Asean

Il 2023 visto dai cittadini dell’ASEAN

Economia, lavoro e ambiente sono le prime preoccupazioni delle popolazioni del Sud-Est asiatico, che approvano la “ASEAN WAY” in diplomazia

Disoccupazione, inflazione, mancanza di materie prime, cambiamento climatico, eventi meteorologici sempre più intensi, aumento del divario socio-economico e disparità di reddito. Sono queste le principali preoccupazioni dei cittadini dei dieci Paesi membri dell’ASEAN. Il dato emerge dall’atteso report annuale The State of South-east Asia a cura dell’ISEAS – Yusof Ishak Institute di Singapore. I risultati del sondaggio annuale, utile per capire che cosa si aspettano i cittadini del Sud-Est asiatico dall’anno appena cominciato, indicano che il 59,5% dei 1.308 intervistati nei 10 Paesi dell’ASEAN ha classificato la disoccupazione e la recessione economica come una preoccupazione più urgente del cambiamento climatico, che è al secondo posto con il 57,1%. L’aumento dei divari socio-economici e la crescente disparità di reddito si sono piazzati al terzo posto, mentre solo dopo sono state citate le crescenti tensioni geopolitiche di cui parlano tutti i media internazionali in riferimento alle manovre contrapposte in Asia-Pacifico. Il 73% degli intervistati ha in effetti espresso il timore che l’ASEAN stia diventando un’arena di competizione geopolitica, altro segnale che la classica “terza via” di neutralità e pacifismo adottato dal blocco convince i cittadini della regione. La Cina continua a essere considerata la potenza economica più influente nella regione, seguita dagli Stati Uniti. La Cina è stata anche classificata come la potenza più influente e strategica nel Sud-Est asiatico. Anche in questo caso gli Stati Uniti seguono al secondo posto. A testimonianza del fatto che i cittadini del blocco approvano il tentativo dei loro governo di tenere aperte le porte a tutti senza mettersi però contro nessuno. Alla resa dei conti, gli intervistati del Sud-Est asiatico hanno continuato a preferire l’opzione di rafforzare la fiducia e l’unità dell’ASEAN per respingere le pressioni degli Stati Uniti e della Cina in un contesto di tensione tra le due potenze. La tradizionale opzione secondo cui l’ASEAN non si schiera né con la Cina né con gli Stati Uniti, ha visto un maggiore sostegno quest’anno rispetto al 2022, mentre una terza opzione in crescita di gradimento prevede che l’ASEAN cerchi di approfondire i rapporti con “terze parti” come il Giappone o l’India per aumentare il suo spazio strategico.

Italia e Vietnam, 50 anni di amicizia

Editoriale a cura di Lorenzo Riccardi, Managing Partner RsA Asia

Hanoi è il principale partner commerciale di Roma in ASEAN. Ed è nell’elenco dei Paesi prioritari per la promozione di investimenti

Italia e Vietnam sono sempre più vicine. Nel 2022 l’interscambio commerciale tra i due Paesi ha raggiunto il massimo storico di 6,2 miliardi di dollari, in crescita dell’11% rispetto al 2021. Un trend in ascesa da diverso tempo e che ha portato a raddoppiare le cifre nel giro di un decennio. E che è destinato a proseguire, visto che l’Italia ha inserito il Vietnam nell’elenco dei 20 Paesi prioritari per la promozione del commercio e degli investimenti fino al 2030. Il prossimo 23 marzo ricorre tra l’altro il 50esimo anniversario delle relazioni bilaterali e per celebrare la ricorrenza è previsto un calendario di iniziative per promuovere i legami culturali ed economici. In occasione del nuovo anno lunare, lo scorso 30 gennaio il Consolato del Vietnam a Torino ha per esempio organizzato una tavola rotonda sulle opportunità di investimento in Vietnam e nei paesi del Sud-Est Asiatico. Insieme a chi scrive, hanno partecipato Sandra Scagliotti, Console Onorario della Repubblica Socialista del Vietnam in Italia e Mario Donadio di Leading Law. Il Vietnam è il principale partner commerciale dell’Italia nel Sud-Est asiatico, ma tutta la regione offre grandi opportunità. L’unione politica ed economica dei dieci membri dell’Associazione delle Nazioni del Sud-Est Asiatico conta su un enorme mercato, con 667 milioni di persone e un territorio di 4,5 milioni di chilometri quadrati; è la terza economia dell’Asia-Pacifico e la quinta più grande del mondo. La Comunità economica dell’ASEAN (AEC) ha un PIL combinato di 3,6 trilioni di dollari, secondo le stime per il 2022. Il Fondo monetario internazionale ha pubblicato il suo World Economic Outlook il 31 gennaio 2023. Il rapporto prevede una crescita globale per il 2023 al 2,9% prima di salire ulteriormente a un tasso di PIL del 3,1% nel 2024, che rappresenta una revisione al rialzo di 0,2 punti percentuali rispetto alle stime di ottobre 2022. La recente riapertura dei confini cinesi dovrebbe aprire la strada a una ripresa globale più rapida del previsto. Per le cinque maggiori economie dell’ASEAN (Indonesia, Malesia, Filippine, Thailandia e Vietnam), la crescita è prevista al 4,3% nel 2023. La cooperazione con Europa e Italia è destinata ad aumentare ancora.

La diplomazia climatica in Asia

Tensioni politiche e competizione economica rallentano la corsa verso la transizione green. Mentre la guerra in Ucraina sta cambiando le rotte delle fossili russe, con accordi di rifornimento molto vantaggiosi per paesi partner come la Cina

Il 2022 è stato un anno poco verde per la diplomazia climatica. Se la Conference of the Parties del 2021 (COP 26) sembrava aver riacceso l’attenzione dei decisori sul clima, le catastrofi naturali che ne sono seguite, la guerra in Ucraina e un ulteriore rallentamento dei mercati hanno contribuito a far emergere tutt’altro trend. Alla COP 27 sono passati di corsa pochi presidenti delle grandi economie globali in partenza per il G20 di Bali, mentre le delegazioni dei paesi più fragili hanno ottenuto solo la promessa di un aumento dei fondi per il loss and damage, ovvero le compensazioni economiche destinate a quelle realtà che più stanno subendo gli effetti dei cambiamenti climatici. Pur non raggiungendo la quota stabilita di 100 miliardi di dollari, questa decisione è stata salutata da molti come un primo traguardo verso la giustizia climatica. Ma i danni della crisi climatica sono ben più ampi di quanto sia stato calcolato fino a oggi, come dimostrano nuovi modelli di scenario ampiamente dimostrati dai ricercatori. Oggi molte delle località più in pericolo al mondo si trovano in Asia, tra cui le grandi capitali Bangkok, Ho Chi Minh e Manila.

L’incontro al G20 tra il presidente Usa Joe Biden e la controparte cinese Xi Jinping ha fatto ripartire le montagne russe della diplomazia climatica, aprendo uno scenario di cauto ottimismo davanti all’impegno dei due più grandi inquinatori al mondo. Tuttavia, l’azione di Washington e Pechino non è ancora coerente con la narrazione di entrambi i paesi sul loro ruolo “guida” nella transizione verde. Guardando a est, la promessa della Cina di offrire modelli alternativi di sviluppo sostenibile è ancora lontana dal supportare le riforme più urgenti. Né il più eterogeneo blocco Asean, né le avanzate economie dell’Asia orientale sembrano pronte a una rapida transizione energetica e al raggiungimento della neutralità carbonica. Il primo traguardo è il 2030, anno in cui il Giappone promette di abbattere le emissioni del 46% rispetto ai dati del 2013, la Cina punta a toccare il picco delle emissioni e la Corea del Sud è vincolata dal Global methane pledge a ridurre le emissioni di metano del 30% rispetto a quelle registrate nel 2020. Un meccanismo, quest’ultimo, da cui manca la Cina, che si è anche svincolata dal fondo loss and damage.

Sud-Est crocevia di interessi 

Un’altra interpretazione del ruolo determinante della Cina vede Pechino come capofila di una “competizione positiva” contro Washington, dove i due paesi cercano di guadagnare in immagine (e in termini di budget) dalla loro predominanza nei forum multilaterali e sul mercato delle tecnologie per la transizione energetica. Ma le recenti manovre Usa che guardano al settore dei semiconduttori e dei manufatti prodotti in Xinjiang (tra cui rientrano soprattutto i pannelli solari) rischiano di trasformare la competizione in rivalità. Certo è che le promesse della Cina unite all’interesse economico stanno avendo un certo impatto sui paesi più dipendenti dai finanziamenti cinesi nel settore delle fossili. Ne è un esempio il Vietnam, che deve valutare se costruire nuove centrali a carbone in assenza di capitali cinesi, stando a quanto promesso da Pechino con il divieto agli investimenti esteri nel settore. Ciononostante, la domanda energetica del Sud-Est asiatico continua a salire (+80% in meno di venti anni) e la scelta più semplice e immediata cade sulle fonti energetiche più inquinanti, che oggi occupano ancora oltre l’80% del mix energetico. Alle risorse finanziarie si accompagna la più pratica disponibilità di risorse naturali a basso costo, come nel caso dell’Indonesia, che rappresenta il terzo maggiore esportatore di carbone al mondo. Non di meno, la guerra in Ucraina sta cambiando le rotte delle fossili russe, con accordi di rifornimento molto vantaggiosi per paesi partner come la Cina.

Il Sud-Est asiatico si trova al crocevia degli interessi dei nuovi investitori in fuga dalle delocalizzazioni in Cina e le più vecchie relazioni radicate nel tessuto economico dei diversi paesi. Il Giappone, principale investitore in Thailandia nel 2022, ha da tempo adocchiato l’opportunità di costruire auto elettriche e componenti necessarie alla transizione energetica. Un forte interesse è anche orientato alle nuove filiere agricole sostenibili, così come nelle imprese di trasformazione del settore turistico secondo parametri più coerenti con l’agenda Onu per lo sviluppo sostenibile. In questo caso, la sfida è molto più ampia di quanto appaia limitandosi al dossier energetico, perché richiede una profonda riflessione sull’impatto ambientale e sociale di quei settori che hanno trainato le economie di diversi paesi della regione negli ultimi decenni.

Le sfide della sostenibilità tra India e Asia centrale

Lontana dai riflettori della diplomazia climatica, ma estremamente importante per il suo peso economico e demografico, l’India deve fare i conti con le sfide della modernizzazione incontrollata. Alla crescita sfrenata delle città non corrisponde una progettazione ragionata dei sistemi urbani (si pensi, per esempio, al traffico di mezzi privati), mentre a partire dagli anni Cinquanta le risorse idriche e la salubrità dei suoli sono crollate. Alle evidenze sul campo non corrisponde ancora una presa di consapevolezza nel giocare un ruolo proattivo al tavolo dei negoziati per il clima. Anche per Nuova Delhi la competizione con la Cina è prioritaria. Inoltre, mentre l’India forma dei nuovi gruppi di lavoro per l’applicazione delle direttive degli accordi multilaterali da un lato, dall’altro chiude un occhio nei confronti della repressione delle associazioni ambientaliste.

Infine, l’Asia centrale si concentra sulle misure di adattamento ai cambiamenti climatici più che a chiedere maggiori responsabilità ai grandi inquinatori. Se in aree come il Kazakistan la corsa alla leadership economica nella regione sembra mettere in secondo piano le promesse ambientali, in altri paesi come il Kirghizistan è presente una forte preoccupazione per i fenomeni climatici estremi e la sicurezza alimentare. Anche la competizione sulle risorse idriche, emersa ultimamente con gli scontri lungo il confine kirghizo-tagiko, apre a pericolosi scenari sul clima come acceleratore di conflitti nella regione. La promessa principale, come emerge dalle affermazioni dei leader coinvolti nel progetto dell’agenzia per l’ambiente Onu dedicato alla sicurezza climatica in Asia centrale, è quella di collaborare con le organizzazioni internazionali per costruire una strategia di adattamento socialmente ed economicamente sostenibile. Anche qui il ruolo di un attore prominente come la Cina potrebbe influire sulle scelte di progettazione ed elettrificazione delle nuove realtà urbane. Anche se, guardando alle risorse presenti nell’area (fonti idriche lungo il confine con lo Xinjiang, pozzi di gas naturale), l’altra faccia della medaglia apre scenari predatori che non sono nuovi in Asia, come nel caso delle dighe cinesi lungo il Delta del Mekong.

Il mondo si avvicina all’ASEAN

Cina, Giappone, Stati Uniti, Europa e Italia: i rapporti con il Sud-Est asiatico vengono considerati sempre più strategici a livello globale

Se c’è una tendenza chiara nel panorama commerciale e geopolitico globale, questa è la volontà delle grandi potenze e di tutti i Paesi più sviluppati o emergenti di approfondire le proprie relazioni con l’ASEAN. Il Sud-Est asiatico è visto sempre più come un centro imprescindibile di cooperazione economica e diplomatica. Basta guardare a quanto accaduto di recente e a quanto può accadere nel prossimo futuro. Nel 2022, primo anno di entrata in vigore del Partenariato economico globale regionale (RCEP), la Cina ha registrato un aumento degli scambi commerciali del 15% su base annua con l’ASEAN, che detiene saldamente la posizione di primo partner commerciale della Cina. Nel 2023 è prevedibile che il ritmo possa anche aumentare, di pari passo con l’accelerazione della crescita di Pechino. La partecipazione del Presidente Joe Biden, lo scorso novembre, al summit ASEAN in Cambogia ha invece confermato che anche gli Stati Uniti hanno allungato il passo in una regione fondamentale anche per ragioni strategiche. Il piano di investimenti annunciato dalla Casa Bianca va finalmente nella direzione di un coinvolgimento americano non solo sul piano difensivo e militare, ma anche infrastrutturale e ambientale, visto il focus sulla transizione energetica che coinvolge tutti i Paesi dell’ASEAN. A muoversi con grande decisione non sono certo solo le superpotenze. Il Giappone, per esempio, è da tempo una presenza consolidata nel Sud-Est asiatico. Sin dal 1977 e dal lancio della “dottrina Fukuda”, dal nome dell’allora Primo Ministro che durante un celebre viaggio nel Sud-Est espresse l’impegno di Tokyo a non diventare una potenza militare e a costruire un rapporto di fiducia reciproca con l’ASEAN e i suoi Paesi membri. Da allora, il Giappone è diventato uno dei maggiori partner commerciali e investitori del blocco e una delle principali fonti di finanziamento delle infrastrutture. Ora il Paese sta seriamente valutando la possibilità di elevare le sue relazioni con l’ASEAN a un partenariato strategico globale, mettendosi così alla pari di Cina e Stati Uniti. La Corea del Sud ha da poco lanciato la sua prima strategia dell’Indo-Pacifico, che riserva all’approfondimento dei rapporti con l’ASEAN uno dei suoi pilastri. La regione è destinata a diventare anche la più grande destinazione di investimenti diretti esteri provenienti da Taiwan. L’Unione Europea ha da parte sua compreso che i suoi interessi coincidono sempre di più con quelli dell’ASEAN e non appare più così remota la possibilità di un accordo di libero scambio tra i due blocchi. Uno sviluppo del quale beneficerebbe anche l’Italia, le cui imprese guardano con sempre maggiore interesse verso Sud-Est.

Turismo nei paesi ASEAN: il 2023 sarà l’anno della ripresa

Secondo il WTTC il Sud-Est asiatico sarà il primo a tornare ai livelli di turismo pre-pandemici. Ma contraddizioni e opportunità del turismo di massa pongono nuovi interrogativi

Dicembre 2022: Christina Aguilera posta un reel sul proprio account Instagram che colleziona oltre 25 mila like. La pop star statunitense sta trascorrendo il proprio compleanno in Vietnam, sullo sfondo il paesaggio della baia di Ha Long, patrimonio UNESCO. La cantante fa un giro in elicottero, poi festeggia con un brindisi su uno yacht. Tutt’intorno, ancora pochi turisti, soprattutto per un luogo che è arrivato a registrare oltre 7 milioni di visitatori nel 2017. Nel 2020, dopo la prima ondata pandemica, gli arrivi a Ha Long erano crollati a 1,5 milioni. Solo un anno prima era scattato l’allarme degli ambientalisti per salvare l’area, dove la costruzione del nuovo aeroporto lasciava presagire un peggioramento delle condizioni ambientali determinato dal boom di turisti.

La popolarità di Ha Long e il calo del turismo dovuto alla pandemia non forniscono prove sufficienti per ragionare su una maggiore tutela del paesaggio. La ripresa, però, è vicina: secondo i dati del World Travel and Tourism Council (WTTC) la regione dell’Asia-Pacifico sarà la prima a ritornare alle cifre del 2019, con proiezioni di crescita dell’8% su base annua nel lungo termine. Inoltre, nei prossimi dieci anni, i lavoratori del settore potrebbero aumentare al punto da occupare il 64,8% sul totale globale. 

Pronti per la ripresa

Che il 2023 potrebbe essere l’anno della ripresa lo raccontano anche gli attori presenti sul territorio. A gennaio il presidente della Tourism Council of Thailand (TCT) Chamnan Srisawat ha affermato che le previsioni parlano di almeno 20 milioni di turisti in Thailandia nel corso del nuovo anno, quasi un raddoppio rispetto ai numeri del 2022 (11,8 milioni). Anche l’Amministrazione Nazionale Vietnamita del Turismo (VNAT) prevede 8 milioni di arrivi internazionali, per un guadagno stimato di circa 27,5 miliardi di dollari. In Cambogia ci si prepara al ritorno delle folle nel noto complesso di Angkor Vat: “Il governo ha dedicato molti sforzi per un piano di ripresa per l’industria del turismo”, ha raccontato all’agenzia di stampa cinese Xinhua Top Sopheak, portavoce del ministero del Turismo. “Crediamo che nei prossimi anni aumenteranno i turisti stranieri, in particolare ad Angkor, poiché molte compagnie aeree hanno ripreso i voli”. 

Anche l’ASEAN ha studiato delle misure per affrontare la ripresa dei viaggi nell’era post-pandemica. Già a gennaio 2022 un incontro tra i ministri del Turismo aveva evidenziato la necessità di adottare delle misure coordinate per incentivare la ripresa del settore turistico e raggiungere una serie di obiettivi già definiti dall’ASEAN Tourism Strategic Plan (ATSP) 2016-2025: non solo una migliore qualità dell’offerta turistica, ma anche una maggiore attenzione alla sostenibilità sociale e ambientale del settore. Tra gli esempi forniti dal comunicato stampa del meeting, l’urgenza di sostenere le piccole-medie imprese, accrescere le competenze degli operatori turistici, proteggere l’ambiente e il patrimonio storico.

Un fragile compromesso

Le basi di una ripresa delle economie del Sud-Est asiatico anche (sebbene non solo) attraverso l’industria turistica sono un dato fatto. L’allentamento delle restrizioni dovute alla pandemia ha già portato a una crescita degli ingressi dall’estero, da cui provengono turisti con un ampio potere di spesa rispetto ai viaggiatori domestici. Una possibile ripresa delle economie più sviluppate promette inoltre entrate importanti per il paesi più dipendenti dal turismo come la Thailandia, ma anche un’opportunità per investire nel settore come sta accadendo in Vietnam. 

A rimanere è il dilemma della sostenibilità del settore, soprattutto in quelle aree dove la chiusura delle frontiere ha portato con sé gravi danni al tessuto socioeconomico locale. Come sottolineava l’International Labour Organization (ILO) in una sua analisi del 2021, la pandemia ha causato un crollo delle opportunità di lavoro senza precedenti, colpendo soprattutto quei settori legati al turismo internazionale e alle catene globali del valore. Alla dipendenze che possono crearsi sul mercato del lavoro si aggiungono altri effetti collaterali del turismo di massa: inflazione, prezzi degli immobili gonfiati e degrado ambientale.
L’impatto del turismo di massa nel Sud-Est asiatico si registra soprattutto sugli ecosistemi. Sono bastate poche settimane di lockdown per riconsegnare gli habitat naturali ai loro veri inquilini. È accaduto, per esempio, in Thailandia, dove un gruppo di dugonghi è tornato a popolare le acque intorno all’isola di Libong. A oggi sono ancora poche le mete del Sud-Est asiatico che impongono delle restrizioni per salvaguardare il patrimonio naturale dell’eccessiva mole di turisti attirati dai panorami mozzafiato della regione. Come a Boracay, una piccola isola filippina dove nel 2018 è stato imposto un divieto totale agli ingressi per permettere di ripulire le acque dall’accumulo dei liquami inquinanti sversati dalle strutture ricettive. Di recente sono state adottate alcune restrizioni sull’utilizzo della sabbia delle spiagge ma, d’altro canto, il via libera ai fuochi d’artificio per festeggiare Capodanno segnala una politica più permissiva per mantenere alta la popolarità della destinazione turistica.

ASEAN, parola d’ordine sviluppo

Mentre continua la guerra in Ucraina, nel centro dei piani dei Paesi del Sud-Est asiatico restano integrazione, cooperazione e crescita

Il 2023 si è aperto come si era chiuso il 2022: con l’Occidente preoccupato per la guerra in Ucraina e l’inflazione da una parte e con l’Asia che cerca di irrobustire la sua crescita dall’altra. Ed è proprio l’ASEAN che si propone sempre più come piattaforma di investimento ma anche di dialogo. Una tendenza anticipata in modo evidente da due processi in accelerazione: il flusso di progetti esteri nei Paesi del Sud-Est asiatico e le mosse dei loro governi in apertura al commercio e alla mobilità internazionali. Oltre allo stimolo della domanda interna, che già nel 2022 è tornata a crescere in maniera vibrante, gli esecutivi della regione hanno capito che eliminare barriere di tipo regolatorio, normativo e fiscale consente di rilanciare l’impegno sui due concetti chiave di apertura e integrazione. Pilastri del miglioramento del dialogo commerciale e politico a livello multilaterale. Il libero scambio è stato un motore fondamentale dello sviluppo dell’Asia negli ultimi decenni ma ora alcune potenze globali stanno adottando posture semi protezionistiche, costringendo diverse  imprese a riconsiderare le loro catene di approvvigionamento. Nonostante questo, l’Asia continua a essere la regione più dinamica del mondo, sostenuta dall’orientamento allo sviluppo della maggior parte dei suoi governi. Dalla Regional Comprehensive Economic Partnership ad altri accordi di libero scambio, gli esempi a supporto di questa prospettiva sono numerosi anche negli ultimi anni di pandemia. I risultati si vedono. Nel 2022 il Vietnam è cresciuto oltre l’8%, un dato record dal 1997 spinto dall’aumento del 13,5% degli investimenti diretti esteri. Non solo da parte di chi sposta parte delle proprie linee di produzione dalla Cina continentale ma anche e soprattutto nell’ambito di nuovi progetti che la regione è sempre più in grado di attirare. Compresi quelli legati all’industria manifatturiera hi-tech. Certo, le incertezze globali hanno portato l’Asian Development Bank a ridurre le sue previsioni di crescita economica per il 2023 per l’Asia in via di sviluppo, che comprende 46 economie, dal 4,9% al 4,6%. Escludendo la Cina, il tasso di crescita è stato ridotto dal 5,3% al 5%. Un’espansione di circa il 5% sarebbe comunque la più veloce di qualsiasi altra regione del mondo. La regione del Sud-Est asiatico è d’altronde destinata a diventare il più grande mercato unico del mondo entro il 2030. 

ASEAN epicentro della crescita nel 2023

L’anno appena iniziato presenta diverse incognite, dalla guerra in Ucraina all’inflazione, ma anche una certezza: il ruolo fondamentale del Sud-Est asiatico

“ASEAN Matters: Epicentrum of Growth”. Ossia “L’ASEAN conta: epicentro della crescita”. È questo l’azzeccato slogan scelto dall’Indonesia per la presidenza di turno del 2023 del blocco dei Paesi del Sud-Est asiatico. Dopo aver ospitato con successo il summit del G20 a Bali, il governo indonesiano si lancia con fiducia sul prossimo obiettivo: coordinare le diverse posizioni e gli interessi dei Paesi membri dell’ASEAN, mantenere l’unità del blocco ed elevare ulteriormente la statura del Sud-Est asiatico a centro di crescita globale. Una missione resa meno complicata dalla tendenza che ha visto protagonista l’area già negli scorsi anni. Nonostante tutte le difficoltà create prima dalla pandemia di Covid-19 e poi dalla guerra in Ucraina coi suoi numerosi effetti collaterali a partire dall’inflazione, la regione ha resistito in maniera brillante. Una delle storie più interessanti da raccontare è forse quella del Vietnam, che nel 2022 è cresciuto sopra l’8 per cento, il dato più alto degli ultimi 25 anni. Ma non si tratta solo di dati e di punti percentuali di prodotto interno lordo. A contare in modo positivo anche la predisposizione all’apertura sempre mantenuta dal blocco, pur con le dovute differenze e discontinuità tra i vari Stati membri. Nel 2023, l’Indonesia proverà a far “pesare” ancora di più tutti questi elementi sul piano internazionale, mentre su quello regionale intende mantenere l’attenzione sull’espansione della cooperazione economica a livello di blocco. Giacarta cercherà inoltre di costruire un consenso sulla sicurezza alimentare ed energetica, rafforzando le catene di approvvigionamento. Non mancano sfide complicate anche sul fronte interno, su tutte la crisi in Myanmar, tema su cui la presidenza indonesiana proverà a fare passi avanti significativi. Senza mai perdere di vista il fatto che il libero scambio è stato un motore fondamentale dello sviluppo dell’Asia negli ultimi decenni e il Sud-Est asiatico sta mostrando da tempo di voler evitare a tutti i costi non solo il cosiddetto disaccoppiamento economico ma anche una nuova guerra fredda in cui grandi potenze spingono tutti gli altri a scegliere da che parte stare. Il motto della presidenza indonesiana ribadisce che la scelta dell’ASEAN è quella della crescita economica e dell’integrazione commerciale.

Timor Leste verso l’ingresso in ASEAN

Dopo più di dieci anni dalla candidatura, Dili si appresta a diventare l’undicesimo Stato membro del blocco del Sud-Est asiatico

Siglato al termine del 40° ASEAN Summit tenutosi a Phnom Penh, l’accordo in linea di principio ha concesso a Timor Leste lo status di osservatore e la partecipazione a tutte le riunioni dell’ASEAN, comprese le plenarie del vertice. Il Paese sarebbe il primo nuovo membro ASEAN dopo più di due decenni dall’ammissione della Cambogia nel 1999.

L’attesa decisione arriva dopo anni di dibattiti, che includono le iniziali riserve da parte di Singapore. Il Presidente Ramos-Horta presentò la candidatura di Timor Leste per l’adesione all’ASEAN nel 2011, un anno prima di completare il suo primo mandato quinquennale. Allora la richiesta fece emergere non poche resistenze anche in patria, a causa della mancanza di risorse umane ed economiche del Paese per adattarsi ai programmi dell’ASEAN, e soprattutto degli obblighi finanziari che i membri sono tenuti a pagare per gestire l’organizzazione regionale. La decisione è, quindi, un grande traguardo per Ramos-Horta, che vinse il premio Nobel per la pace nel 1996, insieme all’allora vescovo di Dili Carlos Ximenes Belo, per le loro campagne pacifiche a favore dell’indipendenza dall’Indonesia. L’inclusione nel blocco regionale sembrerebbe infatti l’inizio di un mea culpa dell’Indonesia nei confronti della sua ex colonia. 

La storia delle due nazioni è macchiata dalla perdita di migliaia di vite e dai terribili atti di violenza, che hanno segnato i 24 anni di occupazione indonesiana dell’allora Timor orientale. Molti altri sono stati uccisi all’indomani del referendum approvato dalle Nazioni Unite il 30 agosto 1999, quando i timoresi orientali hanno votato per l’indipendenza dall’Indonesia.

Nel dicembre 1975, con la piena approvazione del presidente degli Stati Uniti Gerald Ford e del primo ministro australiano Gough Whitlam, l’allora presidente Suharto invase Timor Est, dopo che fu abbandonato dal Portogallo, controllato dai comunisti. Per più di un ventennio l’Indonesia ha agito come padrona coloniale di Timor Est, che fu nominata ventisettesima provincia della Repubblica. Tuttavia, le Nazioni Unite non hanno mai riconosciuto la sovranità dell’Indonesia su Timor Est, anche grazie alla campagna globale di Ramos-Horta. Nell’ondata di cambiamento che ha portato alla caduta del regime di Suharto, il suo successore BJ Habibie decise di far scegliere al popolo di Timor Est il futuro del loro Paese, tramite un referendum che sancì l’indipendenza dall’Indonesia, con quasi l’80% dei voti. Non potendo accettare una tale sconfitta, l’esercito indonesiano e le sue milizie iniziarono una distruzione senza eguali, costringendo centinaia di migliaia di persone a fuggire. La pace fu ripristinata solo dopo che le Nazioni Unite inviarono truppe multinazionali e l’esercito indonesiano accettò di collaborare. Timor Leste venne scelto come nome ufficiale della nuova Repubblica, che dichiarò la sua piena indipendenza il 30 maggio 2002. 

Timor Leste, che condivide le isole di Nusa Tenggara con l’Indonesia, è ora tra le nazioni più povere del mondo, il motivo principale per cui Singapore si era opposto al suo ingresso nel blocco. In tutti questi anni, è stato il presidente Joko Widodo a spingere i colleghi leader regionali ad accettare Timor Leste come parte del gruppo. Fin dall’inizio Singapore ha messo in dubbio la capacità di Timor Leste di aderire al blocco commerciale, temendo che uno Stato così impoverito diventerebbe solo un onere inutile per l’ASEAN.

Tuttavia, l’ASEAN ha ammesso nuovi membri nonostante le scarse risorse umane ed economiche. Timor Leste rimane un Paese a basso reddito, ma il suo benessere è migliore di quello del Myanmar di oggi. Gode di enormi riserve di petrolio e gas, e nel 2021 il reddito pro-capite è stato pari a 1.400 dollari. 

Aiutare i nuovi Stati membri è una procedura standard per l’ASEAN. La sua storia lo dimostra prima con Laos e Myanmar nel 1997 e poi la Cambogia nel 1999. Ai nuovi membri del blocco è stato anche concesso un trattamento speciale per mettersi al passo con i membri economicamente più forti come Indonesia, Vietnam, Thailandia.  

Nell’attesa di ricevere le stesse agevolazioni, i presupposti sono davanti agli occhi di tutti. L’ingresso in ASEAN darebbe finalmente a Timor Leste condizioni di parità all’interno del gruppo e l’accesso a un enorme mercato, che aiuterebbe il Paese a crescere più velocemente e a far parte dei processi decisionali. L’Indonesia non riuscirà a ripagare il suo debito, ma è pronta a scrivere un nuovo futuro.

ASEAN, un 2023 tra sfide e opportunità

L’anno che si apre può ulteriormente rafforzare il ruolo economico e diplomatico del blocco dei Paesi Sud-Est asiatico, che potrebbe anche accogliere un nuovo membro

Il 2022 è stato l’anno in cui l’ASEAN e il Sud-Est asiatico hanno dimostrato di essere una piattaforma, anzi “la” piattaforma per eccellenza, della ripartenza economica e diplomatica a livello globale. Non solo una maggiore resistenza alle spinte inflazionistiche, la regione ha fatto segnare ottimi numeri di ripresa economica nonostante tutte le difficoltà legate alla coda della pandemia di Covid-19 e alla guerra in Ucraina. Di più. Il successo dei vari summit multilaterali che si sono svolti nell’area, tra G20 in Indonesia e APEC in Bangkok, conferma la capacità dell’ASEAN di essere considerata un’interlocutrice diplomatica affidabile.  Questo nonostante alcune zone d’ombra e problemi irrisolti, primo fra tutti la crisi in Myanmar sulla quale la presidenza di turno cambogiana, nonostante diversi tentativi, non è riuscita a compiere passi avanti significativi. Nel 2023 le sfide non mancheranno, ma la sensazione è che la presidenza indonesiana farà di tutto per cogliere le opportunità. Dopo aver ospitato il G20 a Bali, la principale economia del blocco si proietta con forza sul suo ruolo di leader regionale. Giacarta mirerà dunque alla creazione di una rete di cooperazione intraregionale che vada dal cambiamento climatico alla difesa informatica, passando per l’economia digitale e la sicurezza alimentare, quest’ultima posta tra le priorità del 2023. Possibile anche che arrivi un impulso decisivo all’ingresso di un undicesimo membro nell’Associazione: Timor Est. C’è chi avanza perplessità sulle diverse condizioni dell’economia di Dili con quella dei Paesi più avanzati del blocco, ma l’ASEAN non supererà mai del tutto la sua intrinseca diversità, che però si sta dimostrando in grado di sfruttare come punto di forza e di orgoglio. L’ASEAN è riuscita a prevenire l’emergere di conflitti tra grandi potenze e guerre regionali dalla fine della guerra fredda, quando le truppe vietnamite si ritirarono dalla Cambogia nel 1989, aprendo la strada agli accordi di pace di Parigi del 1991. Il blocco ha superato la crisi finanziaria asiatica espandendo il commercio intraregionale e promuovendo un regime di cambio comune. Più di recente, il Vertice dell’Asia orientale ha portato con successo al suo tavolo potenze esterne, tra cui Stati Uniti, Cina, Russia, Giappone e Australia, rafforzando il potere diplomatico del blocco. La “third way” dell’ASEAN pare una via da percorrere in maniera sempre più decisa.

La rivoluzione fintech nel Sud-Est asiatico

A Singapore il mercato digitalesta trasformando il settore bancario, con la recente apertura della città-stato asiatica alle banche digitali che minacciano il monopolio delle banche tradizionali. Una tendenza regionale

Il mercato dei pagamenti digitali nel Sud-Est asiatico in espansione dovrebbe raggiungere un volume di 2.000 miliardi di dollari nel 2030. Secondo un rapporto prodotto da Google, le transazioni entro quella data dovrebbero triplicare rispetto al decennio precedente, grazie alla forza trainante delle fintech e delle banche digitali in crescita nella regione. Questo studio annuale è stato promosso in collaborazione con Temasek Holdings, l’investitore statale di Singapore, insieme ad altre società di consulenza, e osserva l’andamento del mercato digitale in sei Paesi: Indonesia, Malesia, Filippine, Singapore, Thailandia e Vietnam. Un altro vettore di crescita secondo il report è l’ingente aumento di utenti di Internet, che nel 2022 dovrebbero raggiungere i 460 milioni. Questi numeri sono probabilmente destinati a moltiplicarsi nei prossimi anni, in linea con le dinamiche di sviluppo demografico di tutta la regione del Sud-Est asiatico. Se durante la pandemia l’adozione del digitale ha visto una crescita repentina in tutta l’area, ora la gran parte delle aziende sta rallentando la fase di acquisizione di nuovi clienti per migliorare l’engagement di quelli già raggiunti negli scorsi anni. Ecco perché, secondo il rapporto, la rapida accelerazione registrata negli scorsi anni sta imboccando un processo di normalizzazione, con un modesto totale di 20 milioni di nuovi utenti previsti per il 2022 che rappresentano la metà di quelli raggiunti tra il 2020 e il 2021. A Singapore il mercato digitale sta trasformando il settore bancario, con la recente apertura della città-stato asiatica alle banche digitali che minacciano il monopolio delle banche tradizionali. Secondo Tsubasa Suruga di Nikkei Asia, per il momento i grandi gruppi bancari possono dormire sonni tranquilli: la loro posizione dominante li mantiene comunque in vantaggio, con la loro ampia gamma di servizi e l’ampia base di clienti al seguito. Perché le banche virtuali riescano ad eguagliare la redditività di questi operatori ci vorrà ancora tempo.

I risultati del vertice UE-ASEAN

Editoriale a cura di: Alessandra Schiavo, Vice Direttrice Generale/Direttrice Centrale per i Paesi Asia e Oceania del MAECI

Il 14 dicembre si è tenuto a Bruxelles il I Vertice UE-ASEAN a livello di Capi di Stato e di Governo. L’evento ha celebrato il 45° anniversario del Partenariato di Dialogo tra l’allora CEE e l’ASEAN, nonché il suo progressivo rafforzamento. Dal 1977, il rapporto bi-regionale è cresciuto esponenzialmente, con i rispettivi membri oggi confrontati a molteplici rischi e a un quadro internazionale radicalmente mutato: il cambiamento climatico, la vulnerabilità sanitaria, la ripresa post-Covid, la crisi energetica, la sicurezza alimentare, nonché un’intensa competizione sul fronte politico e securitario.

In questo scenario, l’ASEAN si è affermato come attore chiave per l’Unione Europea, interessata a promuovere i valori del pluralismo e della tolleranza contro le crisi che minano la stabilità, come l’aggressione in Ucraina e l’efferato colpo di Stato in Myanmar.

L’acquisita consapevolezza che solo lavorando insieme è possibile preservare la pace e generare una prosperità condivisa, ha fatto sì che nel 2020 l’UE divenisse Partner Strategico dell’ASEAN, con un sempre più proficuo dialogo in materia securitaria. L’UE è anche il terzo partner commerciale dell’Associazione. A ottobre è stato firmato il Comprehensive Air Transport Agreement UE-ASEAN, primo accordo di trasporto aereo interregionale. In occasione del Summit, è stata presentata la Team Europe Initiative sulla connettività sostenibile con l’ASEAN (cui aderisce per l’Italia CDP); firmati anche i Partnership Comprehensive Agreements con Thailandia e Malesia.

Il Vertice si è concluso con un Comunicato Finale Congiunto, che ha dato rilievo alla cooperazione economica e in materia di connettività, sviluppo sostenibile, transizione verde e digitale, e individuato un punto di consenso su alcuni dei più spinosi temi internazionali. Vi hanno preso parte i Presidenti e i Primi Ministri dei Paesi UE e ASEAN (tranne il Myanmar), oltre ai vertici delle due Organizzazioni regionali. Con la partecipazione del Presidente del Consiglio Giorgia Meloni, l’Italia ha inteso rinnovare la crescente attenzione all’ASEAN, perno della stabilità nell’Indo-Pacifico e di una parte del mondo sempre più essenziale per gli equilibri geostrategici e che ci vede sempre più impegnati. Non a caso, il Vertice è stato anche l’occasione per valorizzare il Partenariato di Sviluppo tra l’Italia e l’ASEAN (nei suoi volet politico-securitario, economico, culturale e di cooperazione allo sviluppo). Un legame che viene coltivato tramite iniziative concrete e di capacity building, e che trova nell’annuale “High Level Dialogue on ASEAN-Italy economic relations” (la cui prossima edizione, nel 2023, sarà ospitata dalla Thailandia) un momento di sintesi cruciale.

Accordi commerciali UE-Paesi ASEAN: a che punto siamo?

A Bruxelles c’è interesse per la conclusione di nuovi accordi di libero scambio, anche se la strada è in salita per i negoziati con i partner ASEAN. Le tensioni internazionali e le preoccupazioni domestiche (da entrambi i lati) rendono i negoziati più complessi. Ma il commercio internazionale rimane vitale per l’economia di entrambi i blocchi.

La Presidenza ceca del Consiglio UE aveva individuato a metà 2022, come sue priorità, la conclusione di nuovi free trade agreement (FTA) ‘in particolare in America Latina e nell’Indo-pacifico (…) con i partner like-minded’. Una priorità condivisa dai membri del Parlamento europeo che, durante le riunioni con i delegati di Praga che durante le prime settimane di Presidenza, hanno espresso l’urgenza di concludere gli accordi con Nuova Zelanda, Messico, Cile, Australia, India e MERCOSUR. In altre parole, a Bruxelles è vivo il desiderio aprirsi a nuovi mercati attraverso accordi bilaterali, ma si guarda ai differenti tavoli negoziali con diversi gradi di ottimismo. I trattati con Paesi ASEAN in discussione al momento – con Indonesia e Filippine – sembrano più difficili da concludere. I negoziati con Malesia e Thailandia sono rimasti bloccati per anni a causa delle vicende politiche interne dei due Paesi – se le trattative con Bangkok stanno ripartendo, quelle con Kuala Lumpur dovranno fare i conti con la crescente instabilità della politica nazionale. Tutto ciò nonostante l’UE abbia conseguito due recenti successi – i FTA con Vietnam e Singapore – proprio in questa regione.

Il negoziato in fase più avanzata è quello con l’Indonesia. Giacarta è un interlocutore essenziale per Bruxelles, e non solo sul piano commerciale. Il Paese è un attore fondamentale nell’ASEAN e anche nel G20, come ha dimostrato durante la sua recente Presidenza del Summit. Entrambi i partner sono interessati a rafforzare i rapporti commerciali, ma ci sono ancora dei nodi da sciogliere – in particolare, la tutela dei diritti di proprietà intellettuale (capitolo che abbraccia anche la protezione delle indicazioni geografiche) e l’annosa questione dell’olio di palma. La guerra russo-ucraina potrebbe incidere su questo punto dato che, da parte europea, la domanda di olii vegetali indonesiani sta crescendo – a causa della necessità di sostituire i fornitori nei Paesi coinvolti nel conflitto. Un altro tassello importante dell’accordo riguarderà gli investimenti. Anche in questo caso, l’opportunità economica si intreccia con quella politica. L’UE – come anche gli USA – si vuole presentare come un partner alternativo alla Cina nei progetti infrastrutturali strategici attraverso la strategia Global Gateway, pensata per rispondere alla Belt and Road Initiative di Pechino. Considerando che i rapporti commerciali Cina-Indonesia si stanno rafforzando anche grazie all’accordo RCEP, la conclusione di un FTA potrebbe aiutare Bruxelles a non perdere terreno rispetto a Pechino.

La tutela della proprietà intellettuale – in particolare quando riguarda il settore farmaceutico – è terreno di confronto anche nelle trattative con le Filippine. La percezione di Manila è che i negoziatori europei diano troppa priorità agli interessi dei detentori dei brevetti a discapito dell’interesse generale di accesso ai medicinali. Negli scorsi anni i negoziati erano andati a rilento anche a causa delle preoccupazioni dei MEP circa il rispetto dei diritti umani nel Paese – durante la campagna dell’ex presidente Rodrigo Duterte contro il traffico di droga avevano fatto scalpore le esecuzioni sommarie perpetrate dalle forze di sicurezza nazionali – e Strasburgo era arrivata a chiedere la sospensione del regime commerciale di favore GSP+. Il rispetto dei diritti umani, civili e politici è un requisito necessario per il proseguimento dell’iter negoziale dal punto di vista dell’UE – a riprova di questo, i negoziati con la Thailandia si erano interrotti nel 2014 a causa del golpe militare.

Anche questioni domestiche meno “sinistre” possono bloccare l’avanzamento delle trattative. Ad esempio, il dialogo con la Malesia si è interrotto a causa dell’incertezza politica nel parlamento di Kuala Lumpur: i recenti governi sono stati tutti sostenuti da maggioranze traballanti e mutevoli. E rimane difficile mettere d’accordo tutti gli stakeholder su temi complessi come i trattati commerciali. Per tornare al tema dell’olio di palma, gli agricoltori del settore sono un gruppo di pressione molto influente in Malesia e guardano con un certo fastidio alle politiche UE sul tema – e infatti i recenti governi nazionali sono stati molto duri verso Bruxelles, sollevando la questione anche in sede WTO, insieme all’Indonesia. D’altronde, anche la società civile europea ho opinioni forti, e di segno opposto, sul tema e influenza in questo senso le Istituzioni europee. I negoziatori europei si trovano a doversi destreggiare tra le richieste dei loro concittadini e quelle delle delegazioni dei partner, a volte anche divise al loro interno – in certi Paesi ASEAN, ministeri dello stesso governo sono in competizione tra loro per far prevalere gli interessi dei gruppi di pressione a cui sono più legati, a discapito di altre porzioni dell’economia o della società. 

Nonostante le difficoltà, proseguire nella liberalizzazione dei rapporti commerciali può portare grandi benefici a entrambi i blocchi, i quali devono all’export buona parte del loro dinamismo economico. La conclusione di accordi bilaterali tra l’UE e i singoli Paesi ASEAN potrebbe facilitare i negoziati per un futuro FTA region-to-region – questa sembra essere l’obiettivo finale di Bruxelles dopo il fallimento dello stesso progetto nel 2009. Superare le difficoltà tecniche e politiche – che abbiamo solamente tratteggiato in questo articolo – rappresenterebbe un segnale positivo in una fase in cui l’unilateralismo sembra diventare la cifra della politica commerciale internazionale.