Asean

La terza via asiatica

Come l’ASEAN sopravvive e prospera in mezzo alla competizione tra grandi potenze

Proponiamo di seguito un estratto dell’ultimo saggio di Kishore Mahbubani, pubblicato da Foreign Affairs

La sfida geopolitica più importante del nostro tempo è quella tra Cina e Stati Uniti. Con l’aumento delle tensioni sul commercio e su Taiwan, tra le altre cose, in molte capitali cresce comprensibilmente la preoccupazione per un futuro definito dalla competizione tra grandi potenze. Ma una regione sta già tracciando un percorso pacifico e prospero in questa era bipolare. Situata al centro geografico della lotta per l’influenza tra Stati Uniti e Cina, il Sud-Est asiatico non solo è riuscito a mantenere buone relazioni con Pechino e Washington, ma ha anche permesso alla Cina e agli Stati Uniti di contribuire in modo significativo alla sua crescita e al suo sviluppo. Non si tratta di un’impresa da poco. Tre decenni fa, molti analisti ritenevano che l’Asia fosse destinata al conflitto. Come scrisse lo scienziato politico Aaron Friedberg nel 1993, l’Asia sembrava molto più probabile dell’Europa come “cabina di pilotaggio di un conflitto tra grandi potenze”. Nel lungo periodo, prevedeva, “il passato dell’Europa potrebbe essere il futuro dell’Asia”. Ma nonostante i sospetti e le rivalità – in particolare tra Cina e Giappone e tra Cina e India – l’Asia è ora nel suo quinto decennio di relativa pace, mentre l’Europa è di nuovo in guerra. (L’ultimo grande conflitto asiatico, la guerra sino-vietnamita, è terminato nel 1979). Il Sud-Est asiatico ha sopportato una certa dose di conflitti interni, soprattutto in Myanmar, ma nel complesso la regione è rimasta notevolmente pacifica, evitando conflitti interstatali nonostante la notevole diversità etnica e religiosa. Il Sud-Est asiatico ha anche prosperato. Mentre il tenore di vita degli americani e degli europei è diminuito nel corso degli ultimi due decenni, i sud-est asiatici hanno ottenuto notevoli guadagni in termini di sviluppo economico e sociale. Dal 2010 al 2020, l’Associazione delle Nazioni del Sud-Est Asiatico (ASEAN), composta da dieci Paesi con un PIL combinato di 3.000 miliardi di dollari nel 2020, ha contribuito alla crescita economica globale più dell’Unione Europea, i cui membri avevano un PIL combinato di 15.000 miliardi di dollari. Questo eccezionale periodo di crescita e armonia in Asia non è un caso. È in gran parte dovuto all’ASEAN, che nonostante i suoi numerosi difetti come unione politica ed economica ha contribuito a forgiare un ordine regionale cooperativo costruito su una cultura del pragmatismo e dell’accomodamento. Quest’ordine ha colmato le profonde divisioni politiche nella regione e ha mantenuto la maggior parte dei Paesi del Sud-Est asiatico concentrati sulla crescita economica e sullo sviluppo. La più grande forza dell’ASEAN, paradossalmente, è la sua relativa debolezza ed eterogeneità, che fa sì che nessuna potenza la veda come una minaccia.
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Più cooperazione tra UE e ASEAN

Dal commercio alle politiche green, i due blocchi sono destinati ad approfondire la cooperazione nel 2023

Accordi di libero scambio, commercio e investimenti, transizione energetica e politiche green. Sono tanti i punti sui quali l’Unione Europea e l’ASEAN si muovono nella direzione di un ulteriore rafforzamento dei rapporti. L’Indonesia, Presidente di turno del blocco delle nazioni del Sud-Est asiatico per quest’anno, ha già dimostrato la ferma intenzione di impegnarsi a fondo per implementare o favorire nuovi accordi di natura commerciale con l’Europa. La prima intenzione è quella di completare l’Accordo di partenariato economico globale Indonesia-UE (IEU CEPA). Data la completezza e l’alto livello di ambizione dello IEU CEPA, che copre 16 aree di negoziazione, si tratta di un compito arduo ma su cui Giacarta punta molto. Il tredicesimo ciclo di negoziati, convocato dal 6 al 10 febbraio, è stato un primo banco di prova per verificare le prospettive di completare l’accordo entro la fine del 2023. E la sensazione è che si farà di tutto per farcela. Singapore e Vietnam hanno già attuato accordi commerciali con l’UE. Una conclusione positiva dello IEU CEPA stimolerebbe la Thailandia, la Malesia e le Filippine a riprendere i negoziati per accordi simili. Come sottolineato da The Diplomat, gli accordi di libero scambio bilaterali tra l’UE e i Paesi ASEAN fungeranno poi da tasselli per un futuro accordo UE-ASEAN, che farà ingranare una marcia ancora più alta nei rapporti tra i due blocchi. C’è poi il capitolo delle politiche ambientali. Il Green Deal europeo è considerato tra le principali priorità dell’Unione Europea nella strategia 2023 sull’ASEAN e sull’Indonesia. I Paesi del Sud-Est asiatico stanno facendo sul serio sugli obiettivi della transizione energetica, ma restano alcuni ostacoli da superare. In particolare le regole dell’UE sull’assenza di deforestazione, accolte negativamente da Indonesia e Malesia, i due maggiori produttori mondiali di olio di palma, che le hanno giudicate “discriminatorie” nei confronti dei Paesi in via di sviluppo. L’UE ha però rassicurato che è determinata a risolvere la questione diplomaticamente, complimentandosi anzi con Giacarta per i progressi: “I risultati ottenuti dall’Indonesia per fermare la deforestazione sono notevoli. La data limite è stata fissata al dicembre 2022 e non sono previste sanzioni per quanto accaduto in passato”, ha dichiarato recentemente l’Ambasciatore dell’UE a Giacarta, Vincent Piket. Tutte le parti sembrano intenzionate a risolvere qualsiasi dubbio per rafforzare ancora di più la cooperazione tra i due blocchi. A tutti i livelli.

Una strategia “rinnovabile”: la sfida ASEAN per il 2023

Tra il 2025 e il 2029, il Sud-Est asiatico diventerà importatore netto di gas naturali e carbone, quindi dalla sua strategia climatica futura dipenderà non solo una parte importante della produzione mondiale di energia, ma anche la sorte dell’Accordo di Parigi sul clima

Articolo di Chiara Suprani

Se numerose sono le previsioni degli analisti che vedrebbero il Sud-Est asiatico diventare la prossima centrale elettrica mondiale, allora la strategia che il blocco ASEAN deciderà di adottare per il suo sviluppo energetico futuro sarà decisiva. Quarto per consumo energetico al mondo, il gruppo dei dieci Paesi del Sud-Est asiatico soddisfa ancora oggi l’83% del suo fabbisogno energetico con combustibili fossili. Secondo un report pubblicato al Settimo ASEAN Energy Outlook (AEO7) tra il 2025 e il 2029, il Sud-Est asiatico diventerà importatore netto di gas naturali e carbone, quindi dalla sua strategia climatica futura dipenderà non solo una parte importante della produzione mondiale di energia, ma anche la sorte dell’Accordo di Parigi sul clima. La maggior parte dei Paesi ASEAN hanno aderito all’Accordo, che prevede zero emissioni entro il 2050, ad eccezione delle Filippine, mentre l’Indonesia ha optato come scadenza il 2060. Al fine di sostenere la transizione del Paese di Joko Widodo, il G20 del 2022 si è concluso con il lancio del Just Energy Transition Partnership (JETP) un programma da 20 miliardi di dollari americani per la decarbonizzazione del sistema energetico indonesiano. L’accordo tra Indonesia e i suoi partner internazionali prevede la decarbonizzazione del 34% di produzione energetica indonesiana entro il 2030. Una formula di mix di prestiti agevolati, prestiti di mercato, sovvenzioni, garanzie e investimenti privati da parte di enti pubblici e privati: questo sta alla base del JETP. Formula che è stata accolta positivamente perché elaborata sulle necessità di ogni Paese. Gli investitori del mondo dei combustibili fossili sono però molto combattivi. Infatti, al COP27 di novembre 2022 il numero di rappresentanti dell’olio e del gas  è aumentato rispetto a quello del COP26 da 503 a 636, superando la rappresentanza al summit di ogni singolo Paese.

Per capitalizzare sulle energie rinnovabili occorre che le strategie nazionali posino su un terreno fertile di cambiamento: riadattare le abitudini dei cittadini in maniera incrementale e carpire le potenzialità energetiche di ogni Paese sono la chiave per creare un clima favorevole agli investimenti. I segnali sono graduali ma si vedono. Molteplici sono i casi di querele e denunce di cittadini nei confronti di governi o soggetti privati per inadempienza ai diritti o insufficienza di impegno a, per esempio, favorire aria pulita o dimezzare le emissioni. Sfruttando il potenziale energetico di ogni Paese, in Indonesia, la cui capacità geotermica è seconda solo agli Stati Uniti, è stato costruito l’impianto geotermico di Muara Laboh nel Sumatra occidentale. Mentre sull’Isola di Jurong a sud-est di Singapore, è stato realizzato il più grande impianto energetico del Sud-Est asiatico, che punta a coprire il 3% di fabbisogno annuo di energia di 300 mila abitazioni. Dal momento che la regione si sta affidando sempre più all’energia rinnovabile, dall’ASEAN Centre of Energy arrivano alcune raccomandazioni. I nuovi progetti energetici nei Paesi ASEAN procureranno un ulteriore stress alla rete elettrica nazionale, che è soggetta ancora oggi a numerosi blackout. Ai Paesi che mancheranno di formulare una strategia flessibile, diversificata e resistente si potrebbe presentare una situazione di sviluppo “boom and bust”, espansione e contrazione, come quella che ha colpito il Vietnam nel 2019. Scovare il catalizzatore per la transizione energetica dell’ASEAN è perciò un obiettivo chiave del 2023.

Il 2023 visto dai cittadini dell’ASEAN

Economia, lavoro e ambiente sono le prime preoccupazioni delle popolazioni del Sud-Est asiatico, che approvano la “ASEAN WAY” in diplomazia

Disoccupazione, inflazione, mancanza di materie prime, cambiamento climatico, eventi meteorologici sempre più intensi, aumento del divario socio-economico e disparità di reddito. Sono queste le principali preoccupazioni dei cittadini dei dieci Paesi membri dell’ASEAN. Il dato emerge dall’atteso report annuale The State of South-east Asia a cura dell’ISEAS – Yusof Ishak Institute di Singapore. I risultati del sondaggio annuale, utile per capire che cosa si aspettano i cittadini del Sud-Est asiatico dall’anno appena cominciato, indicano che il 59,5% dei 1.308 intervistati nei 10 Paesi dell’ASEAN ha classificato la disoccupazione e la recessione economica come una preoccupazione più urgente del cambiamento climatico, che è al secondo posto con il 57,1%. L’aumento dei divari socio-economici e la crescente disparità di reddito si sono piazzati al terzo posto, mentre solo dopo sono state citate le crescenti tensioni geopolitiche di cui parlano tutti i media internazionali in riferimento alle manovre contrapposte in Asia-Pacifico. Il 73% degli intervistati ha in effetti espresso il timore che l’ASEAN stia diventando un’arena di competizione geopolitica, altro segnale che la classica “terza via” di neutralità e pacifismo adottato dal blocco convince i cittadini della regione. La Cina continua a essere considerata la potenza economica più influente nella regione, seguita dagli Stati Uniti. La Cina è stata anche classificata come la potenza più influente e strategica nel Sud-Est asiatico. Anche in questo caso gli Stati Uniti seguono al secondo posto. A testimonianza del fatto che i cittadini del blocco approvano il tentativo dei loro governo di tenere aperte le porte a tutti senza mettersi però contro nessuno. Alla resa dei conti, gli intervistati del Sud-Est asiatico hanno continuato a preferire l’opzione di rafforzare la fiducia e l’unità dell’ASEAN per respingere le pressioni degli Stati Uniti e della Cina in un contesto di tensione tra le due potenze. La tradizionale opzione secondo cui l’ASEAN non si schiera né con la Cina né con gli Stati Uniti, ha visto un maggiore sostegno quest’anno rispetto al 2022, mentre una terza opzione in crescita di gradimento prevede che l’ASEAN cerchi di approfondire i rapporti con “terze parti” come il Giappone o l’India per aumentare il suo spazio strategico.

Italia e Vietnam, 50 anni di amicizia

Editoriale a cura di Lorenzo Riccardi, Managing Partner RsA Asia

Hanoi è il principale partner commerciale di Roma in ASEAN. Ed è nell’elenco dei Paesi prioritari per la promozione di investimenti

Italia e Vietnam sono sempre più vicine. Nel 2022 l’interscambio commerciale tra i due Paesi ha raggiunto il massimo storico di 6,2 miliardi di dollari, in crescita dell’11% rispetto al 2021. Un trend in ascesa da diverso tempo e che ha portato a raddoppiare le cifre nel giro di un decennio. E che è destinato a proseguire, visto che l’Italia ha inserito il Vietnam nell’elenco dei 20 Paesi prioritari per la promozione del commercio e degli investimenti fino al 2030. Il prossimo 23 marzo ricorre tra l’altro il 50esimo anniversario delle relazioni bilaterali e per celebrare la ricorrenza è previsto un calendario di iniziative per promuovere i legami culturali ed economici. In occasione del nuovo anno lunare, lo scorso 30 gennaio il Consolato del Vietnam a Torino ha per esempio organizzato una tavola rotonda sulle opportunità di investimento in Vietnam e nei paesi del Sud-Est Asiatico. Insieme a chi scrive, hanno partecipato Sandra Scagliotti, Console Onorario della Repubblica Socialista del Vietnam in Italia e Mario Donadio di Leading Law. Il Vietnam è il principale partner commerciale dell’Italia nel Sud-Est asiatico, ma tutta la regione offre grandi opportunità. L’unione politica ed economica dei dieci membri dell’Associazione delle Nazioni del Sud-Est Asiatico conta su un enorme mercato, con 667 milioni di persone e un territorio di 4,5 milioni di chilometri quadrati; è la terza economia dell’Asia-Pacifico e la quinta più grande del mondo. La Comunità economica dell’ASEAN (AEC) ha un PIL combinato di 3,6 trilioni di dollari, secondo le stime per il 2022. Il Fondo monetario internazionale ha pubblicato il suo World Economic Outlook il 31 gennaio 2023. Il rapporto prevede una crescita globale per il 2023 al 2,9% prima di salire ulteriormente a un tasso di PIL del 3,1% nel 2024, che rappresenta una revisione al rialzo di 0,2 punti percentuali rispetto alle stime di ottobre 2022. La recente riapertura dei confini cinesi dovrebbe aprire la strada a una ripresa globale più rapida del previsto. Per le cinque maggiori economie dell’ASEAN (Indonesia, Malesia, Filippine, Thailandia e Vietnam), la crescita è prevista al 4,3% nel 2023. La cooperazione con Europa e Italia è destinata ad aumentare ancora.

La diplomazia climatica in Asia

Tensioni politiche e competizione economica rallentano la corsa verso la transizione green. Mentre la guerra in Ucraina sta cambiando le rotte delle fossili russe, con accordi di rifornimento molto vantaggiosi per paesi partner come la Cina

Il 2022 è stato un anno poco verde per la diplomazia climatica. Se la Conference of the Parties del 2021 (COP 26) sembrava aver riacceso l’attenzione dei decisori sul clima, le catastrofi naturali che ne sono seguite, la guerra in Ucraina e un ulteriore rallentamento dei mercati hanno contribuito a far emergere tutt’altro trend. Alla COP 27 sono passati di corsa pochi presidenti delle grandi economie globali in partenza per il G20 di Bali, mentre le delegazioni dei paesi più fragili hanno ottenuto solo la promessa di un aumento dei fondi per il loss and damage, ovvero le compensazioni economiche destinate a quelle realtà che più stanno subendo gli effetti dei cambiamenti climatici. Pur non raggiungendo la quota stabilita di 100 miliardi di dollari, questa decisione è stata salutata da molti come un primo traguardo verso la giustizia climatica. Ma i danni della crisi climatica sono ben più ampi di quanto sia stato calcolato fino a oggi, come dimostrano nuovi modelli di scenario ampiamente dimostrati dai ricercatori. Oggi molte delle località più in pericolo al mondo si trovano in Asia, tra cui le grandi capitali Bangkok, Ho Chi Minh e Manila.

L’incontro al G20 tra il presidente Usa Joe Biden e la controparte cinese Xi Jinping ha fatto ripartire le montagne russe della diplomazia climatica, aprendo uno scenario di cauto ottimismo davanti all’impegno dei due più grandi inquinatori al mondo. Tuttavia, l’azione di Washington e Pechino non è ancora coerente con la narrazione di entrambi i paesi sul loro ruolo “guida” nella transizione verde. Guardando a est, la promessa della Cina di offrire modelli alternativi di sviluppo sostenibile è ancora lontana dal supportare le riforme più urgenti. Né il più eterogeneo blocco Asean, né le avanzate economie dell’Asia orientale sembrano pronte a una rapida transizione energetica e al raggiungimento della neutralità carbonica. Il primo traguardo è il 2030, anno in cui il Giappone promette di abbattere le emissioni del 46% rispetto ai dati del 2013, la Cina punta a toccare il picco delle emissioni e la Corea del Sud è vincolata dal Global methane pledge a ridurre le emissioni di metano del 30% rispetto a quelle registrate nel 2020. Un meccanismo, quest’ultimo, da cui manca la Cina, che si è anche svincolata dal fondo loss and damage.

Sud-Est crocevia di interessi 

Un’altra interpretazione del ruolo determinante della Cina vede Pechino come capofila di una “competizione positiva” contro Washington, dove i due paesi cercano di guadagnare in immagine (e in termini di budget) dalla loro predominanza nei forum multilaterali e sul mercato delle tecnologie per la transizione energetica. Ma le recenti manovre Usa che guardano al settore dei semiconduttori e dei manufatti prodotti in Xinjiang (tra cui rientrano soprattutto i pannelli solari) rischiano di trasformare la competizione in rivalità. Certo è che le promesse della Cina unite all’interesse economico stanno avendo un certo impatto sui paesi più dipendenti dai finanziamenti cinesi nel settore delle fossili. Ne è un esempio il Vietnam, che deve valutare se costruire nuove centrali a carbone in assenza di capitali cinesi, stando a quanto promesso da Pechino con il divieto agli investimenti esteri nel settore. Ciononostante, la domanda energetica del Sud-Est asiatico continua a salire (+80% in meno di venti anni) e la scelta più semplice e immediata cade sulle fonti energetiche più inquinanti, che oggi occupano ancora oltre l’80% del mix energetico. Alle risorse finanziarie si accompagna la più pratica disponibilità di risorse naturali a basso costo, come nel caso dell’Indonesia, che rappresenta il terzo maggiore esportatore di carbone al mondo. Non di meno, la guerra in Ucraina sta cambiando le rotte delle fossili russe, con accordi di rifornimento molto vantaggiosi per paesi partner come la Cina.

Il Sud-Est asiatico si trova al crocevia degli interessi dei nuovi investitori in fuga dalle delocalizzazioni in Cina e le più vecchie relazioni radicate nel tessuto economico dei diversi paesi. Il Giappone, principale investitore in Thailandia nel 2022, ha da tempo adocchiato l’opportunità di costruire auto elettriche e componenti necessarie alla transizione energetica. Un forte interesse è anche orientato alle nuove filiere agricole sostenibili, così come nelle imprese di trasformazione del settore turistico secondo parametri più coerenti con l’agenda Onu per lo sviluppo sostenibile. In questo caso, la sfida è molto più ampia di quanto appaia limitandosi al dossier energetico, perché richiede una profonda riflessione sull’impatto ambientale e sociale di quei settori che hanno trainato le economie di diversi paesi della regione negli ultimi decenni.

Le sfide della sostenibilità tra India e Asia centrale

Lontana dai riflettori della diplomazia climatica, ma estremamente importante per il suo peso economico e demografico, l’India deve fare i conti con le sfide della modernizzazione incontrollata. Alla crescita sfrenata delle città non corrisponde una progettazione ragionata dei sistemi urbani (si pensi, per esempio, al traffico di mezzi privati), mentre a partire dagli anni Cinquanta le risorse idriche e la salubrità dei suoli sono crollate. Alle evidenze sul campo non corrisponde ancora una presa di consapevolezza nel giocare un ruolo proattivo al tavolo dei negoziati per il clima. Anche per Nuova Delhi la competizione con la Cina è prioritaria. Inoltre, mentre l’India forma dei nuovi gruppi di lavoro per l’applicazione delle direttive degli accordi multilaterali da un lato, dall’altro chiude un occhio nei confronti della repressione delle associazioni ambientaliste.

Infine, l’Asia centrale si concentra sulle misure di adattamento ai cambiamenti climatici più che a chiedere maggiori responsabilità ai grandi inquinatori. Se in aree come il Kazakistan la corsa alla leadership economica nella regione sembra mettere in secondo piano le promesse ambientali, in altri paesi come il Kirghizistan è presente una forte preoccupazione per i fenomeni climatici estremi e la sicurezza alimentare. Anche la competizione sulle risorse idriche, emersa ultimamente con gli scontri lungo il confine kirghizo-tagiko, apre a pericolosi scenari sul clima come acceleratore di conflitti nella regione. La promessa principale, come emerge dalle affermazioni dei leader coinvolti nel progetto dell’agenzia per l’ambiente Onu dedicato alla sicurezza climatica in Asia centrale, è quella di collaborare con le organizzazioni internazionali per costruire una strategia di adattamento socialmente ed economicamente sostenibile. Anche qui il ruolo di un attore prominente come la Cina potrebbe influire sulle scelte di progettazione ed elettrificazione delle nuove realtà urbane. Anche se, guardando alle risorse presenti nell’area (fonti idriche lungo il confine con lo Xinjiang, pozzi di gas naturale), l’altra faccia della medaglia apre scenari predatori che non sono nuovi in Asia, come nel caso delle dighe cinesi lungo il Delta del Mekong.

Il mondo si avvicina all’ASEAN

Cina, Giappone, Stati Uniti, Europa e Italia: i rapporti con il Sud-Est asiatico vengono considerati sempre più strategici a livello globale

Se c’è una tendenza chiara nel panorama commerciale e geopolitico globale, questa è la volontà delle grandi potenze e di tutti i Paesi più sviluppati o emergenti di approfondire le proprie relazioni con l’ASEAN. Il Sud-Est asiatico è visto sempre più come un centro imprescindibile di cooperazione economica e diplomatica. Basta guardare a quanto accaduto di recente e a quanto può accadere nel prossimo futuro. Nel 2022, primo anno di entrata in vigore del Partenariato economico globale regionale (RCEP), la Cina ha registrato un aumento degli scambi commerciali del 15% su base annua con l’ASEAN, che detiene saldamente la posizione di primo partner commerciale della Cina. Nel 2023 è prevedibile che il ritmo possa anche aumentare, di pari passo con l’accelerazione della crescita di Pechino. La partecipazione del Presidente Joe Biden, lo scorso novembre, al summit ASEAN in Cambogia ha invece confermato che anche gli Stati Uniti hanno allungato il passo in una regione fondamentale anche per ragioni strategiche. Il piano di investimenti annunciato dalla Casa Bianca va finalmente nella direzione di un coinvolgimento americano non solo sul piano difensivo e militare, ma anche infrastrutturale e ambientale, visto il focus sulla transizione energetica che coinvolge tutti i Paesi dell’ASEAN. A muoversi con grande decisione non sono certo solo le superpotenze. Il Giappone, per esempio, è da tempo una presenza consolidata nel Sud-Est asiatico. Sin dal 1977 e dal lancio della “dottrina Fukuda”, dal nome dell’allora Primo Ministro che durante un celebre viaggio nel Sud-Est espresse l’impegno di Tokyo a non diventare una potenza militare e a costruire un rapporto di fiducia reciproca con l’ASEAN e i suoi Paesi membri. Da allora, il Giappone è diventato uno dei maggiori partner commerciali e investitori del blocco e una delle principali fonti di finanziamento delle infrastrutture. Ora il Paese sta seriamente valutando la possibilità di elevare le sue relazioni con l’ASEAN a un partenariato strategico globale, mettendosi così alla pari di Cina e Stati Uniti. La Corea del Sud ha da poco lanciato la sua prima strategia dell’Indo-Pacifico, che riserva all’approfondimento dei rapporti con l’ASEAN uno dei suoi pilastri. La regione è destinata a diventare anche la più grande destinazione di investimenti diretti esteri provenienti da Taiwan. L’Unione Europea ha da parte sua compreso che i suoi interessi coincidono sempre di più con quelli dell’ASEAN e non appare più così remota la possibilità di un accordo di libero scambio tra i due blocchi. Uno sviluppo del quale beneficerebbe anche l’Italia, le cui imprese guardano con sempre maggiore interesse verso Sud-Est.

Turismo nei paesi ASEAN: il 2023 sarà l’anno della ripresa

Secondo il WTTC il Sud-Est asiatico sarà il primo a tornare ai livelli di turismo pre-pandemici. Ma contraddizioni e opportunità del turismo di massa pongono nuovi interrogativi

Dicembre 2022: Christina Aguilera posta un reel sul proprio account Instagram che colleziona oltre 25 mila like. La pop star statunitense sta trascorrendo il proprio compleanno in Vietnam, sullo sfondo il paesaggio della baia di Ha Long, patrimonio UNESCO. La cantante fa un giro in elicottero, poi festeggia con un brindisi su uno yacht. Tutt’intorno, ancora pochi turisti, soprattutto per un luogo che è arrivato a registrare oltre 7 milioni di visitatori nel 2017. Nel 2020, dopo la prima ondata pandemica, gli arrivi a Ha Long erano crollati a 1,5 milioni. Solo un anno prima era scattato l’allarme degli ambientalisti per salvare l’area, dove la costruzione del nuovo aeroporto lasciava presagire un peggioramento delle condizioni ambientali determinato dal boom di turisti.

La popolarità di Ha Long e il calo del turismo dovuto alla pandemia non forniscono prove sufficienti per ragionare su una maggiore tutela del paesaggio. La ripresa, però, è vicina: secondo i dati del World Travel and Tourism Council (WTTC) la regione dell’Asia-Pacifico sarà la prima a ritornare alle cifre del 2019, con proiezioni di crescita dell’8% su base annua nel lungo termine. Inoltre, nei prossimi dieci anni, i lavoratori del settore potrebbero aumentare al punto da occupare il 64,8% sul totale globale. 

Pronti per la ripresa

Che il 2023 potrebbe essere l’anno della ripresa lo raccontano anche gli attori presenti sul territorio. A gennaio il presidente della Tourism Council of Thailand (TCT) Chamnan Srisawat ha affermato che le previsioni parlano di almeno 20 milioni di turisti in Thailandia nel corso del nuovo anno, quasi un raddoppio rispetto ai numeri del 2022 (11,8 milioni). Anche l’Amministrazione Nazionale Vietnamita del Turismo (VNAT) prevede 8 milioni di arrivi internazionali, per un guadagno stimato di circa 27,5 miliardi di dollari. In Cambogia ci si prepara al ritorno delle folle nel noto complesso di Angkor Vat: “Il governo ha dedicato molti sforzi per un piano di ripresa per l’industria del turismo”, ha raccontato all’agenzia di stampa cinese Xinhua Top Sopheak, portavoce del ministero del Turismo. “Crediamo che nei prossimi anni aumenteranno i turisti stranieri, in particolare ad Angkor, poiché molte compagnie aeree hanno ripreso i voli”. 

Anche l’ASEAN ha studiato delle misure per affrontare la ripresa dei viaggi nell’era post-pandemica. Già a gennaio 2022 un incontro tra i ministri del Turismo aveva evidenziato la necessità di adottare delle misure coordinate per incentivare la ripresa del settore turistico e raggiungere una serie di obiettivi già definiti dall’ASEAN Tourism Strategic Plan (ATSP) 2016-2025: non solo una migliore qualità dell’offerta turistica, ma anche una maggiore attenzione alla sostenibilità sociale e ambientale del settore. Tra gli esempi forniti dal comunicato stampa del meeting, l’urgenza di sostenere le piccole-medie imprese, accrescere le competenze degli operatori turistici, proteggere l’ambiente e il patrimonio storico.

Un fragile compromesso

Le basi di una ripresa delle economie del Sud-Est asiatico anche (sebbene non solo) attraverso l’industria turistica sono un dato fatto. L’allentamento delle restrizioni dovute alla pandemia ha già portato a una crescita degli ingressi dall’estero, da cui provengono turisti con un ampio potere di spesa rispetto ai viaggiatori domestici. Una possibile ripresa delle economie più sviluppate promette inoltre entrate importanti per il paesi più dipendenti dal turismo come la Thailandia, ma anche un’opportunità per investire nel settore come sta accadendo in Vietnam. 

A rimanere è il dilemma della sostenibilità del settore, soprattutto in quelle aree dove la chiusura delle frontiere ha portato con sé gravi danni al tessuto socioeconomico locale. Come sottolineava l’International Labour Organization (ILO) in una sua analisi del 2021, la pandemia ha causato un crollo delle opportunità di lavoro senza precedenti, colpendo soprattutto quei settori legati al turismo internazionale e alle catene globali del valore. Alla dipendenze che possono crearsi sul mercato del lavoro si aggiungono altri effetti collaterali del turismo di massa: inflazione, prezzi degli immobili gonfiati e degrado ambientale.
L’impatto del turismo di massa nel Sud-Est asiatico si registra soprattutto sugli ecosistemi. Sono bastate poche settimane di lockdown per riconsegnare gli habitat naturali ai loro veri inquilini. È accaduto, per esempio, in Thailandia, dove un gruppo di dugonghi è tornato a popolare le acque intorno all’isola di Libong. A oggi sono ancora poche le mete del Sud-Est asiatico che impongono delle restrizioni per salvaguardare il patrimonio naturale dell’eccessiva mole di turisti attirati dai panorami mozzafiato della regione. Come a Boracay, una piccola isola filippina dove nel 2018 è stato imposto un divieto totale agli ingressi per permettere di ripulire le acque dall’accumulo dei liquami inquinanti sversati dalle strutture ricettive. Di recente sono state adottate alcune restrizioni sull’utilizzo della sabbia delle spiagge ma, d’altro canto, il via libera ai fuochi d’artificio per festeggiare Capodanno segnala una politica più permissiva per mantenere alta la popolarità della destinazione turistica.

ASEAN, parola d’ordine sviluppo

Mentre continua la guerra in Ucraina, nel centro dei piani dei Paesi del Sud-Est asiatico restano integrazione, cooperazione e crescita

Il 2023 si è aperto come si era chiuso il 2022: con l’Occidente preoccupato per la guerra in Ucraina e l’inflazione da una parte e con l’Asia che cerca di irrobustire la sua crescita dall’altra. Ed è proprio l’ASEAN che si propone sempre più come piattaforma di investimento ma anche di dialogo. Una tendenza anticipata in modo evidente da due processi in accelerazione: il flusso di progetti esteri nei Paesi del Sud-Est asiatico e le mosse dei loro governi in apertura al commercio e alla mobilità internazionali. Oltre allo stimolo della domanda interna, che già nel 2022 è tornata a crescere in maniera vibrante, gli esecutivi della regione hanno capito che eliminare barriere di tipo regolatorio, normativo e fiscale consente di rilanciare l’impegno sui due concetti chiave di apertura e integrazione. Pilastri del miglioramento del dialogo commerciale e politico a livello multilaterale. Il libero scambio è stato un motore fondamentale dello sviluppo dell’Asia negli ultimi decenni ma ora alcune potenze globali stanno adottando posture semi protezionistiche, costringendo diverse  imprese a riconsiderare le loro catene di approvvigionamento. Nonostante questo, l’Asia continua a essere la regione più dinamica del mondo, sostenuta dall’orientamento allo sviluppo della maggior parte dei suoi governi. Dalla Regional Comprehensive Economic Partnership ad altri accordi di libero scambio, gli esempi a supporto di questa prospettiva sono numerosi anche negli ultimi anni di pandemia. I risultati si vedono. Nel 2022 il Vietnam è cresciuto oltre l’8%, un dato record dal 1997 spinto dall’aumento del 13,5% degli investimenti diretti esteri. Non solo da parte di chi sposta parte delle proprie linee di produzione dalla Cina continentale ma anche e soprattutto nell’ambito di nuovi progetti che la regione è sempre più in grado di attirare. Compresi quelli legati all’industria manifatturiera hi-tech. Certo, le incertezze globali hanno portato l’Asian Development Bank a ridurre le sue previsioni di crescita economica per il 2023 per l’Asia in via di sviluppo, che comprende 46 economie, dal 4,9% al 4,6%. Escludendo la Cina, il tasso di crescita è stato ridotto dal 5,3% al 5%. Un’espansione di circa il 5% sarebbe comunque la più veloce di qualsiasi altra regione del mondo. La regione del Sud-Est asiatico è d’altronde destinata a diventare il più grande mercato unico del mondo entro il 2030. 

ASEAN epicentro della crescita nel 2023

L’anno appena iniziato presenta diverse incognite, dalla guerra in Ucraina all’inflazione, ma anche una certezza: il ruolo fondamentale del Sud-Est asiatico

“ASEAN Matters: Epicentrum of Growth”. Ossia “L’ASEAN conta: epicentro della crescita”. È questo l’azzeccato slogan scelto dall’Indonesia per la presidenza di turno del 2023 del blocco dei Paesi del Sud-Est asiatico. Dopo aver ospitato con successo il summit del G20 a Bali, il governo indonesiano si lancia con fiducia sul prossimo obiettivo: coordinare le diverse posizioni e gli interessi dei Paesi membri dell’ASEAN, mantenere l’unità del blocco ed elevare ulteriormente la statura del Sud-Est asiatico a centro di crescita globale. Una missione resa meno complicata dalla tendenza che ha visto protagonista l’area già negli scorsi anni. Nonostante tutte le difficoltà create prima dalla pandemia di Covid-19 e poi dalla guerra in Ucraina coi suoi numerosi effetti collaterali a partire dall’inflazione, la regione ha resistito in maniera brillante. Una delle storie più interessanti da raccontare è forse quella del Vietnam, che nel 2022 è cresciuto sopra l’8 per cento, il dato più alto degli ultimi 25 anni. Ma non si tratta solo di dati e di punti percentuali di prodotto interno lordo. A contare in modo positivo anche la predisposizione all’apertura sempre mantenuta dal blocco, pur con le dovute differenze e discontinuità tra i vari Stati membri. Nel 2023, l’Indonesia proverà a far “pesare” ancora di più tutti questi elementi sul piano internazionale, mentre su quello regionale intende mantenere l’attenzione sull’espansione della cooperazione economica a livello di blocco. Giacarta cercherà inoltre di costruire un consenso sulla sicurezza alimentare ed energetica, rafforzando le catene di approvvigionamento. Non mancano sfide complicate anche sul fronte interno, su tutte la crisi in Myanmar, tema su cui la presidenza indonesiana proverà a fare passi avanti significativi. Senza mai perdere di vista il fatto che il libero scambio è stato un motore fondamentale dello sviluppo dell’Asia negli ultimi decenni e il Sud-Est asiatico sta mostrando da tempo di voler evitare a tutti i costi non solo il cosiddetto disaccoppiamento economico ma anche una nuova guerra fredda in cui grandi potenze spingono tutti gli altri a scegliere da che parte stare. Il motto della presidenza indonesiana ribadisce che la scelta dell’ASEAN è quella della crescita economica e dell’integrazione commerciale.

Timor Leste verso l’ingresso in ASEAN

Dopo più di dieci anni dalla candidatura, Dili si appresta a diventare l’undicesimo Stato membro del blocco del Sud-Est asiatico

Siglato al termine del 40° ASEAN Summit tenutosi a Phnom Penh, l’accordo in linea di principio ha concesso a Timor Leste lo status di osservatore e la partecipazione a tutte le riunioni dell’ASEAN, comprese le plenarie del vertice. Il Paese sarebbe il primo nuovo membro ASEAN dopo più di due decenni dall’ammissione della Cambogia nel 1999.

L’attesa decisione arriva dopo anni di dibattiti, che includono le iniziali riserve da parte di Singapore. Il Presidente Ramos-Horta presentò la candidatura di Timor Leste per l’adesione all’ASEAN nel 2011, un anno prima di completare il suo primo mandato quinquennale. Allora la richiesta fece emergere non poche resistenze anche in patria, a causa della mancanza di risorse umane ed economiche del Paese per adattarsi ai programmi dell’ASEAN, e soprattutto degli obblighi finanziari che i membri sono tenuti a pagare per gestire l’organizzazione regionale. La decisione è, quindi, un grande traguardo per Ramos-Horta, che vinse il premio Nobel per la pace nel 1996, insieme all’allora vescovo di Dili Carlos Ximenes Belo, per le loro campagne pacifiche a favore dell’indipendenza dall’Indonesia. L’inclusione nel blocco regionale sembrerebbe infatti l’inizio di un mea culpa dell’Indonesia nei confronti della sua ex colonia. 

La storia delle due nazioni è macchiata dalla perdita di migliaia di vite e dai terribili atti di violenza, che hanno segnato i 24 anni di occupazione indonesiana dell’allora Timor orientale. Molti altri sono stati uccisi all’indomani del referendum approvato dalle Nazioni Unite il 30 agosto 1999, quando i timoresi orientali hanno votato per l’indipendenza dall’Indonesia.

Nel dicembre 1975, con la piena approvazione del presidente degli Stati Uniti Gerald Ford e del primo ministro australiano Gough Whitlam, l’allora presidente Suharto invase Timor Est, dopo che fu abbandonato dal Portogallo, controllato dai comunisti. Per più di un ventennio l’Indonesia ha agito come padrona coloniale di Timor Est, che fu nominata ventisettesima provincia della Repubblica. Tuttavia, le Nazioni Unite non hanno mai riconosciuto la sovranità dell’Indonesia su Timor Est, anche grazie alla campagna globale di Ramos-Horta. Nell’ondata di cambiamento che ha portato alla caduta del regime di Suharto, il suo successore BJ Habibie decise di far scegliere al popolo di Timor Est il futuro del loro Paese, tramite un referendum che sancì l’indipendenza dall’Indonesia, con quasi l’80% dei voti. Non potendo accettare una tale sconfitta, l’esercito indonesiano e le sue milizie iniziarono una distruzione senza eguali, costringendo centinaia di migliaia di persone a fuggire. La pace fu ripristinata solo dopo che le Nazioni Unite inviarono truppe multinazionali e l’esercito indonesiano accettò di collaborare. Timor Leste venne scelto come nome ufficiale della nuova Repubblica, che dichiarò la sua piena indipendenza il 30 maggio 2002. 

Timor Leste, che condivide le isole di Nusa Tenggara con l’Indonesia, è ora tra le nazioni più povere del mondo, il motivo principale per cui Singapore si era opposto al suo ingresso nel blocco. In tutti questi anni, è stato il presidente Joko Widodo a spingere i colleghi leader regionali ad accettare Timor Leste come parte del gruppo. Fin dall’inizio Singapore ha messo in dubbio la capacità di Timor Leste di aderire al blocco commerciale, temendo che uno Stato così impoverito diventerebbe solo un onere inutile per l’ASEAN.

Tuttavia, l’ASEAN ha ammesso nuovi membri nonostante le scarse risorse umane ed economiche. Timor Leste rimane un Paese a basso reddito, ma il suo benessere è migliore di quello del Myanmar di oggi. Gode di enormi riserve di petrolio e gas, e nel 2021 il reddito pro-capite è stato pari a 1.400 dollari. 

Aiutare i nuovi Stati membri è una procedura standard per l’ASEAN. La sua storia lo dimostra prima con Laos e Myanmar nel 1997 e poi la Cambogia nel 1999. Ai nuovi membri del blocco è stato anche concesso un trattamento speciale per mettersi al passo con i membri economicamente più forti come Indonesia, Vietnam, Thailandia.  

Nell’attesa di ricevere le stesse agevolazioni, i presupposti sono davanti agli occhi di tutti. L’ingresso in ASEAN darebbe finalmente a Timor Leste condizioni di parità all’interno del gruppo e l’accesso a un enorme mercato, che aiuterebbe il Paese a crescere più velocemente e a far parte dei processi decisionali. L’Indonesia non riuscirà a ripagare il suo debito, ma è pronta a scrivere un nuovo futuro.

ASEAN, un 2023 tra sfide e opportunità

L’anno che si apre può ulteriormente rafforzare il ruolo economico e diplomatico del blocco dei Paesi Sud-Est asiatico, che potrebbe anche accogliere un nuovo membro

Il 2022 è stato l’anno in cui l’ASEAN e il Sud-Est asiatico hanno dimostrato di essere una piattaforma, anzi “la” piattaforma per eccellenza, della ripartenza economica e diplomatica a livello globale. Non solo una maggiore resistenza alle spinte inflazionistiche, la regione ha fatto segnare ottimi numeri di ripresa economica nonostante tutte le difficoltà legate alla coda della pandemia di Covid-19 e alla guerra in Ucraina. Di più. Il successo dei vari summit multilaterali che si sono svolti nell’area, tra G20 in Indonesia e APEC in Bangkok, conferma la capacità dell’ASEAN di essere considerata un’interlocutrice diplomatica affidabile.  Questo nonostante alcune zone d’ombra e problemi irrisolti, primo fra tutti la crisi in Myanmar sulla quale la presidenza di turno cambogiana, nonostante diversi tentativi, non è riuscita a compiere passi avanti significativi. Nel 2023 le sfide non mancheranno, ma la sensazione è che la presidenza indonesiana farà di tutto per cogliere le opportunità. Dopo aver ospitato il G20 a Bali, la principale economia del blocco si proietta con forza sul suo ruolo di leader regionale. Giacarta mirerà dunque alla creazione di una rete di cooperazione intraregionale che vada dal cambiamento climatico alla difesa informatica, passando per l’economia digitale e la sicurezza alimentare, quest’ultima posta tra le priorità del 2023. Possibile anche che arrivi un impulso decisivo all’ingresso di un undicesimo membro nell’Associazione: Timor Est. C’è chi avanza perplessità sulle diverse condizioni dell’economia di Dili con quella dei Paesi più avanzati del blocco, ma l’ASEAN non supererà mai del tutto la sua intrinseca diversità, che però si sta dimostrando in grado di sfruttare come punto di forza e di orgoglio. L’ASEAN è riuscita a prevenire l’emergere di conflitti tra grandi potenze e guerre regionali dalla fine della guerra fredda, quando le truppe vietnamite si ritirarono dalla Cambogia nel 1989, aprendo la strada agli accordi di pace di Parigi del 1991. Il blocco ha superato la crisi finanziaria asiatica espandendo il commercio intraregionale e promuovendo un regime di cambio comune. Più di recente, il Vertice dell’Asia orientale ha portato con successo al suo tavolo potenze esterne, tra cui Stati Uniti, Cina, Russia, Giappone e Australia, rafforzando il potere diplomatico del blocco. La “third way” dell’ASEAN pare una via da percorrere in maniera sempre più decisa.