Global Lens

Prosperità e dubbi: il rapporto bifronte tra Cina e Sud-Est

Articolo di Vittoria Mazzieri

Target regionale per gli investimenti, alleati ideologici, partner di sicurezza, attori in rivendicazioni territoriali: dall’inizio delle relazioni diplomatiche i paesi del Sud-Est asiatico hanno assunto agli occhi di Pechino ruoli mutevoli e complessi. In termini di vicinanza geografica e cooperazione economica, l’ASEAN occupa un ruolo prioritario nella politica estera cinese

Il viaggio che Deng Xiaoping compie nel 1979 in Thailandia, Malesia e Singapore segna un punto importante delle relazioni tra Pechino e i paesi del Sud-Est asiatico. Il “piccolo timoniere” rimane stupito dai progressi socio economici di un’area che aveva erroneamente considerato come arretrata dal punto di vista economico. Come si legge in un saggio sul tema dei docenti della Nanyang Technological University di Singapore Zhou Taomo e Hong Liu, a colpire particolarmente Deng è la città-stato a sud della Malesia. All’indomani dell’incontro con l’allora primo ministro singaporiano Lee Kuan Yew, il Quotidiano del popolo passa dal raccontare Singapore come il “cane da guardia degli imperialisti americani” a dipingerla come un’“isola di pace”, una “città giardino che vale la pena di studiare”. Deng, invece, riceve l’ennesima conferma della necessità di abbandonare le lenti ideologiche con le quali fino ad allora il Partito comunista ha interpretato le relazioni con il Sud-Est asiatico.

I rapporti tra il gigante asiatico e la città-stato dimostrano le mutevoli relazioni della Repubblica popolare con l’area tradizionalmente conosciuta come Nanyang 南洋, “mari del Sud”. Oltre che dal contesto politico interno, le relazioni tra Pechino e la regione sono state influenzate da questioni legate all’identità delle comunità diasporiche (a Singapore il 75% della popolazione è di etnia cinese), dalle dispute territoriali e dai vari progetti infrastrutturali nell’ambito della Belt and Road Initiative. 

I primi anni dalla nascita della Repubblica popolare sono caratterizzati da un approccio moderato e flessibile: Pechino si fa promotrice di una “terza via” che possa offrire un’alternativa ai due blocchi della Guerra Fredda anche ai paesi ideologicamente non affini al Partito comunista. La promulgazione dei Cinque principi per la coesistenza pacifica, nel 1954, presenta un nuovo quadro di relazioni internazionali basate sul rispetto reciproco della integrità territoriale e del principio di non interferenza, anche per i paesi ideologicamente non affini. Il Trattato di doppia nazionalità sino-indonesiano, firmato l’anno successivo, pone fine alla politica che concede la nazionalità a tutte le persone di etnia cinese. La Cina incoraggia così le comunità d’oltremare a adottare la cittadinanza dei paesi in cui vivono, puntando in tal modo a placare le preoccupazioni di alcuni paesi del Sud-est asiatico, timorosi che le comunità di cinesi possano essere usati dal Partito per intraprendere attività sovversive. 

Nel corso degli anni le minoranze di etnia cinese diventano bersaglio di pesanti pesanti politiche discriminatorie: nel 1959 il presidente indonesiano Sukarno revoca la licenza per la gestione di attività di vendita al dettaglio a tutti gli “stranieri”, per lo più cinesi. In alcune realtà si rafforza, di conseguenza, il sentimento di appartenenza alla madrepatria. Con l’inizio della Rivoluzione culturale gruppi di studenti di etnia cinese iniziano a indossare i distintivi di Mao Zedong nelle scuole di Rangoon, nell’attuale Myanmar. Ne segue un’ondata di rivolte etniche su larga scala e un drastico deterioramento delle relazioni bilaterali.

Dalla fine degli anni Sessanta, in generale, la politica estera cinese è caratterizzata da una tendenza alla radicalizzazione, anche a causa della recessione economica che segue il disastroso Grande balzo in avanti. La nascita nel 1967 dell’Associazione delle Nazioni del Sud-Est Asiatico (ASEAN), fondata da Indonesia, Malesia, Filippine, Singapore e Thailandia in chiave anti-comunista, viene percepita da Mao Zedong come uno strumento dell’imperialismo. Ai paesi vicini dal punto di vista ideologico si chiede di riconoscere come bersagli principali della rivoluzione, per usare le parole del premier Zhou Enlai, l’“imperialismo, il feudalesimo e il capitalismo comprador”. Un approccio che muterà in maniera drastica all’indomani dell’invasione vietnamita della Cambogia. Come spiegato in un articolo per l’ISPI da Ngeow Chow-Bing, direttore dell’Istituto degli Studi Cinesi alla University of Malaya, in questo scenario l’ASEAN assume per Pechino un’importanza strategica per contenere le mire espansionistiche del governo di Hanoi (con cui le relazioni si sono irrimediabilmente deteriorate) sull’Indocina e sull’intera regione. 

Lo sviluppo economico da record che interessa la Repubblica popolare dagli anni Novanta è un elemento chiave nella espansione della sua influenza in termini di soft power, come ha scritto Joshua Kurlantzick, fellow per il Sud-Est asiatico presso il Council on Foreign Relations. Le prestazioni economiche della Cina attirano l’interesse dei paesi in via di sviluppo e hanno anche l’effetto di migliorare la reputazione delle comunità di cinesi che vivono nella regione. 

È in quegli anni che inizia quello che la retorica ufficiale cinese descrive come il “decennio d’oro” dei rapporti con l’ASEAN (che ad oggi, oltre ai paesi fondatori, conta anche Brunei, Myanmar, Cambogia, Timor Est, Laos, Vietnam). Durante la crisi finanziaria asiatica del 1997 Pechino prende la decisione simbolica di non svalutare la propria moneta, offrendosi come garante di stabilità. Negli anni successivi sigla rilevanti accordi multilaterali: l’Iniziativa Chang Mai di scambio di valuta, l’accordo di libero scambio del 2002 e la Dichiarazione sulla condotta delle parti nel Mar Cinese Meridionale, che stabilizza le controversie territoriali, nello stesso anno. 

Ma con la salita al potere di Xi Jinping la politica estera cinese acquisisce un profilo più proattivo e assertivo. Il deterioramento dei rapporti nell’ultimo decennio, soprattutto con le Filippine e il Vietnam, è legato a doppio filo alle rivendicazioni territoriali nell’area del Mar cinese meridionale. Dagli anni Settanta le dispute con il Vietnam per le Isole Spratly e le Paracelso si sono trasformate in una controversia di portata regionale, o addirittura globale. A poco o a nulla è servito il codice di condotta del 2002, che seppur celebrato all’epoca come un mezzo per garantire un “ambiente pacifico, amichevole e armonioso nel Mar Cinese Meridionale”, non ha incluso disposizioni su meccanismi di applicazione o di risoluzione delle controversie. 

La tensione, quindi, è cresciuta, arrivando a coinvolgere anche l’Indonesia per la prima volta nel 2016. Nello stesso anno una sentenza del Tribunale di arbitrato permanente de L’Aja ha bocciato le rivendicazioni di Pechino, rappresentate dalla cosiddetta “linea a nove punti”. Pechino non ha accettato la decisione che riconosce a Manila i diritti di sfruttamento delle risorse all’interno delle 200 miglia marittime della Zona economica esclusiva (Zee). Ha anzi accusato Washington di aver spinto le Filippine a ricorrere al tribunale per “sabotare le relazioni tra la Cina e i paesi dell’ASEAN”.

Malgrado le rivendicazioni marittime, la Cina non ha mai smesso di corteggiare i paesi della regione. La Regional Comprehensive Economic Partnership (RCEP), lo storico accordo siglato nel 2020 dopo otto anni di negoziati ed entrato in vigore a gennaio 2022, è servito a Pechino per consolidare la cooperazione economica nell’area. Ma le reciproche relazioni commerciali non possono essere spiegate senza tirare in ballo la Belt and Road Initiative, l’ambiziosa nuova via della seta lanciata nel 2013 che conta investimenti cinese per un valore di circa 85 miliardi l’anno. Già agli inizi degli anni Duemila il Sud-Est asiatico si è configurato come un importante target regionale per gli investimenti diretti esteri cinesi. Nel 2020, in piena crisi pandemica, l’ASEAN è salito al primo posto tra le destinazioni degli investimenti BRI. 

L’iniziativa si è scontrata con diversi gradi di accettazione nei paesi della regione. Malgrado le tensioni per le dispute territoriali, molte nazioni coinvolte hanno continuato a desiderare investimenti cinesi nelle infrastrutture e nella produzione. A differenza dei vicini più accoglienti, Hanoi ha assunto un approccio prudente: la strategia vietnamita sembra puntare a evitare il confronto con la Cina, al contempo scongiurando il rischio di dipendenza economica. Ad oggi l’unico progetto BRI attuato nel paese è la linea tranviaria Cat Linh-Ha Dong, che ha attirato ampie critiche a causa dei costi elevati.

Il deragliamento di un treno ad alta velocità dell’ambizioso progetto ferroviario Jakarta-Bandung dimostra che i rischi legati alla sicurezza possono minare la credibilità della Repubblica popolare. Da un recente rapporto dell’istituto di credito malese Maybank emerge che la ripresa post-pandemia potrebbe essere meno forte delle aspettative. I progetti potrebbero subire battute d’arresto a causa della crescente diffidenza dei governi, ad esempio per i costi sociali e ambientali: nel 2014 le attività estrattive di bauxite di proprietà cinese negli altopiani centrali del Vietnam hanno scatenato ampie proteste contro i danni ambientali e il mancato rispetto delle leggi locali. Per altri paesi che si sono impegnati più attivamente nella BRI, come Laos, Cambogia e Myanmar, ritornano periodicamente i timori per la “trappola del debito” da parte di economisti e osservatori. 

Nel complesso i paesi del Sud-Est asiatico restano essenziali a Pechino per numerose ragioni. Ad esempio, come partner verso i quali la Cina può accelerare la diffusione di infrastrutture “soft” come servizi sanitari ed economia digitale. O come attori utili per sovvertire gli equilibri internazionali e accrescere la rilevanza dell’Asia-Pacifico. Sullo sfondo delle tensioni con gli Stati Uniti, la Repubblica popolare punta a proporsi ai paesi ASEAN come un attore non assertivo, volenteroso a perseguire “il rispetto reciproco”, il “dialogo” e sinergie “win-win”, come rivendicato lo scorso anno in occasione del lancio della Global Security Initiative (GSI). D’altro canto, gli investimenti cinesi si configurano come risorse imperdibili per i paesi in via di sviluppo della regione: l’iniziativa gemella della GSI, la Global Development Initiative (GDI), rappresenta la volontà di Pechino di intestarsi un ruolo centrale nella promozione multilaterale dello sviluppo. L’ASEAN è diventato il gruppo regionale più numeroso a beneficiarne, accaparrandosi 14 progetti su un totale di 50 di quelli previsti dal primo lotto del GDI Project Pool.

 

Sud-Est, un modello per gestire le tensioni

La rapida crescita della regione e l’economia in espansione suggeriscono che la regione può diventare un modello per la gestione della competizione tra grandi potenze

“Il Sud-Est asiatico è tutt’altro che un monolite: i suoi Paesi hanno politiche estere e obiettivi diversi, alcuni dei quali in contrasto tra loro. Ma la rapida crescita della regione e l’economia in espansione suggeriscono che i suoi Paesi diventeranno più potenti nel tempo e, con essi, probabilmente più capaci di evitare interferenze esterne. Il Sud-Est asiatico può essere stato definito in passato da un conflitto tra grandi potenze, ma oggi può diventare un modello per la gestione della competizione tra grandi potenze”. Sentenzia così un’analisi di Huong Le Thu, pubblicata sull’ultimo numero di Foreign Affairs. Il Sud-Est asiatico si è impegnato a fondo per mantenere ed espandere una stabilità diplomatica e di sicurezza. Oltre all’architettura di sicurezza multilaterale guidata dall’ASEAN, la regione ha stabilito molti accordi plurilaterali e bilaterali con Stati terzi. Si tratta di gruppi ad hoc, come il pattugliamento congiunto del fiume Mekong da parte di Cina, Laos, Myanmar e Thailandia. Secondo Foreign Affairs, con l’aumentare delle tensioni geopolitiche, il numero già elevato di queste partnership è destinato ad aumentare. Questi accordi, complessi e spesso sovrapposti, sono fondamentali per gli sforzi del Sud-Est asiatico di impegnarsi con tutti, senza però assumere impegni esclusivi con nessuno. Gli Stati del Sud-Est asiatico stanno anche diventando più attivi in gruppi che includono partecipanti al di fuori del loro vicinato. L’anno scorso, ad esempio, la Cambogia ha ospitato il Vertice dell’Asia orientale di alto profilo, la Thailandia ha tenuto il forum della Cooperazione economica Asia-Pacifico e l’Indonesia ha presieduto il G20. Singolarmente, sottolinea Huong, alcuni governi del Sud-Est asiatico hanno imparato che la competizione tra Stati Uniti e Cina presenta dei vantaggi. Lo scontro tra Pechino e Washington può spaventare i politici della regione, ma ha portato entrambi i governi a cercare di conquistare i cuori e le menti dei Paesi non allineati. Questo ha aiutato i Paesi del Sud-Est asiatico, sede di popolazioni giovani e di manodopera a basso costo, a trarre ogni tipo di beneficio economico. Il Vietnam, sostiene Foreign Affairs, ha tratto enormi vantaggi dal distacco degli Stati Uniti dalla Cina, in quanto le aziende americane hanno trasferito la produzione nelle fabbriche vietnamite. Anche l’Indonesia ha ricevuto una spinta agli investimenti da parte di aziende statunitensi, tra cui Amazon, Microsoft e Tesla. La regione sta diventando d’altronde sempre più critica per le catene di approvvigionamento globali. E può indicare una strada da seguire per continuare a prosperare.

Il mondo si avvicina all’ASEAN

Aumenta la cooperazione tra i Paesi del Sud-Est asiatico e piattaforme globali come il G7. E non solo. Con l’auspicio che sempre più governi seguano la “terza via” del blocco

L’Associazione delle Nazioni del Sud-Est asiatico è sempre più coinvolta nei meccanismi decisionali globali. Un esempio molto attuale è il primo storico appuntamento tra i Ministri della Giustizia del G7 e quelli del blocco regionale. In programma una riunione congiunta a luglio, con il Giappone, Paese ospitante e Presidente di turno del G7. Un analogo incontro Giappone-ASEAN è previsto negli stessi giorni. D’altronde, dopo l’inizio della guerra in Ucraina, ha acuito le distanze tra Occidente e alcuni Paesi. L’ASEAN, con la sua terza via fatta di neutralità e pacifismo, può fungere da connettore cruciale in questa fase globale. Nel Sud-Est asiatico si teme che l’uso della forza per cambiare lo status quo, come ha fatto la Russia in Ucraina, si diffonda nell’Asia-Pacifico. Ma soprattutto temono di restare coinvolti in contese alle quali non appartengono. “L’ASEAN deve rimanere indipendente e una zona di neutralità in mezzo all’acuirsi della rivalità tra Stati Uniti e Cina”, ha dichiarato nei giorni scorsi il Primo Ministro Datuk Seri Anwar Ibrahim, il quale ha sottolineato che l’ASEAN è stata costituita per promuovere la pace e la stabilità nella regione. “Questa posizione continua. Non vogliamo che la regione sia la base per una competizione militare. Questa posizione è stata abbastanza coerente, anche se rimaniamo amichevoli con tutti i Paesi”, ha spiegato. I recenti accordi multilaterali che rischiano di creare le basi di una corsa agli armamenti non sono visti di buon occhio. Nel 1995, 10 Stati membri dell’ASEAN hanno firmato il Trattato sulla zona libera da armi nucleari nel Sud-Est asiatico o Trattato di Bangkok, che designa la regione come priva di armi nucleari. Il trattato prevede anche un protocollo aperto alla firma di Cina, Francia, Russia, Regno Unito e Stati Uniti. Sinora nessuno lo ha firmato, ma finalmente si vedono i primi movimenti. Di recente, la Cina ha espresso l’intenzione di firmare il protocollo per il trattato ASEAN sulla zona libera da armi nucleari. Ma non sarà semplice far aderire tutti. La speranza del blocco è che partecipando con sempre maggiore frequenza alle piattaforme globali, il mondo scelga sempre più di seguire quella terza via che indica già da diversi anni.

La terza via asiatica

Come l’ASEAN sopravvive e prospera in mezzo alla competizione tra grandi potenze

Proponiamo di seguito un estratto dell’ultimo saggio di Kishore Mahbubani, pubblicato da Foreign Affairs

La sfida geopolitica più importante del nostro tempo è quella tra Cina e Stati Uniti. Con l’aumento delle tensioni sul commercio e su Taiwan, tra le altre cose, in molte capitali cresce comprensibilmente la preoccupazione per un futuro definito dalla competizione tra grandi potenze. Ma una regione sta già tracciando un percorso pacifico e prospero in questa era bipolare. Situata al centro geografico della lotta per l’influenza tra Stati Uniti e Cina, il Sud-Est asiatico non solo è riuscito a mantenere buone relazioni con Pechino e Washington, ma ha anche permesso alla Cina e agli Stati Uniti di contribuire in modo significativo alla sua crescita e al suo sviluppo. Non si tratta di un’impresa da poco. Tre decenni fa, molti analisti ritenevano che l’Asia fosse destinata al conflitto. Come scrisse lo scienziato politico Aaron Friedberg nel 1993, l’Asia sembrava molto più probabile dell’Europa come “cabina di pilotaggio di un conflitto tra grandi potenze”. Nel lungo periodo, prevedeva, “il passato dell’Europa potrebbe essere il futuro dell’Asia”. Ma nonostante i sospetti e le rivalità – in particolare tra Cina e Giappone e tra Cina e India – l’Asia è ora nel suo quinto decennio di relativa pace, mentre l’Europa è di nuovo in guerra. (L’ultimo grande conflitto asiatico, la guerra sino-vietnamita, è terminato nel 1979). Il Sud-Est asiatico ha sopportato una certa dose di conflitti interni, soprattutto in Myanmar, ma nel complesso la regione è rimasta notevolmente pacifica, evitando conflitti interstatali nonostante la notevole diversità etnica e religiosa. Il Sud-Est asiatico ha anche prosperato. Mentre il tenore di vita degli americani e degli europei è diminuito nel corso degli ultimi due decenni, i sud-est asiatici hanno ottenuto notevoli guadagni in termini di sviluppo economico e sociale. Dal 2010 al 2020, l’Associazione delle Nazioni del Sud-Est Asiatico (ASEAN), composta da dieci Paesi con un PIL combinato di 3.000 miliardi di dollari nel 2020, ha contribuito alla crescita economica globale più dell’Unione Europea, i cui membri avevano un PIL combinato di 15.000 miliardi di dollari. Questo eccezionale periodo di crescita e armonia in Asia non è un caso. È in gran parte dovuto all’ASEAN, che nonostante i suoi numerosi difetti come unione politica ed economica ha contribuito a forgiare un ordine regionale cooperativo costruito su una cultura del pragmatismo e dell’accomodamento. Quest’ordine ha colmato le profonde divisioni politiche nella regione e ha mantenuto la maggior parte dei Paesi del Sud-Est asiatico concentrati sulla crescita economica e sullo sviluppo. La più grande forza dell’ASEAN, paradossalmente, è la sua relativa debolezza ed eterogeneità, che fa sì che nessuna potenza la veda come una minaccia.
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Indonesia e India capofila del Sud globale

Nel 2023 Giacarta e Nuova Delhi presiedono ASEAN e G20. Rafforzando i rapporti possono promuovere la visione di una parte di mondo in costante ascesa

Tra i tanti ambiziosi obiettivi della presidenza di turno indonesiana dell’ASEAN, c’è anche quello di rafforzare il ruolo di Giacarta e del blocco del Sud-Est asiatico all’interno del Sud globale. E a sua volta sostenere il ruolo del Sud globale negli affari mondiali. L’intenzione è stata esplicitata da Sri Mulyani Indrawati, Ministra delle Finanze dell’Indonesia, in una rilevante intervista a Nikkei Asia. “Lavoreremo a stretto contatto con l’India”, ha dichiarato Indrawati. “L’India e l’Indonesia sono tra i pochi grandi Paesi emergenti che stanno ottenendo ottimi risultati economici, quindi questo rapporto ci garantisce più influenza e più rispetto a livello globale”. D’altronde, Giacarta e Nuova Delhi sono accomunate da una prospettiva comune sugli affari internazionali e dai cruciali impegni diplomatici di questi anni. Nel 2023 l’India ha ereditato la presidenza di turno del G20 proprio dall’Indonesia, che a sua volta appunto detiene quella dell’ASEAN. I Paesi del Sud globale tendono alla neutralità politica ed evitano di schierarsi durante i conflitti. Nonostante le tensioni, molti considerano il vertice del G20 di Bali di novembre un successo, con la pubblicazione di una dichiarazione dei leader che condanna l’aggressione della Russia in Ucraina. Pur proponendo una soluzione pacifica che tuteli non solo la sicurezza ma anche la tenuta di commercio e globalizzazione. Una prospettiva che sarà sostenuta anche dall’India. “Il G7 sta ammettendo di aver bisogno di una controparte che possa fornire una visione equilibrata… fornendo una maggiore inclusività e diversità all’interno della comunità globale, il che è salutare, credo”, ha detto Indrawati, la quale sostiene che i Paesi del Sud globale stanno “contribuendo in modo costruttivo all’agenda globale”, ha dichiarato. “Sono anche diventati una fonte di soluzione per molti problemi mondiali in termini di cambiamento climatico, crisi finanziaria, pandemia o anche ora economia globale”. Proprio per questo i 10 Paesi dell’ASEAN possono svolgere un “ruolo molto importante”, non solo dal punto di vista economico, ma anche politico e in termini di sicurezza regionale “a causa delle tensioni tra Stati Uniti e Cina”. E approfondire la cooperazione con un altro attore regionale come l’India non può far altro, secondo la visione di Giacarta, che rafforzare il ruolo di una parte di mondo in ascesa sotto tutti i punti di vista.

La diplomazia climatica in Asia

Tensioni politiche e competizione economica rallentano la corsa verso la transizione green. Mentre la guerra in Ucraina sta cambiando le rotte delle fossili russe, con accordi di rifornimento molto vantaggiosi per paesi partner come la Cina

Il 2022 è stato un anno poco verde per la diplomazia climatica. Se la Conference of the Parties del 2021 (COP 26) sembrava aver riacceso l’attenzione dei decisori sul clima, le catastrofi naturali che ne sono seguite, la guerra in Ucraina e un ulteriore rallentamento dei mercati hanno contribuito a far emergere tutt’altro trend. Alla COP 27 sono passati di corsa pochi presidenti delle grandi economie globali in partenza per il G20 di Bali, mentre le delegazioni dei paesi più fragili hanno ottenuto solo la promessa di un aumento dei fondi per il loss and damage, ovvero le compensazioni economiche destinate a quelle realtà che più stanno subendo gli effetti dei cambiamenti climatici. Pur non raggiungendo la quota stabilita di 100 miliardi di dollari, questa decisione è stata salutata da molti come un primo traguardo verso la giustizia climatica. Ma i danni della crisi climatica sono ben più ampi di quanto sia stato calcolato fino a oggi, come dimostrano nuovi modelli di scenario ampiamente dimostrati dai ricercatori. Oggi molte delle località più in pericolo al mondo si trovano in Asia, tra cui le grandi capitali Bangkok, Ho Chi Minh e Manila.

L’incontro al G20 tra il presidente Usa Joe Biden e la controparte cinese Xi Jinping ha fatto ripartire le montagne russe della diplomazia climatica, aprendo uno scenario di cauto ottimismo davanti all’impegno dei due più grandi inquinatori al mondo. Tuttavia, l’azione di Washington e Pechino non è ancora coerente con la narrazione di entrambi i paesi sul loro ruolo “guida” nella transizione verde. Guardando a est, la promessa della Cina di offrire modelli alternativi di sviluppo sostenibile è ancora lontana dal supportare le riforme più urgenti. Né il più eterogeneo blocco Asean, né le avanzate economie dell’Asia orientale sembrano pronte a una rapida transizione energetica e al raggiungimento della neutralità carbonica. Il primo traguardo è il 2030, anno in cui il Giappone promette di abbattere le emissioni del 46% rispetto ai dati del 2013, la Cina punta a toccare il picco delle emissioni e la Corea del Sud è vincolata dal Global methane pledge a ridurre le emissioni di metano del 30% rispetto a quelle registrate nel 2020. Un meccanismo, quest’ultimo, da cui manca la Cina, che si è anche svincolata dal fondo loss and damage.

Sud-Est crocevia di interessi 

Un’altra interpretazione del ruolo determinante della Cina vede Pechino come capofila di una “competizione positiva” contro Washington, dove i due paesi cercano di guadagnare in immagine (e in termini di budget) dalla loro predominanza nei forum multilaterali e sul mercato delle tecnologie per la transizione energetica. Ma le recenti manovre Usa che guardano al settore dei semiconduttori e dei manufatti prodotti in Xinjiang (tra cui rientrano soprattutto i pannelli solari) rischiano di trasformare la competizione in rivalità. Certo è che le promesse della Cina unite all’interesse economico stanno avendo un certo impatto sui paesi più dipendenti dai finanziamenti cinesi nel settore delle fossili. Ne è un esempio il Vietnam, che deve valutare se costruire nuove centrali a carbone in assenza di capitali cinesi, stando a quanto promesso da Pechino con il divieto agli investimenti esteri nel settore. Ciononostante, la domanda energetica del Sud-Est asiatico continua a salire (+80% in meno di venti anni) e la scelta più semplice e immediata cade sulle fonti energetiche più inquinanti, che oggi occupano ancora oltre l’80% del mix energetico. Alle risorse finanziarie si accompagna la più pratica disponibilità di risorse naturali a basso costo, come nel caso dell’Indonesia, che rappresenta il terzo maggiore esportatore di carbone al mondo. Non di meno, la guerra in Ucraina sta cambiando le rotte delle fossili russe, con accordi di rifornimento molto vantaggiosi per paesi partner come la Cina.

Il Sud-Est asiatico si trova al crocevia degli interessi dei nuovi investitori in fuga dalle delocalizzazioni in Cina e le più vecchie relazioni radicate nel tessuto economico dei diversi paesi. Il Giappone, principale investitore in Thailandia nel 2022, ha da tempo adocchiato l’opportunità di costruire auto elettriche e componenti necessarie alla transizione energetica. Un forte interesse è anche orientato alle nuove filiere agricole sostenibili, così come nelle imprese di trasformazione del settore turistico secondo parametri più coerenti con l’agenda Onu per lo sviluppo sostenibile. In questo caso, la sfida è molto più ampia di quanto appaia limitandosi al dossier energetico, perché richiede una profonda riflessione sull’impatto ambientale e sociale di quei settori che hanno trainato le economie di diversi paesi della regione negli ultimi decenni.

Le sfide della sostenibilità tra India e Asia centrale

Lontana dai riflettori della diplomazia climatica, ma estremamente importante per il suo peso economico e demografico, l’India deve fare i conti con le sfide della modernizzazione incontrollata. Alla crescita sfrenata delle città non corrisponde una progettazione ragionata dei sistemi urbani (si pensi, per esempio, al traffico di mezzi privati), mentre a partire dagli anni Cinquanta le risorse idriche e la salubrità dei suoli sono crollate. Alle evidenze sul campo non corrisponde ancora una presa di consapevolezza nel giocare un ruolo proattivo al tavolo dei negoziati per il clima. Anche per Nuova Delhi la competizione con la Cina è prioritaria. Inoltre, mentre l’India forma dei nuovi gruppi di lavoro per l’applicazione delle direttive degli accordi multilaterali da un lato, dall’altro chiude un occhio nei confronti della repressione delle associazioni ambientaliste.

Infine, l’Asia centrale si concentra sulle misure di adattamento ai cambiamenti climatici più che a chiedere maggiori responsabilità ai grandi inquinatori. Se in aree come il Kazakistan la corsa alla leadership economica nella regione sembra mettere in secondo piano le promesse ambientali, in altri paesi come il Kirghizistan è presente una forte preoccupazione per i fenomeni climatici estremi e la sicurezza alimentare. Anche la competizione sulle risorse idriche, emersa ultimamente con gli scontri lungo il confine kirghizo-tagiko, apre a pericolosi scenari sul clima come acceleratore di conflitti nella regione. La promessa principale, come emerge dalle affermazioni dei leader coinvolti nel progetto dell’agenzia per l’ambiente Onu dedicato alla sicurezza climatica in Asia centrale, è quella di collaborare con le organizzazioni internazionali per costruire una strategia di adattamento socialmente ed economicamente sostenibile. Anche qui il ruolo di un attore prominente come la Cina potrebbe influire sulle scelte di progettazione ed elettrificazione delle nuove realtà urbane. Anche se, guardando alle risorse presenti nell’area (fonti idriche lungo il confine con lo Xinjiang, pozzi di gas naturale), l’altra faccia della medaglia apre scenari predatori che non sono nuovi in Asia, come nel caso delle dighe cinesi lungo il Delta del Mekong.

Il mondo si avvicina all’ASEAN

Cina, Giappone, Stati Uniti, Europa e Italia: i rapporti con il Sud-Est asiatico vengono considerati sempre più strategici a livello globale

Se c’è una tendenza chiara nel panorama commerciale e geopolitico globale, questa è la volontà delle grandi potenze e di tutti i Paesi più sviluppati o emergenti di approfondire le proprie relazioni con l’ASEAN. Il Sud-Est asiatico è visto sempre più come un centro imprescindibile di cooperazione economica e diplomatica. Basta guardare a quanto accaduto di recente e a quanto può accadere nel prossimo futuro. Nel 2022, primo anno di entrata in vigore del Partenariato economico globale regionale (RCEP), la Cina ha registrato un aumento degli scambi commerciali del 15% su base annua con l’ASEAN, che detiene saldamente la posizione di primo partner commerciale della Cina. Nel 2023 è prevedibile che il ritmo possa anche aumentare, di pari passo con l’accelerazione della crescita di Pechino. La partecipazione del Presidente Joe Biden, lo scorso novembre, al summit ASEAN in Cambogia ha invece confermato che anche gli Stati Uniti hanno allungato il passo in una regione fondamentale anche per ragioni strategiche. Il piano di investimenti annunciato dalla Casa Bianca va finalmente nella direzione di un coinvolgimento americano non solo sul piano difensivo e militare, ma anche infrastrutturale e ambientale, visto il focus sulla transizione energetica che coinvolge tutti i Paesi dell’ASEAN. A muoversi con grande decisione non sono certo solo le superpotenze. Il Giappone, per esempio, è da tempo una presenza consolidata nel Sud-Est asiatico. Sin dal 1977 e dal lancio della “dottrina Fukuda”, dal nome dell’allora Primo Ministro che durante un celebre viaggio nel Sud-Est espresse l’impegno di Tokyo a non diventare una potenza militare e a costruire un rapporto di fiducia reciproca con l’ASEAN e i suoi Paesi membri. Da allora, il Giappone è diventato uno dei maggiori partner commerciali e investitori del blocco e una delle principali fonti di finanziamento delle infrastrutture. Ora il Paese sta seriamente valutando la possibilità di elevare le sue relazioni con l’ASEAN a un partenariato strategico globale, mettendosi così alla pari di Cina e Stati Uniti. La Corea del Sud ha da poco lanciato la sua prima strategia dell’Indo-Pacifico, che riserva all’approfondimento dei rapporti con l’ASEAN uno dei suoi pilastri. La regione è destinata a diventare anche la più grande destinazione di investimenti diretti esteri provenienti da Taiwan. L’Unione Europea ha da parte sua compreso che i suoi interessi coincidono sempre di più con quelli dell’ASEAN e non appare più così remota la possibilità di un accordo di libero scambio tra i due blocchi. Uno sviluppo del quale beneficerebbe anche l’Italia, le cui imprese guardano con sempre maggiore interesse verso Sud-Est.

I risultati del vertice UE-ASEAN

Editoriale a cura di: Alessandra Schiavo, Vice Direttrice Generale/Direttrice Centrale per i Paesi Asia e Oceania del MAECI

Il 14 dicembre si è tenuto a Bruxelles il I Vertice UE-ASEAN a livello di Capi di Stato e di Governo. L’evento ha celebrato il 45° anniversario del Partenariato di Dialogo tra l’allora CEE e l’ASEAN, nonché il suo progressivo rafforzamento. Dal 1977, il rapporto bi-regionale è cresciuto esponenzialmente, con i rispettivi membri oggi confrontati a molteplici rischi e a un quadro internazionale radicalmente mutato: il cambiamento climatico, la vulnerabilità sanitaria, la ripresa post-Covid, la crisi energetica, la sicurezza alimentare, nonché un’intensa competizione sul fronte politico e securitario.

In questo scenario, l’ASEAN si è affermato come attore chiave per l’Unione Europea, interessata a promuovere i valori del pluralismo e della tolleranza contro le crisi che minano la stabilità, come l’aggressione in Ucraina e l’efferato colpo di Stato in Myanmar.

L’acquisita consapevolezza che solo lavorando insieme è possibile preservare la pace e generare una prosperità condivisa, ha fatto sì che nel 2020 l’UE divenisse Partner Strategico dell’ASEAN, con un sempre più proficuo dialogo in materia securitaria. L’UE è anche il terzo partner commerciale dell’Associazione. A ottobre è stato firmato il Comprehensive Air Transport Agreement UE-ASEAN, primo accordo di trasporto aereo interregionale. In occasione del Summit, è stata presentata la Team Europe Initiative sulla connettività sostenibile con l’ASEAN (cui aderisce per l’Italia CDP); firmati anche i Partnership Comprehensive Agreements con Thailandia e Malesia.

Il Vertice si è concluso con un Comunicato Finale Congiunto, che ha dato rilievo alla cooperazione economica e in materia di connettività, sviluppo sostenibile, transizione verde e digitale, e individuato un punto di consenso su alcuni dei più spinosi temi internazionali. Vi hanno preso parte i Presidenti e i Primi Ministri dei Paesi UE e ASEAN (tranne il Myanmar), oltre ai vertici delle due Organizzazioni regionali. Con la partecipazione del Presidente del Consiglio Giorgia Meloni, l’Italia ha inteso rinnovare la crescente attenzione all’ASEAN, perno della stabilità nell’Indo-Pacifico e di una parte del mondo sempre più essenziale per gli equilibri geostrategici e che ci vede sempre più impegnati. Non a caso, il Vertice è stato anche l’occasione per valorizzare il Partenariato di Sviluppo tra l’Italia e l’ASEAN (nei suoi volet politico-securitario, economico, culturale e di cooperazione allo sviluppo). Un legame che viene coltivato tramite iniziative concrete e di capacity building, e che trova nell’annuale “High Level Dialogue on ASEAN-Italy economic relations” (la cui prossima edizione, nel 2023, sarà ospitata dalla Thailandia) un momento di sintesi cruciale.

Il vertice commemorativo UE-ASEAN

I leader dei due blocchi si danno appuntamento a Bruxelles per celebrare la partnership e trovare nuovi spazi di cooperazione

Articolo di Chiara Suprani

Il 14 dicembre i capi di Stato e leader nazionali dei Paesi del blocco ASEAN e dell’Unione Europea si incontreranno a Bruxelles per commemorare il 45esimo anniversario della formalizzazione della partnership bilaterale, elevata a “partnership strategica” come ha ricordato l’Alto Rappresentante per gli Affari Esteri e la Politica di Sicurezza Josep Borell in un discorso del 4 agosto. Tutti i capi di Stato saranno presenti, ad esclusione dei leader birmani, mentre si attende ancora la risposta del neo-premier malese. A fronte degli eventi che hanno caratterizzato gli ultimi anni l’occasione, preceduta da due incontri il 13 dicembre, quello del Summit della Gioventù e il decimo Business summit EU-ASEAN, è di grande rilevanza. Dato il clima internazionale, la sicurezza sarà uno dei temi cardine dell’evento. Bruxelles potrebbe cercare di ottenere una posizione più chiara da parte dei Paesi ASEAN sull’invasione russa dell’Ucraina, al fine di ricevere maggiori garanzie sul rispetto delle sanzioni imposte dall’UE alla Russia. L’evento, co-presieduto dalla Cambogia che ha la presidenza di turno ASEAN fino a fine anno, affronterà snodi chiave della relazione bilaterale tra i Paesi ASEAN e quelli europei come commercio e sostenibilità, energia rinnovabile, investimenti e connettività. Alcuni di questi snodi chiave sono già stati preceduti da accordi bilaterali tra Paesi membri come la “Partnership per la Sostenibilità” tra Svezia ed Indonesia. Giacarta, alla quale spetterà la presidenza ASEAN per il 2023,  ha attraversato 11 round di negoziati per la stesura di un accordo di libero scambio con l’UE, che ancora non è stato raggiunto. Secondo The Diplomat, l’UE dovrebbe puntare a raggiungere un compromesso negoziale per la firma indonesiana del trattato, un compromesso simile a quello concesso a Vietnam e Singapore, Paesi con i quali ha chiuso le negoziazioni, abbassando standard di sviluppo ed ecologici. Tuttavia, il 6 dicembre, Bruxelles ha varato una nuova legge per la prevenzione dell’importazione di beni responsabili per la deforestazione. La legge è stata fortemente criticata da Vietnam, Malesia e Indonesia. Tra questi prodotti sono presenti: caffè, soia e olio di palma, colture che nel 2020 hanno registrato un export rispettivamente di 2, 17 e 27 miliardi di dollari americani. Secondo Nikkei Asia, l’UE durante il Summit per il 45esimo anniversario, incoraggerà il Sud-Est asiatico ad incaricarsi di importanti ruoli nelle catene di approvvigionamento globali, seguendo la logica del “friend-shoring”. Il neologismo del “friend-shoring” riprende l’idea dei precedenti on-shoring e off-shoring, legando però la rilocalizzazione in Paesi che sono considerati amici. ASEAN e UE ad ottobre hanno siglato un nuovo livello di cooperazione di connettività con la firma dell’Accordo Comprensivo sui Trasporti Aerei (AE CATA), la prima intesa al mondo di questo tipo. L’accordo beneficia non solo i viaggiatori dell’accesso diretto a nuove destinazioni, ma auspica ad un maggior livello di coordinamento, anche manageriale, tra i Paesi Membri dell’ASEAN. Con il 2023 alle porte, un generale allentamento delle misure di contenimento della pandemia, e con la firma dell’AE CATA, ci sono le premesse per nuove opportunità commerciali per le imprese europee, che garantiscano condizioni di mercato eque e trasparenti. Trovare il giusto canale di comunicazione tra interessi particolari, necessità e standard sostenibili potrebbe essere uno dei punti caldi del dialogo del 14 dicembre. Eppure, tra la pandemia da Covid-19 e la guerra russo-ucraina, tra i rallentamenti delle catene di approvvigionamento, i divieti di esportazione strategici dei singoli Paesi membri atti a prevenire ulteriori crisi economiche sembra che le percezioni sulla relazione bilaterale siano tutto sommato positive. Secondo il sondaggio EU-ASEAN Business Sentiment Survey, la regione del Sud-Est asiatico è prima per migliori opportunità economiche nei prossimi 5 anni. Non solo, in generale tutte le prospettive nei confronti di commercio ed investimenti hanno ottenuto nel sondaggio aspettative di crescita positiva. In conclusione, il 14 Dicembre gli occhi saranno puntati a Bruxelles e al potenziale ancora inesplorato della relazione bilaterale ASEAN-UE.

Il successo del G20 indonesiano

Il summit di Bali si è concluso con una dichiarazione congiunta in cui si esprime il disagio di fronte alla guerra in Ucraina. E ha mostrato i primi segnali di disgelo tra Occidente e Cina

Ora lo si può dire. Il summit del G20 di Bali è stato un successo. La presidenza di turno indonesiana di turno ha dovuto fare i conti con l’anno più complicato dei tempi recenti. Con il mondo ancora alle prese con la coda della pandemia di Covid-19, la guerra in Ucraina ha ulteriormente complicato i piani delle economie mondiali. Non solo, ha anche esacerbato il clima tra Russia e Occidente, ma anche tra Stati Uniti e Cina. Con queste premesse, il rischio che il vertice si rivelasse un flop era alto. E invece non è stato così. Vero che la discussione è stata ampiamente dominata dal conflitto, ma è altrettanto vero che tutti i presenti si sono dimostrati pronti e disponibili al dialogo. Dopo il preambolo del bilaterale tra Joe Biden e Xi Jinping, è un po’ tutto venuto a cascata, col Presidente cinese che ha incontrato tutti i vari leader europei. La presidenza di turno indonesiana ha ottenuto la firma di una dichiarazione congiunta in cui i leader delle principali economie auspicano cooperazione per affrontare le varie sfide poste dalla pandemia di Covid-19 e aggravate dalla guerra in Ucraina, impegnandosi a fornire il necessario sostegno ai Paesi più vulnerabili del mondo. Giacarta ha celebrato tre “risultati concreti” del vertice. Il primo: la creazione di un fondo sanitario, che aiuterà i Paesi a prepararsi a future pandemie. Il fondo ha ricevuto promesse per un totale di 1,5 miliardi di dollari dai Paesi membri e dalle organizzazioni internazionali. Il secondo, salutato con favore da tutto il blocco ASEAN: la creazione di un fondo fiduciario per aiutare i Paesi a basso reddito, i piccoli Stati e i Paesi a medio reddito vulnerabili ad affrontare i problemi macroeconomici, compresi quelli causati dalla pandemia e dal cambiamento climatico. Il terzo, più interno: l’impegno di 20 miliardi di dollari di finanziamenti pubblici e privati da parte di Stati Uniti e Giappone nei prossimi 5 anni per aiutare l’Indonesia ad accelerare la transizione verso le energie rinnovabili. La dichiarazione finale segna un passo importante di cooperazione di tutto il G20, comprese Cina e India, e apre forse uno spiraglio di dialogo con la Russia, che ha accolto favorevolmente “l’equilibrio” delle conclusioni del summit. Il Sud-Est asiatico si conferma come una piattaforma irrinunciabile per far avanzare la diplomazia globale.

La terza via di difesa asiatica

Si moltiplicano sigle e acronimi per le politiche nell’Indo-Pacifico. Ma mentre Cina e Stati Uniti cercano di consolidare la propria influenza in Asia, i Paesi del continente provano a ripararsi dalle conseguenze di questo antagonismo istituendo accordi bilaterali che aiutino a mantenere un certo grado di interoperabilità senza essere costretti a prendere apertamente le parti di una o dell’altra potenza

Articolo di Lucrezia Goldin

O con me, o contro di me. A meno di trovare una terza via per consolidare la difesa. Nella sempre più polarizzata competizione tra Cina e Stati Uniti, crescono i rapporti bilaterali in materia di sicurezza tra diversi paesi asiatici, che con un approccio fatto di singoli accordi di cooperazione militare provano a svincolarsi dal magnetismo di Washington e Pechino, sfruttando l’interoperabilità regionale come chiave per l’indipendenza dalle due potenze. Un approccio che operando senza fragore e senza evidenti finalità anti-Cina o anti-Usa (come invece vengono percepite alcune iniziative multilaterali come Quad e Aukus da parte cinese e Global Security Initiative da parte statunitense) si presenta nella forma di un’architettura alternativa che consente ai paesi asiatici di munirsi di strumenti di deterrenza senza il rischio di infastidire le due potenze.

Dal Giappone alla Corea del Sud, passando per Singapore e Filippine, gli scambi bilaterali in materia di tecnologie di sicurezza ed equipaggiamenti per la difesa mostrano un’Asia che preferirebbe non rimanere incastrata nel fuoco incrociato a colpi di acronimi altisonanti in corso tra Cina e Stati Uniti. Un muoversi nelle retrovie fatto di accordi apparentemente di secondo piano ma strategici, soprattutto se pensati come strumento di indipendenza a lungo termine dall’ottica dei grandi blocchi antagonisti.  

Capofila indiscusso di questa tendenza è il Giappone. Da diversi anni Tokyo sta provando a risollevare la propria industria della difesa e per farlo sta intensificando i rapporti con diversi paesi del Sud-Est asiatico. Già nel 2016 Giappone e Filippine firmavano un accordo per la difesa, con il quale Tokyo si impegnava a fornire equipaggiamento e tecnologia in ambito di sicurezza a Manila. Sotto la presidenza di Rodrigo Duterte poi, un aggiornamento dello stesso accordo nell’estate 2020 ha portato alla vendita di sistemi di controllo radar della Mitsubishi Electric al governo filippino, segnando la prima vendita di tecnologia di difesa di fattura totalmente giapponese verso un paese del Sud-Est asiatico. Con la Malesia esiste invece il Japan-Malaysia Defense Pact  del 2018, mentre sui rapporti con Indonesia e Vietnam l’attenzione dell’ex premier giapponese Yoshihide Suga ha portato alla firma di due accordi per il trasferimento di equipaggiamento e tecnologia per la difesa (rispettivamente a marzo e settembre 2021). Anche provando a non attirare troppo l’attenzione politica internazionale con questi accordi, l’obiettivo dichiarato di Tokyo è quello di promuovere la propria visione di un Indo-Pacifico “libero e aperto”. Visione confermata anche dal ministro della Difesa Kishi Nobuo lo scorso settembre durante una visita ad Hanoi, nella quale ha parlato della cooperazione con il Vietnam come di un intervento finalizzato a  “contribuire alla pace e alla stabilità della regione e dell’intera comunità internazionale”.

Su questo fronte anche il nuovo primo ministro Fumio Kishida non sta perdendo tempo. Lo scorso maggio il premier giapponese e il suo omologo thailandese Prayut Chan-o-cha hanno firmato un accordo per il trasferimento di equipaggiamento militare verso la Thailandia, seguito poco dall’annuncio del governo giapponese di voler riformare la normativa sull’export di materiali militari così da consentire l’esportazione di missili e caccia verso 12 paesi tra cui India, Vietnam, Thailandia, Malesia, Filippine e Australia a partire dal 2023.  Anche con Singapore, come annunciato durante un incontro a margine del summit asiatico sulla sicurezza, lo Shangri-La Dialogue, saranno presto avviati i negoziati per raggiungere un accordo sul trasferimento di equipaggiamenti e tecnologia per la difesa che includono anche le aree di sicurezza informatica e armi esplosive di natura chimica, biologica, radiologica e nucleare (CBRNE). Un Memorandum sugli scambi per la Difesa potenziato, firmato dai rispettivi ministri della difesa Kishi Nobuo e Ng Eng Hene, che va a integrare quello stipulato tra i due paesi nel 2009. L’obiettivo: muoversi verso “una cooperazione in materia di sicurezza più concreta”. Meno chiacchiere, più accordi. Senza Cina e Usa di mezzo.

Partecipazione attiva anche da parte dell’India, che con l’India Act East Policy ha creato piattaforme di dialogo e di esercitazioni marittime congiunte con Singapore e Thailandia, le SIMBEX e SITMEX, con la finalità di mantenere la sicurezza regionale. Alle Filippine Nuova Delhi ha fornito i suoi sistemi missilistici Brahmos e ha predisposto lo spostamento di diverse navi del comando orientale dell’India per favorire le esercitazioni bilaterali con la marina filippina. Anche con il Vietnam il dialogo è stato produttivo e privo dell’ingerenza statunitense o cinese. Nel 2016 tra Hanoi e Nuove Delhi veniva istituita una linea di credito di 500 milioni di dollari per l’acquisto di nuove piattaforme di difesa e oggi la maggior parte dei piloti vietnamiti viene formata presso le basi di addestramento indiane in cambio dell’accesso alle basi navali e aeree di Cham Ranh Bay. Con la Thailandia infine, l’India condivide obiettivi in ambito marittimo legati a tematiche quali pesca illegale, traffico di droga, contrabbando e pirateria, confermando un’interoperabilità che rimane forte tra i due paesi sia per i loro trascorsi storico-culturali che per i loro interessi comuni legati al confine marittimo nel Mar delle Andamane, punto di accesso fondamentale per il commercio nello Stretto di Malacca.

Anche la Corea del Sud ha dato segnali di voler aderire a questa strategia del “dietro le quinte”. L’amministrazione di Moon Jae-in aveva cominciato a intensificare i rapporti con India e paesi ASEAN tramite la New Southern Policy del 2017, senza riuscire però a concretizzare molti accordi e cooperazioni indipendenti dalle piattaforme di sicurezza già esistenti. Il caso della mancata partecipazione indonesiana nella realizzazione dei nuovi caccia Kf-X/IF-X ne è un esempio. Dopo un accordo di difesa tra Corea del Sud e Indonesia stipulato nel 2013, i due paesi hanno “riscontrato diverse complicazioni” nella realizzazione congiunta di nuovi equipaggiamenti, ma ad oggi mantengono buone relazioni e alla presentazione dei nuovi caccia coreani KF-X del 2021 era stato invitato anche il ministro della Difesa indonesiano Prabowo Subianto. Sempre nell’ambito degli incontri a margine del Shangri-La Dialogue invece, Singapore e Corea del Sud hanno aggiornato il loro Memorandum of Understanding in materia di cooperazione sulla difesa, aggiungendo tra le priorità di collaborazione la sicurezza informatica e la cooperazione marittima.

L’Asia si muove anche senza Cina e Stati Uniti, consapevole che una eccessiva dipendenza da una delle due parti in materia di sicurezza può rivelarsi controproducente. Per le dispute in essere con Pechino da una parte, per la recente imprevedibilità mostrata da Washington da Donald Trump in poi all’altra. Piccoli accordi in tempi di grandi patti multilaterali segnano quindi una terza via per provare a mantenere una stabilità regionale senza essere semplici pedine nel gioco di altri. Ma gli accordi cominciano a essere tanti. E se considerati come fili sottilissimi di una più ampia e distesa tela strategica, la formula dell’accordo bilaterale come mezzo inoffensivo di manovra potrebbe essere rimessa in discussione. 

L’alleanza Chip4 e il suo impatto sui semiconduttori ASEAN

La partita (politica) dei semiconduttori diventa gioco di squadra. Almeno da un lato del campo. L’alleanza a quattro voluta dagli USA mira contenere la Cina. Da che lato giocheranno i Paesi ASEAN?

I semiconduttori sono essenziali per la vita e la crescita della società digitale. L’approvvigionamento “sicuro” di questi prodotti rappresenta ormai una priorità – e un grattacapo – per i governi di tutto il mondo. È tuttora in corso una crisi globale delle supply chain del settore – una crisi che si inserisce in un più ampio contesto di “globalizzazione in affanno” – che rende difficile per le altre industrie procacciarsi i componenti necessari. Il problema è reso ancora più complesso dalle sue ricadute politiche. Stati Uniti e Cina infatti gareggiano anche nello sfruttamento dei dati e nello sviluppo di nuove applicazioni dell’intelligenza artificiale. Questo porta i due giganti a richiedere un enorme quantità di chip e provare a limitare la presa del rivale sul mercato. Nei mesi scorsi, Washington ha mosso i primi passi verso la formazione di un’alleanza a quattro sui semiconduttori con i suoi partner storici affacciati sul Mar cinese – Giappone, Corea del Sud e Taiwan –  per poter sviluppare catene di approvvigionamento “democratiche”, dalla fabbrica al consumatore, senza dover coinvolgere necessariamente la Cina. Pechino guarda con sospetto all’iniziativa americana, temendo di finire “esclusa” dalle value chain più importanti del mondo globalizzato.

La fragilità e l’importanza strategica delle supply chain dei semiconduttori hanno spinto i governi ad attivarsi per mettere in sicurezza la propria sovranità tecnologica. Molti Paesi si sono attivati per rafforzare la produzione di chip nel proprio territorio, in collaborazione con i colossi del settore: solo per menzionare due iniziative, la taiwanese TSMC sta costruendo un impianto produttivo da 12 miliardi in Arizona con il supporto dello Stato e del Governo federale; Intel e il Governo italiano stanno chiudendo le trattative per la creazione di un sito produttivo in Veneto. Ciononostante, la value chain dei semiconduttori non può essere rinchiusa nei confini di un singolo Paese, né riorganizzata così facilmente. Ogni fase della filiera produttiva richiede una forte specializzazione di interi distretti industriali e attrezzature ad altissima tecnologia. Al momento, non sembra possibile fare a meno dei Paesi dell’Asia orientale. Pertanto, i governi cercano anche di rafforzare le proprie partnership internazionali, in modo da rendere più sicuri gli approvvigionamenti e superare certi colli di bottiglia nella produzione. Ciascuna economia del Chip4 è particolarmente forte in uno degli “anelli” della catena e l’alleanza riuscirebbe ad organizzare gli approvvigionamenti tra partner in modo quasi autonomo da attori esterni. Non ci sono solo considerazione economiche dietro l’iniziativa di Washington, però. I quattro Paesi sono democrazie like-minded che guardano con una certa attenzione alla influenza cinese crescente non solo nella regione, ma anche nell’economia digitale e in alcuni suoi settori d’avanguardia. In uno scenario di crescenti tensioni con Pechino, i Paesi Chip4 potrebbero avere interesse a non dipendere dall’industria dei semiconduttori cinese. 

Eppure, non è così facile estromettere la Cina dalla value chain, soprattutto per la Corea del Sud. Il 60% dell’export dei chip di Seul infatti va verso il vicino. Partecipare a un’alleanza che potrebbe essere percepita come anticinese esporrebbe i produttori coreani alla rappresaglia commerciale, quindi all’esclusione da un mercato di notevoli dimensioni. Allo stesso tempo, Pechino potrebbe non essere in grado di rinunciare ai semiconduttori Made in Korea, dato che certe tecnologie avanzate sono sviluppate solo lì o negli Stati Uniti – e Washington ha imposto sanzioni e misure di export control contro le aziende cinesi ancora nel 2020. In altre parole, provare a escludere un Paese dalla supply chain e, più in generale, intervenire nel settore con obiettivi politici comporterà sempre dei pesanti costi e potrebbe peggiorare ulteriormente la crisi degli approvvigionamenti. La sovranità tecnologica potrebbe rivelarsi un obiettivo irraggiungibile e, appunto, costoso – non ci sono solo i dazi imposti dai governi, ma anche la spesa in sussidi per attirare le aziende private sul proprio territorio – dato che il ritardo anche in una fornitura di secondaria importanza potrebbe paralizzare l’intero settore a livello mondiale.L’iniziativa statunitense potrebbe coinvolgere a un certo punto anche alcuni Paesi ASEAN. L’industria dei semiconduttori si sta sviluppando velocemente nella regione e alcuni Paesi giocano già una parte fondamentale – soprattutto Malesia e Singapore. In alcuni casi, si tratta di partner riconosciuti da Washington anche sul piano politico. Prima o poi, gli USA potrebbero provare a coinvolgerli in iniziative come Chip4. Tutte le principali economie ASEAN hanno un rapporto ambivalente con la Cina: da un lato, partner economico fondamentale; dall’altro, vicino sempre più assertivo. Pertanto, per i loro governi potrebbe porsi lo stesso dilemma affrontato oggi da Seul. In ogni caso, occorre ricordare che l’industria mondiale dei semiconduttori non può prosperare senza un sistema commerciale liberalizzato e schermato, quanto più possibile, dalle tensioni politiche, a causa della fitta rete di interdipendenze tra Paesi. L’acuirsi delle tensioni tra Washington e Pechino in questo campo avrebbe, in ogni caso, effetti profondamente negativi sul settore e ne renderebbe ancora più complicata la crisi.