Asean

L’ASEAN guiderà il prossimo decennio di commercio globale

Il Sud-Est asiatico è destinato a diventare uno dei principali centri di crescita dei prossimi anni. Lo sostiene un nuovo report di Standard Chartered Bank

“Il commercio globale si sta spostando sempre più verso l’Asia, mentre emergono corridoi ad alta crescita all’interno della regione e verso nuovi mercati in Africa e Medio Oriente. Il blocco dei Paesi del Sud-Est asiatico che fanno parte dell’ASEAN è ovviamente in cima alla lista, con il commercio tra gli Stati membri del blocco destinato ad accelerare a quasi il 9 per cento annuo nel prossimo decennio”. Lo sostiene con decisione Michael Spiegel, responsabile globale del settore Transaction Banking di Standard Chartered Bank, in un commento pubblicato sul Business Times. “Se da un lato queste tendenze segnalano grandi opportunità, dall’altro le imprese si trovano ad affrontare una policrisi, ovvero un insieme di sfide interdipendenti, dall’aumento delle tensioni geopolitiche, dell’inflazione e dei prezzi dell’energia alla necessità sempre più urgente di affrontare i rischi climatici”, scrive Spiegel. Secondo l’esperto di Standard Chartered Bank, “per avere successo, le aziende devono agire ora, collegandosi a nuovi mercati per diversificare sia l’approvvigionamento che la produzione per ottenere catene di approvvigionamento più resilienti. La sostenibilità è sempre più un imperativo sia per gli investitori che per i consumatori, il che rende la conformità ambientale, sociale e di governance (ESG) più urgente che mai, non solo per le società di capitale ma anche per i loro fornitori”. Spiegel sostiene che “le aziende devono bilanciare gli obiettivi di crescita con catene di approvvigionamento resilienti e sostenibili. Devono identificare e connettersi alle opportunità di crescita, quindi eseguire un piano di crescita sostenibile e resiliente”. L’esperto di Standard Chartered Bank conclude ponendo una domanda precisa alla quale propone una risposta altrettanto precisa: “Quindi, dove saranno gli hub di crescita del futuro? Noi siamo convinti che saranno in Asia, Africa e Medio Oriente, che sono destinati a spingere le esportazioni globali da 21.000 miliardi di dollari a 32.600 miliardi di dollari entro il 2030, secondo il nostro nuovo rapporto Future of Trade di Standard Chartered Bank”.

Il problema dell’acqua

Gli effetti dell’aumento delle temperature sull’Himalaya in un nuovo report: la principale riserva idrica del continente rischia di andare a secco nel 2100. Con conseguenze per un’area in cui nascono Yangtze e Fiume Giallo, Indo, Gange e Mekong

L’Asia perderà la sua principale riserva d’acqua entro il 2100. È l’allarme lanciato dai ricercatori dell’International Centre for Integrated Mountain Development (ICIMOD) di Kathmandu, che nel loro ultimo report prevedono una riduzione dei ghiacciai himalayani fino all’80% dell’attuale volume. La stima si basa sulle previsioni di aumento delle temperature globali di 4°C, ben oltre i limiti promessi dall’Accordo per il clima di Parigi ma vicini alle proiezioni reali qualora non venga intrapresa un’azione significativa. 

L’area dell’Hindu Kush, oggetto della ricerca, ospita quella che è oggi la riserva di ghiaccio più estesa al mondo dopo i due Poli. Qui si trovano 15mila ghiacciai per un totale di 100mila chilometri quadrati di superficie, da dove iniziano il loro percorso lo Yangtze e il Fiume Giallo, così come l’Indo, il Gange e il Mekong. Un’area tanto vasta da interessare direttamente le 240 milioni di persone che abitano sull’altopiano e altre 1,65 miliardi lungo i bacini fluviali. 

Secondo le previsioni di ICIMOD lo scioglimento dei ghiacciai provocherà un picco dell’approvvigionamento idrico a valle entro la metà del secolo, per poi iniziare lentamente a declinare. A partire da quel momento la disponibilità di acqua inizierà a diminuire e non vi saranno più sufficienti riserve a monte per il mantenimento degli ecosistemi locali.

Dalla dipendenza dei sistemi energetici dall’idroelettrico fino all’instabilità delle risorse idriche per l’agricoltura, lo scioglimento dei ghiacciai avrà e ha già adesso un impatto epocale sul continente. Questo in una regione dove l’80% delle precipitazioni si concentra nei quattro mesi della stagione monsonica, oggi sempre più intensa, breve e calda. Nel 2021 la presidente dell’Ufficio delle Nazioni Unite per la riduzione del rischio di disastri Mami Mizutori aveva definito la siccità “la prossima pandemia”. Peccato, aggiungeva, che per la siccità non esiste alcun vaccino. 

La scarsità di risorse idriche entra in gioco in un’area dove, negli ultimi vent’anni, gli investimenti nell’energia idroelettrica sono esplosi. Cento dighe sono oggi operative nei sedici paesi raggiunti dalle acque provenienti dall’altopiano, mentre è prevista la costruzione di altre 650 dighe nei prossimi anni. L’entusiasmo verso le opportunità derivanti da questa fonte apparentemente sostenibile è stato presto smorzato dalle ondate di calore record che si susseguono di anno in anno. Un picco delle temperature prolungato che, come sta accadendo in Vietnam da oltre cinque settimane, ha portato alla graduale chiusura di alcune delle principali centrali idroelettriche del paese. 

Ma l’appetibilità delle risorse idriche per sostenere la rampante domanda energetica dei nuovi poli industriali ha generato narrazioni ben diverse nella comunità degli investitori internazionali. Dall’Irrawaddy per il Myanmar al Mekong per il Laos, sono tante le aziende e le istituzioni che vorrebbero cogliere l’occasione di trasformare questi paesi nelle “batterie dell’Asia”. Il potenziale idrico dei grandi fiumi asiatici viene spesso definito “un’opportunità mancata” o “ampiamente sottosfruttata”. 

A ciò sta contribuendo una graduale conversione delle catene di approvvigionamento globali nell’Asia meridionale e nel Sud-Est asiatico dovuta all’aumento dei costi della manodopera cinese e alle tensioni internazionali. Non meno importanti sono gli sgravi fiscali adottati dai governi per attirare gli investitori stranieri, così come i numerosi accordi commerciali. Tutte misure che stanno ampliando l’accesso ai mercati asiatici e, facilitando gli scambi regionali, permettono di delocalizzare un’intera filiera produttiva sulla base dei benefici fiscali o economici dei vari paesi.

La contrazione della calotta polare sta alle esplorazioni energetiche nei mari del nord come lo scioglimento dei ghiacciai sta alle ambizioni infrastrutturali e minerarie di Pechino. È infatti la Repubblica Popolare, in particolare, a puntare sulla crescente accessibilità dell’altopiano himalayano. Recentemente alcuni ricercatori hanno identificato una vena di terre rare che potrebbe estendersi per mille chilometri lungo il confine meridionale del Tibet, fattore che potrebbe tanto rafforzare la posizione dominante della Cina su uno dei mercati più strategici nel nostro tempo, quanto far riaffiorare le tensioni con la vicina India.

Una maggiore presenza di attività antropiche sull’altopiano himalayano, infatti, sta già facendo ritornare alla luce le rivendicazioni territoriali dei diversi governi della regione. È il caso della contea tibetana di Lhunze, uno dei maggiori bacini di terre rare localizzati in un’area tuttora contestata dall’India e dove gli investimenti infrastrutturali sono più che raddoppiati tra il 2016 il 2019. L’escalation di un conflitto legata tanto alle nuove risorse minerarie potrebbe presto rappresentare solo l’anteprima di un più aspro scontro per le risorse idriche. Escludendo il Trattato delle acque dell’Indo firmato da India e Pakistan, non esiste alcun meccanismo regionale dedicato alla redistribuzione e ai diritti di utilizzo delle acque dei fiumi che attraversano più stati asiatici. 

La massiccia presenza di dighe cinesi a monte del Mekong è solo un esempio di quanto sia ancora considerata marginale l’emergenza idrica che, prima o poi, non sarà più solo un problema di pochi contadini. La sua marginalità, conclude il report, è anche dovuta al vuoto conoscitivo sugli ecosistemi oltre i dati: la dimensione umana, sottolinea il documento, è fondamentale per capire quali conseguenze e quali soluzioni si stanno mettendo in campo. Le popolazioni locali si stanno adattando, ma lo stanno facendo attraverso forme di sostegno e ridefinizione autonomi e su scala ridotta. Ma la crisi climatica è transfrontaliera, e i suoi effetti sulle già complesse relazioni tra gli attori della regione sono – ancora – tutte da vedere.

Vola il tessile del Sud-Est asiatico

Le statistiche di Trading Economics mostrano che nel 2021 la Cambogia è stata il secondo esportatore dell’ASEAN nel settore con 5,82 miliardi di dollari, dietro solo ai 15,73 miliardi del Vietnam e davanti ai 4,35 miliardi dell’Indonesia, terza classificata

Di Tommaso Magrini

La regione ASEAN sta emergendo come uno dei principali hub di prodotti tessili al mondo, un settore tradizionalmente dominato dalla Cina continentale e da altri operatori. Secondo il presidente dell’ASEAN Federation of Textile Industries (AFTEX), Albert Tan, che è anche vicepresidente del membro cambogiano dell’AFTEX Textile, Apparel, Footwear and Travel Goods Association in Cambodia (TAFTAC), ha evidenziato che nell’ultimo decennio il divario complessivo tra i costi di produzione, che comprendono principalmente materie prime, manodopera, logistica e conformità, e i prezzi FOB (free-on-board) e al dettaglio si è ridotto. Si aspetta che questa tendenza continui anche nel prossimo decennio. I partecipanti a un forum dedicato sul tema hanno stilato un elenco di progetti e piani di lavoro per i prossimi mesi sotto la presidenza della Cambogia, nel tentativo di consolidare il ruolo dell’AFTEX e stimolare la crescita delle industrie tessili e dell’abbigliamento regionali. La Cambogia ha guadagnato 1,395 miliardi di dollari dall’esportazione di “articoli di abbigliamento, a maglia o all’uncinetto” nei primi quattro mesi del 2023, con un calo del 28,49% su base annua e del 40,80% su base semestrale (rispetto al periodo luglio-ottobre 2022), secondo i dati provvisori delle Dogane.  Questa categoria di articoli ha rappresentato il 19,28% dei 7,234 miliardi di dollari di valore delle esportazioni totali di merci del Regno nei quattro mesi, rispetto al 25,64% e ai 7,606 miliardi di dollari del periodo gennaio-aprile 2022, nonché al 31,97% e ai 7,368 miliardi di dollari del periodo luglio-ottobre 2022. Le statistiche di Trading Economics mostrano che nel 2021 la Cambogia è stata il secondo esportatore dell’ASEAN nel settore con 5,82 miliardi di dollari, dietro solo ai 15,73 miliardi del Vietnam e davanti ai 4,35 miliardi dell’Indonesia, terza classificata. La Cina continentale, invece, ha esportato 86,46 miliardi di dollari nello stesso anno.

Il Presidente Pipan partecipa al Convegno “No time left”

Nella giornata di mercoledì 21 giugno 2023 l’Ambasciatore Michelangelo Pipan, Presidente dell’Associazione Italia ASEAN, ha preso parte ai lavori del convegno “NO TIME LEFT. Contro il consolidamento della dittatura in Birmania/Myanmar” organizzato dall’Associazione ITALIA BIRMANIA Insieme a CeSPI e BASE Italia. L’Ambasciatore Pipan, intervenendo insieme ad illustri ospiti internazionali, ha voluto sottolineare l’importanza della cooperazione internazionale per la risoluzione della crisi birmana e il raggiungimento della pace.

“L`ASEAN del 2045”

Cosa possiamo aspettarci dal futuro dell’Associazione dei Paesi del Sud-Est Asiatico

Il futuro aspetto dell’ Associazione per i Paesi del Sudest Asiatico (ASEAN) è stato discusso durante gli ultimi due summit del gruppo, tenutisi a Belitung e Labuan Bajo. Infatti, la visione della comunità per gli anni a venire non si limiterà al 2035, ma sarà estesa di dieci anni, fino al 2045. Ma di cosa si tratta di preciso?

Una task force lavorerà per elaborare e mettere a punto i dettagli di questa visione nei prossimi tre anni, ma ciò che è sicuro, hanno annunciato i leader, è che  la strategia sarà composta da un equilibrio tra pragmatismo e ambizione. L’obiettivo primario è quello di raggiungere la stabilità e il progresso dell’ASEAN, pur rimanendo fedele alla sua identità. Inoltre, si intende porre una maggiore attenzione al benessere dei popoli dei Paesi membri, sottolineando il rafforzamento degli organi dell’Associazione e del segretariato con sede a Giacarta, garantendo le libertà fondamentali e i diritti umani e migliorando la vita di tutti i cittadini degli stati membri. Tra gli altri obiettivi, inoltre, viene sottolineato l’impegno a migliorare la capacità di affrontare le sfide esistenti ed emergenti, mantenendo la centralità dell’ASEAN. Ciò sarà ottenuto anche grazie alla partecipazione attiva dei cittadini, e saranno incoraggiati processi di consultazione “dal basso” (voluti in particolar modo  dall’Indonesia e dalle Filippine), che prevedono il coinvolgimento di organizzazioni della società civile nel processo decisionale.

Per quanto riguarda i Paesi membri, invece, si prevede un allargamento: entro il 2045 si prevede che l’ASEAN possa includere, potenzialmente, anche Timor Est e Papua Nuova Guinea. Il primo, diventato indipendente nel 2002, nonostante sia ampiamente considerato uno Stato del Sud-Est asiatico e geograficamente ne fece parte anche quando venne incorporato nell`Indonesia, non è ancora un membro a tutti gli effetti. A conferma di questa volontà, gli stati dell`ASEAN lo scorso novembre hanno votato a favore dell’adesione “in linea di principio” di Timor Est nell’Associazione. Per quanto riguarda Papua Nuova Guinea, l’isola è un osservatore del blocco regionale dal 1976, prima di qualsiasi altro membro non originario dell’ASEAN. I suoi leader hanno spinto per l’adesione a pieno titolo almeno dagli anni ’80, e il Paese sta lavorando intensamente per prepararsi all`integrazione.

E non si esclude che, se le dinamiche politiche più ampie lo giustificassero, potrebbero aggiungersi all` ASEAN anche membri della regione indo-pacifica. Ciò, tuttavia, richiederebbe un sostanziale aumento del budget. Attualmente ogni membro versa un contributo di pari importo, a differenza del modello dell’UE dove ogni stato contribuisce in base al proprio PIL. I membri dell’ASEAN intendono infatti mantenere il sistema corrente di contributi uguali e diritti di voto uguali.

Gli organi e le strutture chiave dell’ASEAN dovrebbero rimanere invariati nei prossimi decenni, preservando i principi consolidati nel tempo e sanciti dalla Dichiarazione di Bangkok del 1967. Questi principi includono la ricerca del consenso, la non interferenza negli affari interni e il rifiuto dell’uso della forza. 

Sarà interessante osservare come l`Associazione riuscirà a gestire le sfide e le opportunità degli anni a venire. Sicuramente, dinamiche demografiche e geopolitiche modificheranno il panorama in cui questi Paesi si inseriscono, ma l’organizzazione sembra determinata a  mantenere la stabilità e la centralità regionale, impegnandosi al contempo nel dialogo e nella cooperazione con le principali potenze mondiali.

L’ASEAN vuole dialogo

Pubblichiamo qui uno stralcio del discorso di Ng Eng Hen, Ministro della Difesa di Singapore, allo Shangri-La Dialogue 2023

L’aumento delle spese militari, il cambiamento delle alleanze militari e commerciali e le politiche economiche di fatto nativiste sono forti venti di cambiamento. Come possiamo resistere alle tempeste che verranno? Per l’Asia e la più ampia regione indo-pacifica, le relazioni tra Stati Uniti e Cina sono fondamentali per la stabilità. Questo è il nucleo, ma anche la penombra delle relazioni di altri Paesi al di fuori di questo nucleo è importante per la stabilità. Nessun Paese, credo, vuole la guerra, ma le nostre ipotesi di lavoro e i nostri scenari devono prevedere che possano verificarsi incidenti non pianificati. Devono esistere canali di comunicazione, sia formali che informali, in modo che quando si verificano questi incidenti non pianificati, tali canali possano essere utilizzati per una de-escalation ed evitare il conflitto. Nonostante la guerra fredda, nel 1972 Breznev e Nixon firmarono i trattati sulla limitazione degli armamenti strategici e sui missili anti-balistici. Il punto saliente è che tali canali di comunicazione devono essere costruiti nel tempo. Sarà troppo tardi per avviarli o attivarli solo in momenti di crisi. Diplomatici esperti paragonano sfavorevolmente le linee di comunicazione tra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica durante la Guerra Fredda con quelle che esistono oggi tra gli Stati Uniti e la Cina, ormai al collasso. Non è nostro compito e certamente non è mia intenzione commentare gli sforzi diplomatici di altri Paesi, ma espongo queste osservazioni sui punti di contatto in declino tra le strutture militari americane e cinesi sapendo bene che Singapore e altri Stati dell’ASEAN non sono spettatori disinteressati.  Sia gli Stati Uniti che la Cina hanno dichiarato di non volere che i Paesi dell’ASEAN si schierino, ma gli Stati membri dell’ASEAN, con un vivido ricordo della rivalità tra grandi potenze nel nostro passato e delle devastanti conseguenze, sono fortemente preoccupati che il peggioramento delle relazioni tra queste due potenze, Stati Uniti e Cina, costringerà inevitabilmente a scelte difficili i nostri singoli Stati. Per l’ASEAN, sia attraverso i legami bilaterali e i singoli Stati membri, sia collettivamente con gli Stati Uniti e la Cina attraverso l’ADMM-Plus, abbiamo cercato l’inclusione e l’impegno come piattaforme chiave per la prelazione e la costruzione della fiducia. Nell’ambito dell’ADMM, continuiamo a portare avanti esercitazioni multilaterali che coinvolgono tutti i nostri oltre otto partner. Queste interazioni rafforzano la cooperazione pratica, come il Codice per gli incontri imprevisti in mare (CUES), per ridurre il rischio di incidenti e di errori di calcolo. Al centro dei nostri impegni, come pienamente esemplificato nello Shangri-La Dialogue, c’è il desiderio di cercare la pace, anche se noi capi della sicurezza rafforziamo i nostri eserciti per proteggere le nostre singole nazioni. A volte i progressi sembrano dolorosamente lenti, ma è nostro dovere nei confronti dei nostri cittadini e della prossima generazione persistere e fare progressi.

Leggi il discorso completo qui

La nuova “corsa allo spazio” del Sud-Est Asiatico

Turismo, comunicazioni e difesa sono le nuove frontiere della tecnologia spaziale

Articolo di Tommaso Magrini

Turismo spaziale e tecnologia satellitare sono il futuro del Sud-Est Asiatico. Thailandia e Vietnam si sono infatti lanciate in una nuova “corsa allo spazio” che proietterà la Regione al centro delle dinamiche dello sviluppo del settore. 

La Geo-Informatics and Space Technology Development Agency tailandese si prepara a mettere in orbita nel mese di agosto un satellite industriale, sviluppato con il sostegno del Regno Unito. Entro i prossimi cinque anni, inoltre, il Paese del Sud-Est Asiatico è intenzionato a lanciare altri due o tre satelliti interamente home made.

Si tratta di progetti molto ambiziosi quanto importanti per lo sviluppo tecnologico della Thailandia, dal momento che l’impiego di satelliti sviluppati nazionalmente offrirebbe al Paese più ampia libertà nel raccogliere e gestire dati scientifici, che nel caso di Bangkok verrebbero utilizzati per veicolare il settore agricolo verso un approccio più tecnologico e funzionale.

In più il Paese sta valutando la possibilità di costruire un proprio sito di lancio. Se il budget a disposizione e lo sviluppo tecnologico lo consentiranno, la struttura potrebbe essere costruita in meno di dieci anni. Intanto la previsione del governo è che l’economia spaziale sia destinata a crescere di circa 9 miliardi di dollari entro il 2030, diventando una delle industrie di punta del Paese.

La Thailandia inoltre sta valutando l’impiego della tecnologia spaziale per scopi di difesa. Inoltre, sta considerando di vietare i siti di produzione per satelliti militari stranieri e relative apparecchiature nel territorio nazionale.

Ma la Thailandia non è l’unica nazione del Sud-Est Asiatico con ambizioni spaziali. Anche Hanoi si sta muovendo nella stessa direzione, avendo approvato un piano per la costruzione di uno spazioporto turistico entro il 2026. Un progetto da 30 trilioni di dong, secondo i media locali, all’incirca 1,3 miliardi di dollari. La struttura sarà costruita sull’isola di Phu Quoc, già famosissima destinazione turistica, e il primo lancio è previsto per il 2030.

Thailandia e Vietnam sono quindi in concorrenza con i due giganti dello spazio: Cina e Stati Uniti. Ma non partono affatto svantaggiati. I Paesi del Sud-Est Asiatico hanno infatti un vantaggio geografico non indifferente: la posizione vicino all’equatore permette di usare un minore quantitativo di energia per il singolo lancio, abbattendo di conseguenza i costi.

Anche le Filippine non si sono lasciate sfuggire la ghiotta occasione e hanno firmato un accordo con SpaceX, l’azienda di Elon Musk, per la fornitura dei servizi internet di Starlink. L’azienda, infatti, spera di migliorare le comunicazioni e il transito di dati nelle zone montuose e più remote dell’arcipelago, soprattutto per facilitare le operazioni di soccorso in caso di necessità. L’aumento di condizioni climatiche estreme ha infatti incrementato l’interesse per il business dei satelliti, essendo il Sud-Est Asiatico una delle aree più colpite dal cambiamento climatico, con inondazioni e prolungati periodi di siccità che si verificano su larga scala. In questo senso i sistemi di monitoraggio dei satelliti potrebbero aiutare a mitigare le conseguenze di tali fenomeni.

Shangri-La Dialogue, l’ASEAN chiede pace

Durante il summit sulla sicurezza dell’Asia-Pacifico di Singapore, è stata ribadita la centralità dell’ASEAN, i cui Paesi chiedono maggiore dialogo a livello internazionale

Editoriale a cura di Lorenzo Lamperti

“Il Sud-Est asiatico ha pagato più di altri le devastanti conseguenze dello scontro tra grani potenze. Non vogliamo che questo accada di nuovo”. Ng Eng Hen, il ministro della Difesa di Singapore, lo dice chiaramente nel suo discorso durante l’ultima sessione plenaria dello Shangri-La Dialogue, il massimo summit sulla sicurezza dell’Asia-Pacifico che si è svolto nella città-stato dal 2 al 4 giugno. Singapore e in generale l’area ASEAN si conferma ancora una volta cruciale crocevia della diplomazia globale. In un momento a dir poco complicato, tra guerra in Ucraina e le tensioni tra Stati Uniti e Cina, il Sud-Est fa sentire la sua voce chiedendo saggezza ai leader mondiali. “Le spese militari stanno aumentando in modo esponenziale anche in Asia-Pacifico”, dice il ministro di Singapore. “Non è una fonte di instabilità in sé, ma in assenza di un dialogo adeguato tra le potenze allora rischia di portare a una corsa al riarmo che può destabilizzare l’intera regione”. Durante gli incontri, a cui hanno partecipato anche il segretario alla Difesa degli Stati Uniti, Lloyd Austin, e il ministro della Difesa cinese, Li Shangfu, è stata menzionata più volta la “centralità dell’ASEAN” e la bontà della sua ASEAN way. E tutti i rappresentanti dei Paesi del Sud-Est asiatico hanno sottolineato la loro volontà di mantenere i rapporti sia con Washington sia con Pechino, promuovendo un multilateralismo basato su commercio e regole internazionali. Ma anche e soprattutto sul dialogo. “Sia Austin sia Li hanno garantito che Stati Uniti e Cina non chiedono ai Paesi ASEAN di scegliere da che parte stare, ma noi auspichiamo anche che questi due Paesi possano tornare a parlare tra loro”, ha detto Ng Eng Hen. “Entrambi sono da tempo in Asia-Pacifico ed entrambi non se ne andranno. Bisogna trovare o ritrovare il modo per garantire stabilità e sicurezza alla regione”. Lo stesso concetto espresso anche dall’IISS, l’istituto internazionale che organizza da 20 anni lo Shangri-La Dialogue a Singapore, dove si sono peraltro incontrati a porte chiuse anche i capi dell’intelligence di diversi Paesi, Stati Uniti e Cina compresi. A riprova, ancora una volta, di come Singapore e il Sud-Est garantiscano una eccezionale piattaforma di confronto. Se il futuro del mondo si scriverà (anche o soprattutto) in questa regione, forse sarebbe il caso di ascoltarla.

‘In quale porto dirigersi’: geografia ed economia dei porti ASEAN

Il mare è il luogo naturale della globalizzazione. La maggioranza delle merci si sposta via mare. L’efficienza nel muovere i container, unita a una posizione strategica e ai rapporti economico-politici, fa la fortuna dei porti dell’Asia orientale. Tra i 50 porti più attivi al mondo, nove sono nell’ASEAN e 18 in Cina.

Per chi non sa in quale porto dirigersi, nessun vento va bene. Anche se questa massima di Seneca proviene da una “epistola morale”, potremmo restituire la metafora al suo contesto di partenza – la navigazione – e trarne un nuovo, attuale, insegnamento. Il commercio marittimo globale risponde oggi a logiche in parte diverse da quelle dei tempi del Mare Nostrum romano. Se, da un lato, le condizioni ambientali (vento, correnti, distanza del viaggio in mare) influenzano meno le colossali navi portacontainer, la scelta del porto di approdo rimane essenziale per chi deve disegnare le rotte commerciali. Il mare è ancora la principale via di scambio delle merci: secondo i dati dell’UE, più del 50% del suo commercio esterno si è spostato via nave nel 2021. Un altro dato interessante è che, nella classifica dei primi 50 porti del mondo, 18 sono cinesi (il primo è Shanghai e altri sei porti cinesi occupano la top ten), nove sono nei Paesi ASEAN (il secondo a livello mondiale è Singapore) e sette sono europei.

Non è una sorpresa che i porti asiatici siano così numerosi nella classifica. Il titolo di ‘fabbrica del mondo’ può essere riconosciuto ormai non solo alla Cina, ma a buona parte del continente. Il dragone è affiancato da un sempre più numeroso gruppo di tigri. Secondo l’UNCTAD, nel 2021 i porti asiatici hanno scaricato e caricato, rispettivamente, il 64% e il 42% di tutte le merci mondiali per tonnellata. È interessante osservare che in Asia, così come in Europa (Russia inclusa), le merci scaricate (quindi importate) sono più di quelle caricate. Tale dato va accompagnato a un’altra recente tendenza del commercio via nave. Nel 2015, i paesi in via di sviluppo asiatici esportavano più tonnellate di merci di quante ne importavano, mentre il contrario avveniva nei paesi sviluppati. I dati del 2021 dimostrano che tale rapporto si è invertito. Sempre secondo l’UNCTAD, tale cambiamento può spiegarsi alla luce del fatto che i mercantili traportano sempre più dry cargo (ossia colli ‘secchi’ nei container) al posto di tanker cargo (ossia merci ‘in cisterna’, come prodotti petroliferi raffinati, chimici e gas). Se, negli anni Settanta, più della metà delle stive era occupata da tanker cargo, quindi in buona parte da materie prime e prodotti a bassa elaborazione, oggi tre quarti dei carichi è occupata da dry cargo, una categoria molto più vasta che include, tra le altre cose: minerali, componentistica, macchinari avanzati, prodotti di consumo…

Le economie asiatiche ed europee, dunque, sono affamate di prodotti per il proprio consumo interno e, soprattutto, per trasformarli in altri, più avanzati, beni da rivendere in altri mercati. Nell’ASEAN, Singapore spicca come grande porto mondiale, seguendo un destino già tracciato durante la dominazione coloniale britannica. Nel 1819, Sir Thomas Stamford Raffles acquistò l’isola dal Sultano di Johore per fondare un insediamento e competere, da una posizione strategica, con il vicino porto di Malacca, sotto il controllo neerlandese, per i traffici degli Stretti. Poco dopo l’acquisto, Raffles scrisse: “Singapore è un porto libero, aperto alle navi e ai vascelli di ogni nazione, senza distinzioni”. Raffles è ricordato positivamente nella Città del Leone ed è considerato il fondatore della moderna Singapore più che un colonizzatore. Oltre a determinare la vocazione commerciale della futura città-stato, a lui si deve il primo piano urbanistico e infrastrutturale per aprire l’isola al commercio internazionale. L’intuizione di Raffles e dei britannici, sul cui solco si è mosso anche Lee Kuan Yew, primo leader della Singapore indipendente, e la posizione strategica dell’isola rappresentano le radici del successo di questo porto. Sono però le scelte industriali più recenti ad aver consolidato la sua fortuna: l’infrastruttura portuale continua ad essere ingrandita e modernizzata. Nei prossimi due decenni, proseguiranno i lavori per l’espansione del ‘megaporto’ Tuas, seguendo un progetto in quattro fasi. Solo la prima fase, conclusasi nel 2021, è costata 1.76 miliardi di dollari. Il porto può anche contare su una efficace governance basata sulla collaborazione tra Governo e privati e sulla fitta rete di accordi di libero scambio conclusi da Singapore, tra cui uno con l’UE.

Nella classifica dei 50 principali porti mondiali figurano poi i malesi Port Klang (12° posto) e Tanjung Pelepas (19°), entrambi sullo Stretto di Malacca. Seguono il porto thailandese di Laem Chabang (20°) e quello di Giacarta, Tanjung Priok (23°). In Vietnam, la regione di Ho Chi Minh è servita dal porto della città sulla foce del Mekong (26°) e da quello di Cai Mep (50°), mentre il distretto industriale di Hanoi si appoggia al porto di Hai Phong (33°). La capitale filippina Manila è invece al 31° posto. La principale ragione del successo dei porti dell’ASEAN e del resto dell’Asia orientale è da ricercarsi nell’efficienza con cui le infrastrutture portuali riescono a caricare e scaricare i container dalle navi per trasferirli su un’altra imbarcazione o su un altro mezzo di trasporto, come emerge dal Global Container Port Performance Index (CPPI) curato dalla Banca Mondiale. L’efficienza logistica può rendere un porto un grande hub dei flussi commerciali anche se l’economia del suo ‘entroterra’ ricopre un ruolo relativamente piccolo nell’economia o nella manifattura (si pensi a Singapore) globali. Viceversa, le aziende potrebbero far circolare le proprie merci attraverso i porti di un altro Paese se quelli più vicini geograficamente non sono altrettanto puntuali e affidabili per tempistiche. In conclusione, sembra quasi che “sapere in quale porto dirigersi” sia più importante di avere il “vento a favore”, ossia raggiungere il porto più vicino. Alla luce di questa riflessione, possiamo leggere anche i dati sui porti UE. Nella classifica mondiale, spiccano i tre porti di Rotterdam (10° posto), Anversa (14°) e Amburgo (18°), tutti e tre sul Mare del Nord e collocati su un fiume. Queste tre città rappresentano la principale via di scambio tra la “banana blu” europea e il resto del mondo. Oltre all’efficienza, un fattore che influisce sempre più nella scelta del porto da parte delle aziende è la sostenibilità: ridurre le emissioni prodotte dal trasporto è un passo necessario per raggiungere la neutralità carbonica della catena di approvvigionamento. Anversa, ad esempio, è un “porto sostenibile” riconosciuto a livello internazionale. E nel Mediterraneo? Nella classifica compaiono dei casi interessanti come il Pireo di Atene (28° posto) e le città spagnole di Valencia (30°) e Algeciras (34°). Il Pireo deve la sua importanza agli scambi con l’Asia ed è al centro di una delicata questione politica dato che, nei piani della Cina, dovrebbe diventare il punto di attracco in Europa per la sua Belt and Road Initiative. Algeciras invece, oltre alla posizione strategica sullo Stretto di Gibilterra, può vantare di essere il primo porto europeo per efficienza nella già menzionata classifica CPPI della Banca Mondiale. I porti italiani e francesi sono invece assenti dalla top 50. Nonostante il Mediterraneo sia ancora al centro dei traffici marittimi globali, i porti italiani dovrebbero modernizzare le loro infrastrutture e rafforzarsi sul piano logistico per poter competere con gli altri porti mondiali.

L’Italia al II Forum UE-Indo-Pacifico

Di Maria Tripodi, Sottosegretario di Stato agli Affari Esteri e alla Cooperazione Internazionale

Il 13 maggio scorso, insieme ai Ministri degli Esteri europei e ai partner dell’Asia e del Pacifico, ho partecipato – su delega del VP/On. Ministro Tajani – al II Forum Ministeriale UE-Indo-Pacifico, organizzato a Stoccolma dalla Presidenza svedese dell’UE e dal SEAE. L’iniziativa era stata avviata dalla Presidenza francese dell’UE, con l’evento del 22 febbraio 2022, a Parigi. Nel mio intervento, ho sottolineato il concreto impegno dell’Italia nel dare seguito alla Strategia UE per l’Indo-Pacifico. Ho evidenziato la nostra crescente proiezione nell’area, la cui rilevanza geopolitica, economica e demografica la pongono al centro delle complesse sfide globali in atto, aggravate dall’aggressione russa all’Ucraina. Tra queste: le minacce alla sicurezza e all’ordine internazionale basato sulle regole, la sicurezza energetica, la crisi alimentare, le (spesso devastanti) conseguenze del cambiamento climatico e lo sviluppo sostenibile. È proprio sul clima che ho voluto soffermarmi, intervenendo alla tavola rotonda “Pursuing green opportunities and overcoming global challenges”. L’Indo-Pacifico ospita alcuni fra gli Stati maggiormente esposti ai cambiamenti climatici e anche più bisognosi di energia, considerati gli elevati tassi di crescita economica e demografica. L’Italia, impegnata a ridurre le emissioni di gas serra del 55% entro il 2030 e a raggiungere la neutralità climatica entro il 2050, è al fianco di questi Paesi con numerose iniziative, tra cui: il sostegno a Vietnam e Indonesia nell’ambito dell’iniziativa del G7 “Just Energy Transition Partnership”; l’organizzazione di corsi di formazione in materia di protezione civile e sviluppo sostenibile a favore dei Paesi dell’ASEAN e del “Pacific Islands Forum” di cui l’Italia è rispettivamente Partner di Sviluppo e di Dialogo; la partecipazione, attraverso Cassa Depositi e Prestiti, all’”ASEAN Catalytic Green Finance Facility” e alle  iniziative “Team Europe” a favore dell’ASEAN. Con queste e altre misure in fase di ideazione intendiamo fare in modo che nessun Paese sia lasciato indietro e che le economie emergenti dell’area siano dotate degli strumenti necessari a perseguire una crescita inclusiva e sostenibile, condizione essenziale per il mantenimento della pace e della stabilità in una regione sempre più cruciale per gli equilibri mondiali.

Prosperità e dubbi: il rapporto bifronte tra Cina e Sud-Est

Articolo di Vittoria Mazzieri

Target regionale per gli investimenti, alleati ideologici, partner di sicurezza, attori in rivendicazioni territoriali: dall’inizio delle relazioni diplomatiche i paesi del Sud-Est asiatico hanno assunto agli occhi di Pechino ruoli mutevoli e complessi. In termini di vicinanza geografica e cooperazione economica, l’ASEAN occupa un ruolo prioritario nella politica estera cinese

Il viaggio che Deng Xiaoping compie nel 1979 in Thailandia, Malesia e Singapore segna un punto importante delle relazioni tra Pechino e i paesi del Sud-Est asiatico. Il “piccolo timoniere” rimane stupito dai progressi socio economici di un’area che aveva erroneamente considerato come arretrata dal punto di vista economico. Come si legge in un saggio sul tema dei docenti della Nanyang Technological University di Singapore Zhou Taomo e Hong Liu, a colpire particolarmente Deng è la città-stato a sud della Malesia. All’indomani dell’incontro con l’allora primo ministro singaporiano Lee Kuan Yew, il Quotidiano del popolo passa dal raccontare Singapore come il “cane da guardia degli imperialisti americani” a dipingerla come un’“isola di pace”, una “città giardino che vale la pena di studiare”. Deng, invece, riceve l’ennesima conferma della necessità di abbandonare le lenti ideologiche con le quali fino ad allora il Partito comunista ha interpretato le relazioni con il Sud-Est asiatico.

I rapporti tra il gigante asiatico e la città-stato dimostrano le mutevoli relazioni della Repubblica popolare con l’area tradizionalmente conosciuta come Nanyang 南洋, “mari del Sud”. Oltre che dal contesto politico interno, le relazioni tra Pechino e la regione sono state influenzate da questioni legate all’identità delle comunità diasporiche (a Singapore il 75% della popolazione è di etnia cinese), dalle dispute territoriali e dai vari progetti infrastrutturali nell’ambito della Belt and Road Initiative. 

I primi anni dalla nascita della Repubblica popolare sono caratterizzati da un approccio moderato e flessibile: Pechino si fa promotrice di una “terza via” che possa offrire un’alternativa ai due blocchi della Guerra Fredda anche ai paesi ideologicamente non affini al Partito comunista. La promulgazione dei Cinque principi per la coesistenza pacifica, nel 1954, presenta un nuovo quadro di relazioni internazionali basate sul rispetto reciproco della integrità territoriale e del principio di non interferenza, anche per i paesi ideologicamente non affini. Il Trattato di doppia nazionalità sino-indonesiano, firmato l’anno successivo, pone fine alla politica che concede la nazionalità a tutte le persone di etnia cinese. La Cina incoraggia così le comunità d’oltremare a adottare la cittadinanza dei paesi in cui vivono, puntando in tal modo a placare le preoccupazioni di alcuni paesi del Sud-est asiatico, timorosi che le comunità di cinesi possano essere usati dal Partito per intraprendere attività sovversive. 

Nel corso degli anni le minoranze di etnia cinese diventano bersaglio di pesanti pesanti politiche discriminatorie: nel 1959 il presidente indonesiano Sukarno revoca la licenza per la gestione di attività di vendita al dettaglio a tutti gli “stranieri”, per lo più cinesi. In alcune realtà si rafforza, di conseguenza, il sentimento di appartenenza alla madrepatria. Con l’inizio della Rivoluzione culturale gruppi di studenti di etnia cinese iniziano a indossare i distintivi di Mao Zedong nelle scuole di Rangoon, nell’attuale Myanmar. Ne segue un’ondata di rivolte etniche su larga scala e un drastico deterioramento delle relazioni bilaterali.

Dalla fine degli anni Sessanta, in generale, la politica estera cinese è caratterizzata da una tendenza alla radicalizzazione, anche a causa della recessione economica che segue il disastroso Grande balzo in avanti. La nascita nel 1967 dell’Associazione delle Nazioni del Sud-Est Asiatico (ASEAN), fondata da Indonesia, Malesia, Filippine, Singapore e Thailandia in chiave anti-comunista, viene percepita da Mao Zedong come uno strumento dell’imperialismo. Ai paesi vicini dal punto di vista ideologico si chiede di riconoscere come bersagli principali della rivoluzione, per usare le parole del premier Zhou Enlai, l’“imperialismo, il feudalesimo e il capitalismo comprador”. Un approccio che muterà in maniera drastica all’indomani dell’invasione vietnamita della Cambogia. Come spiegato in un articolo per l’ISPI da Ngeow Chow-Bing, direttore dell’Istituto degli Studi Cinesi alla University of Malaya, in questo scenario l’ASEAN assume per Pechino un’importanza strategica per contenere le mire espansionistiche del governo di Hanoi (con cui le relazioni si sono irrimediabilmente deteriorate) sull’Indocina e sull’intera regione. 

Lo sviluppo economico da record che interessa la Repubblica popolare dagli anni Novanta è un elemento chiave nella espansione della sua influenza in termini di soft power, come ha scritto Joshua Kurlantzick, fellow per il Sud-Est asiatico presso il Council on Foreign Relations. Le prestazioni economiche della Cina attirano l’interesse dei paesi in via di sviluppo e hanno anche l’effetto di migliorare la reputazione delle comunità di cinesi che vivono nella regione. 

È in quegli anni che inizia quello che la retorica ufficiale cinese descrive come il “decennio d’oro” dei rapporti con l’ASEAN (che ad oggi, oltre ai paesi fondatori, conta anche Brunei, Myanmar, Cambogia, Timor Est, Laos, Vietnam). Durante la crisi finanziaria asiatica del 1997 Pechino prende la decisione simbolica di non svalutare la propria moneta, offrendosi come garante di stabilità. Negli anni successivi sigla rilevanti accordi multilaterali: l’Iniziativa Chang Mai di scambio di valuta, l’accordo di libero scambio del 2002 e la Dichiarazione sulla condotta delle parti nel Mar Cinese Meridionale, che stabilizza le controversie territoriali, nello stesso anno. 

Ma con la salita al potere di Xi Jinping la politica estera cinese acquisisce un profilo più proattivo e assertivo. Il deterioramento dei rapporti nell’ultimo decennio, soprattutto con le Filippine e il Vietnam, è legato a doppio filo alle rivendicazioni territoriali nell’area del Mar cinese meridionale. Dagli anni Settanta le dispute con il Vietnam per le Isole Spratly e le Paracelso si sono trasformate in una controversia di portata regionale, o addirittura globale. A poco o a nulla è servito il codice di condotta del 2002, che seppur celebrato all’epoca come un mezzo per garantire un “ambiente pacifico, amichevole e armonioso nel Mar Cinese Meridionale”, non ha incluso disposizioni su meccanismi di applicazione o di risoluzione delle controversie. 

La tensione, quindi, è cresciuta, arrivando a coinvolgere anche l’Indonesia per la prima volta nel 2016. Nello stesso anno una sentenza del Tribunale di arbitrato permanente de L’Aja ha bocciato le rivendicazioni di Pechino, rappresentate dalla cosiddetta “linea a nove punti”. Pechino non ha accettato la decisione che riconosce a Manila i diritti di sfruttamento delle risorse all’interno delle 200 miglia marittime della Zona economica esclusiva (Zee). Ha anzi accusato Washington di aver spinto le Filippine a ricorrere al tribunale per “sabotare le relazioni tra la Cina e i paesi dell’ASEAN”.

Malgrado le rivendicazioni marittime, la Cina non ha mai smesso di corteggiare i paesi della regione. La Regional Comprehensive Economic Partnership (RCEP), lo storico accordo siglato nel 2020 dopo otto anni di negoziati ed entrato in vigore a gennaio 2022, è servito a Pechino per consolidare la cooperazione economica nell’area. Ma le reciproche relazioni commerciali non possono essere spiegate senza tirare in ballo la Belt and Road Initiative, l’ambiziosa nuova via della seta lanciata nel 2013 che conta investimenti cinese per un valore di circa 85 miliardi l’anno. Già agli inizi degli anni Duemila il Sud-Est asiatico si è configurato come un importante target regionale per gli investimenti diretti esteri cinesi. Nel 2020, in piena crisi pandemica, l’ASEAN è salito al primo posto tra le destinazioni degli investimenti BRI. 

L’iniziativa si è scontrata con diversi gradi di accettazione nei paesi della regione. Malgrado le tensioni per le dispute territoriali, molte nazioni coinvolte hanno continuato a desiderare investimenti cinesi nelle infrastrutture e nella produzione. A differenza dei vicini più accoglienti, Hanoi ha assunto un approccio prudente: la strategia vietnamita sembra puntare a evitare il confronto con la Cina, al contempo scongiurando il rischio di dipendenza economica. Ad oggi l’unico progetto BRI attuato nel paese è la linea tranviaria Cat Linh-Ha Dong, che ha attirato ampie critiche a causa dei costi elevati.

Il deragliamento di un treno ad alta velocità dell’ambizioso progetto ferroviario Jakarta-Bandung dimostra che i rischi legati alla sicurezza possono minare la credibilità della Repubblica popolare. Da un recente rapporto dell’istituto di credito malese Maybank emerge che la ripresa post-pandemia potrebbe essere meno forte delle aspettative. I progetti potrebbero subire battute d’arresto a causa della crescente diffidenza dei governi, ad esempio per i costi sociali e ambientali: nel 2014 le attività estrattive di bauxite di proprietà cinese negli altopiani centrali del Vietnam hanno scatenato ampie proteste contro i danni ambientali e il mancato rispetto delle leggi locali. Per altri paesi che si sono impegnati più attivamente nella BRI, come Laos, Cambogia e Myanmar, ritornano periodicamente i timori per la “trappola del debito” da parte di economisti e osservatori. 

Nel complesso i paesi del Sud-Est asiatico restano essenziali a Pechino per numerose ragioni. Ad esempio, come partner verso i quali la Cina può accelerare la diffusione di infrastrutture “soft” come servizi sanitari ed economia digitale. O come attori utili per sovvertire gli equilibri internazionali e accrescere la rilevanza dell’Asia-Pacifico. Sullo sfondo delle tensioni con gli Stati Uniti, la Repubblica popolare punta a proporsi ai paesi ASEAN come un attore non assertivo, volenteroso a perseguire “il rispetto reciproco”, il “dialogo” e sinergie “win-win”, come rivendicato lo scorso anno in occasione del lancio della Global Security Initiative (GSI). D’altro canto, gli investimenti cinesi si configurano come risorse imperdibili per i paesi in via di sviluppo della regione: l’iniziativa gemella della GSI, la Global Development Initiative (GDI), rappresenta la volontà di Pechino di intestarsi un ruolo centrale nella promozione multilaterale dello sviluppo. L’ASEAN è diventato il gruppo regionale più numeroso a beneficiarne, accaparrandosi 14 progetti su un totale di 50 di quelli previsti dal primo lotto del GDI Project Pool.

 

Com’è andato il 42° vertice ASEAN

Si è svolto tra il 9 e l’11 maggio in Indonesia il summit dell’Associazione delle Nazioni del Sud-Est asiatico. Ecco quali sono i documenti firmati e la dichiarazione congiunta finale

Nella Dichiarazione congiunta approvata in occasione del 42° Vertice ASEAN, che si è svolto a Labuan Bajo, in Indonesia, dal 9 all’11 maggio, i leader dell’ASEAN hanno sottolineato la necessità di perseguire una risoluzione pacifica delle controversie in conformità con i principi universalmente riconosciuti del diritto internazionale, compresa la Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (UNCLOS) del 1982. Hanno sottolineato l’importanza della piena ed effettiva attuazione della Dichiarazione sulla condotta delle parti nel Mare Orientale (DOC) nella sua interezza, evidenziando al contempo la necessità di rafforzare la fiducia reciproca, di esercitare l’autocontrollo nella conduzione di attività che possano complicare o inasprire le controversie e incidere sulla pace e sulla stabilità, e di evitare azioni che possano complicare ulteriormente la situazione. Hanno accolto con favore gli sforzi in corso per rafforzare la cooperazione tra l’ASEAN e la Cina, nonché i progressi dei negoziati sostanziali verso la rapida conclusione di un Codice di Condotta nel Mare Orientale (COC) efficace e sostanziale; e l’iniziativa di accelerare i negoziati COC, compresa la proposta di sviluppare linee guida per accelerare la rapida conclusione di un COC efficace e sostanziale. I leader dell’ASEAN hanno inoltre sottolineato la necessità di mantenere e promuovere un ambiente favorevole ai negoziati sul COC. Tra i 10 documenti approvati al vertice figurano la Dichiarazione dei leader ASEAN sullo sviluppo dell’ecosistema regionale dei veicoli elettrici; la Dichiarazione dei leader ASEAN sull’iniziativa One Health; la Dichiarazione dei leader ASEAN sull’avanzamento della connettività regionale dei pagamenti e la promozione delle transazioni in valuta locale; la Dichiarazione dei leader ASEAN sulla lotta alla tratta di persone causata dall’abuso di tecnologia. I leader hanno approvato la Dichiarazione dell’ASEAN sulla protezione dei lavoratori migranti e dei membri delle famiglie in situazioni di crisi; la Dichiarazione dell’ASEAN sul collocamento e la protezione dei pescatori migranti; la Dichiarazione congiunta dei leader dell’ASEAN sull’istituzione di una rete di villaggi dell’ASEAN; e una tabella di marcia per l’ammissione di Timor Est come membro ufficiale dell’ASEAN. Hanno inoltre adottato la dichiarazione dei leader dell’ASEAN sullo sviluppo della visione post-2025 della Comunità ASEAN, che mira a promuovere una crescita forte, completa e inclusiva e a risolvere le sfide interne ed esterne alla regione nei prossimi 20 anni. Nel corso del vertice è stata approvata anche la Dichiarazione dei leader ASEAN sul rafforzamento della capacità e dell’efficacia istituzionale dell’ASEAN, che ribadisce l’impegno dei leader ASEAN a compiere sforzi per mantenere la centralità, l’unità e la rilevanza in mezzo alle sfide che la regione deve affrontare. I leader hanno inoltre discusso l’attuazione del consenso in cinque punti sul Myanmar e hanno condannato l’attacco a un convoglio del Centro di coordinamento ASEAN per l’assistenza umanitaria sulla gestione dei disastri (Centro AHA) e del gruppo di monitoraggio ASEAN in Myanmar.

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