Global Lens

Il vertice commemorativo UE-ASEAN

I leader dei due blocchi si danno appuntamento a Bruxelles per celebrare la partnership e trovare nuovi spazi di cooperazione

Articolo di Chiara Suprani

Il 14 dicembre i capi di Stato e leader nazionali dei Paesi del blocco ASEAN e dell’Unione Europea si incontreranno a Bruxelles per commemorare il 45esimo anniversario della formalizzazione della partnership bilaterale, elevata a “partnership strategica” come ha ricordato l’Alto Rappresentante per gli Affari Esteri e la Politica di Sicurezza Josep Borell in un discorso del 4 agosto. Tutti i capi di Stato saranno presenti, ad esclusione dei leader birmani, mentre si attende ancora la risposta del neo-premier malese. A fronte degli eventi che hanno caratterizzato gli ultimi anni l’occasione, preceduta da due incontri il 13 dicembre, quello del Summit della Gioventù e il decimo Business summit EU-ASEAN, è di grande rilevanza. Dato il clima internazionale, la sicurezza sarà uno dei temi cardine dell’evento. Bruxelles potrebbe cercare di ottenere una posizione più chiara da parte dei Paesi ASEAN sull’invasione russa dell’Ucraina, al fine di ricevere maggiori garanzie sul rispetto delle sanzioni imposte dall’UE alla Russia. L’evento, co-presieduto dalla Cambogia che ha la presidenza di turno ASEAN fino a fine anno, affronterà snodi chiave della relazione bilaterale tra i Paesi ASEAN e quelli europei come commercio e sostenibilità, energia rinnovabile, investimenti e connettività. Alcuni di questi snodi chiave sono già stati preceduti da accordi bilaterali tra Paesi membri come la “Partnership per la Sostenibilità” tra Svezia ed Indonesia. Giacarta, alla quale spetterà la presidenza ASEAN per il 2023,  ha attraversato 11 round di negoziati per la stesura di un accordo di libero scambio con l’UE, che ancora non è stato raggiunto. Secondo The Diplomat, l’UE dovrebbe puntare a raggiungere un compromesso negoziale per la firma indonesiana del trattato, un compromesso simile a quello concesso a Vietnam e Singapore, Paesi con i quali ha chiuso le negoziazioni, abbassando standard di sviluppo ed ecologici. Tuttavia, il 6 dicembre, Bruxelles ha varato una nuova legge per la prevenzione dell’importazione di beni responsabili per la deforestazione. La legge è stata fortemente criticata da Vietnam, Malesia e Indonesia. Tra questi prodotti sono presenti: caffè, soia e olio di palma, colture che nel 2020 hanno registrato un export rispettivamente di 2, 17 e 27 miliardi di dollari americani. Secondo Nikkei Asia, l’UE durante il Summit per il 45esimo anniversario, incoraggerà il Sud-Est asiatico ad incaricarsi di importanti ruoli nelle catene di approvvigionamento globali, seguendo la logica del “friend-shoring”. Il neologismo del “friend-shoring” riprende l’idea dei precedenti on-shoring e off-shoring, legando però la rilocalizzazione in Paesi che sono considerati amici. ASEAN e UE ad ottobre hanno siglato un nuovo livello di cooperazione di connettività con la firma dell’Accordo Comprensivo sui Trasporti Aerei (AE CATA), la prima intesa al mondo di questo tipo. L’accordo beneficia non solo i viaggiatori dell’accesso diretto a nuove destinazioni, ma auspica ad un maggior livello di coordinamento, anche manageriale, tra i Paesi Membri dell’ASEAN. Con il 2023 alle porte, un generale allentamento delle misure di contenimento della pandemia, e con la firma dell’AE CATA, ci sono le premesse per nuove opportunità commerciali per le imprese europee, che garantiscano condizioni di mercato eque e trasparenti. Trovare il giusto canale di comunicazione tra interessi particolari, necessità e standard sostenibili potrebbe essere uno dei punti caldi del dialogo del 14 dicembre. Eppure, tra la pandemia da Covid-19 e la guerra russo-ucraina, tra i rallentamenti delle catene di approvvigionamento, i divieti di esportazione strategici dei singoli Paesi membri atti a prevenire ulteriori crisi economiche sembra che le percezioni sulla relazione bilaterale siano tutto sommato positive. Secondo il sondaggio EU-ASEAN Business Sentiment Survey, la regione del Sud-Est asiatico è prima per migliori opportunità economiche nei prossimi 5 anni. Non solo, in generale tutte le prospettive nei confronti di commercio ed investimenti hanno ottenuto nel sondaggio aspettative di crescita positiva. In conclusione, il 14 Dicembre gli occhi saranno puntati a Bruxelles e al potenziale ancora inesplorato della relazione bilaterale ASEAN-UE.

Il successo del G20 indonesiano

Il summit di Bali si è concluso con una dichiarazione congiunta in cui si esprime il disagio di fronte alla guerra in Ucraina. E ha mostrato i primi segnali di disgelo tra Occidente e Cina

Ora lo si può dire. Il summit del G20 di Bali è stato un successo. La presidenza di turno indonesiana di turno ha dovuto fare i conti con l’anno più complicato dei tempi recenti. Con il mondo ancora alle prese con la coda della pandemia di Covid-19, la guerra in Ucraina ha ulteriormente complicato i piani delle economie mondiali. Non solo, ha anche esacerbato il clima tra Russia e Occidente, ma anche tra Stati Uniti e Cina. Con queste premesse, il rischio che il vertice si rivelasse un flop era alto. E invece non è stato così. Vero che la discussione è stata ampiamente dominata dal conflitto, ma è altrettanto vero che tutti i presenti si sono dimostrati pronti e disponibili al dialogo. Dopo il preambolo del bilaterale tra Joe Biden e Xi Jinping, è un po’ tutto venuto a cascata, col Presidente cinese che ha incontrato tutti i vari leader europei. La presidenza di turno indonesiana ha ottenuto la firma di una dichiarazione congiunta in cui i leader delle principali economie auspicano cooperazione per affrontare le varie sfide poste dalla pandemia di Covid-19 e aggravate dalla guerra in Ucraina, impegnandosi a fornire il necessario sostegno ai Paesi più vulnerabili del mondo. Giacarta ha celebrato tre “risultati concreti” del vertice. Il primo: la creazione di un fondo sanitario, che aiuterà i Paesi a prepararsi a future pandemie. Il fondo ha ricevuto promesse per un totale di 1,5 miliardi di dollari dai Paesi membri e dalle organizzazioni internazionali. Il secondo, salutato con favore da tutto il blocco ASEAN: la creazione di un fondo fiduciario per aiutare i Paesi a basso reddito, i piccoli Stati e i Paesi a medio reddito vulnerabili ad affrontare i problemi macroeconomici, compresi quelli causati dalla pandemia e dal cambiamento climatico. Il terzo, più interno: l’impegno di 20 miliardi di dollari di finanziamenti pubblici e privati da parte di Stati Uniti e Giappone nei prossimi 5 anni per aiutare l’Indonesia ad accelerare la transizione verso le energie rinnovabili. La dichiarazione finale segna un passo importante di cooperazione di tutto il G20, comprese Cina e India, e apre forse uno spiraglio di dialogo con la Russia, che ha accolto favorevolmente “l’equilibrio” delle conclusioni del summit. Il Sud-Est asiatico si conferma come una piattaforma irrinunciabile per far avanzare la diplomazia globale.

La terza via di difesa asiatica

Si moltiplicano sigle e acronimi per le politiche nell’Indo-Pacifico. Ma mentre Cina e Stati Uniti cercano di consolidare la propria influenza in Asia, i Paesi del continente provano a ripararsi dalle conseguenze di questo antagonismo istituendo accordi bilaterali che aiutino a mantenere un certo grado di interoperabilità senza essere costretti a prendere apertamente le parti di una o dell’altra potenza

Articolo di Lucrezia Goldin

O con me, o contro di me. A meno di trovare una terza via per consolidare la difesa. Nella sempre più polarizzata competizione tra Cina e Stati Uniti, crescono i rapporti bilaterali in materia di sicurezza tra diversi paesi asiatici, che con un approccio fatto di singoli accordi di cooperazione militare provano a svincolarsi dal magnetismo di Washington e Pechino, sfruttando l’interoperabilità regionale come chiave per l’indipendenza dalle due potenze. Un approccio che operando senza fragore e senza evidenti finalità anti-Cina o anti-Usa (come invece vengono percepite alcune iniziative multilaterali come Quad e Aukus da parte cinese e Global Security Initiative da parte statunitense) si presenta nella forma di un’architettura alternativa che consente ai paesi asiatici di munirsi di strumenti di deterrenza senza il rischio di infastidire le due potenze.

Dal Giappone alla Corea del Sud, passando per Singapore e Filippine, gli scambi bilaterali in materia di tecnologie di sicurezza ed equipaggiamenti per la difesa mostrano un’Asia che preferirebbe non rimanere incastrata nel fuoco incrociato a colpi di acronimi altisonanti in corso tra Cina e Stati Uniti. Un muoversi nelle retrovie fatto di accordi apparentemente di secondo piano ma strategici, soprattutto se pensati come strumento di indipendenza a lungo termine dall’ottica dei grandi blocchi antagonisti.  

Capofila indiscusso di questa tendenza è il Giappone. Da diversi anni Tokyo sta provando a risollevare la propria industria della difesa e per farlo sta intensificando i rapporti con diversi paesi del Sud-Est asiatico. Già nel 2016 Giappone e Filippine firmavano un accordo per la difesa, con il quale Tokyo si impegnava a fornire equipaggiamento e tecnologia in ambito di sicurezza a Manila. Sotto la presidenza di Rodrigo Duterte poi, un aggiornamento dello stesso accordo nell’estate 2020 ha portato alla vendita di sistemi di controllo radar della Mitsubishi Electric al governo filippino, segnando la prima vendita di tecnologia di difesa di fattura totalmente giapponese verso un paese del Sud-Est asiatico. Con la Malesia esiste invece il Japan-Malaysia Defense Pact  del 2018, mentre sui rapporti con Indonesia e Vietnam l’attenzione dell’ex premier giapponese Yoshihide Suga ha portato alla firma di due accordi per il trasferimento di equipaggiamento e tecnologia per la difesa (rispettivamente a marzo e settembre 2021). Anche provando a non attirare troppo l’attenzione politica internazionale con questi accordi, l’obiettivo dichiarato di Tokyo è quello di promuovere la propria visione di un Indo-Pacifico “libero e aperto”. Visione confermata anche dal ministro della Difesa Kishi Nobuo lo scorso settembre durante una visita ad Hanoi, nella quale ha parlato della cooperazione con il Vietnam come di un intervento finalizzato a  “contribuire alla pace e alla stabilità della regione e dell’intera comunità internazionale”.

Su questo fronte anche il nuovo primo ministro Fumio Kishida non sta perdendo tempo. Lo scorso maggio il premier giapponese e il suo omologo thailandese Prayut Chan-o-cha hanno firmato un accordo per il trasferimento di equipaggiamento militare verso la Thailandia, seguito poco dall’annuncio del governo giapponese di voler riformare la normativa sull’export di materiali militari così da consentire l’esportazione di missili e caccia verso 12 paesi tra cui India, Vietnam, Thailandia, Malesia, Filippine e Australia a partire dal 2023.  Anche con Singapore, come annunciato durante un incontro a margine del summit asiatico sulla sicurezza, lo Shangri-La Dialogue, saranno presto avviati i negoziati per raggiungere un accordo sul trasferimento di equipaggiamenti e tecnologia per la difesa che includono anche le aree di sicurezza informatica e armi esplosive di natura chimica, biologica, radiologica e nucleare (CBRNE). Un Memorandum sugli scambi per la Difesa potenziato, firmato dai rispettivi ministri della difesa Kishi Nobuo e Ng Eng Hene, che va a integrare quello stipulato tra i due paesi nel 2009. L’obiettivo: muoversi verso “una cooperazione in materia di sicurezza più concreta”. Meno chiacchiere, più accordi. Senza Cina e Usa di mezzo.

Partecipazione attiva anche da parte dell’India, che con l’India Act East Policy ha creato piattaforme di dialogo e di esercitazioni marittime congiunte con Singapore e Thailandia, le SIMBEX e SITMEX, con la finalità di mantenere la sicurezza regionale. Alle Filippine Nuova Delhi ha fornito i suoi sistemi missilistici Brahmos e ha predisposto lo spostamento di diverse navi del comando orientale dell’India per favorire le esercitazioni bilaterali con la marina filippina. Anche con il Vietnam il dialogo è stato produttivo e privo dell’ingerenza statunitense o cinese. Nel 2016 tra Hanoi e Nuove Delhi veniva istituita una linea di credito di 500 milioni di dollari per l’acquisto di nuove piattaforme di difesa e oggi la maggior parte dei piloti vietnamiti viene formata presso le basi di addestramento indiane in cambio dell’accesso alle basi navali e aeree di Cham Ranh Bay. Con la Thailandia infine, l’India condivide obiettivi in ambito marittimo legati a tematiche quali pesca illegale, traffico di droga, contrabbando e pirateria, confermando un’interoperabilità che rimane forte tra i due paesi sia per i loro trascorsi storico-culturali che per i loro interessi comuni legati al confine marittimo nel Mar delle Andamane, punto di accesso fondamentale per il commercio nello Stretto di Malacca.

Anche la Corea del Sud ha dato segnali di voler aderire a questa strategia del “dietro le quinte”. L’amministrazione di Moon Jae-in aveva cominciato a intensificare i rapporti con India e paesi ASEAN tramite la New Southern Policy del 2017, senza riuscire però a concretizzare molti accordi e cooperazioni indipendenti dalle piattaforme di sicurezza già esistenti. Il caso della mancata partecipazione indonesiana nella realizzazione dei nuovi caccia Kf-X/IF-X ne è un esempio. Dopo un accordo di difesa tra Corea del Sud e Indonesia stipulato nel 2013, i due paesi hanno “riscontrato diverse complicazioni” nella realizzazione congiunta di nuovi equipaggiamenti, ma ad oggi mantengono buone relazioni e alla presentazione dei nuovi caccia coreani KF-X del 2021 era stato invitato anche il ministro della Difesa indonesiano Prabowo Subianto. Sempre nell’ambito degli incontri a margine del Shangri-La Dialogue invece, Singapore e Corea del Sud hanno aggiornato il loro Memorandum of Understanding in materia di cooperazione sulla difesa, aggiungendo tra le priorità di collaborazione la sicurezza informatica e la cooperazione marittima.

L’Asia si muove anche senza Cina e Stati Uniti, consapevole che una eccessiva dipendenza da una delle due parti in materia di sicurezza può rivelarsi controproducente. Per le dispute in essere con Pechino da una parte, per la recente imprevedibilità mostrata da Washington da Donald Trump in poi all’altra. Piccoli accordi in tempi di grandi patti multilaterali segnano quindi una terza via per provare a mantenere una stabilità regionale senza essere semplici pedine nel gioco di altri. Ma gli accordi cominciano a essere tanti. E se considerati come fili sottilissimi di una più ampia e distesa tela strategica, la formula dell’accordo bilaterale come mezzo inoffensivo di manovra potrebbe essere rimessa in discussione. 

L’alleanza Chip4 e il suo impatto sui semiconduttori ASEAN

La partita (politica) dei semiconduttori diventa gioco di squadra. Almeno da un lato del campo. L’alleanza a quattro voluta dagli USA mira contenere la Cina. Da che lato giocheranno i Paesi ASEAN?

I semiconduttori sono essenziali per la vita e la crescita della società digitale. L’approvvigionamento “sicuro” di questi prodotti rappresenta ormai una priorità – e un grattacapo – per i governi di tutto il mondo. È tuttora in corso una crisi globale delle supply chain del settore – una crisi che si inserisce in un più ampio contesto di “globalizzazione in affanno” – che rende difficile per le altre industrie procacciarsi i componenti necessari. Il problema è reso ancora più complesso dalle sue ricadute politiche. Stati Uniti e Cina infatti gareggiano anche nello sfruttamento dei dati e nello sviluppo di nuove applicazioni dell’intelligenza artificiale. Questo porta i due giganti a richiedere un enorme quantità di chip e provare a limitare la presa del rivale sul mercato. Nei mesi scorsi, Washington ha mosso i primi passi verso la formazione di un’alleanza a quattro sui semiconduttori con i suoi partner storici affacciati sul Mar cinese – Giappone, Corea del Sud e Taiwan –  per poter sviluppare catene di approvvigionamento “democratiche”, dalla fabbrica al consumatore, senza dover coinvolgere necessariamente la Cina. Pechino guarda con sospetto all’iniziativa americana, temendo di finire “esclusa” dalle value chain più importanti del mondo globalizzato.

La fragilità e l’importanza strategica delle supply chain dei semiconduttori hanno spinto i governi ad attivarsi per mettere in sicurezza la propria sovranità tecnologica. Molti Paesi si sono attivati per rafforzare la produzione di chip nel proprio territorio, in collaborazione con i colossi del settore: solo per menzionare due iniziative, la taiwanese TSMC sta costruendo un impianto produttivo da 12 miliardi in Arizona con il supporto dello Stato e del Governo federale; Intel e il Governo italiano stanno chiudendo le trattative per la creazione di un sito produttivo in Veneto. Ciononostante, la value chain dei semiconduttori non può essere rinchiusa nei confini di un singolo Paese, né riorganizzata così facilmente. Ogni fase della filiera produttiva richiede una forte specializzazione di interi distretti industriali e attrezzature ad altissima tecnologia. Al momento, non sembra possibile fare a meno dei Paesi dell’Asia orientale. Pertanto, i governi cercano anche di rafforzare le proprie partnership internazionali, in modo da rendere più sicuri gli approvvigionamenti e superare certi colli di bottiglia nella produzione. Ciascuna economia del Chip4 è particolarmente forte in uno degli “anelli” della catena e l’alleanza riuscirebbe ad organizzare gli approvvigionamenti tra partner in modo quasi autonomo da attori esterni. Non ci sono solo considerazione economiche dietro l’iniziativa di Washington, però. I quattro Paesi sono democrazie like-minded che guardano con una certa attenzione alla influenza cinese crescente non solo nella regione, ma anche nell’economia digitale e in alcuni suoi settori d’avanguardia. In uno scenario di crescenti tensioni con Pechino, i Paesi Chip4 potrebbero avere interesse a non dipendere dall’industria dei semiconduttori cinese. 

Eppure, non è così facile estromettere la Cina dalla value chain, soprattutto per la Corea del Sud. Il 60% dell’export dei chip di Seul infatti va verso il vicino. Partecipare a un’alleanza che potrebbe essere percepita come anticinese esporrebbe i produttori coreani alla rappresaglia commerciale, quindi all’esclusione da un mercato di notevoli dimensioni. Allo stesso tempo, Pechino potrebbe non essere in grado di rinunciare ai semiconduttori Made in Korea, dato che certe tecnologie avanzate sono sviluppate solo lì o negli Stati Uniti – e Washington ha imposto sanzioni e misure di export control contro le aziende cinesi ancora nel 2020. In altre parole, provare a escludere un Paese dalla supply chain e, più in generale, intervenire nel settore con obiettivi politici comporterà sempre dei pesanti costi e potrebbe peggiorare ulteriormente la crisi degli approvvigionamenti. La sovranità tecnologica potrebbe rivelarsi un obiettivo irraggiungibile e, appunto, costoso – non ci sono solo i dazi imposti dai governi, ma anche la spesa in sussidi per attirare le aziende private sul proprio territorio – dato che il ritardo anche in una fornitura di secondaria importanza potrebbe paralizzare l’intero settore a livello mondiale.L’iniziativa statunitense potrebbe coinvolgere a un certo punto anche alcuni Paesi ASEAN. L’industria dei semiconduttori si sta sviluppando velocemente nella regione e alcuni Paesi giocano già una parte fondamentale – soprattutto Malesia e Singapore. In alcuni casi, si tratta di partner riconosciuti da Washington anche sul piano politico. Prima o poi, gli USA potrebbero provare a coinvolgerli in iniziative come Chip4. Tutte le principali economie ASEAN hanno un rapporto ambivalente con la Cina: da un lato, partner economico fondamentale; dall’altro, vicino sempre più assertivo. Pertanto, per i loro governi potrebbe porsi lo stesso dilemma affrontato oggi da Seul. In ogni caso, occorre ricordare che l’industria mondiale dei semiconduttori non può prosperare senza un sistema commerciale liberalizzato e schermato, quanto più possibile, dalle tensioni politiche, a causa della fitta rete di interdipendenze tra Paesi. L’acuirsi delle tensioni tra Washington e Pechino in questo campo avrebbe, in ogni caso, effetti profondamente negativi sul settore e ne renderebbe ancora più complicata la crisi.

Non solo affari: l’UE si lancia in Asia-Pacifico

L’Ue guarda con sempre maggiore attenzione all’Asia-Pacifico. Di recente anche con un inedito focus sugli aspetti securitari, in aggiunta e non in sostituzione dell’approccio tradizionalmente imperniato sul soft power e sulla cooperazione economica 

L’Indo-Pacifico rappresenta “il centro di gravità economico e strategico del mondo”. Così Josep Borrell, Alto rappresentante dell’Unione Europa per gli affari esteri e la politica di sicurezza e Vicepresidente della Commissione, ha definito la regione nel marzo 2021, sottolineando l’urgenza per l’Unione Europea di dotarsi di un approccio strategico verso quell’area di mondo che sta catalizzando l’attenzione e gli sforzi dei principali attori internazionali.

La macro-regione che si estende dalla costa orientale dell’Africa agli stati insulari del Pacifico e l’Asia Orientale contribuisce per due terzi al tasso di crescita globale e con una quota pari al 62% al PIL mondiale e ospita quattro dei dieci maggiori partner dell’UE (Cina, Giappone, Corea del Sud e India), nonché più della metà della popolazione mondiale. Al contempo, rappresenta il principale teatro della competizione geopolitica tra Cina e Stati Uniti. Consapevoli della sua rilevanza strategica, già da tempo diversi paesi europei, come Germania, Francia e Paesi Bassi, hanno messo in atto iniziative e strategie autonome per proteggere gli interessi nazionali nella regione, nel tentativo di attenuare le conseguenze della rivalità sino-americana e dalle frizioni tra le potenze regionali, le quali si riverberano sulle catene di approvvigionamento globale, sugli scambi commerciali e sulla libera navigazione nei mari.

Ma la crisi pandemica e l’intensificarsi delle tensioni politiche e delle dispute territoriali nella regione hanno reso palese l’esigenza di una maggiore concertazione degli sforzi. Il 19 aprile 2021, il Consiglio Europeo ha annunciato l’approvazione delle conclusioni su una strategia per la cooperazione nell’Indo-Pacifico, che mira ad armonizzare i diversi orientamenti nazionali degli Stati membri in una visione comune che possa guidare il futuro impegno europeo a lungo termine nell’area. I 27 Ministri degli Esteri hanno concordato sull’obiettivo di rafforzare l’impegno europeo per “contribuire alla stabilità, alla sicurezza, alla prosperità e allo sviluppo sostenibile della regione”, in linea con  i valori comuni di sostegno alla democrazia, ai diritti umani, allo Stato di diritto e di rispetto del diritto internazionale.

Come tipicamente accade, l’impegno europeo passa per l’approfondimento delle relazioni economiche con i paesi dell’area e per il rafforzamento della posizione commerciale strategica vis-à-vis gli imponenti blocchi commerciali esistenti nell’area, riflesso degli accordi siglati negli ultimi anni, il partenariato economico regionale globale (RCEP) e l’accordo globale e progressivo di partenariato transpacifico (CPTPP). Tra gli obiettivi, il raggiungimento di accordi di libero scambio con Australia, Indonesia e Nuova Zelanda e il rilancio dei negoziati con l’India, sulla scia degli ambiziosi accordi commerciali e di investimento già siglati con Vietnam, Giappone, Repubblica di Corea e Singapore.

La strategia per l’Indo-Pacifico introduce anche un inedito focus sugli aspetti securitari, distanziandosi da un approccio tradizionalmente imperniato sul soft power e sulla cooperazione economica e in tema di diritti umani. Il rafforzato ingaggio europeo si sostanzia in una serie di iniziative che spaziano dalla difesa e sicurezza tradizionale, come esercitazioni militari congiunte con i partner regionali, fino a raggiungere i domini più innovativi della cyber sicurezza, e arriva in risposta alla sempre crescente assertività cinese nella regione.

Nel quadro del progetto European Critical Maritime Route Indian Ocean (CRIMARIO II), l’UE ha deciso di allargare l’ambito di applicazione geografica delle sue operazioni di protezione delle rotte marittime critiche. La portata del progetto, inaugurato nel 2015 con un focus su alcuni particolari Paesi e arcipelaghi dell’Africa Orientale e attualmente nella sua seconda fase, si estende oggi fino ad includere tutti i Paesi che si affacciano sull’Oceano Indiano e il Sud-Est asiatico e le autorità europee stanno vagliando la possibilità di replicare l’esperienza nel Pacifico meridionale. In aggiunta, sono stati ampliati gli ambiti di cooperazione: accanto alla condivisione di informazioni e ad iniziative di formazione e rafforzamento delle capacità, sono state previste alcune componenti aggiuntive di comunicazione tra le forze dell’ordine e la magistratura a livello nazionale, internazionale e regionale e il rispetto delle normative internazionali, da implementare esclusivamente nelle aree del Sud e Sud-Est asiatico.

Azioni coordinate di questo tipo si affiancano al dispiegamento autonomo di forze navali da parte di Stati membri (ed un ex Stato membro, ovvero il Regno Unito), alcune delle quali precedono temporalmente qualsiasi strategia integrata a livello europeo e si devono alla presenza storica di alcuni Paesi nella regione. In primis, la Francia, unico Paese europeo con una presenza militare permanente nell’area, a fronte di imponenti interessi strategici, a partire dalla presenza di alcuni territori d’oltremare, tra cui l’isola di Reunion nell’Oceano Indiano e gli arcipelaghi della Polinesia Francese nel Pacifico Meridionale. Significativo è anche il contributo della Royal Navy, che a partire dal 2021 ha inaugurato un significativo rafforzamento della sua presenza navale nell’area con lo schieramento della mastodontica portaerei HMS Queen Elizabeth (R08) e il relativo Carrier Strike Group (CSG). Anche Olanda e Germania hanno concorso a fortificare l’impegno militare europeo nell’area con l’invio, rispettivamente, delle fregate HNLMS Evertsen e Bayern.

Il piano per l’Asia Pacifico si allinea alla Global Gateway, il modello europeo di partenariati globali per la “connettività affidabile” e sostenibile. Questa più ampia strategia si sostanzia in investimenti infrastrutturali “intelligenti, puliti e sicuri” nei paesi partner, con un focus sui settori-chiave del digitale, dell’energia e dei trasporti, della sanità e dell’istruzione della ricerca, per i quali l’Unione e gli Stati membri prevedono di mobilitare fino a 300 miliardi di euro. 

Seppur non esplicitato nel documento, secondo alcuni osservatori il progetto potrebbe rispecchiare la volontà europea di smarcarsi dalla competizione sino-statunitense offrendo ai Paesi partner un’alternativa (seppur non perfettamente sovrapponibile in termini di modalità e fondi investiti) a simili iniziative di connettività: la Belt and Road Initiative cinese e la Build Back Better World (B3W) a guida statunitense. Tuttavia, l’approccio dell’Unione alla regione resta “improntato alla cooperazione, non alla ricerca di uno scontro”, come chiarito dalla portavoce dell’Unione Europea per gli Affari esteri e la politica di sicurezza Nabila Massrali e più volte sottolineato dalle autorità europee. Nella nuova strategia per l’Indo-Pacifico, viene rimarcata apertamente la volontà di mantenere un atteggiamento aperto e inclusivo nei confronti di tutti gli attori regionali che condividono preoccupazioni, interessi e valori con l’Unione. La stessa presidentessa della Commissione europea, Ursula von der Leyen, ha commentato su Twitter: “Vogliamo un Indo-Pacifico sereno e prospero. Deve essere libero, aperto, interconnesso, prospero, con un’architettura di sicurezza basata su regole che serva tutti gli interessi. Continueremo a incoraggiare Pechino a fare la sua parte in una regione indopacifica pacifica e prospera”.

Resta da vedere se l’Europa sarà davvero in grado di farsi largo tra le due superpotenze in competizione per perseguire la propria ambiziosa agenda, offrendo una reale alternativa ai partner regionali, o se la recente volontà di accrescere la propria proiezione politica, militare ed economica non farà che esacerbare il clima di tensione nell’area. 

L’evoluzione delle relazioni tra Australia, Nuova Zelanda e ASEAN

Dopo le elezioni australiane dello scorso maggio, sia Canberra sia Wellington sono guidate da governi laburisti. I due Paesi sono accomunati da un profondo legame con gli Stati Uniti, ma hanno approcci differenti alla crescente assertività cinese. La cooperazione con ASEAN potrebbe giocare una parte importante nella stabilità della regione.

Nelle elezioni australiane dello scorso maggio il laburista Anthony Albanese ha sconfitto il primo ministro liberale uscente Scott Morrison. Dopo il cambio di amministrazione a Canberra, sia Australia sia Nuova Zelanda sono guidate da governi laburisti. Entrambi i governi giocano una partita complessa nello scacchiere Indo-pacifico. Da un lato, i due Paesi rappresentano l’estremità australe dell’“anglosfera” (nonché della relativa alleanza di intelligence Five Eyes) e sono partner chiave degli Stati Uniti – insomma un pezzo di “Occidente” ad Estremo Oriente. Dall’altro, i loro rapporti con i Paesi asiatici vicini sono scanditi da alterne fasi di diffidenza e fiducia, cooperazione e tensione. Quale sarà dunque la strategia indo-pacifica di Australia e Nuova Zelanda nei prossimi anni?

Già durante la campagna elettorale il Partito laburista australiano aveva espresso con vigore il suo supporto al  Quadrilateral Security Dialogue (Quad, comprendente Australia, India, Giappone e Stati Uniti) e all’AUKUS (che lega Canberra a USA e Regno Unito), accordi nei quali i precedenti governi liberal-nazionali si erano impegnati rispettivamente nel 2017 e nel 2021. Appena tre giorni dopo la vittoria elettorale, il nuovo primo ministro Albanese era già a Tokyo per il summit dei leader Quad, in occasione del quale ha confermato che il suo governo avrebbe continuato a sostenere il Dialogue. Allo stesso tempo, il governo Albanese intende porsi in discontinuità riguardo a certi aspetti della politica estera dei precedenti esecutivi di centro-destra, inaugurando una nuova fase di engagement con le nazioni del Pacifico e di impegno nella cooperazione climatica internazionale. I governi Morrison si erano sempre opposti alle politiche di lotta al cambiamento climatico – anche quando buona parte del Paese era avvolta nelle fiamme tra 2019 e 2020 – e l’innalzamento del livello dei mari è una minaccia esistenziale per molti Paesi della regione: non sorprende dunque che l’Australia negli ultimi anni godesse di poco credito presso gli Stati insulari della regione più vulnerabili al riscaldamento globale. La nuova ministra degli esteri Penny Wong ha promesso inoltre di aumentare il supporto finanziario per i Paesi del Sud-est asiatico, anche per togliere spazio alla crescente influenza cinese nella regione – Wong è arrivata a definire il recente patto di sicurezza tra Cina e Isole Salomone il “peggior fallimento della politica estera australiana nel Pacifico dalla fine della Seconda Guerra Mondiale”. 

In effetti, l’espandersi dell’influenza militare dei grandi Paesi asiatici è da sempre vista come una minaccia da Canberra: a inizio secolo era il Giappone, nella seconda metà del Novecento la Cina e in misura minore l’Indonesia. Il miglioramento dei rapporti tra Pechino e Washington negli anni Settanta aveva rasserenato anche gli australiani che avevano iniziato a vedere nell’Asia un’opportunità anziché una minaccia. Negli anni Novanta, un altro primo ministro laburista, Paul Keating, aveva efficacemente riassunto il cambio di paradigma poco prima di concludere un accordo di sicurezza con Giacarta: l’Australia doveva perseguire la propria sicurezza “in Asia, non dall’Asia”. I rapporti tra Australia e Cina sono rimasti eccellenti per decenni e ancora erano tali quando Xi Jinping si recò nel Paese nel 2014 per una visita ufficiale culminata in uno storico discorso al Parlamento australiano. Ciononostante, il deterioramento dei rapporti tra Cina e USA negli ultimi anni è stato accompagnato da un irrigidimento della politica estera rispetto a Pechino anche di Canberra. Passano i decenni, ma gli australiani continuano a seguire gli alleati americani.

La Nuova Zelanda sembra invece aver assunto una posizione più sfumata di recente rispetto alla strategia americana per l’Indo-pacifico. A inizio luglio, la prima ministra Jacinda Ardern ha invitato ad essere più cauti rispetto alla presenza cinese nella regione. Per Ardern è infatti sbagliato considerare le recenti azioni di Pechino come una “novità” rispetto alla quale i governi dovrebbero prendere schierarsi a favore o contro: “il mondo è dannatamente incasinato (bloody messy). Eppure, in mezzo a tutta la complessità, noi continuiamo spesso a vedere le questioni in bianco o nero”. La cautela di Ardern si contrappone alla posizione tranchant assunta da Joe Biden, secondo il quale è in corso una battaglia tra democrazia e autocrazia nel mondo che impone ad ogni governo di scegliere da che parte stare. Wellington auspica una de-escalation delle tensioni nella regione e una maggiore cooperazione tra tutti gli attori, anche qualora Pechino si facesse ancora più assertiva. I neozelandesi comunque non rimangono indifferenti di fronte alle manovre cinesi: anche loro, come l’Australia e gli USA, hanno espresso un certo allarme rispetto all’accordo di difesa Cina-Isole Salomone.Australia e Nuova Zelanda si trovano in una posizione non dissimile dai Paesi ASEAN, coinvolti quasi loro malgrado nella competizione strategica tra Stati Uniti e Cina. Wellington sembra intenzionata a seguire una strategia simile a quella impiegata da altri governi della regione: dialogare con la Pechino senza rinunciare alla cooperazione strategica con Washington. Canberra invece sembra più rigida nelle sue preoccupazioni per la sicurezza e più in linea con la visione di Biden. Entrambi i governi però potrebbero trarre giovamento da una maggiore cooperazione proprio con i Paesi ASEAN: l’organizzazione regionale infatti costituisce un fattore di stabilità nella regione e un partner centrale, come riconosciuto anche in sede Quad, che potrebbe bilanciare l’assertività cinese. Il nuovo governo laburista australiano dovrebbe però accettare di cooperare con l’ASEAN su altri temi e non esclusivamente sulla sicurezza: un rafforzamento dei legami economici e politici è propedeutico e necessario rispetto ad altre forme di cooperazione più sensibili.  La cooperazione climatica  internazionale potrebbe costituire un primo banco di prova e, come abbiamo visto, i due governi laburisti a Canberra e Wellington hanno espresso la loro intenzione di costruire nuove partnership con gli altri governi dell’Indo-pacifico.

L’ASEAN e l’Indo-Pacific Economic Framework

Osservando la sua fase iniziale e i vari impegni lungimiranti, sarà fondamentale vedere come i paesi membri si adattano agli obiettivi chiave di questa partnership

Articolo di Aishwarya Nautiyal

    La strategia Indo Pacifica non ha solo portato a una nuova sinergia tra i partner QUAD, ma ha dato nascita anche all nuovo Indo Pacific Economic Framework lanciato di recente dal presidente degli Stati Uniti Joe Biden consentendo a 12 nazioni come membri partecipanti di aprire anche le porte a tutte le nuove nazioni disposte a partecipare in futuro. Alcune tra le maggiori potenze economiche come Stati Uniti, Australia, India, Corea del Sud e Giappone e diversi Paesi membri dell’ASEAN come Malesia, Filippine, Singapore, Brunei, Indonesia, Thailandia e Vietnam sono stati in prima linea in questo framework recentemente lanciato. È fondamentale comprendere che l’economia collettiva dei Paesi membri rappresenta quasi il 40% del PIL mondiale. Ciò apre le porte a un’opportunità per i Paesi della regione del Pacifico e dell’Oceano Indiano che sono anche coinvolti in vari partenariati economici e di sicurezza verso uno sforzo collettivo per “crescere più velocemente e in modo più equo”. Sebbene sia interessante notare che non si tratta di un patto commerciale ufficiale, il commercio è diventato un “pilastro” in tutto questo quadro insieme ad altri elementi chiave.

      Sebbene siano nella fase iniziale, molti negoziati ed emendamenti possono essere successivamente discussi tra i Paesi membri. Gli scenari chiave si sono concentrati su alcuni temi come la catena di approvvigionamento, le infrastrutture, l’energia verde, la decarbonizzazione, la tassazione e la lotta alla corruzione e il flusso del commercio libero ed equo. Quindi questo può essere visto come un contrappeso alla RCEP. I Paesi dell’ASEAN che non sono stati inclusi sono Myanmar, Laos e Cambogia. Mentre la Cina ha sollevato le sue critiche per un ulteriore rischio di disaccoppiamento economico, è stata esclusa da questa partnership. È interessante notare che Paesi come gli Stati Uniti e l’India che non hanno partecipato alla RCEP sono stati in prima linea in questo nuovo framework. La visione dell’India caratterizzata dalla sua “Look East Policy” ha portato i membri dell’ASEAN al centro della politica estera, quindi questa nuova iniziativa porta la cooperazione tra l’India e l’ASEAN con una visione per rafforzare un quadro multilaterale con altre principali economie nella regione dell’Oceano Pacifico. 

        Guardando alla geoeconomia e alla geopolitica future, il pilastro fondamentale risiede verso un’economia resiliente ed equa, che è stata anche il punto culminante della dichiarazione del presidente Biden durante il vertice dell’Asia orientale. La nuova piattaforma può anche essere vista come una possibile sostituzione del partenariato globale e progressivo transpacifico (CPTPP). È interessante notare che il lancio dell’IPEF sia arrivato appena un giorno prima del vertice QUAD a Tokyo, il Giappone ha portato due piattaforme in cui la base economica insieme ai partner QUAD ha avviato un nuovo impegno guidato dagli americani per riprogettare la partnership a vari livelli tra partner regionali e globali che si estendono dal Mar Cinese Orientale al Sud Mar Cinese e oltre fino al Golfo del Bengala e al Mar Arabico. Il Golfo del Bengala è un punto fondamentale del rapporto tra l’India e le nazioni dell’ASEAN. Il cruciale stretto di Malacca è una chiave per vari beni e scambi di energia. Oltre alla partnership India-ASEAN, l’IPEF offre la possibilità di espandersi oltre la cooperazione regionale a quella globale.

     Si punta a un’integrazione economica attraverso la creazione di nuove innovazioni tecnologiche creando anche una catena di approvvigionamento industriale in cui l’India sta cercando attivamente di diventare un nuovo punto focale con la futura partecipazione di varie nazioni dell’ASEAN a numerosi investimenti industriali e tecnologici come i semiconduttori. Considerando che l’India ha lavorato intensamente per migliorare la connettività economica aumentando gli investimenti in vari progetti infrastrutturali che collegano le nazioni dell’ASEAN con la parte nord-orientale dell’India. D’altra parte, è molto forte la volontà degli Stati Uniti di estendere la cooperazione per rafforzare l’economia e il commercio basati sul digitale, inclusi acquisti, vendite, flusso di dati consentendo la catena del valore globale e servizi intelligenti attraverso diverse piattaforme e applicazioni. L’idea chiave è garantire i costi a valle per le imprese e migliorare la capacità di elaborazione di dati e analisi, assicurando una piattaforma sicura per la continuità aziendale mentre l’accesso a materie prime chiave come semiconduttori, minerali e tecnologia energetica che rafforza i pilastri dell’IPEF è la resilienza della catena di approvvigionamento.

       D’altra parte, la decarbonizzazione e la costruzione di nuove infrastrutture per superare i problemi del riscaldamento globale e dell’aumento dei livelli di inquinamento fornendo finanziamenti e tecnologia per condividere l’assistenza tecnica e mobilitare finanziamenti agevolati adottando infrastrutture durevoli per l’energia rinnovabile. Il focus sul lato fiscale e sull’anticorruzione ha lo scopo di promuovere una concorrenza libera e leale superando le questioni della tassazione, del riciclaggio di denaro e della corruzione attraverso standard e accordi multilaterali adottati dai membri dell’IPEF.  Osservando la sua fase iniziale e i vari impegni lungimiranti, sarà fondamentale vedere come le nazioni membri si adattano agli obiettivi chiave di questa partnership e il livello di fiducia che costruisce con vari impegni nel prossimo futuro garantendo obblighi geografici ed economici regionali e globali creando nuove opportunità e strade per le future nazioni disposte a far parte della cooperazione economica globale dell’IPEF.

Reindirizzamento della cooperazione in materia di difesa tra India e ASEAN

La cooperazione non si limita solo all’impegno militare, ma è andata avanti con prospettive future nello spazio e nell’intelligence

Articolo di Aishwarya Nautiyal

Il forum regionale dell’ASEAN, che è un’importante piattaforma del dialogo sulla sicurezza dell’ASEAN per la consultazione e la cooperazione al più alto livello di impegno nella difesa, ha visto una partecipazione attiva dell’India dando priorità alle relazioni ASEAN-India, sottolineando l’importanza del forum come chiave per l’impegno regionale con una visione di reciproca sicurezza e crescita mantenendo l’equilibrio attraverso visite portuali ed esercitazioni militari. L’India Act East Policy ha portato nuove piattaforme come SIMBEX e SITMEX con Singapore e Thailandia attraverso esercitazioni militari assicurando la prontezza a mantenere la pace e la sicurezza regionali. Impegno marittimo sfruttando la posizione geografica strategica delle isole Andamane e Nicobare (India) e dei suoi vicini come Thailandia, Malesia, Indonesia, Myanmar, Singapore, che fornisce un focus chiave alla cooperazione di Malacca e promuove una linea sicura per i canali commerciali internazionali.

      L’India non vedeva l’ora di fornire varie piattaforme di difesa come i sistemi missilistici Brahmos alle Filippine, che sono costati quasi 375 milioni di dollari per la marina. D’altra parte, l’India e Singapore hanno mostrato una crescita significativa nella cooperazione bilaterale in materia di sicurezza impegnandosi in varie esercitazioni navali, inclusa una nuova cooperazione navale in cui l’India ha ottenuto l’accesso alla base navale di Changi per le sue navi con diritti di rifornimento e supporto logistico. L’accordo prevede anche una disposizione per il reciproco rifornimento e riarmo sulle basi militari dell’altro. Uno degli sviluppi significativi può essere visto con la cooperazione di difesa tra India e Vietnam, dove l’India ha ottenuto l’accesso alla base navale e aerea di Cham Ranh Bay fornendo anche addestramento e sistemi d’arma avanzati alle forze di difesa vietnamite. Finora 550 sottomarini vietnamiti hanno acquisito una formazione e una conoscenza approfondite presso la base di addestramento dei sottomarini di INS Satavahana insieme a 100 milioni di dollari di credito per acquistare attrezzature di difesa indiane. I piloti vietnamiti vengono regolarmente formati per le piattaforme Sukhoi, mentre l’impegno di imprese private può essere visto anche con Larsen e Toubro per equipaggiare le guardie di frontiera vietnamite con 12 navi offshore. Nel 2016 è stata fornita una nuova linea di credito di 500 milioni di dollari per l’acquisto di nuove piattaforme di difesa.

     La cooperazione non si limita solo all’impegno militare, ma è andata avanti con prospettive future nello spazio e nell’intelligence. La decisione dell’India di istituire un sistema di localizzazione e imaging satellitare intorno alla città di Ho Chi Minh con il finanziamento dell’ISRO di 23 milioni di dollari per il monitoraggio e lo scambio di dati con il Vietnam e la condivisione della futura sorveglianza e intelligence è collegata alle stazioni di Biak in Indonesia e Brunei. Guardando a una nuova convergenza geostrategica, diverse navi da guerra dal comando navale orientale dell’India sono state inviate con l’obiettivo di impegnarsi in esercitazioni bilaterali con Filippine, Singapore e Indonesia. Di recente, la Malesia tende a procurarsi caccia leggeri e ha ingaggiato il jet da combattimento indiano TEJAS per partecipare alla gara di appalto insieme ad altri concorrenti globali. Questa è la prima volta che un jet di origine indiana è stato coinvolto in una gara globale. Mekong-Ganga Cooperazione in cui India e Vietnam sono entrambi membri insieme ad altri membri dell’ASEAN come Thailandia, Myanmar, Cambogia, Laos. L’obiettivo chiave di questo impegno risiede nella cooperazione nello scambio di cultura e turismo insieme allo sviluppo dell’istruzione e dei trasporti.

      L’India e la Thailandia condividono il loro confine marittimo attraverso una rotta commerciale cruciale dello Stretto di Malacca. Ciò porta entrambi i paesi in un punto focale per garantire la sicurezza e la protezione della regione del Golfo del Bengala. Le relazioni tra due paesi sono vecchie di secoli con diversi punti in comune storici all’interno delle loro relazioni culturali. L’India ha fornito ingegneri regolari e delegazioni mediche in varie esercitazioni condotte tra due nazioni, tra cui Ex-Cobra Gold, una delle più grandi esercitazioni militari. La 31a edizione della pattuglia coordinata India-Thailandia (CORPAT) è stata uno di questi impegni in cui HTMS Krabi insieme a INS Saryu e Dornier Patrol Aircraft sono stati impegnati per 3 giorni vicino al Mare delle Andamane in posizione strategica. Il collegamento tra l’amicizia tra due forze armate e diverse questioni come la pesca non regolamentata, il traffico di droga, la pirateria, il terrorismo, il contrabbando e l’immigrazione illegale, comprese le operazioni di soccorso in mare, sono stati fondamentali per comprendere l’interoperabilità tra due marine in CORPAT.

      Con l’India che non vede l’ora di espandere la sua impronta geostrategica nel Sud-Est asiatico, il Brunei, ricco di energia, sembra occupare una posizione di rilievo nella politica dell’India Act East. Finora le relazioni non sono state a fuoco e non sono state in grado di realizzare il suo pieno potenziale, ma con una nuova visione l’India non vede l’ora di aumentare il livello di intensità e vitalità del collegamento con il Brunei come partner marittimo cruciale. Il porto ha guidato lo sviluppo in cui il porto di Maura può essere un nuovo punto focale dei responsabili politici indiani insieme all’accordo India-Brunei nel 2018 per rafforzare le relazioni di difesa, compreso lo scambio di informazioni, esercitazioni, formazione e sviluppo industriale della difesa. Trovandosi in un momento cruciale del cambiamento delle dinamiche globali dall’Europa al Medio Oriente, l’Asia meridionale sta diventando sempre più cruciale per bilanciare e trarre vantaggio attraverso varie piattaforme in cui la cooperazione nel campo della difesa e dell’intelligence ha il suo ruolo fondamentale garantendo la fiducia tra i partner regionali.

ASEAN e India, ridefinendo le future strategie energetiche dell’Asia meridionale

Articolo di Aishwarya Nautiyal

L’India e l’ASEAN hanno mostrato la volontà di sviluppare un altro ecosistema rafforzando l’infrastruttura per le risorse rinnovabili condividendo l’esperienza e la conoscenza al massimo delle sue potenzialità tra i paesi membri.

La transizione verso una nuova sinergia con la crescente domanda ed il progresso tecnologico stanno portando ad una nuova necessità di fonti di energia alternative e pulite. L’ASEAN con l’alto livello di potenziale dalla spinta tecnologica all’intraprendenza è stata vista dall’India come uno dei principali partner sia che si tratti di scambi commerciali che di un nuovo potenziale di innovazione per il futuro fabbisogno energetico. Così il mondo sta affrontando scenari fluttuanti a causa dei quali la crescente domanda di energie efficienti e la dipendenza orientata al rischio hanno portato ad una nuova esigenza nell’esplorazione di strade future per settori verdi ed efficienti delle risorse energetiche. Una conferenza di alto livello tra i delegati dell’India e dell’ASEAN nel mese di febbraio 2022 ha mostrato la volontà di sviluppare un altro ecosistema per rafforzare l’infrastruttura per le risorse rinnovabili condividendo l’esperienza e la conoscenza al massimo delle sue potenzialità tra i paesi membri.


È stata data la priorità a nuovi centri energetici e alla creazione di capacità con assistenza tecnica per promuovere iniziative congiunte nella regione dell’Asia meridionale. L’iniziativa dell’India di accogliere l’esperienza dell’ASEAN verso l’integrazione del mercato verde è uno degli aspetti chiave. La rete elettrica dell’ASEAN è una delle aree chiave d’ interesse e il suo funzionamento efficiente ha portato a una fase di integrazione e adattamento attraverso vari progetti di sviluppo infrastrutturale, compresa la cooperazione strategica per affinare le conoscenze ed espandere le opportunità nella regione del subcontinente indiano. L’India è disposta a cooperare con l’Indonesia per facilitare una nuova dimensione di transizione nel settore delle energie rinnovabili. Gli scambi accademici insieme a nuove idee per l’incoraggiamento reciproco con un coordinamento efficace tra ricercatori e studenti è stata anche una prospettiva importante tra i responsabili politici dell’India e dei paesi membri dell’ASEAN.


L’integrazione del Grid tra i paesi dell’ASEAN e il suo piano di progettazione di nuove capacità è stata un’area chiave con i segnali di benvenuto. Il Ministero delle Miniere e dell’Energia della Cambogia ha evidenziato l’importanza di un’ambizione unificata mirata alle azioni pianificate per basse emissioni di carbonio in base alle quali l’idrogeno verde è visto dall’India come una nuova chiave per la decarbonizzazione guidata attraverso una formazione intensiva e competenze reciproche, coordinandosi con i partner del gruppo ASEAN. Alcuni recenti sviluppi nei paesi dell’ASEAN hanno mostrato un enorme potenziale nell’organizzazione e nell’attuazione di nuove strategie per la transizione verso le energie rinnovabili. L’Indonesia non vede l’ora di risolvere la capacità di stoccaggio, mentre l’ RPD del Laos ha mostrato progressi con un aumento dell’89% in nuovi progetti ecologici, tra cui la generazione di energia idroelettrica, l’energia solare, la produzione di energia rinnovabile leader nella biomassa per un totale di oltre 9100 MW.


La Thailandia, d’altra parte, ha lanciato un impianto solare da 2700 MW creando la sua multiutility comprensiva di pompaggio dell’acqua. L’India ha recentemente fatto progressi nella futura quota di energia insieme a nuove innovazioni tecnologiche garantendo la sua efficacia in termini di costi e infrastrutture competitive insieme a partner dell’ASEAN come Brunei, Filippine e Myanmar. Guardare avanti verso le sfide future con opportunità crescenti che utilizzano le competenze tecnologiche della smart intelligence attraverso una delle più grandi reti dell’industria IT dell’India incentrata sull’integrazione robotica per l’ingegneria può portare ad una produzione sostenibile per bilanciare la domanda per il futuro fabbisogno energetico in una regione così vasta e popolata. Il coordinamento reciproco con le nazioni ASEAN vicine può fornire una piattaforma per rafforzare la cooperazione bilaterale e condividere lo sviluppo umano bilaterale.


Una risposta richiesta per una nuova sicurezza energetica è stata mantenuta come uno dei settori ad alta priorità dai responsabili politici indiani insieme all’ASEAN promuovendo alternative ai biocarburanti come olio di palma, canna da zucchero e cocco è emersa come una componente importante dell’alternativa per guidare la futura produzione di energia. L’India produce grandi quantità di canna da zucchero nella sua terraferma nella parte settentrionale del suo territorio, mentre la produzione di cocco nell’India meridionale, insieme all’essere il più grande importatore di olio di palma dalla Malesia e dall’Indonesia, mostra una strada di risorse reciproche guidata dalla cooperazione tecnica e dalla condivisione delle conoscenze. Secondo la Planning Commission indiana, una delle principali preoccupazioni riguarda la sua vasta popolazione di 1,36 miliardi di persone la cui domanda è in aumento a causa dell’aumento del tenore di vita e della forza lavoro che ha bisogno di un nuovo tipo di politiche di sicurezza che garantiscano il futuro fabbisogno energetico.


Secondo il Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente, la sola India ha speso quasi 10,2 miliardi di dollari nel 2015 mitigando gli effetti dei cambiamenti climatici e concentrandosi su nuove strategie per la transizione solare ed eolica che sono diventate un campo dominante nel nuovo ecosistema indiano di sostenibilità energetica. Nuove sfide crescenti nelle città alle prese con un massiccio livello di inquinamento e l’urgenza di trovare nuove strade attraverso la ricerca e la fiducia reciproca negli investimenti in progetti infrastrutturali, visione collaborativa guidata dall’impegno dell’ASEAN India per avere successo oltre la strategia del singolo stato in una politica regionale unificata integrata attraverso l’armonizzazione mediante impegni in vari passaggi e aspetti con una visione di superamento di un compito arduo di differenza a livello nazionale di obiettivi e impegni che possono variare quantitativamente a causa della variazione degli obiettivi e del suo lasso di tempo per superare il meccanismo delle fonti energetiche convenzionali.

L’India in cerca di nuove opportunità nella filiera produttiva dei semiconduttori

Articolo di Aishwarya Nautiyal

L’India importa buona parte dei semiconduttori dall’Asia sudorientale e la sua conoscenza del settore può essere preziosa per i produttori nel Sud-est asiatico, rendendo l’India più competitiva grazie a nuove cooperazioni

L’economia indiana ha quasi raggiunto i 5 bilioni di dollari, e il Paese adesso punta a diventare un centro nevralgico per la produzione di semiconduttori per rendersi autosufficiente. Il governo prevede una spesa di 10 miliardi di dollari per la produzione di semiconduttori nei prossimi cinque anni, dato che l’India è un Paese per lo più importatore e questi componenti hanno un’importanza fondamentale nel 21 secolo. Su proposta del Ministero dell’Elettronica e della Tecnologia dell’Informazione, i principali concorrenti Vedanta Foxconn JV, IGSS Ventures e ISMC hanno avviato dei progetti per la costruzione di impianti per produrre chip elettronici nell’ambito del Semicon India Program. Taiwan, in testa ai produttori, ha individuato delle opportunità con TSMC e UMC, che stanno costruendo impianti in India, attraverso una negoziazione bilaterale con un accordo di libero scambio.

Le crescenti pressioni della Cina nei confronti di Taiwan, che intende ampliare l’ottica della sua strategia, possono essere un’ulteriore opportunità per la produzione di semiconduttori nel Maharashtra e nel Gujarat. Una nota positiva viene dal governo: l’India dovrebbe diventare uno dei poli produttivi entro il 2025 e il valore del mercato aumenterebbe da 2 a 100 miliardi di dollari, compresa l’ecosistema produttivo degli schermi. Si stima che il gruppo TATA, ad esempio, gestisca l’assemblaggio delocalizzato di semiconduttori nel Telangana, nel Karnataka e nel Tamil Nadu per un totale di 300 milioni di dollari, e le sue forniture di chip semiconduttori e wafer di silicio provengono da TSMC & Fitch Solutions. Al contrario, aziende come l’americana Intel hanno espresso interesse nella realizzazione di nuovi impianti. Soffermandosi su quest’industria, si apre uno scenario che è cambiato dal 1987, quando l’India era a soli due anni dal diventare leader nella produzione dei chip, ad oggi, rimasto indietro di 12 anni a causa di carenza di infrastrutture, lungaggini burocratiche, un alto tasso di corruzione e scarsa lungimiranza. Tutto questo ha portato a una fortissima dipendenza nell’era delle nuove dinamiche delle infrastrutture nella robotica.

In seguito all’aumento della domanda nel mercato elettronico e a un’ulteriore diversificazione in quello delle tecnologie smart, la Cina, spinta anche da relazioni bilaterali altalenanti, ha modificato la sua strategia, spostando la produzione di tali componenti sul proprio territorio; ciò avrà un ruolo cruciale negli sviluppi futuri dell’economia moderna. Un altro aspetto importante nella fase produttiva è l’introduzione di politiche adeguate, coadiuvate da un ambiente competitivo a livello internazionale che garantisca il rispetto dei diritti umani. Durante la pandemia di Covid-19, ci sono state diverse interruzioni delle catene di approvvigionamento, e tale situazione è stata resa ancora più complessa dell’imprevedibilità. L’India dovrebbe stabilire un ICT layer, cosa che finora è stata trascurata. Dal 5G alla robotica alle nuove piattaforme di realtà virtuale,  l’India è considerata un ottimo partner sostenibile grazie alla sua accessibilità e alle sue capacità per quanto riguarda le soluzioni tecnologiche. Saper affrontare le crisi di approvvigionamento è diventato un imperativo nel periodo post-pandemico.

Analizzando i dati odierni, possiamo osservare che Taiwan produce il 92% dei chip di dimensioni inferiori ai 10 nanometri (nm), mentre la Cina rappresenta il 54% del mercato globale dei semiconduttori e svolge un ruolo di primo piano nella fase di test dei circuiti integrati. Il potere economico della Cina, unito ai suoi prezzi competitivi che costituiscono un certo vantaggio nelle complesse relazioni commerciali tra USA e Cina, può lanciare una sfida ai policy maker indiani; l’India deve assolutamente potenziare la sua produzione interna, concentrandosi su design sviluppati autonomamente nell’ottica dell’autosufficienza, invece di immischiarsi troppo nelle questioni dei propri concorrenti, ossia USA e Cina. La rivoluzione dei semiconduttori sembra avvenire con il giusto tempismo per l’India, aumentando inoltre il numero di talenti a disposizione. Il vento del cambiamento ha fatto emergere Taiwan come leader della produzione, e lo stesso potrebbe avvenire per l’India, con la dovuta disponibilità di risorse e manodopera competitiva.

Superare gli ostacoli e creare nuove opportunità nell’economia ha aperto nuovi orizzonti per il settore privato, pronto a collaborare e ad “ammorbidire” le relazioni con i policy maker e i produttori internazionali. Si lavora dunque per costruire la fiducia, migliorando la cooperazione diplomatica e mirando ad un approccio più coordinato nel futuro. L’India importa buona parte dei semiconduttori dall’Asia sudorientale e la sua conoscenza del settore può essere preziosa per i produttori nel Sud-est asiatico, rendendo l’India più competitiva grazie a nuove cooperazioni. Grazie alla presenza, seppur piccola, di SCL a Mohali, GAETEC a Hyderabad e SITAR a Bengaluru, non è da escludere la possibilità che si sviluppi un mercato competitivo che punti seriamente ad attrarre nuovi talenti e investimenti internazionali. La prossima fase di trasformazione del mercato tecnologico e del capitale sarà un fattore chiave nel definire nuove relazioni bilaterali e multilaterali tra i produttori del Sud Est asiatico e dell’Occidente.

Rafforzare gli attuali legami commerciali e diversificare l’affidabilità dei singoli partner può offrire all’India una nuova serie di opportunità, in base alle capacità apprese nel periodo post-pandemico a causa delle interruzioni delle catene di approvvigionamento. Avere la forza di superare le nuove sfide che ci attendono può far scaturire opportunità inaspettate per le nazioni che riescono, sviluppando le proprie idee, ad affermarsi come leader internazionali nel settore tecnologico, migliorando l’impatto socio-economico attraverso la crescita sostenibile.

La cooperazione Corea-UE: commercio, sicurezza, standard globali

La Corea è uno dei partner strategici dell’Unione. Gli intensi scambi commerciali hanno aperto la strada per una cooperazione intensa in campo regolamentare e politico. Esaminare questo rapporto permette di capire in che direzione potrebbero evolversi i legami di Bruxelles con i suoi altri partner asiatici.

La storia dei rapporti tra Corea ed Europa è molto recente. A differenza di Cina e Giappone, che sono sempre stati al centro dell’immaginario europeo quando si pensava all’Estremo Oriente, la Corea è stata per secoli meno nota (e accessibile) agli europei, proprio a causa dell’influenza dei primi due Paesi su quest’ultima. Fino al XVII secolo, gli studiosi europei parlavano della Corea quasi solo all’interno di opere dedicate alla Cina: la prima descrizione significativa della Corea è forse contenuta nel Novus Atlas Sinensis (1655) del gesuita trentino Martino Martini. Il primo europeo a visitare il Paese è stato l’olandese Hendrick Hamel: il suo resoconto dei 13 anni trascorsi tra l’isola di Jeju e Seoul (1653-1666) costituiscono la prima fonte diretta sulla Corea a disposizione dei lettori europei. La figura di Hamel è poco nota nei Paesi Bassi, mentre è famosa in Corea, tanto da essere onorata con monumenti e musei. Negli ultimi decenni dell’Ottocento, gli occidentali avevano iniziato a definire la Corea un “regno eremita” per via dei suoi pochi contatti con l’esterno – un’espressione tornata recentemente in voga per riferirsi alla Corea del Nord. Le relazioni tra Seoul e i Paesi europei iniziano a svilupparsi con la fine della Seconda Guerra Mondiale e la fine della dominazione giapponese. Molti Paesi europei supportano la Corea del Sud nella Guerra 1950-1953. Eppure, l’impulso maggiore a questo rapporto arriva forse nei decenni successivi, come conseguenza degli intensi scambi commerciali tra l’Europa e l’emergente tigre asiatica.

Tra la fine della Guerra di Corea e i primi anni Duemila, il “Miracolo sul fiume Han” rende Seoul una delle economie più competitive al mondo. Il successo economico le garantisce un ruolo importante sulla scena globale, che non si riduce però alla sola economia. Il Paese ospita le Olimpiadi estive nel 1988 e i Mondiali di calcio nel 2002. Alla fine degli anni Novanta parte” l’onda coreana”, nota globalmente come Hallyu (한류), l’esplosione di popolarità dei media coreani prima negli altri Paesi asiatici e poi nel resto del mondo. Tutte queste forme di soft power, innestandosi sul suo dinamismo commerciale, hanno accompagnato l’emergere della Corea come attore globale. Nel maggio 2004, l’allora Ministro degli Affari esteri e del Commercio sudcoreano Ban Ki-moon lancia un’ambiziosa politica di liberalizzazione degli scambi internazionali attraverso la conclusione di nuovi accordi con Unione Europea, Stati Uniti e India. Un indizio del prestigio internazionale del Paese è l’elezione dello stesso Ban Ki-moon a Segretario Generale delle Nazioni Unite (2007-2016). Tra gli accordi commerciali progettati nel 2004, la Corea conclude per primo quello con l’UE (2011). L’accordo rappresenta una novità per entrambe le parti: per Seoul, è il primo trattato commerciale con un’economia avanzata ad entrare in vigore, per Bruxelles è il primo accordo di libero scambio “di seconda generazione”. Questa nuova generazione di Free Trade Agreement (FTA) europei si distingue dalla precedente per l’inclusione di materie mai coperte in passato: lo scambio dei servizi, la protezione della proprietà intellettuale e la promozione dello sviluppo sostenibile attraverso i rapporti commerciali (Trade and Sustainable Development, TSD). Il FTA UE-Corea ha quindi costituito il modello per gli accordi commerciali tra l’Europa e gli altri Paesi asiatici.

La solida posizione internazionale coreana ha portato l’UE a individuare in Seoul uno dei suoi dieci “partner strategici” sullo scenario globale. Anche in questo caso, i rapporti commerciali hanno costituito il primo impulso ad approfondire questa collaborazione. Per la Corea, l’UE è attualmente il terzo mercato di esportazione e il primo investitore straniero diretto. Se esaminiamo il periodo 2010-2018, il FTA del 2011 ha avuto effetti notevoli sui flussi dall’UE verso la Corea di merci (+77%), servizi (+82%) e investimenti (+39%). Le automobili costituiscono una fetta consistente per l’export dall’UE verso la Corea e viceversa. Il settore dei semiconduttori – un mercato strategico e dominato dai Paesi asiatici – è molto rilevante e caratterizzato da uno scambio “circolare”: la Corea esporta i chip, ma importa dall’UE l’attrezzattura per produrli. La sinergia in questo campo diventerà probabilmente ancora più importante in futuro, dato che gli Stati Uniti stanno incoraggiando i loro alleati – anche europei – a privilegiare le catene di approvvigionamento “democratiche” per i beni di importanza strategica come i semiconduttori. Tale dottrina potrebbe portare Bruxelles a comprare più semiconduttori in Corea, Giappone e Taiwan, a discapito dei fornitori cinesi, ma anche a rendersi più autonoma dalle importazioni dall’estero, seguendo il principio della “sovranità digitale”. Altro settore rilevante dell’export europeo verso la Corea è quello farmaceutico.

I negoziati sul FTA erano collegati alla revisione di un altro accordo, il Framework Agreement, che predispone le forme di cooperazione politica tra i due partner. A questi accordi se ne aggiunge un’ulteriore, il Crisis Management Participation Agreement. La Corea è l’unico partner ad avere ben tre accordi in vigore con l’UE, un indizio dell’importanza che Bruxelles riconosce a tale rapporto. Tali accordi hanno permesso una sempre maggiore cooperazione nel campo della sicurezza, sia regionale sia globale. A livello regionale, durante l’amministrazione Trump, Seoul ha iniziato a fare più affidamento su Bruxelles per mantenere la stabilità della penisola coreana ed evitare la proliferazione di armi nucleari. A livello globale, la marina coreana partecipa all’operazione Atalanta, a guida UE, per contrastare la pirateria al largo del Corno d’Africa. La partnership UE-Corea produce un ulteriore risultato: dove la cooperazione economica si interseca con quella politica, nasce la cooperazione regolamentare. I due partner riescono ad essere standard setter globali e, grazie alla robusta architettura istituzionale degli Accordi di cooperazione, sono in costante contatto per mantenere “al passo” la disciplina di molti settori economici. In primis quello digitale: lo scorso dicembre la Commissione ha dato il via con una adequacy decision alla libera circolazione dei dati tra UE e Corea. Questa forma di governance “attraverso network regolamentari transnazionali”, di cui la collaborazione UE-Corea è uno degli esempi più avanzati, potrebbe essere lo strumento più efficace per governare l’economia globalizzata, in assenza di un unico regolatore globale.

Gli investimenti asiatici in Africa

Non solo Cina. Diversi Paesi asiatici puntano forte sul continente africano tra investimenti e cooperazione commerciale e diplomatica. Una panoramica

L’interesse cinese per la regione africana è aumentato esponenzialmente nell’ultimo ventennio ma affonda le sue radici nel lontano 1955. 

Per poter capire al meglio le vicende attuali, è necessario fare un breve viaggio nel passato. Gli studiosi sono soliti scandire la relazione sino-africana in diverse fasi. Il primo approccio risale ai primi anni ’50, periodo in cui la RPC ha finanziato vari progetti di costruzione edilizia e supportato vari percorsi indipendentisti. Gli anni ’80 hanno dato il via ad una seconda fase della relazione, perlopiù negativa, in quanto si assiste ad un deterioramento del rapporto causato dalla chiusura verso l’interno da parte cinese. Ci troviamo nel periodo in cui il governo cinese inizia a prendere le distanze dalla linea maoista (improntata alla collettivizzazione delle risorse) per passare ad approcci capitalistici (promossi come temporanei e necessari a raggiungere l’ideale regime comunista), che risulteranno determinanti nei successivi rapporti sino-africani. La volontà cinese di supportare il “Terzo mondo” schiacciato dal colonialismo e il modello occidentale, si lega all’intenzionalità di promuovere un modello alternativo.

Gli anni ’90 hanno visto un intensificarsi delle relazioni e un approccio “aggiornato” della controparte asiatica rispetto a quello di mezzo secolo prima: lo spettro d’azione cinese ha incluso settori come il commercio, investimenti, assistenza di vario genere, trasferimento di competenze e formazione, ampliando il suo raggio d’azione e insinuandosi non solo nel settore privato ma anche in quello pubblico. 

Il nuovo millennio ha aperto ad un’ultima fase di crescita, continua e rapida. Il 2013 in particolare è stato un anno rappresentativo poiché ha segnato il sorpasso cinese sugli USA per gli investimenti in Africa. 

Tutto ciò si può tradurre in cifre: negli ultimi 20 anni il volume totale degli scambi tra Cina e Africa è aumentato del 24.7% e i prestiti dalla Cina hanno raggiunto la cifra di 153 miliardi. 

La domanda sorge spontanea: in cosa la RPC ha focalizzato i suoi investimenti?

  1. Materie prime: l’Africa dispone di quelle materie prime che mancano alla RPC, in particolare quelle del settore manifatturiero. È bene ricordare che la Cina, negli ultimi trent’anni, è passata da essere un’estesa economia agricola al maggior importatore agricolo globale. Questo le è costato il titolo di paese “low-cost” per il costo del lavoro.
  2. Mercato: il mercato africano è stato visto come particolarmente attraente dagli investitori cinesi sia per la sua estensione che per la recente liberalizzazione, due fattori importanti limitano la forza e il consolidamento dei player stranieri, affievolendo la competizione e facilitando l’inserimento nel mercato. 

Il modus operandi degli investimenti cinesi è stato caratterizzato dalla reciprocità, e in questo differisce da quello occidentale. Il Nord del mondo ha rivolto i propri investimenti il cui fine era l’agevolazione dei propri interessi personali, senza guardare al miglioramento delle condizioni locali. L’approccio cinese è stato, invece, onnicomprensivo e win-win: mettendo a disposizione dei partner lo stesso pacchetto di conoscenze che ha condotto la Cina al proprio sviluppo. 

La Repubblica Popolare Cinese è l’unico attore asiatico economicamente presente in Africa? 

È il Paese del Sol Levante a rispondere a questo quesito. Il capolavoro della diplomazia giapponese in Africa ha un nome: Ticad. Questo acronimo, che significa Tokyo International Conference on African Development, indica una serie di summit organizzati dal governo nipponico e dall’Onu sin dal 1993. Agli eventi, che ad eccezione del 2016 si sono sempre tenuti in Giappone, partecipano più di 40 capi di Stato africani. Ticad ha gettato le basi per progetti “degli africani”, nei quali il Giappone svolge il ruolo di agevolatore attraverso investimenti e know-how: molti degli accordi tecnici e commerciali con Tokyo sono stati firmati proprio durante queste conferenze, le quali sono state, e sono tutt’ora, un ottimo strumento di propaganda per la politica estera nipponica. 

I numeri parlano chiaro: tra il 2007 e il 2017 l’investimento diretto estero del Giappone in Africa è passato da 3,9 a 10 miliardi di dollari. Secondo il Direttore degli Affari Africani presso il Ministero degli Esteri giapponese, Shigeru Ushio, l’accesso ai mercati africani è di vitale importanza per le imprese nipponiche e per le start-up africane, le quali potranno svilupparsi approfittando di legislazioni agevoli in termini burocratici. 

Il Giappone è partito dalle infrastrutture. Il governo giapponese ha iniziato la sua corsa in Africa sviluppando ambiziosi progetti su scala sovra-regionale: un esempio tra tutti è costituito dal porto di Mombasa, considerato di importanza capitale poiché capolinea dell’autostrada transcontinentale – l’Inter-African Highway 8 – che collegherà Lagos, in Nigeria, alla città keniana. L’intero progetto è nelle mani della Toyo Construction Co., che non è certo la sola compagnia giapponese impegnata nella regione. Secondo l’Overseas Construction Association of Japan, ben 16 aziende di costruttori del Sol Levante sono attive in 22 Paesi africani. 

Ma il Giappone non si è limitato al settore delle infrastrutture. I suoi orizzonti sono ben più ampi e hanno raggiunto, in poco tempo, i mercati import-export e le nuove tecnologie, con 796 aziende nipponiche attive in Africa nel 2017. Alcune di queste, come la start-up Nippon Biodiesel Fuel in Mozambico, hanno creato un solido network di fornitori e agricoltori legati direttamente alle proprie attività. 

Il settore che ha visto un successo clamoroso del Sol levante è certamente quello energetico e minerario, come dimostra la presenza di uffici delle principali Corporation nipponiche: la Japan Oil, Gas and Metals National Corp., che si occupa dei rilievi per l’individuazione del petrolio in Kenya e dello sviluppo del gas naturale in Mozambico. 

Non c’è due senza tre”: a far compagnia alle potenze cinese e giapponese ci pensa l’India.

Le crescenti necessità commerciali dell’India hanno portato a un suo orientamento verso l’Africa in quanto partner economico sempre più rilevante e a un rinvigorimento della propria presenza navale nell’Oceano indiano occidentale per garantire la sicurezza degli scambi.

Nello specifico, la zona del Corno d’Africa è di cruciale importanza per New Delhi in quanto estremità nord-occidentale della regione dell’Oceano Indiano, di primaria importanza per la propria sicurezza. Storicamente, il porto di Adulis vicino a Massawa era un importante snodo del commercio marittimo tra Europa e Asia su cui si riversavano i mercanti indiani. La stabilità del Corno era già una delle priorità della madrepatria britannica per garantire la sicurezza e la prosperità economica della sua colonia indiana. Ottenuta l’indipendenza nel 1947, l’India adottò un isolazionismo militare che limitò la diffusione della propria influenza regionale. Tra gli anni Novanta e i primi anni Duemila, in concomitanza con il boom economico indiano, la domanda interna di materie prime necessarie a sostenere la crescita è aumentata esponenzialmente. Tutto ciò ha contribuito alla creazione di un ambiente dinamico e alla necessità di diversificare le forniture energetiche. Da quel momento, gli investitori indiani hanno iniziato a guardare alle opportunità offerte dal continente africano.

L’approccio indiano in Africa si basa sul mutuo rispetto e sulla non interferenza nel quadro di una cooperazione sud-sud. Nel Corno, l’India sostiene i paesi più bisognosi con aiuti allo sviluppo mirati e destinati soprattutto al settore agricolo, sanitario e dell’istruzione. Tutti i paesi della regione sono partner del progetto indiano Pan African e-Network, un’iniziativa lanciata nel 2009 dal governo di New Delhi e che punta a condividere con i paesi africani l’expertise indiana nei campi della sanità e dell’istruzione.

L’azione indiana in Africa non si esaurisce all’aiuto umanitario: il governo mira a soddisfare i propri bisogni di sicurezza energetica e alimentare, fondamentali per sostenere la crescita economica e demografica del paese, oltre che a sfruttare le opportunità imprenditoriali e di investimento emergenti. New Delhi è accompagnata dal mondo dell’imprenditoria e dai giganti del settore privato. Tra il 2000 e il 2014 il commercio bilaterale è cresciuto da 10,5 a 78 miliardi di dollari: l’India esporta attrezzature elettriche e altri macchinari, prodotti farmaceutici, alimentari, manifattura. 

In sintesi, il ruolo cinese di primo della classe all’interno dello scenario degli investimenti in Africa è costantemente sfidato dalla presenza giapponese e indiana. Il peso dell’India nel continente è in crescita: da un lato aiuta il governo indiano a uscire da una storia di scarso peso nei rapporti internazionali e scarsa attenzione alle relazioni internazionali, e dall’altro soddisfa le necessità di materie prime di un’economia in forte crescita. Il governo giapponese è, invece, consapevole dell’importanza del mantenimento della sua presenza in Africa per tutelare le vie di comunicazioni marittime, in quanto lungo le coste africane passa il petrolio che Tokyo importa dal Medio Oriente. A riprova del fatto che, sebbene vi sia una rivalità, ci sono anche delle convergenze: assicurare la presenza economica nel continente africano è interesse prioritario tanto per la Cina, quanto per il Giappone e l’India.