollare la maggioranza. L’instabilità è proseguita con nuove elezioni locali indette negli stati di Malacca, Sarawak and Johor, mentre in ottobre è stata annunciata la caduta del governo e indette le elezioni generali. A questo giro competono trenta partiti, di cui oltre la metà accorpati in quattro delle coalizioni esistenti. Per la prima volta la distribuzione delle preferenze potrebbe uscire dal binomio della coalizione che raccoglie alcuni storici partiti di maggioranza (Barisan Nasional, BN) contro l’opposizione che aveva vinto le elezioni del 2018 (Pakatan Harapan, PH).

Le elezioni del 2022 saranno significative per il nuovo contesto politico che si sta formando nel paese. La crisi ha fatto emergere i limiti del sistema elettorale malese, che vanno dal peso delle sue 222 circoscrizioni elettorali alla parità di genere. Le circoscrizioni, per esempio, sono cambiate nel tempo per diversi motivi, come favorire la maggioranza etnica o mantenere lo status quo. I cambiamenti avvenuti all’alba delle elezioni del 2018 hanno poi ridefinito i confini nel nome della “rappresentatività su base locale” e redistribuendo il numero di elettori registrati in gruppi numericamente simili. Dove non arriva il gerrymandering – la pratica di ridisegnare la distribuzione dei seggi per ottenere un vantaggio politico – permangono le accuse di brogli elettorali: capita che in liste diverse risultino iscritte persone con gli stessi dati anagrafici, o compaiano nomi di deceduti e persone senza cittadinanza. 

Memori di quanto accaduto negli ultimi cinque anni, i parlamentari hanno approvato una legge contro il “party-hopping” che è entrata in vigore lo scorso 5 ottobre. La normativa vieta ai politici di cambiare partito una volta che questo è stato eletto dai cittadini – un tentativo di impedire che si ripeta una crisi di governo premeditata da fazioni intenzionate a smantellare la maggioranza.

Il voto dei giovani

In questo contesto si aggiunge una novità epocale: l’abbassamento dell’età degli aventi diritto al voto da 21 a 18 anni. Con questa manovra, entrata in vigore alla fine del 2021, si sono aggiunti circa 6,2 milioni nuovi elettori. Con questa manovra gli under 40 sono diventati il blocco elettorale più importante, quello che determinerà l’andamento delle elezioni. Un elemento che non è passato inosservato ai partiti, che hanno cercato di introdurre figure più giovani e hanno fatto grandi promesse sui temi del lavoro e della stabilità economica. Il tutto tra tentativi di comunicazione a cavallo tra i tradizionali comizi e l’utilizzo delle piattaforme social (soprattutto Facebook e TikTok).

Ciononostante, “c’è molta incertezza”, ha raccontato al The Guardian William Case, professore di storia e relazioni internazionali della Nottingham University a Kuala Lumpur. “Questo massiccio afflusso di giovani aumenterà le dimensioni dell’elettorato ma non cambierà in modo significativo i risultati”. Le basse aspettative dei più giovani sembrano coerenti con quella che viene percepita come una più generale disillusione dei cittadini malesi verso la politica. “[…] In assenza di politiche valide e sostenibili per tutti i problemi che dobbiamo affrontare collettivamente, sarà la mia generazione ad affrontare le conseguenze dell’inazione e della politica identitaria. Tuttavia, non sono certo che questi temi siano prioritari per le persone per cui dovrei votare”, commenta il ventenne Rifqi Faisal.

A giustificare questa narrazione, l’idea che l’inespugnabile posizione dell’UMNO ai vertici del governo abbia sempre reso le elezioni, di fatto, un vuoto esercizio del diritto di voto. Ciononostante, dalle tredicesime elezioni generali (convenzionalmente General Elections 13, GE13) l’affluenza alle urne è aumentata significativamente, raggiungendo l’82,32% nel 2018. Ma la bassa affluenza alle elezioni a Johor (54%), per esempio, sta smorzando le aspettative.

Non meno importanti – al punto da aver spesso polarizzato e monopolizzato l’opinione pubblica, le questioni etniche e religiose. In un sondaggio effettuato tra i cittadini sinodiscendenti emerge una forte attenzione verso i candidati che, 9 su 10, sostengono la necessità di votare la coalizione più vicine all’ideale di una Malesia multietnica.  

I temi

Lo sfasamento tra la politica e la cittadinanza non è solo una percezione dei giovani elettori. Anche i politici quest’anno devono fare i conti con una pletora di problematiche a cui dare priorità. Per diversi anni il tema della corruzione sembrava permeare il discorso politico, con i diversi partiti pronti ad accusarsi a vicenda su veri o presunti coinvolgimenti negli scandali finanziari emersi negli ultimi anni (come quello sopracitato dello 1MDB). Ma anche questa narrazione sembra vacillare, come riporta il sito di informazione SAYS citando i progressi fatti dalla Malesia nel Corruption Perception Index: il fatto che gli ultimi scandali siano emersi, e i presunti colpevoli individuati e sanzionati avrebbe ridotto la presenza di questo tema nell’opinione pubblica.

La maggior parte degli analisti sembra convergere verso una macro-tematica comune ai paesi della regione in questo periodo storico: l’economia. Il crescente costo della vita, i prezzi dell’immobiliare, il rafforzamento del welfare sono solo alcuni dei problemi che stanno emergendo nella Malesia post-pandemica. Anche i giovani malesi devono fare i conti con un mercato del lavoro sempre meno allineato alle loro competenze e dove i salari non sono più sostenibili. 

Tuttavia i dati economici del 2022, come evidenzia Bloomberg, appaiono quasi contraddittori: la Malesia ha registrato una crescita del PIL tra le più importanti della regione (+14,2% nel terzo trimestre). Anche i tassi di disoccupazione sembrano tornati ai livelli pre-pandemici, ma con interessanti differenze tra etnie (ci sono più disoccupati tra i malesi, 4,2%, che tra i sinodiscendenti, 2,7%) e stati (nel Sabah, a nord, il tasso di disoccupazione è dell’8,2%, mentre nel confinante Sarawak del 3%). L’inflazione è raddoppiata rispetto all’inizio del 2022, mentre durante l’estate si è registrato un picco record dei prezzi di carburante e beni alimentari. A determinare questo trend, tra i tanti fattori, anche un calo del tasso di cambio del ringgit che ha favorito le esportazioni ma alzato i costi delle importazioni. Ancora da vedere i risultati dell’ultima manovra del governo uscente, che a giugno avrebbe destinato almeno 17 miliardi di dollari a un piano di aiuti per cittadini e imprese – cifra record nella storia del paese.

Il fattore clima

Le dimissioni del governo a ottobre hanno sollevato una serie di polemiche, prima tra tutti la questione climatica. Decidere di indire le elezioni in autunno in Malesia significa fare i conti con la stagione dei monsoni, un fenomeno che sta diventando sempre meno controllabile a causa dei cambiamenti climatici. Molti comizi sono stati annullati a causa delle forti piogge e raffiche di vento, mentre si teme un crollo dell’affluenza alle urne causato da eventuali alluvioni. Per affrontare il problema è nata una rete tra le associazioni della società civile, Undibanjir (da undi, voto e banjir, inondazioni) con lo scopo di organizzare le squadre di soccorso e facilitare i trasferimenti degli elettori che dovranno raggiungere le proprie circoscrizioni.

Sul tema climatico anche i giovani malesi sembrano più attenti delle generazioni passate. Il 92% di loro afferma che il cambiamento climatico sia una crisi che li riguarda da vicino, come raccontano i risultati della National Youth Climate Change Survey di UNICEF e UNDP. Il cambiamento climatico è entrato anche nel dibattito politico di queste elezioni, e potrebbe attirare una percentuale dei voti verso i nomi più schierati a favore della causa ambientale, come sottolinea un approfondimento del Malaymail.

Non solo G20, grande attesa anche per il summit APEC

A Bangkok si ritroveranno le 21 economie dell’Asia-Pacifico venerdì e sabato per un altro appuntamento cruciale a livello multilaterale

Articolo di Francesco Mattogno

Sud-Est asiatico: secondo round. Terminato il summit ASEAN a Phnom Penh, il mese di appuntamenti diplomatici nella regione entra nel vivo. Ad aprire e chiudere la seconda settimana di vertici sarà il meeting dei leader della Cooperazione economica Asia-Pacifico (APEC) che si terrà a Bangkok, in Thailandia, dal 14 al 19 novembre. Una serie di incontri che per due giorni coincideranno con il G20 in Indonesia (15-16 novembre).

In una Bangkok blindata, i grandi del mondo proveranno a lasciare da parte la politica per concentrarsi su commercio e investimenti “liberi e aperti”. Ovvero il collante che tiene insieme le 21 economie dell’APEC, di cui fanno parte, tra le altre, quelle di Cina, Stati Uniti e Russia. Tutti i membri aggregati tra loro valgono circa il 60% del PIL e il 50% del commercio mondiale.

Che la politica resti fuori dal vertice, però, non è realistico. I bei propositi per l’integrazione e la cooperazione economica regionale reciprocamente vantaggiosa (ai quali si deve la nascita dell’APEC nel 1989) scricchiolano ormai da tempo, incrinati principalmente dalle minacce di decoupling tra Washington e Pechino. La guerra in Ucraina rischia solo di dargli il colpo di grazia. A risentirne è stata soprattutto la presidenza 2022 della Thailandia, partita all’insegna di slogan d’apertura e connessione su un modello economico Bio-Circolare-Verde (BCG), e finita col ridimensionarsi inevitabilmente già dal 24 febbraio scorso. Quando Mosca ha invaso Kiev.

Nel vertice APEC di maggio tra ministri del commercio, i rappresentanti di Stati Uniti, Giappone, Australia, Canada e Nuova Zelanda hanno abbandonato la sala per protesta una volta che ha preso la parola il ministro dell’economia russo Maxim Reshetnikov. L’incontro si è concluso senza una dichiarazione congiunta e la stessa sorte è toccata alla riunione tra ministri delle finanze di ottobre. Al termine dei vertici i 5 paesi – a cui si sono aggiunti Corea del Sud e Cile – hanno espresso “gravi preoccupazioni per la guerra in Ucraina”.

Il linguaggio politico, inusuale per un vertice economico, ha provocato un certo disagio interno al gruppo. Il primo ministro thailandese Prayut Chan-o-cha ha parlato di “giuntura critica” per l’APEC, non a torto. Ai focus su catena di approvvigionamento, ripresa dei viaggi interregionali post covid e sicurezza alimentare su cui voleva puntare Bangkok, si sono aggiunti, e in cima alla lista, i pressanti temi dell’inflazione e della sicurezza energetica.

Tanto che tra gli invitati esterni al vertice (oltre a Macron, per esempio) figura anche Mohammad bin Salman, principe ereditario dell’Arabia Saudita. La sua presenza rende probabile il rafforzamento dei legami petroliferi tra Sud-Est asiatico e Riyadh, con buona pace di BCG e sostenibilità ambientale. Per quanto riguarda gli ospiti principali, invece, 7 delle 21 economie APEC non saranno rappresentate dai propri leader. E due sono le assenze particolarmente vistose.

Sia il presidente americano Joe Biden che quello russo, Vladimir Putin, hanno scelto di saltare il vertice. Ma se Putin è impegnato in una guerra che non sta andando come si sarebbe immaginato, Biden volerà dal G20 di Bali direttamente alla Casa Bianca per il matrimonio di sua nipote. Una spiegazione che ha messo un po’ in imbarazzo sia la Thailandia che gli stessi Stati Uniti, che manderanno al suo posto la vicepresidente Kamala Harris. Mancheranno anche i numeri uno di Messico, Malesia, Corea del Sud e Taiwan (per cui presenzierà il fondatore della TSMC, Morris Chang). Taipei, così come Hong Kong, può fare parte dell’APEC senza irritare Pechino proprio perché il gruppo racchiude “economie” e non “stati”.

Del vuoto lasciato da Biden è pronto ad approfittarne il presidente cinese Xi Jinping, in visita in Thailandia dal 17 al 19 novembre. L’assenza di un contrappeso americano gli garantirà un’accoglienza esclusiva. Secondo il Bangkok Post, Prayut ha cambiato il programma dell’evento solo per fissare tra i due una cena ufficiale e permettere a Xi di partecipare all’udienza reale dei leader. Dal punto di vista pratico, probabilmente il segretario generale del Pcc rassicurerà i partner commerciali sul fatto che la Repubblica popolare è ancora aperta agli affari – come ribadito durante un forum a Pechino il 2 novembre -, provando a scacciare le preoccupazioni dovute al basso tasso di crescita dell’economia cinese. Possibile anche un faccia a faccia con il primo ministro giapponese Fumio Kishida.

Ci si chiede allora quanto potrà incidere Kamala Harris. Alla volontà di “approfondire i legami con i paesi APEC”, espressa da Biden al summit 2021, sono seguiti il lancio a maggio dell’iniziativa economica per l’Indo-Pacifico (IPEF, criticata per la sua vaghezza) e l’annuncio che saranno gli USA a detenere la presidenza APEC 2023. A ottobre il vice-segretario del tesoro americano, Wally Adeyemo, ha incontrato alcuni dei Ministri delle finanze del gruppo allo scopo di dimostrare che l’area rappresenta davvero una “priorità assoluta” per Washington. Ma sono sforzi che rischiano di rivelarsi poco efficaci. L’assenza dal vertice del presidente, da sola, potrebbe bastare per ritenere l’impegno economico americano nell’area ancora insufficiente.

Per Bangkok, colpita anche da una serie di turbolenze politiche interne legate a Prayut (speculazioni dicono che alla fine del summit possa essere sciolto il parlamento), bilanciare le differenze e allentare le tensioni non sarà semplice. L’obiettivo minimo è che non si ripetano i fatti di maggio e che si arrivi a una dichiarazione finale congiunta: dunque, evitare il fallimento del vertice. Poi la Thailandia passerà la palla dell’APEC agli Stati Uniti, calando il sipario sul mese che ha messo il Sud-Est asiatico al centro delle relazioni internazionali.

Concorso per un premio di laurea su argomenti legati all’ASEAN

Bando di concorso per l’attribuzione di un (1) premio di laurea su argomento legato all’Associazione delle Nazioni del Sud-Est Asiatico (ASEAN) ed ai suoi Paesi membri.

L’Associazione Italia-ASEAN, nell’ambito delle sue iniziative atte a favorire lo sviluppo ed approfondimento dei rapporti e delle relazioni tra l’Italia e i Paesi facenti parte dell’ASEAN nei settori economici, politici, culturali, scientifici ed artistici, promuove e finanzia l’istituzione del primo premio di laurea su tematiche legate all’Associazione delle Nazioni del Sud-est Asiatico (ASEAN) ed ai suoi paesi membri.

Requisiti per la partecipazione al concorso:

Sono ammessi a partecipare al concorso laureati dei corsi di laurea magistrale di istituzioni universitarie italiane, statali e non statali legalmente riconosciute, che nell’anno accademico 2021-2022 abbiano discusso una tesi di laurea su tematiche economiche, giuridiche, sociali o culturali relative all’ASEAN o ai suoi Paesi membri, conseguendo una votazione non inferiore a 105/110.

I candidati dovranno aver conseguito il titolo di studio entro il 31 maggio del 2023. La tesi presentata dovrà essere un lavoro originale inedito. Non sono ammesse tesi che siano già state pubblicate integralmente o parzialmente in forma cartacea o digitale.

Termini e modalità di presentazione della domanda:

La domanda di partecipazione dovrà essere inviata entro e non oltre il 31 maggio 2023 all’indirizzo di posta elettronica info@itasean.org indicando nell’oggetto “premio di laurea sui paesi ASEAN”.

I partecipanti dovranno allegare alla domanda di partecipazione i seguenti documenti:

• Copia della tesi di laurea magistrale;

• Copia del certificato di laurea magistrale;

• Sintesi del lavoro (max 2 cartelle);

• Autocertificazione con la quale si dichiara che la documentazione presentata in copia è conforme all’originale;

• Curriculum vitae;

• Autorizzazione per il trattamento dei dati personali;

• Copia di un documento di identità personale.

Importo del premio:

L’Associazione Italia-ASEAN per il premio di laurea oggetto di questo bando prevede l’assegnazione di una somma pari ad euro 5000 (cinquemila) per una tesi di laurea magistrale.

Commissione di valutazione:

L’attribuzione del premio avverrà sulla base della valutazione di una Commissione appositamente designata dall’Associazione, con membri scelti tra i componenti del Comitato Scientifico della Associazione Italia-ASEAN che, dopo aver verificato la conformità della domanda ai requisiti e termini previsti, procederà alla valutazione delle domande ammesse.

Il giudizio della Commissione è inappellabile.

Conferimento del premio:

L’Associazione Italia-ASEAN, vista la valutazione della Commissione, provvederà a designare il vincitore.

Con la comunicazione del conferimento del premio, l’Associazione Italia-ASEAN provvederà a comunicare al vincitore luogo e data per la cerimonia di premiazione.

Il premio verrà accreditato attraverso bonifico bancario sul conto corrente del vincitore.

ASEAN centro della diplomazia globale

Dal summit del blocco in Cambogia ai vertici del G20 in Indonesia e APEC in Thailandia. Con sullo sfondo le elezioni in Malesia. Agenda fittissima col Sud-Est asiatico al centro

Editoriale a cura di Alessio Piazza

Mai si avrà dimostrazione più evidente come in queste settimane di come l’ASEAN e la regione del Sud-Est asiatico siano ormai al centro del mondo.  Un novembre in cui non solo i leader regionali ma quelli di tutto il mondo si danno appuntamento nell’area. Tra Phnom Penh, Giacarta e Bangkok una rapida e fondamentale successione di appuntamenti e vertici che possono delineare scenari diplomatici di importanza globale. In un momento in cui il mondo guarda con apprensione alla guerra in Ucraina e alle tensioni in Asia orientale, nonché all’aumento dell’inflazione e all’inasprirsi della competizione tra potenze, il Sud-Est asiatico può diventare la piattaforma da cui ripartire con prospettive più confortanti per il futuro. Il fitto programma di eventi comprende gli incontri in seno all’ASEAN, tra cui il vertice dell’Asia orientale in programma dall’8 al 13 novembre a Phnom Penh, con la Cambogia che detiene una Presidenza di turno e che nel 2023 passerà all’Indonesia. Proprio in Indonesia, per l’esattezza a Bali, si svolge il summit del G20 del 15 e 16 novembre. Solo due giorni dopo apre invece i battenti il forum della Cooperazione Economica Asia-Pacifico (APEC), in programma a Bangkok il 18 e 19 novembre. Questi incontri attireranno i leader di Stati Uniti, Cina, Giappone, Russia, India e tanti altri Paesi importanti a livello regionale e globale. Italia compresa. È raro che nello stesso mese siano in programma così tanti consessi internazionali di questo livello nella stessa regione. C’è grande attesa per il possibile bilaterale tra Joe Biden e Xi Jinping a margine del G20. Mentre gli incontri del G20 e dell’APEC si concentreranno sulla cooperazione economica, i vertici dell’ASEAN si occuperanno anche di politica e sicurezza, ovvero dell’Ucraina e delle tensioni nel Mar Cinese Orientale e Mar Cinese Meridionale. Il Presidente indonesiano Joko Widodo mira a raggiungere risultati anche sul fronte dell’impennata dei prezzi dell’energia e dei generi alimentari, che stanno ostacolando la ripresa economica globale dopo lo stop causato dalla pandemia di Covid-19. Parola chiave: multilateralismo. ASEAN e Sud-Est asiatico possono diventare il motore propulsore di una ripartenza non solo economica ma anche diplomatica.

Il summit a Phnom Penh apre il mese del Sud-Est

Fino al 13 novembre in Cambogia va in scena il vertice annuale dell’ASEAN. È il primo dei tre grandi appuntamenti di novembre, insieme ad APEC e G20, che vedranno l’area al centro della scena politica internazionale. Tra divisioni e grandi temi, ecco l’agenda del summit del blocco regionale

Articolo di Francesco Mattogno

Un mese al centro della diplomazia mondiale. Sede di tre grandi eventi internazionali, per buona parte di novembre il Sud-Est asiatico è una tappa obbligata nelle agende dei leader delle grandi potenze. Il primo appuntamento è il 40° e 41° vertice annuale dell’Associazione del Sud-Est Asiatico (ASEAN) che si svolge a Phnom Penh, capitale della Cambogia, fino al 13 novembre. Il termine “vertice” è riduttivo. Sono sei giorni di incontri bilaterali e multilaterali senza sosta, dal summit sul Business e gli Investimenti (ABIS) al 25° vertice ASEAN-Cina e 10° ASEAN-USA. Tanti anche gli ospiti che hanno scelto di unirsi ai capi di stato o di governo dei Paesi membri dell’Associazione, tra cui figurano anche alti funzionari internazionali, come il segretario generale dell’ONU Antonio Guterres e il presidente del Consiglio Europeo Charles Michel.

Per quanto riguarda i paesi ASEAN, non è presente Min Aung Hlaing. È il secondo anno consecutivo che il generale e primo ministro golpista del Myanmar non è stato invitato al vertice, conseguenza della guerra civile scatenata a seguito del colpo di stato militare del 1° febbraio 2021. Per quanto riguarda la Cina, niente trasferta in Cambogia per Xi Jinping: al suo posto il premier cinese Li Keqiang. Li è arrivato in anticipo per incontrare sia il re cambogiano Norodom Sihamoni che il primo ministro Hun Sen. Joe Biden dovrebbe invece presenziare agli incontri del 12 e 13 novembre. Si tratta del primo viaggio in Cambogia di un Presidente statunitense dal 2012, quando Barack Obama visitò il Paese proprio in occasione dell’ultimo summit ASEAN presieduto da Hun Sen prima di questo.  

Le non-decisioni sul Myanmar hanno evidenziato le lacune nel processo decisionale dell’ASEAN e riacceso il dibattito sul superamento del “principio del consenso”, per il quale ogni stato membro deve essere d’accordo al momento di una risoluzione. Tutto materiale per il vertice di Phnom Penh, nel quale temi come ambiente, energia e ripresa post-covid faranno probabilmente solo da cornice alle questioni su politica e sicurezza. Tanto che lo stesso Hun Sen aveva cercato, senza successo, di rendere il vertice la sede di colloqui di pace tra Russia e Ucraina. 

E sempre la politica è al centro della presenza americana e cinese al summit. La Cina ha strizzato l’occhio all’ASEAN concludendo, a pochi giorni dal vertice, una serie di accordi con Vietnam e Singapore (il segretario generale del Partito comunista vietnamita, Nguyen Phu Trong, è stato il primo a incontrare Xi Jinping dopo il 20° Congresso). Il 26 ottobre il Ministro degli Esteri cinese Wang Yi ha inoltre ricevuto i diplomatici ASEAN a Pechino, dicendosi speranzoso che l’Associazione possa mantenersi “indipendente” anche in futuro.

A sua volta Biden aveva invitato i leader del blocco a Washington lo scorso maggio, inaugurando una “nuova era” delle relazioni tra Stati Uniti e ASEAN. Per questo il Presidente statunitense potrebbe concentrarsi sul sottolineare i vantaggi della cooperazione in ambito di sviluppo economico, digitale e ambientale, cercando di mostrarsi come un’alternativa alla Repubblica Popolare. USA e ASEAN potrebbero infatti stabilire un Partenariato Strategico Globale, lo stesso firmato al summit dello scorso anno tra l’Associazione e il suo principale partner commerciale: la Cina. È un po’ la condizione di normalità del Sud-Est asiatico, tirato da una parte e dall’altra. Lo scopo della regione è quello di rimanere in equilibrio tra le grandi potenze, proprio mentre tutte bussano alla sua porta.

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