Global Lens

Il problema dell’acqua

Gli effetti dell’aumento delle temperature sull’Himalaya in un nuovo report: la principale riserva idrica del continente rischia di andare a secco nel 2100. Con conseguenze per un’area in cui nascono Yangtze e Fiume Giallo, Indo, Gange e Mekong

L’Asia perderà la sua principale riserva d’acqua entro il 2100. È l’allarme lanciato dai ricercatori dell’International Centre for Integrated Mountain Development (ICIMOD) di Kathmandu, che nel loro ultimo report prevedono una riduzione dei ghiacciai himalayani fino all’80% dell’attuale volume. La stima si basa sulle previsioni di aumento delle temperature globali di 4°C, ben oltre i limiti promessi dall’Accordo per il clima di Parigi ma vicini alle proiezioni reali qualora non venga intrapresa un’azione significativa. 

L’area dell’Hindu Kush, oggetto della ricerca, ospita quella che è oggi la riserva di ghiaccio più estesa al mondo dopo i due Poli. Qui si trovano 15mila ghiacciai per un totale di 100mila chilometri quadrati di superficie, da dove iniziano il loro percorso lo Yangtze e il Fiume Giallo, così come l’Indo, il Gange e il Mekong. Un’area tanto vasta da interessare direttamente le 240 milioni di persone che abitano sull’altopiano e altre 1,65 miliardi lungo i bacini fluviali. 

Secondo le previsioni di ICIMOD lo scioglimento dei ghiacciai provocherà un picco dell’approvvigionamento idrico a valle entro la metà del secolo, per poi iniziare lentamente a declinare. A partire da quel momento la disponibilità di acqua inizierà a diminuire e non vi saranno più sufficienti riserve a monte per il mantenimento degli ecosistemi locali.

Dalla dipendenza dei sistemi energetici dall’idroelettrico fino all’instabilità delle risorse idriche per l’agricoltura, lo scioglimento dei ghiacciai avrà e ha già adesso un impatto epocale sul continente. Questo in una regione dove l’80% delle precipitazioni si concentra nei quattro mesi della stagione monsonica, oggi sempre più intensa, breve e calda. Nel 2021 la presidente dell’Ufficio delle Nazioni Unite per la riduzione del rischio di disastri Mami Mizutori aveva definito la siccità “la prossima pandemia”. Peccato, aggiungeva, che per la siccità non esiste alcun vaccino. 

La scarsità di risorse idriche entra in gioco in un’area dove, negli ultimi vent’anni, gli investimenti nell’energia idroelettrica sono esplosi. Cento dighe sono oggi operative nei sedici paesi raggiunti dalle acque provenienti dall’altopiano, mentre è prevista la costruzione di altre 650 dighe nei prossimi anni. L’entusiasmo verso le opportunità derivanti da questa fonte apparentemente sostenibile è stato presto smorzato dalle ondate di calore record che si susseguono di anno in anno. Un picco delle temperature prolungato che, come sta accadendo in Vietnam da oltre cinque settimane, ha portato alla graduale chiusura di alcune delle principali centrali idroelettriche del paese. 

Ma l’appetibilità delle risorse idriche per sostenere la rampante domanda energetica dei nuovi poli industriali ha generato narrazioni ben diverse nella comunità degli investitori internazionali. Dall’Irrawaddy per il Myanmar al Mekong per il Laos, sono tante le aziende e le istituzioni che vorrebbero cogliere l’occasione di trasformare questi paesi nelle “batterie dell’Asia”. Il potenziale idrico dei grandi fiumi asiatici viene spesso definito “un’opportunità mancata” o “ampiamente sottosfruttata”. 

A ciò sta contribuendo una graduale conversione delle catene di approvvigionamento globali nell’Asia meridionale e nel Sud-Est asiatico dovuta all’aumento dei costi della manodopera cinese e alle tensioni internazionali. Non meno importanti sono gli sgravi fiscali adottati dai governi per attirare gli investitori stranieri, così come i numerosi accordi commerciali. Tutte misure che stanno ampliando l’accesso ai mercati asiatici e, facilitando gli scambi regionali, permettono di delocalizzare un’intera filiera produttiva sulla base dei benefici fiscali o economici dei vari paesi.

La contrazione della calotta polare sta alle esplorazioni energetiche nei mari del nord come lo scioglimento dei ghiacciai sta alle ambizioni infrastrutturali e minerarie di Pechino. È infatti la Repubblica Popolare, in particolare, a puntare sulla crescente accessibilità dell’altopiano himalayano. Recentemente alcuni ricercatori hanno identificato una vena di terre rare che potrebbe estendersi per mille chilometri lungo il confine meridionale del Tibet, fattore che potrebbe tanto rafforzare la posizione dominante della Cina su uno dei mercati più strategici nel nostro tempo, quanto far riaffiorare le tensioni con la vicina India.

Una maggiore presenza di attività antropiche sull’altopiano himalayano, infatti, sta già facendo ritornare alla luce le rivendicazioni territoriali dei diversi governi della regione. È il caso della contea tibetana di Lhunze, uno dei maggiori bacini di terre rare localizzati in un’area tuttora contestata dall’India e dove gli investimenti infrastrutturali sono più che raddoppiati tra il 2016 il 2019. L’escalation di un conflitto legata tanto alle nuove risorse minerarie potrebbe presto rappresentare solo l’anteprima di un più aspro scontro per le risorse idriche. Escludendo il Trattato delle acque dell’Indo firmato da India e Pakistan, non esiste alcun meccanismo regionale dedicato alla redistribuzione e ai diritti di utilizzo delle acque dei fiumi che attraversano più stati asiatici. 

La massiccia presenza di dighe cinesi a monte del Mekong è solo un esempio di quanto sia ancora considerata marginale l’emergenza idrica che, prima o poi, non sarà più solo un problema di pochi contadini. La sua marginalità, conclude il report, è anche dovuta al vuoto conoscitivo sugli ecosistemi oltre i dati: la dimensione umana, sottolinea il documento, è fondamentale per capire quali conseguenze e quali soluzioni si stanno mettendo in campo. Le popolazioni locali si stanno adattando, ma lo stanno facendo attraverso forme di sostegno e ridefinizione autonomi e su scala ridotta. Ma la crisi climatica è transfrontaliera, e i suoi effetti sulle già complesse relazioni tra gli attori della regione sono – ancora – tutte da vedere.

No a protezionismo e arroganza

Pubblichiamo qui uno stralcio del discorso a Chatham House di Tharman Shanmugaratnam, Senior Minister di Singapore

Gli Stati Uniti e la Cina dovrebbero abbandonare l’arroganza di rivendicare la superiorità dei rispettivi sistemi politici e concentrarsi invece sulla collaborazione per portare avanti i propri interessi. Non ci sono santi nelle relazioni tra le superpotenze. Entrambe devono fare degli aggiustamenti. Entrambe devono evitare un senso di arroganza nei confronti della superiorità dei propri sistemi. Entrambe devono riconoscere che c’è molto in comune nel modo in cui cercano di migliorare le vite e di far crescere i redditi. Queste sono ottime ragioni per vedere da vicino e sviluppare regole per assicurare che il commercio sia equo, che gli investimenti siano equi e che la proprietà intellettuale sia protetta. Sono regole che possono essere sviluppate. L’assenza di una strategia di interdipendenza non significherebbe necessariamente che la Cina si spenga gradualmente. Alla fine si risolleverà comunque, ma quando finalmente ci arriverà saprà chi le ha reso estremamente difficile arrivarci. Questo rende il mondo pericoloso. Nel 2016 c’è stato un “cambio di passo” nella percezione della “minaccia” della Cina negli Stati Uniti. Non credo che questo cambio di rotta sia stato provocato da una nuova strategia della Cina o da un nuovo sviluppo della quota di mercato cinese o delle azioni della Cina in qualsiasi ambito. Si è trattato di politica interna. La politica è importante e credo che stiamo percorrendo una strada che ci porta alla politica del pessimismo e della lamentela e che deve essere corretta. La Cina non si sente ancora pronta a essere alla pari con gli Stati Uniti sulla scena centrale, ma vuole giocare un ruolo più importante nella definizione delle regole del Fondo Monetario Internazionale, della Banca Mondiale, del commercio e di altri settori. E nemmeno gli Stati Uniti. È estremamente importante preservare le intese precedenti su Taiwan e preservare l’ambiguità costruttiva su Taiwan che dura da decenni sia da parte degli Stati Uniti che della Cina. Per quanto riguarda il commercio globale, se optiamo per un sistema protezionistico, che impone restrizioni e in cui le vostre azioni interne hanno ricadute negative sul resto del mondo, potreste essere in grado di preservare la superiorità relativa, almeno per un certo periodo di tempo. Ma quasi certamente a costo di una performance assoluta ovunque.

L’ASEAN vuole dialogo

Pubblichiamo qui uno stralcio del discorso di Ng Eng Hen, Ministro della Difesa di Singapore, allo Shangri-La Dialogue 2023

L’aumento delle spese militari, il cambiamento delle alleanze militari e commerciali e le politiche economiche di fatto nativiste sono forti venti di cambiamento. Come possiamo resistere alle tempeste che verranno? Per l’Asia e la più ampia regione indo-pacifica, le relazioni tra Stati Uniti e Cina sono fondamentali per la stabilità. Questo è il nucleo, ma anche la penombra delle relazioni di altri Paesi al di fuori di questo nucleo è importante per la stabilità. Nessun Paese, credo, vuole la guerra, ma le nostre ipotesi di lavoro e i nostri scenari devono prevedere che possano verificarsi incidenti non pianificati. Devono esistere canali di comunicazione, sia formali che informali, in modo che quando si verificano questi incidenti non pianificati, tali canali possano essere utilizzati per una de-escalation ed evitare il conflitto. Nonostante la guerra fredda, nel 1972 Breznev e Nixon firmarono i trattati sulla limitazione degli armamenti strategici e sui missili anti-balistici. Il punto saliente è che tali canali di comunicazione devono essere costruiti nel tempo. Sarà troppo tardi per avviarli o attivarli solo in momenti di crisi. Diplomatici esperti paragonano sfavorevolmente le linee di comunicazione tra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica durante la Guerra Fredda con quelle che esistono oggi tra gli Stati Uniti e la Cina, ormai al collasso. Non è nostro compito e certamente non è mia intenzione commentare gli sforzi diplomatici di altri Paesi, ma espongo queste osservazioni sui punti di contatto in declino tra le strutture militari americane e cinesi sapendo bene che Singapore e altri Stati dell’ASEAN non sono spettatori disinteressati.  Sia gli Stati Uniti che la Cina hanno dichiarato di non volere che i Paesi dell’ASEAN si schierino, ma gli Stati membri dell’ASEAN, con un vivido ricordo della rivalità tra grandi potenze nel nostro passato e delle devastanti conseguenze, sono fortemente preoccupati che il peggioramento delle relazioni tra queste due potenze, Stati Uniti e Cina, costringerà inevitabilmente a scelte difficili i nostri singoli Stati. Per l’ASEAN, sia attraverso i legami bilaterali e i singoli Stati membri, sia collettivamente con gli Stati Uniti e la Cina attraverso l’ADMM-Plus, abbiamo cercato l’inclusione e l’impegno come piattaforme chiave per la prelazione e la costruzione della fiducia. Nell’ambito dell’ADMM, continuiamo a portare avanti esercitazioni multilaterali che coinvolgono tutti i nostri oltre otto partner. Queste interazioni rafforzano la cooperazione pratica, come il Codice per gli incontri imprevisti in mare (CUES), per ridurre il rischio di incidenti e di errori di calcolo. Al centro dei nostri impegni, come pienamente esemplificato nello Shangri-La Dialogue, c’è il desiderio di cercare la pace, anche se noi capi della sicurezza rafforziamo i nostri eserciti per proteggere le nostre singole nazioni. A volte i progressi sembrano dolorosamente lenti, ma è nostro dovere nei confronti dei nostri cittadini e della prossima generazione persistere e fare progressi.

Leggi il discorso completo qui

Shangri-La Dialogue, l’ASEAN chiede pace

Durante il summit sulla sicurezza dell’Asia-Pacifico di Singapore, è stata ribadita la centralità dell’ASEAN, i cui Paesi chiedono maggiore dialogo a livello internazionale

Editoriale a cura di Lorenzo Lamperti

“Il Sud-Est asiatico ha pagato più di altri le devastanti conseguenze dello scontro tra grani potenze. Non vogliamo che questo accada di nuovo”. Ng Eng Hen, il ministro della Difesa di Singapore, lo dice chiaramente nel suo discorso durante l’ultima sessione plenaria dello Shangri-La Dialogue, il massimo summit sulla sicurezza dell’Asia-Pacifico che si è svolto nella città-stato dal 2 al 4 giugno. Singapore e in generale l’area ASEAN si conferma ancora una volta cruciale crocevia della diplomazia globale. In un momento a dir poco complicato, tra guerra in Ucraina e le tensioni tra Stati Uniti e Cina, il Sud-Est fa sentire la sua voce chiedendo saggezza ai leader mondiali. “Le spese militari stanno aumentando in modo esponenziale anche in Asia-Pacifico”, dice il ministro di Singapore. “Non è una fonte di instabilità in sé, ma in assenza di un dialogo adeguato tra le potenze allora rischia di portare a una corsa al riarmo che può destabilizzare l’intera regione”. Durante gli incontri, a cui hanno partecipato anche il segretario alla Difesa degli Stati Uniti, Lloyd Austin, e il ministro della Difesa cinese, Li Shangfu, è stata menzionata più volta la “centralità dell’ASEAN” e la bontà della sua ASEAN way. E tutti i rappresentanti dei Paesi del Sud-Est asiatico hanno sottolineato la loro volontà di mantenere i rapporti sia con Washington sia con Pechino, promuovendo un multilateralismo basato su commercio e regole internazionali. Ma anche e soprattutto sul dialogo. “Sia Austin sia Li hanno garantito che Stati Uniti e Cina non chiedono ai Paesi ASEAN di scegliere da che parte stare, ma noi auspichiamo anche che questi due Paesi possano tornare a parlare tra loro”, ha detto Ng Eng Hen. “Entrambi sono da tempo in Asia-Pacifico ed entrambi non se ne andranno. Bisogna trovare o ritrovare il modo per garantire stabilità e sicurezza alla regione”. Lo stesso concetto espresso anche dall’IISS, l’istituto internazionale che organizza da 20 anni lo Shangri-La Dialogue a Singapore, dove si sono peraltro incontrati a porte chiuse anche i capi dell’intelligence di diversi Paesi, Stati Uniti e Cina compresi. A riprova, ancora una volta, di come Singapore e il Sud-Est garantiscano una eccezionale piattaforma di confronto. Se il futuro del mondo si scriverà (anche o soprattutto) in questa regione, forse sarebbe il caso di ascoltarla.

Prosperità e dubbi: il rapporto bifronte tra Cina e Sud-Est

Articolo di Vittoria Mazzieri

Target regionale per gli investimenti, alleati ideologici, partner di sicurezza, attori in rivendicazioni territoriali: dall’inizio delle relazioni diplomatiche i paesi del Sud-Est asiatico hanno assunto agli occhi di Pechino ruoli mutevoli e complessi. In termini di vicinanza geografica e cooperazione economica, l’ASEAN occupa un ruolo prioritario nella politica estera cinese

Il viaggio che Deng Xiaoping compie nel 1979 in Thailandia, Malesia e Singapore segna un punto importante delle relazioni tra Pechino e i paesi del Sud-Est asiatico. Il “piccolo timoniere” rimane stupito dai progressi socio economici di un’area che aveva erroneamente considerato come arretrata dal punto di vista economico. Come si legge in un saggio sul tema dei docenti della Nanyang Technological University di Singapore Zhou Taomo e Hong Liu, a colpire particolarmente Deng è la città-stato a sud della Malesia. All’indomani dell’incontro con l’allora primo ministro singaporiano Lee Kuan Yew, il Quotidiano del popolo passa dal raccontare Singapore come il “cane da guardia degli imperialisti americani” a dipingerla come un’“isola di pace”, una “città giardino che vale la pena di studiare”. Deng, invece, riceve l’ennesima conferma della necessità di abbandonare le lenti ideologiche con le quali fino ad allora il Partito comunista ha interpretato le relazioni con il Sud-Est asiatico.

I rapporti tra il gigante asiatico e la città-stato dimostrano le mutevoli relazioni della Repubblica popolare con l’area tradizionalmente conosciuta come Nanyang 南洋, “mari del Sud”. Oltre che dal contesto politico interno, le relazioni tra Pechino e la regione sono state influenzate da questioni legate all’identità delle comunità diasporiche (a Singapore il 75% della popolazione è di etnia cinese), dalle dispute territoriali e dai vari progetti infrastrutturali nell’ambito della Belt and Road Initiative. 

I primi anni dalla nascita della Repubblica popolare sono caratterizzati da un approccio moderato e flessibile: Pechino si fa promotrice di una “terza via” che possa offrire un’alternativa ai due blocchi della Guerra Fredda anche ai paesi ideologicamente non affini al Partito comunista. La promulgazione dei Cinque principi per la coesistenza pacifica, nel 1954, presenta un nuovo quadro di relazioni internazionali basate sul rispetto reciproco della integrità territoriale e del principio di non interferenza, anche per i paesi ideologicamente non affini. Il Trattato di doppia nazionalità sino-indonesiano, firmato l’anno successivo, pone fine alla politica che concede la nazionalità a tutte le persone di etnia cinese. La Cina incoraggia così le comunità d’oltremare a adottare la cittadinanza dei paesi in cui vivono, puntando in tal modo a placare le preoccupazioni di alcuni paesi del Sud-est asiatico, timorosi che le comunità di cinesi possano essere usati dal Partito per intraprendere attività sovversive. 

Nel corso degli anni le minoranze di etnia cinese diventano bersaglio di pesanti pesanti politiche discriminatorie: nel 1959 il presidente indonesiano Sukarno revoca la licenza per la gestione di attività di vendita al dettaglio a tutti gli “stranieri”, per lo più cinesi. In alcune realtà si rafforza, di conseguenza, il sentimento di appartenenza alla madrepatria. Con l’inizio della Rivoluzione culturale gruppi di studenti di etnia cinese iniziano a indossare i distintivi di Mao Zedong nelle scuole di Rangoon, nell’attuale Myanmar. Ne segue un’ondata di rivolte etniche su larga scala e un drastico deterioramento delle relazioni bilaterali.

Dalla fine degli anni Sessanta, in generale, la politica estera cinese è caratterizzata da una tendenza alla radicalizzazione, anche a causa della recessione economica che segue il disastroso Grande balzo in avanti. La nascita nel 1967 dell’Associazione delle Nazioni del Sud-Est Asiatico (ASEAN), fondata da Indonesia, Malesia, Filippine, Singapore e Thailandia in chiave anti-comunista, viene percepita da Mao Zedong come uno strumento dell’imperialismo. Ai paesi vicini dal punto di vista ideologico si chiede di riconoscere come bersagli principali della rivoluzione, per usare le parole del premier Zhou Enlai, l’“imperialismo, il feudalesimo e il capitalismo comprador”. Un approccio che muterà in maniera drastica all’indomani dell’invasione vietnamita della Cambogia. Come spiegato in un articolo per l’ISPI da Ngeow Chow-Bing, direttore dell’Istituto degli Studi Cinesi alla University of Malaya, in questo scenario l’ASEAN assume per Pechino un’importanza strategica per contenere le mire espansionistiche del governo di Hanoi (con cui le relazioni si sono irrimediabilmente deteriorate) sull’Indocina e sull’intera regione. 

Lo sviluppo economico da record che interessa la Repubblica popolare dagli anni Novanta è un elemento chiave nella espansione della sua influenza in termini di soft power, come ha scritto Joshua Kurlantzick, fellow per il Sud-Est asiatico presso il Council on Foreign Relations. Le prestazioni economiche della Cina attirano l’interesse dei paesi in via di sviluppo e hanno anche l’effetto di migliorare la reputazione delle comunità di cinesi che vivono nella regione. 

È in quegli anni che inizia quello che la retorica ufficiale cinese descrive come il “decennio d’oro” dei rapporti con l’ASEAN (che ad oggi, oltre ai paesi fondatori, conta anche Brunei, Myanmar, Cambogia, Timor Est, Laos, Vietnam). Durante la crisi finanziaria asiatica del 1997 Pechino prende la decisione simbolica di non svalutare la propria moneta, offrendosi come garante di stabilità. Negli anni successivi sigla rilevanti accordi multilaterali: l’Iniziativa Chang Mai di scambio di valuta, l’accordo di libero scambio del 2002 e la Dichiarazione sulla condotta delle parti nel Mar Cinese Meridionale, che stabilizza le controversie territoriali, nello stesso anno. 

Ma con la salita al potere di Xi Jinping la politica estera cinese acquisisce un profilo più proattivo e assertivo. Il deterioramento dei rapporti nell’ultimo decennio, soprattutto con le Filippine e il Vietnam, è legato a doppio filo alle rivendicazioni territoriali nell’area del Mar cinese meridionale. Dagli anni Settanta le dispute con il Vietnam per le Isole Spratly e le Paracelso si sono trasformate in una controversia di portata regionale, o addirittura globale. A poco o a nulla è servito il codice di condotta del 2002, che seppur celebrato all’epoca come un mezzo per garantire un “ambiente pacifico, amichevole e armonioso nel Mar Cinese Meridionale”, non ha incluso disposizioni su meccanismi di applicazione o di risoluzione delle controversie. 

La tensione, quindi, è cresciuta, arrivando a coinvolgere anche l’Indonesia per la prima volta nel 2016. Nello stesso anno una sentenza del Tribunale di arbitrato permanente de L’Aja ha bocciato le rivendicazioni di Pechino, rappresentate dalla cosiddetta “linea a nove punti”. Pechino non ha accettato la decisione che riconosce a Manila i diritti di sfruttamento delle risorse all’interno delle 200 miglia marittime della Zona economica esclusiva (Zee). Ha anzi accusato Washington di aver spinto le Filippine a ricorrere al tribunale per “sabotare le relazioni tra la Cina e i paesi dell’ASEAN”.

Malgrado le rivendicazioni marittime, la Cina non ha mai smesso di corteggiare i paesi della regione. La Regional Comprehensive Economic Partnership (RCEP), lo storico accordo siglato nel 2020 dopo otto anni di negoziati ed entrato in vigore a gennaio 2022, è servito a Pechino per consolidare la cooperazione economica nell’area. Ma le reciproche relazioni commerciali non possono essere spiegate senza tirare in ballo la Belt and Road Initiative, l’ambiziosa nuova via della seta lanciata nel 2013 che conta investimenti cinese per un valore di circa 85 miliardi l’anno. Già agli inizi degli anni Duemila il Sud-Est asiatico si è configurato come un importante target regionale per gli investimenti diretti esteri cinesi. Nel 2020, in piena crisi pandemica, l’ASEAN è salito al primo posto tra le destinazioni degli investimenti BRI. 

L’iniziativa si è scontrata con diversi gradi di accettazione nei paesi della regione. Malgrado le tensioni per le dispute territoriali, molte nazioni coinvolte hanno continuato a desiderare investimenti cinesi nelle infrastrutture e nella produzione. A differenza dei vicini più accoglienti, Hanoi ha assunto un approccio prudente: la strategia vietnamita sembra puntare a evitare il confronto con la Cina, al contempo scongiurando il rischio di dipendenza economica. Ad oggi l’unico progetto BRI attuato nel paese è la linea tranviaria Cat Linh-Ha Dong, che ha attirato ampie critiche a causa dei costi elevati.

Il deragliamento di un treno ad alta velocità dell’ambizioso progetto ferroviario Jakarta-Bandung dimostra che i rischi legati alla sicurezza possono minare la credibilità della Repubblica popolare. Da un recente rapporto dell’istituto di credito malese Maybank emerge che la ripresa post-pandemia potrebbe essere meno forte delle aspettative. I progetti potrebbero subire battute d’arresto a causa della crescente diffidenza dei governi, ad esempio per i costi sociali e ambientali: nel 2014 le attività estrattive di bauxite di proprietà cinese negli altopiani centrali del Vietnam hanno scatenato ampie proteste contro i danni ambientali e il mancato rispetto delle leggi locali. Per altri paesi che si sono impegnati più attivamente nella BRI, come Laos, Cambogia e Myanmar, ritornano periodicamente i timori per la “trappola del debito” da parte di economisti e osservatori. 

Nel complesso i paesi del Sud-Est asiatico restano essenziali a Pechino per numerose ragioni. Ad esempio, come partner verso i quali la Cina può accelerare la diffusione di infrastrutture “soft” come servizi sanitari ed economia digitale. O come attori utili per sovvertire gli equilibri internazionali e accrescere la rilevanza dell’Asia-Pacifico. Sullo sfondo delle tensioni con gli Stati Uniti, la Repubblica popolare punta a proporsi ai paesi ASEAN come un attore non assertivo, volenteroso a perseguire “il rispetto reciproco”, il “dialogo” e sinergie “win-win”, come rivendicato lo scorso anno in occasione del lancio della Global Security Initiative (GSI). D’altro canto, gli investimenti cinesi si configurano come risorse imperdibili per i paesi in via di sviluppo della regione: l’iniziativa gemella della GSI, la Global Development Initiative (GDI), rappresenta la volontà di Pechino di intestarsi un ruolo centrale nella promozione multilaterale dello sviluppo. L’ASEAN è diventato il gruppo regionale più numeroso a beneficiarne, accaparrandosi 14 progetti su un totale di 50 di quelli previsti dal primo lotto del GDI Project Pool.

 

Sud-Est, un modello per gestire le tensioni

La rapida crescita della regione e l’economia in espansione suggeriscono che la regione può diventare un modello per la gestione della competizione tra grandi potenze

“Il Sud-Est asiatico è tutt’altro che un monolite: i suoi Paesi hanno politiche estere e obiettivi diversi, alcuni dei quali in contrasto tra loro. Ma la rapida crescita della regione e l’economia in espansione suggeriscono che i suoi Paesi diventeranno più potenti nel tempo e, con essi, probabilmente più capaci di evitare interferenze esterne. Il Sud-Est asiatico può essere stato definito in passato da un conflitto tra grandi potenze, ma oggi può diventare un modello per la gestione della competizione tra grandi potenze”. Sentenzia così un’analisi di Huong Le Thu, pubblicata sull’ultimo numero di Foreign Affairs. Il Sud-Est asiatico si è impegnato a fondo per mantenere ed espandere una stabilità diplomatica e di sicurezza. Oltre all’architettura di sicurezza multilaterale guidata dall’ASEAN, la regione ha stabilito molti accordi plurilaterali e bilaterali con Stati terzi. Si tratta di gruppi ad hoc, come il pattugliamento congiunto del fiume Mekong da parte di Cina, Laos, Myanmar e Thailandia. Secondo Foreign Affairs, con l’aumentare delle tensioni geopolitiche, il numero già elevato di queste partnership è destinato ad aumentare. Questi accordi, complessi e spesso sovrapposti, sono fondamentali per gli sforzi del Sud-Est asiatico di impegnarsi con tutti, senza però assumere impegni esclusivi con nessuno. Gli Stati del Sud-Est asiatico stanno anche diventando più attivi in gruppi che includono partecipanti al di fuori del loro vicinato. L’anno scorso, ad esempio, la Cambogia ha ospitato il Vertice dell’Asia orientale di alto profilo, la Thailandia ha tenuto il forum della Cooperazione economica Asia-Pacifico e l’Indonesia ha presieduto il G20. Singolarmente, sottolinea Huong, alcuni governi del Sud-Est asiatico hanno imparato che la competizione tra Stati Uniti e Cina presenta dei vantaggi. Lo scontro tra Pechino e Washington può spaventare i politici della regione, ma ha portato entrambi i governi a cercare di conquistare i cuori e le menti dei Paesi non allineati. Questo ha aiutato i Paesi del Sud-Est asiatico, sede di popolazioni giovani e di manodopera a basso costo, a trarre ogni tipo di beneficio economico. Il Vietnam, sostiene Foreign Affairs, ha tratto enormi vantaggi dal distacco degli Stati Uniti dalla Cina, in quanto le aziende americane hanno trasferito la produzione nelle fabbriche vietnamite. Anche l’Indonesia ha ricevuto una spinta agli investimenti da parte di aziende statunitensi, tra cui Amazon, Microsoft e Tesla. La regione sta diventando d’altronde sempre più critica per le catene di approvvigionamento globali. E può indicare una strada da seguire per continuare a prosperare.

Il mondo si avvicina all’ASEAN

Aumenta la cooperazione tra i Paesi del Sud-Est asiatico e piattaforme globali come il G7. E non solo. Con l’auspicio che sempre più governi seguano la “terza via” del blocco

L’Associazione delle Nazioni del Sud-Est asiatico è sempre più coinvolta nei meccanismi decisionali globali. Un esempio molto attuale è il primo storico appuntamento tra i Ministri della Giustizia del G7 e quelli del blocco regionale. In programma una riunione congiunta a luglio, con il Giappone, Paese ospitante e Presidente di turno del G7. Un analogo incontro Giappone-ASEAN è previsto negli stessi giorni. D’altronde, dopo l’inizio della guerra in Ucraina, ha acuito le distanze tra Occidente e alcuni Paesi. L’ASEAN, con la sua terza via fatta di neutralità e pacifismo, può fungere da connettore cruciale in questa fase globale. Nel Sud-Est asiatico si teme che l’uso della forza per cambiare lo status quo, come ha fatto la Russia in Ucraina, si diffonda nell’Asia-Pacifico. Ma soprattutto temono di restare coinvolti in contese alle quali non appartengono. “L’ASEAN deve rimanere indipendente e una zona di neutralità in mezzo all’acuirsi della rivalità tra Stati Uniti e Cina”, ha dichiarato nei giorni scorsi il Primo Ministro Datuk Seri Anwar Ibrahim, il quale ha sottolineato che l’ASEAN è stata costituita per promuovere la pace e la stabilità nella regione. “Questa posizione continua. Non vogliamo che la regione sia la base per una competizione militare. Questa posizione è stata abbastanza coerente, anche se rimaniamo amichevoli con tutti i Paesi”, ha spiegato. I recenti accordi multilaterali che rischiano di creare le basi di una corsa agli armamenti non sono visti di buon occhio. Nel 1995, 10 Stati membri dell’ASEAN hanno firmato il Trattato sulla zona libera da armi nucleari nel Sud-Est asiatico o Trattato di Bangkok, che designa la regione come priva di armi nucleari. Il trattato prevede anche un protocollo aperto alla firma di Cina, Francia, Russia, Regno Unito e Stati Uniti. Sinora nessuno lo ha firmato, ma finalmente si vedono i primi movimenti. Di recente, la Cina ha espresso l’intenzione di firmare il protocollo per il trattato ASEAN sulla zona libera da armi nucleari. Ma non sarà semplice far aderire tutti. La speranza del blocco è che partecipando con sempre maggiore frequenza alle piattaforme globali, il mondo scelga sempre più di seguire quella terza via che indica già da diversi anni.

La terza via asiatica

Come l’ASEAN sopravvive e prospera in mezzo alla competizione tra grandi potenze

Proponiamo di seguito un estratto dell’ultimo saggio di Kishore Mahbubani, pubblicato da Foreign Affairs

La sfida geopolitica più importante del nostro tempo è quella tra Cina e Stati Uniti. Con l’aumento delle tensioni sul commercio e su Taiwan, tra le altre cose, in molte capitali cresce comprensibilmente la preoccupazione per un futuro definito dalla competizione tra grandi potenze. Ma una regione sta già tracciando un percorso pacifico e prospero in questa era bipolare. Situata al centro geografico della lotta per l’influenza tra Stati Uniti e Cina, il Sud-Est asiatico non solo è riuscito a mantenere buone relazioni con Pechino e Washington, ma ha anche permesso alla Cina e agli Stati Uniti di contribuire in modo significativo alla sua crescita e al suo sviluppo. Non si tratta di un’impresa da poco. Tre decenni fa, molti analisti ritenevano che l’Asia fosse destinata al conflitto. Come scrisse lo scienziato politico Aaron Friedberg nel 1993, l’Asia sembrava molto più probabile dell’Europa come “cabina di pilotaggio di un conflitto tra grandi potenze”. Nel lungo periodo, prevedeva, “il passato dell’Europa potrebbe essere il futuro dell’Asia”. Ma nonostante i sospetti e le rivalità – in particolare tra Cina e Giappone e tra Cina e India – l’Asia è ora nel suo quinto decennio di relativa pace, mentre l’Europa è di nuovo in guerra. (L’ultimo grande conflitto asiatico, la guerra sino-vietnamita, è terminato nel 1979). Il Sud-Est asiatico ha sopportato una certa dose di conflitti interni, soprattutto in Myanmar, ma nel complesso la regione è rimasta notevolmente pacifica, evitando conflitti interstatali nonostante la notevole diversità etnica e religiosa. Il Sud-Est asiatico ha anche prosperato. Mentre il tenore di vita degli americani e degli europei è diminuito nel corso degli ultimi due decenni, i sud-est asiatici hanno ottenuto notevoli guadagni in termini di sviluppo economico e sociale. Dal 2010 al 2020, l’Associazione delle Nazioni del Sud-Est Asiatico (ASEAN), composta da dieci Paesi con un PIL combinato di 3.000 miliardi di dollari nel 2020, ha contribuito alla crescita economica globale più dell’Unione Europea, i cui membri avevano un PIL combinato di 15.000 miliardi di dollari. Questo eccezionale periodo di crescita e armonia in Asia non è un caso. È in gran parte dovuto all’ASEAN, che nonostante i suoi numerosi difetti come unione politica ed economica ha contribuito a forgiare un ordine regionale cooperativo costruito su una cultura del pragmatismo e dell’accomodamento. Quest’ordine ha colmato le profonde divisioni politiche nella regione e ha mantenuto la maggior parte dei Paesi del Sud-Est asiatico concentrati sulla crescita economica e sullo sviluppo. La più grande forza dell’ASEAN, paradossalmente, è la sua relativa debolezza ed eterogeneità, che fa sì che nessuna potenza la veda come una minaccia.
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Indonesia e India capofila del Sud globale

Nel 2023 Giacarta e Nuova Delhi presiedono ASEAN e G20. Rafforzando i rapporti possono promuovere la visione di una parte di mondo in costante ascesa

Tra i tanti ambiziosi obiettivi della presidenza di turno indonesiana dell’ASEAN, c’è anche quello di rafforzare il ruolo di Giacarta e del blocco del Sud-Est asiatico all’interno del Sud globale. E a sua volta sostenere il ruolo del Sud globale negli affari mondiali. L’intenzione è stata esplicitata da Sri Mulyani Indrawati, Ministra delle Finanze dell’Indonesia, in una rilevante intervista a Nikkei Asia. “Lavoreremo a stretto contatto con l’India”, ha dichiarato Indrawati. “L’India e l’Indonesia sono tra i pochi grandi Paesi emergenti che stanno ottenendo ottimi risultati economici, quindi questo rapporto ci garantisce più influenza e più rispetto a livello globale”. D’altronde, Giacarta e Nuova Delhi sono accomunate da una prospettiva comune sugli affari internazionali e dai cruciali impegni diplomatici di questi anni. Nel 2023 l’India ha ereditato la presidenza di turno del G20 proprio dall’Indonesia, che a sua volta appunto detiene quella dell’ASEAN. I Paesi del Sud globale tendono alla neutralità politica ed evitano di schierarsi durante i conflitti. Nonostante le tensioni, molti considerano il vertice del G20 di Bali di novembre un successo, con la pubblicazione di una dichiarazione dei leader che condanna l’aggressione della Russia in Ucraina. Pur proponendo una soluzione pacifica che tuteli non solo la sicurezza ma anche la tenuta di commercio e globalizzazione. Una prospettiva che sarà sostenuta anche dall’India. “Il G7 sta ammettendo di aver bisogno di una controparte che possa fornire una visione equilibrata… fornendo una maggiore inclusività e diversità all’interno della comunità globale, il che è salutare, credo”, ha detto Indrawati, la quale sostiene che i Paesi del Sud globale stanno “contribuendo in modo costruttivo all’agenda globale”, ha dichiarato. “Sono anche diventati una fonte di soluzione per molti problemi mondiali in termini di cambiamento climatico, crisi finanziaria, pandemia o anche ora economia globale”. Proprio per questo i 10 Paesi dell’ASEAN possono svolgere un “ruolo molto importante”, non solo dal punto di vista economico, ma anche politico e in termini di sicurezza regionale “a causa delle tensioni tra Stati Uniti e Cina”. E approfondire la cooperazione con un altro attore regionale come l’India non può far altro, secondo la visione di Giacarta, che rafforzare il ruolo di una parte di mondo in ascesa sotto tutti i punti di vista.

La diplomazia climatica in Asia

Tensioni politiche e competizione economica rallentano la corsa verso la transizione green. Mentre la guerra in Ucraina sta cambiando le rotte delle fossili russe, con accordi di rifornimento molto vantaggiosi per paesi partner come la Cina

Il 2022 è stato un anno poco verde per la diplomazia climatica. Se la Conference of the Parties del 2021 (COP 26) sembrava aver riacceso l’attenzione dei decisori sul clima, le catastrofi naturali che ne sono seguite, la guerra in Ucraina e un ulteriore rallentamento dei mercati hanno contribuito a far emergere tutt’altro trend. Alla COP 27 sono passati di corsa pochi presidenti delle grandi economie globali in partenza per il G20 di Bali, mentre le delegazioni dei paesi più fragili hanno ottenuto solo la promessa di un aumento dei fondi per il loss and damage, ovvero le compensazioni economiche destinate a quelle realtà che più stanno subendo gli effetti dei cambiamenti climatici. Pur non raggiungendo la quota stabilita di 100 miliardi di dollari, questa decisione è stata salutata da molti come un primo traguardo verso la giustizia climatica. Ma i danni della crisi climatica sono ben più ampi di quanto sia stato calcolato fino a oggi, come dimostrano nuovi modelli di scenario ampiamente dimostrati dai ricercatori. Oggi molte delle località più in pericolo al mondo si trovano in Asia, tra cui le grandi capitali Bangkok, Ho Chi Minh e Manila.

L’incontro al G20 tra il presidente Usa Joe Biden e la controparte cinese Xi Jinping ha fatto ripartire le montagne russe della diplomazia climatica, aprendo uno scenario di cauto ottimismo davanti all’impegno dei due più grandi inquinatori al mondo. Tuttavia, l’azione di Washington e Pechino non è ancora coerente con la narrazione di entrambi i paesi sul loro ruolo “guida” nella transizione verde. Guardando a est, la promessa della Cina di offrire modelli alternativi di sviluppo sostenibile è ancora lontana dal supportare le riforme più urgenti. Né il più eterogeneo blocco Asean, né le avanzate economie dell’Asia orientale sembrano pronte a una rapida transizione energetica e al raggiungimento della neutralità carbonica. Il primo traguardo è il 2030, anno in cui il Giappone promette di abbattere le emissioni del 46% rispetto ai dati del 2013, la Cina punta a toccare il picco delle emissioni e la Corea del Sud è vincolata dal Global methane pledge a ridurre le emissioni di metano del 30% rispetto a quelle registrate nel 2020. Un meccanismo, quest’ultimo, da cui manca la Cina, che si è anche svincolata dal fondo loss and damage.

Sud-Est crocevia di interessi 

Un’altra interpretazione del ruolo determinante della Cina vede Pechino come capofila di una “competizione positiva” contro Washington, dove i due paesi cercano di guadagnare in immagine (e in termini di budget) dalla loro predominanza nei forum multilaterali e sul mercato delle tecnologie per la transizione energetica. Ma le recenti manovre Usa che guardano al settore dei semiconduttori e dei manufatti prodotti in Xinjiang (tra cui rientrano soprattutto i pannelli solari) rischiano di trasformare la competizione in rivalità. Certo è che le promesse della Cina unite all’interesse economico stanno avendo un certo impatto sui paesi più dipendenti dai finanziamenti cinesi nel settore delle fossili. Ne è un esempio il Vietnam, che deve valutare se costruire nuove centrali a carbone in assenza di capitali cinesi, stando a quanto promesso da Pechino con il divieto agli investimenti esteri nel settore. Ciononostante, la domanda energetica del Sud-Est asiatico continua a salire (+80% in meno di venti anni) e la scelta più semplice e immediata cade sulle fonti energetiche più inquinanti, che oggi occupano ancora oltre l’80% del mix energetico. Alle risorse finanziarie si accompagna la più pratica disponibilità di risorse naturali a basso costo, come nel caso dell’Indonesia, che rappresenta il terzo maggiore esportatore di carbone al mondo. Non di meno, la guerra in Ucraina sta cambiando le rotte delle fossili russe, con accordi di rifornimento molto vantaggiosi per paesi partner come la Cina.

Il Sud-Est asiatico si trova al crocevia degli interessi dei nuovi investitori in fuga dalle delocalizzazioni in Cina e le più vecchie relazioni radicate nel tessuto economico dei diversi paesi. Il Giappone, principale investitore in Thailandia nel 2022, ha da tempo adocchiato l’opportunità di costruire auto elettriche e componenti necessarie alla transizione energetica. Un forte interesse è anche orientato alle nuove filiere agricole sostenibili, così come nelle imprese di trasformazione del settore turistico secondo parametri più coerenti con l’agenda Onu per lo sviluppo sostenibile. In questo caso, la sfida è molto più ampia di quanto appaia limitandosi al dossier energetico, perché richiede una profonda riflessione sull’impatto ambientale e sociale di quei settori che hanno trainato le economie di diversi paesi della regione negli ultimi decenni.

Le sfide della sostenibilità tra India e Asia centrale

Lontana dai riflettori della diplomazia climatica, ma estremamente importante per il suo peso economico e demografico, l’India deve fare i conti con le sfide della modernizzazione incontrollata. Alla crescita sfrenata delle città non corrisponde una progettazione ragionata dei sistemi urbani (si pensi, per esempio, al traffico di mezzi privati), mentre a partire dagli anni Cinquanta le risorse idriche e la salubrità dei suoli sono crollate. Alle evidenze sul campo non corrisponde ancora una presa di consapevolezza nel giocare un ruolo proattivo al tavolo dei negoziati per il clima. Anche per Nuova Delhi la competizione con la Cina è prioritaria. Inoltre, mentre l’India forma dei nuovi gruppi di lavoro per l’applicazione delle direttive degli accordi multilaterali da un lato, dall’altro chiude un occhio nei confronti della repressione delle associazioni ambientaliste.

Infine, l’Asia centrale si concentra sulle misure di adattamento ai cambiamenti climatici più che a chiedere maggiori responsabilità ai grandi inquinatori. Se in aree come il Kazakistan la corsa alla leadership economica nella regione sembra mettere in secondo piano le promesse ambientali, in altri paesi come il Kirghizistan è presente una forte preoccupazione per i fenomeni climatici estremi e la sicurezza alimentare. Anche la competizione sulle risorse idriche, emersa ultimamente con gli scontri lungo il confine kirghizo-tagiko, apre a pericolosi scenari sul clima come acceleratore di conflitti nella regione. La promessa principale, come emerge dalle affermazioni dei leader coinvolti nel progetto dell’agenzia per l’ambiente Onu dedicato alla sicurezza climatica in Asia centrale, è quella di collaborare con le organizzazioni internazionali per costruire una strategia di adattamento socialmente ed economicamente sostenibile. Anche qui il ruolo di un attore prominente come la Cina potrebbe influire sulle scelte di progettazione ed elettrificazione delle nuove realtà urbane. Anche se, guardando alle risorse presenti nell’area (fonti idriche lungo il confine con lo Xinjiang, pozzi di gas naturale), l’altra faccia della medaglia apre scenari predatori che non sono nuovi in Asia, come nel caso delle dighe cinesi lungo il Delta del Mekong.

Il mondo si avvicina all’ASEAN

Cina, Giappone, Stati Uniti, Europa e Italia: i rapporti con il Sud-Est asiatico vengono considerati sempre più strategici a livello globale

Se c’è una tendenza chiara nel panorama commerciale e geopolitico globale, questa è la volontà delle grandi potenze e di tutti i Paesi più sviluppati o emergenti di approfondire le proprie relazioni con l’ASEAN. Il Sud-Est asiatico è visto sempre più come un centro imprescindibile di cooperazione economica e diplomatica. Basta guardare a quanto accaduto di recente e a quanto può accadere nel prossimo futuro. Nel 2022, primo anno di entrata in vigore del Partenariato economico globale regionale (RCEP), la Cina ha registrato un aumento degli scambi commerciali del 15% su base annua con l’ASEAN, che detiene saldamente la posizione di primo partner commerciale della Cina. Nel 2023 è prevedibile che il ritmo possa anche aumentare, di pari passo con l’accelerazione della crescita di Pechino. La partecipazione del Presidente Joe Biden, lo scorso novembre, al summit ASEAN in Cambogia ha invece confermato che anche gli Stati Uniti hanno allungato il passo in una regione fondamentale anche per ragioni strategiche. Il piano di investimenti annunciato dalla Casa Bianca va finalmente nella direzione di un coinvolgimento americano non solo sul piano difensivo e militare, ma anche infrastrutturale e ambientale, visto il focus sulla transizione energetica che coinvolge tutti i Paesi dell’ASEAN. A muoversi con grande decisione non sono certo solo le superpotenze. Il Giappone, per esempio, è da tempo una presenza consolidata nel Sud-Est asiatico. Sin dal 1977 e dal lancio della “dottrina Fukuda”, dal nome dell’allora Primo Ministro che durante un celebre viaggio nel Sud-Est espresse l’impegno di Tokyo a non diventare una potenza militare e a costruire un rapporto di fiducia reciproca con l’ASEAN e i suoi Paesi membri. Da allora, il Giappone è diventato uno dei maggiori partner commerciali e investitori del blocco e una delle principali fonti di finanziamento delle infrastrutture. Ora il Paese sta seriamente valutando la possibilità di elevare le sue relazioni con l’ASEAN a un partenariato strategico globale, mettendosi così alla pari di Cina e Stati Uniti. La Corea del Sud ha da poco lanciato la sua prima strategia dell’Indo-Pacifico, che riserva all’approfondimento dei rapporti con l’ASEAN uno dei suoi pilastri. La regione è destinata a diventare anche la più grande destinazione di investimenti diretti esteri provenienti da Taiwan. L’Unione Europea ha da parte sua compreso che i suoi interessi coincidono sempre di più con quelli dell’ASEAN e non appare più così remota la possibilità di un accordo di libero scambio tra i due blocchi. Uno sviluppo del quale beneficerebbe anche l’Italia, le cui imprese guardano con sempre maggiore interesse verso Sud-Est.

I risultati del vertice UE-ASEAN

Editoriale a cura di: Alessandra Schiavo, Vice Direttrice Generale/Direttrice Centrale per i Paesi Asia e Oceania del MAECI

Il 14 dicembre si è tenuto a Bruxelles il I Vertice UE-ASEAN a livello di Capi di Stato e di Governo. L’evento ha celebrato il 45° anniversario del Partenariato di Dialogo tra l’allora CEE e l’ASEAN, nonché il suo progressivo rafforzamento. Dal 1977, il rapporto bi-regionale è cresciuto esponenzialmente, con i rispettivi membri oggi confrontati a molteplici rischi e a un quadro internazionale radicalmente mutato: il cambiamento climatico, la vulnerabilità sanitaria, la ripresa post-Covid, la crisi energetica, la sicurezza alimentare, nonché un’intensa competizione sul fronte politico e securitario.

In questo scenario, l’ASEAN si è affermato come attore chiave per l’Unione Europea, interessata a promuovere i valori del pluralismo e della tolleranza contro le crisi che minano la stabilità, come l’aggressione in Ucraina e l’efferato colpo di Stato in Myanmar.

L’acquisita consapevolezza che solo lavorando insieme è possibile preservare la pace e generare una prosperità condivisa, ha fatto sì che nel 2020 l’UE divenisse Partner Strategico dell’ASEAN, con un sempre più proficuo dialogo in materia securitaria. L’UE è anche il terzo partner commerciale dell’Associazione. A ottobre è stato firmato il Comprehensive Air Transport Agreement UE-ASEAN, primo accordo di trasporto aereo interregionale. In occasione del Summit, è stata presentata la Team Europe Initiative sulla connettività sostenibile con l’ASEAN (cui aderisce per l’Italia CDP); firmati anche i Partnership Comprehensive Agreements con Thailandia e Malesia.

Il Vertice si è concluso con un Comunicato Finale Congiunto, che ha dato rilievo alla cooperazione economica e in materia di connettività, sviluppo sostenibile, transizione verde e digitale, e individuato un punto di consenso su alcuni dei più spinosi temi internazionali. Vi hanno preso parte i Presidenti e i Primi Ministri dei Paesi UE e ASEAN (tranne il Myanmar), oltre ai vertici delle due Organizzazioni regionali. Con la partecipazione del Presidente del Consiglio Giorgia Meloni, l’Italia ha inteso rinnovare la crescente attenzione all’ASEAN, perno della stabilità nell’Indo-Pacifico e di una parte del mondo sempre più essenziale per gli equilibri geostrategici e che ci vede sempre più impegnati. Non a caso, il Vertice è stato anche l’occasione per valorizzare il Partenariato di Sviluppo tra l’Italia e l’ASEAN (nei suoi volet politico-securitario, economico, culturale e di cooperazione allo sviluppo). Un legame che viene coltivato tramite iniziative concrete e di capacity building, e che trova nell’annuale “High Level Dialogue on ASEAN-Italy economic relations” (la cui prossima edizione, nel 2023, sarà ospitata dalla Thailandia) un momento di sintesi cruciale.