Asean

Il Sud-Est asiatico al centro

Prima la ministeriale dell’IPEF, poi il China-ASEAN Expo: la regione porta avanti la sua linea di neutralità e cooperazione internazionale

Editoriale a cura di Lorenzo Lamperti

La guerra in Ucraina ha acuito una tendenza che era in atto già da qualche tempo: la richiesta, implicita o meno, di scegliere “da che parte stare”. Non solo sulla Russia, ma anche in riferimento alla Cina. L’ASEAN sembra però aver scelto da tempo da che parte stare, vale a dire da quella di neutralità e pacifismo. Una strada che sta ponendo il Sud-Est asiatico, una delle regioni in più rapida crescita al mondo, al centro delle relazioni commerciali (e non) internazionali. La dimostrazione plastica arriva nel corso di questo mese di settembre, con due eventi rilevanti nel giro di una settimana. Tra l’8 e il 9 settembre i rappresentanti di Brunei, Indonesia, Malesia, Filippine, Singapore, Thailandia e Vietnam hanno partecipato a Los Angeles alla prima riunione ministeriale dell’Indo-Pacific Economic Framework for Prosperity (IPEF), la piattaforma di cooperazione commerciale lanciata qualche mese fa dagli Stati Uniti del Presidente Joe Biden. Al termine del summit, i 14 Paesi che fanno parte del progetto hanno concordato sulle linee guida fondamentali per negoziare i quattro principali “pilastri” di un futuro accordo: il commercio (compresi i flussi di dati e i diritti dei lavoratori), la resilienza della catena di approvvigionamento, l’energia verde e gli standard ambientali, le misure anticorruzione e fiscali. Da venerdì 16 a lunedì 19 settembre è invece in programma la 19esima edizione del China-ASEAN Expo e del China-ASEAN Business and Investment Summit. L’evento si svolge a Nanning, nella regione autonoma del Guangxi, con la partecipazione fisica di oltre 300 imprese e di altre duemila imprese in modalità virtuale. La Malesia, in qualità di Paese d’onore, ospiterà una serie di attività sul tema del 10° anniversario dello sviluppo di due parchi industriali (a Qinzhou nel Guangxi e a Kuantan in Malesia), chiamati ad approfondire ulteriormente gli scambi economici e commerciali e la cooperazione tra Cina e ASEAN, anche nell’ambito della Regional Comprehensive Economic Partnership (RCEP). Pechino è da tempo il principale partner commerciale dell’ASEAN. Nei primi sette mesi del 2022, l’interscambio è ulteriormente aumentato. Segnale di un legame importante per entrambe le parti. La possibilità di “aggiungere”, per altri attori internazionali, è concreta. E lo dimostra la cooperazione in fase di approfondimento tra ASEAN e Unione Europea. “Sostituire”, invece, appare molto più complicato.

La locomotiva ASEAN accelera

Con una contingenza globale a dir poco complessa, il Sud-Est asiatico è una delle regioni più attraenti per gli investitori internazionali

Editoriale a cura di Alessio Piazza

Boom del turismo, ripartenza robusta della domanda interna, ricchezza di materie prime e regole sempre più accoglienti per gli attori internazionali. Il Sud-Est asiatico è una delle regioni più attraenti per gli investimenti globali. Lo era prima, lo è ancora di più nell’attuale contingenza, resa ancora più complessa dall’inflazione diffusa e dalle incognite sulle catene di approvvigionamento. A partire da quella energetica. Mentre i titoli azionari globali sono in difficoltà dopo le ultime mosse della Federal Reserve statunitense, le prospettive di crescita del Sud-Est asiatico rendono infatti l’area ASEAN una delle preferite dagli investitori. Secondo le stime di Bloomberg, la maggior parte delle maggiori economie della regione dovrebbe crescere di almeno il 5% nel 2022, grazie all’abolizione delle restrizioni imposte durante la pandemia di Covid-19. E i fondi globali hanno versato un importo netto di 2,4 miliardi di dollari nella regione, senza peraltro contare Singapore. Secondo il South China Morning Post, la composizione dei benchmark azionari del Sud-Est asiatico, con una percentuale relativamente alta di azioni bancarie, è inoltre favorevole in un contesto di rialzo dei tassi d’interesse globali. Mentre la maggior parte delle banche centrali mondiali è stata costretta a inasprire la politica di bilancio per far fronte a un’inflazione in crescita, in parte determinata da anni di stimoli pandemici, il problema è stato meno acuto nel Sud-Est asiatico. L’Indonesia, il cui mercato azionario è tra i più performanti al mondo quest’anno, ha iniziato ad alzare i tassi solo in agosto. E, in generale, i tassi sono ancora molto più abbordabili rispetto a diversi altre zone del mondo. La Malesia ha più che raddoppiato il suo target annuale per i turisti in seguito alla ripartenza sopra le stime degli ultimi mesi, mentre la Thailandia prevede di raccogliere addirittura 11 miliardi di dollari grazie al forte aumento degli arrivi dei visitatori stranieri nel secondo semestre dell’anno. Ma anche l’Indonesia sta accelerando e, da ultimo, ha attratto anche l’attenzione dell’Arabia Saudita sulle sue startup con un potenziale futuro da unicorni. Per non parlare del Vietnam, che sta diventando destinazione della produzione di sempre più colossi internazionali. La locomotiva ASEAN è ripartita.

ASEAN e agricoltura 4.0: tra sfide globali e insicurezza alimentare fiorisce il mercato dell’agtech

L’Asia, il continente più popoloso del mondo, è anche quello che ospita più della metà (425 milioni) delle persone che ancora soffrono la fame. Le recenti sfide ambientali, sanitarie e politiche sono servite come “campanello d’allarme”, sottolineando la necessità di ripensare le catene di produzione e approvvigionamento. Nel Sud-Est asiatico, questo ha dato un forte impulso alla trasformazione digitale già in corso nel settore agricolo, innescando una vera e propria rivoluzione dell’agricoltura 4.0.

“L’agricoltura è uno stile di vita nell’ASEAN”. Nella regione 8 Paesi su 10 dipendono dall’agricoltura e dalla sua produzione e in alcuni, come Myanmar e Laos, il settore arriva a rappresentare oltre il 40% del PIL. Tuttavia, le tecniche di produzione tradizionali non riescono a far fronte alla domanda sempre più sofisticata di beni alimentari di una popolazione in continua crescita. L’Asian Development Bank stima che per tenere il passo con l’espansione della classe media e la crescita della domanda di alimenti, la produzione dovrebbe aumentare del 60-70% rispetto a dieci anni fa. I Paesi del Sud-Est asiatico si stanno dunque orientando sempre più verso soluzioni agtech che permettano di produrre di più (e in maniera sostenibile) con meno risorse, al fine di garantire la sicurezza alimentare in un contesto di crescente instabilità.

Singapore, una delle zone più densamente popolate del pianeta, punta sull’agricoltura verticale per ovviare alla scarsità di terreni da destinare all’uso agricolo. Sono ormai più di una decina i tetti adibiti all’agricoltura urbana, pensati per garantire un raccolto di 2.000 tonnellate di verdure all’anno. Utilizzando la tecnologia idroponica, la società ComCrop riesce a produrre ortaggi senza l’uso di pesticidi o erbicidi dannosi, riducendo contemporaneamente i consumi di acqua del 90% rispetto all’agricoltura tradizionale. Decisamente inferiori sono anche i costi di produzione, trasporto e stoccaggio: i prodotti coltivati sui tetti della città sono disponibili nelle rivendite locali in tempi più rapidi e a prezzi più convenienti. 

Oltre a limitare l’insicurezza dovuta alla forte dipendenza esterna in termini di approvvigionamento alimentare, le nuove tecnologie permettono anche di proteggere colture e animali da potenziali rischi ambientali. La Blue Ocean Aquaculture Technology (BOAT) ha trasformato uno spazio industriale nell’area di Tuas a Singapore in un sistema di “allevamento ittico futuristico” al coperto. Sfruttando la tecnologia del nano-ossigeno, l’azienda riesce a produrre in maniera sostenibile fino a 18 tonnellate di pesce all’anno, al riparo da problemi quali l’inquinamento delle acque e la fioritura del plancton.

L’operato di imprese pioniere come ComCrop e BOAT si allinea perfettamente con la Food Security Roadmap, il piano del governo di Singapore pensato per provvedere autonomamente al 30% del fabbisogno nutrizionale della città-stato entro il 2030, il quale prevede lo stanziamento di oltre 40 milioni di dollari finalizzate a garantire la resilienza dell’industria agricola e la gestione efficiente delle risorse.

Il successo dell’agtech sta anche trasformando le vite di molti lavoratori della regione. Pham Thi Huong ha raccontato a Nikkei Asia di aver abbandonato il lavoro nelle piantagioni di caffè sugli altipiani centrali del Vietnam per dedicarsi alla coltivazione di fragole sulle rocce in una serra di Orlar. La società australiana, in collaborazione con l’Associazione imprenditoriale olandese del Vietnam, ha infatti ideato una nuova forma di agricoltura verticale che utilizza rocce trattate con un mix brevettato di microbi per fornire nutrienti alle coltivazioni, in assenza di terreno e con un utilizzo minimo di acqua. 

Nella provincia thailandese di Prachuap Khiri Khan, Kirana Leesakulpran, 48 anni, nel settore dell’allevamento dei gamberi da quasi 30, ha dato una svolta alla propria attività integrando alcuni alimentatori automatici e un sistema di aeratori a pale nel suo stabilimento. “Da quando abbiamo implementato questa nuova tecnologia e questo sistema, siamo in grado di produrre di più. Guadagniamo di più e questo rende la nostra vita di agricoltori più sostenibile”, ha commentato, spiegando come le tempistiche di purificazione delle acque si siano ridotte da tre a sette giorni e la produttività sia aumentata in maniera significativa, riducendo al contempo gli scarti di mangimi, i quali rappresentano uno dei maggiori costi nel settore.Per le persone il cui sostentamento dipende dalle attività di agricoltura e allevamento, l’equilibrio tra produttività e sostenibilità gioca un ruolo chiave nel garantire l’accesso a cibo nutriente e in quantità sufficienti. Sullo sfondo di una generalizzata impennata dei prezzi dei beni alimentari e al rincaro di carburante e fertilizzanti dovuti al conflitto tra Russia e Ucraina, gli operatori del settore nel Sud-Est asiatico si trovano a fronteggiare eventi meteorologici estremi e problemi endemici legati all’insicurezza alimentare. Questo spinge i governi e le imprese locali a ripensare i sistemi di produzione e approvvigionamento, optando per l’integrazione delle tecnologie digitali e dell’intelligenza artificiale nelle filiere produttive. Data la forte vocazione tecnologica della regione, il Sud-Est asiatico costituisce un terreno fertile per lo sviluppo dell’innovazione nel settore agroalimentare; le sfide globali e regionali costituiranno un importante banco di prova per i nascenti mercati dell’agtech e del foodtech.

La corsa alla digitalizzazione del Sud-Est asiatico

I Paesi ASEAN crescono rapidamente sul fronte digitale, ma allo stesso tempo cercando di tenere sotto stretto controllo la vita su internet dei propri cittadini

Nel campo della tecnologia e della digitalizzazione vari governi dei Paesi ASEAN hanno due obiettivi che competono tra loro. Da una parte promuovono e sostengono una maggior digitalizzazione, soprattutto in un’ottica di espansione delle proprie economie. “Essere al passo con i tempi” dal punto di vista della digitalizzazione è un requisito fondamentale per queste economie in crescita. Dall’altra parte però c’è una forte tendenza di alcuni governi nel limitare l’accesso a internet alla popolazione. 

Dimostrazione concreta di questo comportamento la si può trovare nell’esempio del Vietnam. L’economia del Vietnam è in forte crescita; le esportazioni vietnamite nel primo trimestre del 2022 sono cresciute del 12.9 percento rispetto all’anno passato. Per sostenere questa forte crescita è necessaria una modernizzazione dei sistemi di digitalizzazione del Paese. Per questo motivo il primo ministro vietnamita Pham Minh Chinh il mese scorso ha avuto diversi incontri con rappresentanti di compagnie come Apple, Google e Facebook. In realtà, il rapporto tra il governo vietnamita e questi colossi della tecnologia è tutt’altro che semplice e lineare. Da una parte, infatti, il mercato del Vietnam è una grande fonte di guadagno per queste compagnie tech. Dall’altra parte però, esistono paletti che spesso vengono imposti alle società digitali internazionali e le restrizioni di accesso alle piattaforme digitali. 

Secondo quanto scritto dal giornalista Lien Hoang in un articolo su Nikkei Asia le stesse società che il Primo Ministro vietnamita Phạm Minh Chính ha incontrato nella Silicon Valley stanno facendo attività di lobbying in Vietnam per evitare ulteriori restrizioni nel campo digitale. Infatti, l’amministrazione vietnamita vorrebbe apportare delle modifiche ancora più stringenti al Decreto 72 che regola la gestione, la fornitura e l’utilizzo di servizi Internet, informazioni e giochi online. Le novità più stringenti sarebbero due. La prima riguarda l’introduzione di multe nel caso un contenuto non considerato idoneo dal governo vietnamita non venga bloccato dalle piattaforme online nel giro di 24 ore. La seconda novità sarebbe quella di imporre alle società di archiviare i dati raccolti online in Vietnam entro i confini nazionali. Questo provvedimento introdurrebbe dunque il divieto di trasferire questi dati fuori dai confini dello Stato. Hanoi è pronta a fare affari con le grandi compagnie tech ma vuole allo stesso tempo mantenere un saldo controllo sulla vita digitale dei propri cittadini.

Il problema della libertà in rete non è presente solo in Vietnam, ma è un problema più generalizzato e rilevante in altri Paesi dell’ASEAN. Come si può vedere dal grafico riportato in basso, molti Paesi del Sud-Est asiatico non ottengono punteggi elevati nel grado di “libertà di Internet” (internet freedom). Il Myanmar si attesta penultimo tra i Paesi asiatici con un indice di libertà di internet di 17, solo 7 punti in più rispetto alla Cina. Il Vietnam si aggiudica invece un indice di libertà di internet di 22 su 100, rappresentando il terzultimo Paese in Asia in termini di libertà digitale. Anche Thailandia e Cambogia non raggiungono indici molto elevati di libertà dei propri cittadini in rete. Dall’altra parte le Filippine con uno score di 65 su 100, che viene valutato dunque come il Paese in cui i cittadini hanno più libertà di usufruire liberamente delle piattaforme digitali. Per avere un metro di paragone stati come Italia, Francia, Germania hanno una “internet freedom” index intorno al 76-78 su 100. In generale, come dichiarato da vari esperti, pesanti restrizioni nel contesto delle piattaforme digitali potrebbero in futuro dimostrarsi estremamente controproducenti e contraddittorie rispetto all’obiettivo di molti Paesi ASEAN di sviluppare delle economie digitali. Per questo è probabile che il tema della “internet freedom” sarà di estrema importanza per i Paesi del Sud-Est asiatico nei prossimi anni. 

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Fonte grafico: https://www.statista.com/statistics/373347/degree-of-internet-freedom-in-asia/ 
Per approfondire e vedere sulla mappa: https://freedomhouse.org/explore-the-map?type=fotn&year=2021

 

ASEAN e UE ancora più vicine

A dicembre in programma un summit dal formato inedito tra i due blocchi per discutere di cooperazione commerciale e catene di approvvigionamento

Editoriale a cura di Lorenzo Lamperti

Guerra in Ucraina, tensioni in Asia-Pacifico, inflazione e dilemma energetico. Le ombre sul futuro prossimo preoccupano tanti e diventa ancora più urgente la cooperazione multilaterale. Unione Europea e ASEAN hanno dimostrato già più volte in passato di aver compreso questa necessità e ora si muovono per accelerare la collaborazione bilaterale. Con questo spirito, il 14 dicembre è stato organizzato per la prima volta un vertice dei leader nazionali dei due blocchi per discutere dell’espansione del commercio e dell’assistenza infrastrutturale. Ai precedenti vertici tra i due gruppi hanno partecipato capi e alti funzionari dell’organo esecutivo dell’UE, ma stavolta saranno coinvolti direttamente i capi di Stato e i leader nazionali dei Paesi dell’ASEAN e dell’UE. Segnale che si vuole garantire un maggiore allineamento politico, oltre a quello già esistente a livello economico e commerciale. L’obiettivo è quello di sviluppare e mettere al sicuro le catene di approvvigionamento globali minacciate dalle turbolenze economiche e geopolitiche degli ultimi mesi. L’Europa incoraggerà il Sud-est asiatico a svolgere un ruolo centrale nella catena di approvvigionamento dell’Occidente, sulla base dell’idea di “friend-shoring” tra nazioni con valori condivisi. In cambio dovrebbe offrire aiuti infrastrutturali e accordi di cooperazione economica. Magari proseguendo i negoziati per nuovi accordi di libero scambio coi Paesi membri dell’ASEAN. Sono già in essere accordi con Singapore e Vietnam ma si cerca di accelerare anche con Indonesia, Filippine, Malesia e Thailandia. Una rete di libero scambio ampliata permetterebbe di diversificare le catene di approvvigionamento e di ridurre la dipendenza dalle risorse energetiche di altri Paesi come la Russia. Nel 2021, UE e ASEAN hanno scambiato merci per 250 miliardi di dollari, ma il margine di miglioramento è ancora ampio. Non più tardi del 4 agosto scorso, l’Alto Rappresentante dell’UE per gli Affari Esteri e la Politica di Sicurezza Josep Borrell ha ribadito l’impegno ad approfondire i rapporti con l’area ASEAN. Necessità sempre più chiara ai governi dei vari Paesi europei, che come quelli delle controparti asiatiche non hanno nessuna intenzione di tornare a un mondo diviso in blocchi. 

La corsa ai Green Bonds dei paesi del Sud-Est asiatico

La regione, particolarmente vulnerabile al cambiamento climatico, investe nella finanza verde

Il Sud-Est asiatico punta alla finanza verde per rilanciare l’economia e tutelare l’ambiente in questo periodo difficile. Già 10 paesi dell’ASEAN hanno emesso obbligazioni verdi (i cosiddetti “green bonds”) per finanziare progetti ecologici, nella speranza di rendere sempre più concreti i piani per salvaguardare il pianeta. I green bond sono obbligazioni la cui emissione è legata a progetti che hanno un impatto positivo per l’ambiente, come per esempio l’efficienza energetica, la produzione di energia da fonti pulite o l’uso sostenibile dei terreni. Questi temi sono molto cari alla regione, particolarmente soggetta a fenomeni meteorologici estremi e vulnerabile all’innalzamento dei livelli del mare. 

Il mercato del debito sostenibile dell’ASEAN ha raggiunto nel 2021 un record annuale di emissioni di obbligazioni e prestiti verdi, sociali e sostenibili, per un valore di 24 miliardi di dollari, a cui si aggiungono ulteriori 27,5 miliardi di dollari se si considerano obbligazioni e prestiti legati alla sostenibilità in senso più ampio.

Molti Paesi hanno infatti già preso impegni molto ambiziosi per ridurre, o addirittura azzerare, le emissioni di carbonio. Thailandia, Vietnam e Malesia per esempio, hanno fissato l’obiettivo di raggiungere la neutralità carbonica entro il 2050, l’Indonesia entro il 2060. Queste ambizioni sono concretizzate anche grazie alla mobilitazione di capitali attraverso il mercato della finanza sostenibile. Secondo un rapporto di giugno dell’Asian Development Bank, l’ammontare delle obbligazioni sostenibili emesse dai mercati principali dell’ASEAN e dell’Asia orientale ha raggiunto i 478,7 miliardi di dollari alla fine di marzo, registrando un’espansione del 51,3% su base annua.

In particolare la Thailandia risulta particolarmente attraente per gli investitori, grazie al suo mercato obbligazionario maturo, il secondo più grande del Sud-Est asiatico dopo la Malesia. Dal 2020 il governo e le imprese statali hanno emesso più di 127 miliardi di baht, secondo il rapporto annuale del Thai Public Debt Management Office. Tra i fondi raccolti, una grossa fetta (circa 30 miliardi di baht) ha finanziato in parte la nuova linea arancione, una linea ferroviaria che collega i sobborghi esterni di Bangkok da est a ovest fino al centro della città. Questo progetto infrastrutturale dovrebbe alleviare i problemi di traffico e dell’inquinamento atmosferico persistenti nella capitale thailandese e peggiorati in seguito alla pandemia di COVID-19, dato che i pendolari hanno ripreso ad usare veicoli privati per evitare l’affollamento dei mezzi pubblici.

Singapore ha annunciato che le agenzie governative emetteranno fino a 35 miliardi di dollari  di green bond entro il 2030. Anche in questo caso, lo scopo è quello di finanziare progetti infrastrutturali ecologici, come i  trasporti pubblici, al fine di incoraggiare un maggior numero di pendolari a prendere il treno e ridurre la loro dipendenza dalle automobili. Tra i progetti che il governo della città-stato intende implementare c’è la rete ferroviaria della regione di Jurong nella parte occidentale del Paese, che ambisce a ridurre le emissioni del trasporto terrestre dell’ 80% intorno alla metà del secolo. Singapore sta anche esplorando l’uso di obbligazioni per l’adattamento ai cambiamenti climatici, per esempio per la protezione delle coste. Anche le Filippine hanno emesso i loro primi green bond per finanziare progetti di mitigazione e adattamento ai cambiamenti climatici.

La Malesia e l’Indonesia invece, che hanno grandi popolazioni musulmane, hanno introdotto obbligazioni islamiche verdi, anche dette sukuk. L’obiettivo di questi strumenti è in linea con il principio islamico della tutela dell’ambiente, consentendo agli emittenti di attingere al prospero mercato della finanza islamica. Fanno parte di questo trend  l’emissione di sukuk verdi da parte della Malesia per finanziare la costruzione di impianti solari su larga scala.
Anche il Vietnam, infine, sta approfittando del mercato dei green bonds, in particolare per il finanziamento di progetti nel settore dei trasporti e dell’energia come il parco solare di Dau Tieng.

Non solo affari: l’UE si lancia in Asia-Pacifico

L’Ue guarda con sempre maggiore attenzione all’Asia-Pacifico. Di recente anche con un inedito focus sugli aspetti securitari, in aggiunta e non in sostituzione dell’approccio tradizionalmente imperniato sul soft power e sulla cooperazione economica 

L’Indo-Pacifico rappresenta “il centro di gravità economico e strategico del mondo”. Così Josep Borrell, Alto rappresentante dell’Unione Europa per gli affari esteri e la politica di sicurezza e Vicepresidente della Commissione, ha definito la regione nel marzo 2021, sottolineando l’urgenza per l’Unione Europea di dotarsi di un approccio strategico verso quell’area di mondo che sta catalizzando l’attenzione e gli sforzi dei principali attori internazionali.

La macro-regione che si estende dalla costa orientale dell’Africa agli stati insulari del Pacifico e l’Asia Orientale contribuisce per due terzi al tasso di crescita globale e con una quota pari al 62% al PIL mondiale e ospita quattro dei dieci maggiori partner dell’UE (Cina, Giappone, Corea del Sud e India), nonché più della metà della popolazione mondiale. Al contempo, rappresenta il principale teatro della competizione geopolitica tra Cina e Stati Uniti. Consapevoli della sua rilevanza strategica, già da tempo diversi paesi europei, come Germania, Francia e Paesi Bassi, hanno messo in atto iniziative e strategie autonome per proteggere gli interessi nazionali nella regione, nel tentativo di attenuare le conseguenze della rivalità sino-americana e dalle frizioni tra le potenze regionali, le quali si riverberano sulle catene di approvvigionamento globale, sugli scambi commerciali e sulla libera navigazione nei mari.

Ma la crisi pandemica e l’intensificarsi delle tensioni politiche e delle dispute territoriali nella regione hanno reso palese l’esigenza di una maggiore concertazione degli sforzi. Il 19 aprile 2021, il Consiglio Europeo ha annunciato l’approvazione delle conclusioni su una strategia per la cooperazione nell’Indo-Pacifico, che mira ad armonizzare i diversi orientamenti nazionali degli Stati membri in una visione comune che possa guidare il futuro impegno europeo a lungo termine nell’area. I 27 Ministri degli Esteri hanno concordato sull’obiettivo di rafforzare l’impegno europeo per “contribuire alla stabilità, alla sicurezza, alla prosperità e allo sviluppo sostenibile della regione”, in linea con  i valori comuni di sostegno alla democrazia, ai diritti umani, allo Stato di diritto e di rispetto del diritto internazionale.

Come tipicamente accade, l’impegno europeo passa per l’approfondimento delle relazioni economiche con i paesi dell’area e per il rafforzamento della posizione commerciale strategica vis-à-vis gli imponenti blocchi commerciali esistenti nell’area, riflesso degli accordi siglati negli ultimi anni, il partenariato economico regionale globale (RCEP) e l’accordo globale e progressivo di partenariato transpacifico (CPTPP). Tra gli obiettivi, il raggiungimento di accordi di libero scambio con Australia, Indonesia e Nuova Zelanda e il rilancio dei negoziati con l’India, sulla scia degli ambiziosi accordi commerciali e di investimento già siglati con Vietnam, Giappone, Repubblica di Corea e Singapore.

La strategia per l’Indo-Pacifico introduce anche un inedito focus sugli aspetti securitari, distanziandosi da un approccio tradizionalmente imperniato sul soft power e sulla cooperazione economica e in tema di diritti umani. Il rafforzato ingaggio europeo si sostanzia in una serie di iniziative che spaziano dalla difesa e sicurezza tradizionale, come esercitazioni militari congiunte con i partner regionali, fino a raggiungere i domini più innovativi della cyber sicurezza, e arriva in risposta alla sempre crescente assertività cinese nella regione.

Nel quadro del progetto European Critical Maritime Route Indian Ocean (CRIMARIO II), l’UE ha deciso di allargare l’ambito di applicazione geografica delle sue operazioni di protezione delle rotte marittime critiche. La portata del progetto, inaugurato nel 2015 con un focus su alcuni particolari Paesi e arcipelaghi dell’Africa Orientale e attualmente nella sua seconda fase, si estende oggi fino ad includere tutti i Paesi che si affacciano sull’Oceano Indiano e il Sud-Est asiatico e le autorità europee stanno vagliando la possibilità di replicare l’esperienza nel Pacifico meridionale. In aggiunta, sono stati ampliati gli ambiti di cooperazione: accanto alla condivisione di informazioni e ad iniziative di formazione e rafforzamento delle capacità, sono state previste alcune componenti aggiuntive di comunicazione tra le forze dell’ordine e la magistratura a livello nazionale, internazionale e regionale e il rispetto delle normative internazionali, da implementare esclusivamente nelle aree del Sud e Sud-Est asiatico.

Azioni coordinate di questo tipo si affiancano al dispiegamento autonomo di forze navali da parte di Stati membri (ed un ex Stato membro, ovvero il Regno Unito), alcune delle quali precedono temporalmente qualsiasi strategia integrata a livello europeo e si devono alla presenza storica di alcuni Paesi nella regione. In primis, la Francia, unico Paese europeo con una presenza militare permanente nell’area, a fronte di imponenti interessi strategici, a partire dalla presenza di alcuni territori d’oltremare, tra cui l’isola di Reunion nell’Oceano Indiano e gli arcipelaghi della Polinesia Francese nel Pacifico Meridionale. Significativo è anche il contributo della Royal Navy, che a partire dal 2021 ha inaugurato un significativo rafforzamento della sua presenza navale nell’area con lo schieramento della mastodontica portaerei HMS Queen Elizabeth (R08) e il relativo Carrier Strike Group (CSG). Anche Olanda e Germania hanno concorso a fortificare l’impegno militare europeo nell’area con l’invio, rispettivamente, delle fregate HNLMS Evertsen e Bayern.

Il piano per l’Asia Pacifico si allinea alla Global Gateway, il modello europeo di partenariati globali per la “connettività affidabile” e sostenibile. Questa più ampia strategia si sostanzia in investimenti infrastrutturali “intelligenti, puliti e sicuri” nei paesi partner, con un focus sui settori-chiave del digitale, dell’energia e dei trasporti, della sanità e dell’istruzione della ricerca, per i quali l’Unione e gli Stati membri prevedono di mobilitare fino a 300 miliardi di euro. 

Seppur non esplicitato nel documento, secondo alcuni osservatori il progetto potrebbe rispecchiare la volontà europea di smarcarsi dalla competizione sino-statunitense offrendo ai Paesi partner un’alternativa (seppur non perfettamente sovrapponibile in termini di modalità e fondi investiti) a simili iniziative di connettività: la Belt and Road Initiative cinese e la Build Back Better World (B3W) a guida statunitense. Tuttavia, l’approccio dell’Unione alla regione resta “improntato alla cooperazione, non alla ricerca di uno scontro”, come chiarito dalla portavoce dell’Unione Europea per gli Affari esteri e la politica di sicurezza Nabila Massrali e più volte sottolineato dalle autorità europee. Nella nuova strategia per l’Indo-Pacifico, viene rimarcata apertamente la volontà di mantenere un atteggiamento aperto e inclusivo nei confronti di tutti gli attori regionali che condividono preoccupazioni, interessi e valori con l’Unione. La stessa presidentessa della Commissione europea, Ursula von der Leyen, ha commentato su Twitter: “Vogliamo un Indo-Pacifico sereno e prospero. Deve essere libero, aperto, interconnesso, prospero, con un’architettura di sicurezza basata su regole che serva tutti gli interessi. Continueremo a incoraggiare Pechino a fare la sua parte in una regione indopacifica pacifica e prospera”.

Resta da vedere se l’Europa sarà davvero in grado di farsi largo tra le due superpotenze in competizione per perseguire la propria ambiziosa agenda, offrendo una reale alternativa ai partner regionali, o se la recente volontà di accrescere la propria proiezione politica, militare ed economica non farà che esacerbare il clima di tensione nell’area. 

La visione razionale dell’ASEAN

Si innalzano le tensioni nel Pacifico: il Sud-Est asiatico offre il suo modello come soluzioni di salvaguardia della pace

Editoriale a cura di Valerio Bordonaro

Nell’ultimo mese, l’ASEAN si è tornata ancora una volta ad essere un crocevia per la diplomazia mondiale. Luglio è iniziato con l’ormai abituale High Level Dialogue tra ASEAN e Italia, a Kuala Lumpur. L’occasione ha messo in rilievo la competenza italiana nell’ambito della transizione energetica e sono stati delineati i cinque punti su cui la partnership bilaterale Italia-ASEAN concentrerà gli sforzi. Si sta valutando una partnership tra i governi ASEAN e le imprese private italiane, per rendere gli investimenti più attraenti. In questi giorni si è invece svolto il summit dei Ministri degli Esteri dell’ASEAN nella capitale cambogiana Phnom Penh. E, ancora una volta dopo il recente viaggio del Presidente indonesiano Joko Widodo tra Kiev e Mosca, il Sud-Est asiatico si erge a possibile mediatore di conflitti seguendo la sua linea di neutralità e pacifismo. Il forum di Phnom Penh si è svolto infatti nel mezzo delle tensioni tra Stati Uniti e Cina per il viaggio di Nancy Pelosi a Taiwan. Il mondo pare essersi retoricamente diviso in due, con Washington e G7 a condannare la dura reazione di Pechino che comprende esercitazioni militari intorno all’isola, e la Russia che invece sostiene la Cina insieme alla Corea del Nord. L’ASEAN, invece, adotta una sua terza via sperando di poter indicare un metodo diverso per le relazioni internazionali. In una rara presa di posizione ufficiale in merito alle questioni inerenti Taipei, l’ASEAN ha diramato una nota sollecitando sia Usa sia Cina a placare le tensioni e ad astenersi da provocazioni. L’ASEAN ha affermato che “la comunità globale ha urgente bisogno della saggezza e responsabilità di tutti i leader per tutelare il multilateralismo e i partenariati, la cooperazione, la coesistenza pacifica e una leale competizione per salvaguardare i comuni obiettivi della pace, della stabilità, della sicurezza e dello sviluppo inclusivo e sostenibile”. Un invito rivolto a entrambe le superpotenze. L’ASEAN ha anche espresso l’impegno a giocare un ruolo costruttivo nella “facilitazione del dialogo pacifico tra tutte le parti, anche tramite il ricorso a un meccanismo a guida ASEAN per placare le tensioni, salvaguardare la pace, la sicurezza e lo sviluppo nella nostra regione”. Dalle crisi attuali, l’ASEAN sta uscendo con un’immagine più forte, fatta di razionalità e diplomazia.

L’evoluzione delle relazioni tra Australia, Nuova Zelanda e ASEAN

Dopo le elezioni australiane dello scorso maggio, sia Canberra sia Wellington sono guidate da governi laburisti. I due Paesi sono accomunati da un profondo legame con gli Stati Uniti, ma hanno approcci differenti alla crescente assertività cinese. La cooperazione con ASEAN potrebbe giocare una parte importante nella stabilità della regione.

Nelle elezioni australiane dello scorso maggio il laburista Anthony Albanese ha sconfitto il primo ministro liberale uscente Scott Morrison. Dopo il cambio di amministrazione a Canberra, sia Australia sia Nuova Zelanda sono guidate da governi laburisti. Entrambi i governi giocano una partita complessa nello scacchiere Indo-pacifico. Da un lato, i due Paesi rappresentano l’estremità australe dell’“anglosfera” (nonché della relativa alleanza di intelligence Five Eyes) e sono partner chiave degli Stati Uniti – insomma un pezzo di “Occidente” ad Estremo Oriente. Dall’altro, i loro rapporti con i Paesi asiatici vicini sono scanditi da alterne fasi di diffidenza e fiducia, cooperazione e tensione. Quale sarà dunque la strategia indo-pacifica di Australia e Nuova Zelanda nei prossimi anni?

Già durante la campagna elettorale il Partito laburista australiano aveva espresso con vigore il suo supporto al  Quadrilateral Security Dialogue (Quad, comprendente Australia, India, Giappone e Stati Uniti) e all’AUKUS (che lega Canberra a USA e Regno Unito), accordi nei quali i precedenti governi liberal-nazionali si erano impegnati rispettivamente nel 2017 e nel 2021. Appena tre giorni dopo la vittoria elettorale, il nuovo primo ministro Albanese era già a Tokyo per il summit dei leader Quad, in occasione del quale ha confermato che il suo governo avrebbe continuato a sostenere il Dialogue. Allo stesso tempo, il governo Albanese intende porsi in discontinuità riguardo a certi aspetti della politica estera dei precedenti esecutivi di centro-destra, inaugurando una nuova fase di engagement con le nazioni del Pacifico e di impegno nella cooperazione climatica internazionale. I governi Morrison si erano sempre opposti alle politiche di lotta al cambiamento climatico – anche quando buona parte del Paese era avvolta nelle fiamme tra 2019 e 2020 – e l’innalzamento del livello dei mari è una minaccia esistenziale per molti Paesi della regione: non sorprende dunque che l’Australia negli ultimi anni godesse di poco credito presso gli Stati insulari della regione più vulnerabili al riscaldamento globale. La nuova ministra degli esteri Penny Wong ha promesso inoltre di aumentare il supporto finanziario per i Paesi del Sud-est asiatico, anche per togliere spazio alla crescente influenza cinese nella regione – Wong è arrivata a definire il recente patto di sicurezza tra Cina e Isole Salomone il “peggior fallimento della politica estera australiana nel Pacifico dalla fine della Seconda Guerra Mondiale”. 

In effetti, l’espandersi dell’influenza militare dei grandi Paesi asiatici è da sempre vista come una minaccia da Canberra: a inizio secolo era il Giappone, nella seconda metà del Novecento la Cina e in misura minore l’Indonesia. Il miglioramento dei rapporti tra Pechino e Washington negli anni Settanta aveva rasserenato anche gli australiani che avevano iniziato a vedere nell’Asia un’opportunità anziché una minaccia. Negli anni Novanta, un altro primo ministro laburista, Paul Keating, aveva efficacemente riassunto il cambio di paradigma poco prima di concludere un accordo di sicurezza con Giacarta: l’Australia doveva perseguire la propria sicurezza “in Asia, non dall’Asia”. I rapporti tra Australia e Cina sono rimasti eccellenti per decenni e ancora erano tali quando Xi Jinping si recò nel Paese nel 2014 per una visita ufficiale culminata in uno storico discorso al Parlamento australiano. Ciononostante, il deterioramento dei rapporti tra Cina e USA negli ultimi anni è stato accompagnato da un irrigidimento della politica estera rispetto a Pechino anche di Canberra. Passano i decenni, ma gli australiani continuano a seguire gli alleati americani.

La Nuova Zelanda sembra invece aver assunto una posizione più sfumata di recente rispetto alla strategia americana per l’Indo-pacifico. A inizio luglio, la prima ministra Jacinda Ardern ha invitato ad essere più cauti rispetto alla presenza cinese nella regione. Per Ardern è infatti sbagliato considerare le recenti azioni di Pechino come una “novità” rispetto alla quale i governi dovrebbero prendere schierarsi a favore o contro: “il mondo è dannatamente incasinato (bloody messy). Eppure, in mezzo a tutta la complessità, noi continuiamo spesso a vedere le questioni in bianco o nero”. La cautela di Ardern si contrappone alla posizione tranchant assunta da Joe Biden, secondo il quale è in corso una battaglia tra democrazia e autocrazia nel mondo che impone ad ogni governo di scegliere da che parte stare. Wellington auspica una de-escalation delle tensioni nella regione e una maggiore cooperazione tra tutti gli attori, anche qualora Pechino si facesse ancora più assertiva. I neozelandesi comunque non rimangono indifferenti di fronte alle manovre cinesi: anche loro, come l’Australia e gli USA, hanno espresso un certo allarme rispetto all’accordo di difesa Cina-Isole Salomone.Australia e Nuova Zelanda si trovano in una posizione non dissimile dai Paesi ASEAN, coinvolti quasi loro malgrado nella competizione strategica tra Stati Uniti e Cina. Wellington sembra intenzionata a seguire una strategia simile a quella impiegata da altri governi della regione: dialogare con la Pechino senza rinunciare alla cooperazione strategica con Washington. Canberra invece sembra più rigida nelle sue preoccupazioni per la sicurezza e più in linea con la visione di Biden. Entrambi i governi però potrebbero trarre giovamento da una maggiore cooperazione proprio con i Paesi ASEAN: l’organizzazione regionale infatti costituisce un fattore di stabilità nella regione e un partner centrale, come riconosciuto anche in sede Quad, che potrebbe bilanciare l’assertività cinese. Il nuovo governo laburista australiano dovrebbe però accettare di cooperare con l’ASEAN su altri temi e non esclusivamente sulla sicurezza: un rafforzamento dei legami economici e politici è propedeutico e necessario rispetto ad altre forme di cooperazione più sensibili.  La cooperazione climatica  internazionale potrebbe costituire un primo banco di prova e, come abbiamo visto, i due governi laburisti a Canberra e Wellington hanno espresso la loro intenzione di costruire nuove partnership con gli altri governi dell’Indo-pacifico.

La transizione energetica si fa in Asia

Gli effetti della guerra in Ucraina non stanno rallentando, ma semmai accelerando, un processo di dimensioni storiche

478,7 miliardi di dollari di obbligazioni sostenibili in circolazione alla fine del primo trimestre del 2022 tra ASEAN e Asia orientale, con un’espansione del 51,3% su base annua. Emissioni record di debito verde, sociale e sostenibile (i cosiddetti GSS bond) nel 2021 per un totale di 24 miliardi di dollari nelle sei maggiori economie dell’ASEAN, con un aumento del 76% rispetto ai 13,6 miliardi di dollari del 2020. Sono alcuni dei numeri della corsa “green” del Sud-Est asiatico, che si riflette in economia, politica e finanza. L’ASEAN e l’Asia orientale rappresentano il 18,1% delle obbligazioni sostenibili in circolazione a livello globale, dietro solamente l’Europa. Due regioni che credono molto nella transizione energetica. Un processo che in ASEAN non è stato rallentato, ma semmai velocizzato dalla guerra in Ucraina e dai suoi effetti collaterali. La necessità di aumentare il peso di fonti energetiche alternative non è mai stata così evidente. Singapore ha annunciato che le agenzie governative emetteranno fino a 35 miliardi di dollari di green bond entro il 2030. Lo scopo è quello di finanziare progetti infrastrutturali ecologici e a disincentivare l’utilizzo di mezzi di trasporto privati. La Thailandia ha iniziato a emettere con rapidità obbligazioni sostenibili nel 2020, principalmente per aiutare la ripresa dalla pandemia. Da allora, l’emissione totale di obbligazioni sostenibili da parte del governo e delle imprese statali ha raggiunto i 3,5 miliardi di dollari. Nella stessa direzione si stanno muovendo anche Filippine, Malesia e Indonesia. Ma la tensione verso la transizione energetica si vede anche nelle scelte dei governi e degli investitori. Il Vietnam ha appena approvato un programma che prevede restrizioni sulla produzione e sull’importazione di veicoli a carburanti fossili, con l’obiettivo di ottenere un’industria a zero emissioni entro il 2050. Per allora, tutti i veicoli su strada dovranno utilizzare energia verde o essere elettrici. Anche la rete ferroviaria dovrà essere interamente convertita. Atlas Capital, una società di venture capital nel settore delle tecnologie climatiche, e tante altre società regionali o internazionali stanno raccogliendo fondi per investire in progetti legati all’ambiente o alla transizione energetica nel Sud-Est asiatico. Una tendenza che sembra destinata ad accelerare sempre di più.

Gli effetti dell’inflazione sull’ASEAN


I Paesi del Sud-Est asiatico studiano il modo per reggere alla pressione causata dall’aumento dei prezzi. Ecco in che modo

Articolo a cura di Chiara Suprani

Le iniziative di policy per la ripresa post-pandemica dei Paesi si sono dovute confrontare con l’aggravamento della crisi alimentare attuale, esacerbata dalla guerra. Secondo l’Istituto Internazionale di Ricerca sulle Politiche Alimentari (IFPRI), fino ad oggi il 17,22% del mercato internazionale dei prodotti alimentari è stato soggetto ad innalzamento delle barriere tariffarie, e non,  o ad embarghi. L’inflazione, colpendo in particolare i Paesi delle economie più avanzate, ha ridotto l’afflusso di investimenti diretti esteri (IDE) da queste economie verso quelle dell’ASEAN. Secondo la Federal Reserve degli Stati Uniti, il tasso medio di inflazione nei Paesi dell’ASEAN è aumentato dallo 0,9% di gennaio 2021, al 3,1% di dicembre 2021, per poi raggiungere il 4,7% ad aprile 2022. I tassi di inflazione fino ad Aprile di Indonesia, Singapore, Laos e Thailandia sono stati tra i più acuti: Indonesia 149%, Singapore 161%, Laos 206% e Thailandia 267%. Il tasso di inflazione è diminuito in Malesia, mentre è rimasto sostanzialmente invariato nelle Filippine e nel Vietnam.  Tuttavia, in molti Paesi, la fiducia dei consumatori oggi è inferiore a quella del periodo pre-pandemico, e per gli economisti non si è arrivati ancora al picco massimo di pressione inflazionistica, che è previsto nei prossimi mesi. Sebbene le conseguenze della crisi degli approvvigionamenti, della ripresa post pandemica e della guerra in Ucraina non abbiano colpito in maniera uniforme i Paesi membri dell’ASEAN, tuttavia la reazione condivisa dalle banche centrali da alcuni di questi è stata quella di non aumentare immediatamente i tassi di interesse. Nelle Filippine, la banca centrale Bangko Sentral ng Pilipinas (BSP) si prepara ad alzare di mezzo punto i tassi di interesse, portando il tasso chiave dall’attuale 2,5% a 3%. In Indonesia, a marzo, il governo aveva dichiarato di voler mantenere l’inflazione tra il 3 e il 5 per cento per i prodotti alimentari, come l’olio di palma. Eppure, a giugno, l’inflazione è aumentata del 4,35% su base annua. Tra i Paesi dell’ASEAN, come nel caso del Vietnam il divieto di esportazioni di prodotti alimentari si applicherebbe solamente se la situazione interna fosse davvero critica. Per altri, lasciare l’economia aperta e priva di barriere o vincoli è ancora più vitale, come per Singapore. Ma alcuni Paesi hanno fatto della logica dietro all’espressione “nazionalismo alimentare”, cioè l’interruzione dell’esportazione di certi prodotti particolarmente chiave per l’economia del Paese, una vera e propria iniziativa di policy, con conseguenze a catena sulle economie dei loro partner ASEAN. Per stabilizzare il prezzo delle carni di pollo, il governo della Malesia ha imposto un embargo all’esportazione di carne di pollame a partire da giugno, e una task force chiamata dal Primo Ministro Ismail Sabri Yaakob “Jihad against inflation”, per combattere l’inflazione. In Indonesia l’embargo di olio di palma durato tre settimane, è stato quello con l’effetto monetario più impattante dall’invasione russa dell’Ucraina, con 19 miliardi di dollari americani di prodotto soggetti a restrizioni. Giacarta, a causa dell’embargo di carne di pollo della Malesia, ha iniziato ad inviare tonnellate del prodotto a Singapore. La città-stato, il cui piatto nazionale è di fatto il riso al pollo (chicken rice), si è trovata nella condizione di dover differenziare il proprio approvvigionamento. Nell’attuale situazione inflazionistica e di nazionalismo alimentare, secondo Roehlano M. Briones, ricercatore presso l’Istituto per gli Studi sullo Sviluppo delle Filippine (PIDS), occorre “integrare la cooperazione regionale, (che) è qualcosa che è abbastanza cruciale per guidare e stimolare la crescita continua e l’emergere di una regione ricca di scambi regionali di mais e carne all’interno dell’ASEAN.” 

Cina-ASEAN e crescita globale

Nel 2022 e 2023 si prevede che i Paesi del Sud-Est cresceranno di più della Cina e sopra la media dell’Asia-Pacifico

Editoriale a cura di Lorenzo Riccardi

Managing Partner RsA Asia

Il Ministero dei Trasporti cinese ha annunciato la decisione di istituire un ufficio speciale per supervisionare il funzionamento del nuovo corridoio via terra e mare per la logistica e il commercio, che collega la Cina occidentale con diversi Paesi dell’ASEAN. Il corridoio, con centro operativo a Chongqing, collega 14 province cinese con 310 porti in 107 Paesi e regioni del mondo, ed in particolare promuove il commercio tra la Cina e i Paesi dell’ASEAN nell’ambito dell’accordo di Partenariato Economico Globale Regionale (RCEP). Nel 2022, il Ministero dei trasporti si è posto l’obiettivo di ampliare la capacità di trasporto del corridoio con nuove infrastrutture quali ferrovie, autostrade, porti ed aeroporti, oltre a promuovere lo sviluppo di un hub internazionale Chengdu-Chongqing.  L’ASEAN è una comunità eterogenea di nazioni unite da obiettivi comuni: tra i Paesi membri vi sono infatti città-stato con un elevato PIL pro-capite (Singapore e Brunei), nazioni popolose con un’economia dinamica e in espansione (Indonesia, Malesia, Filippine, Thailandia e Vietnam), e Paesi meno avanzati con un reddito medio-basso (Cambogia, Laos, e Myanmar). Nonostante le differenze sociali ed economiche, l’ASEAN è una delle principali aree di libero scambio con una quota di oltre il 7,5 per cento del commercio mondiale. I Paesi del Sud-Est asiatico, che con 3.300 miliardi di dollari di PIL aggregato rappresentano circa il 3,5 per cento del PIL mondiale, sono stati fortemente impattati dalla pandemia: nel 2020, il PIL regionale si è contratto del 3,2 per cento (con l’eccezione del Vietnam, cresciuto nell’anno di oltre il 2,9 per cento), per poi rimbalzare nel 2021 di oltre 3 per cento, nonostante il -18 per cento registrato in Myanmar in seguito alle tensioni politiche. Le stime più recenti, diffuse in occasione del meeting dei Ministri dell’Economia dell’associazione, prevedono una crescita del 4,9 per cento per il 2022 e del 5,2 per cento per il 2023, superiori ai tassi di crescita che il Fondo Monetario Internazionale prevede per la Cina (4,4 per cento e 5,1 per cento), e per l’intera regione Asia Pacific (4,7 per cento e 4,9 per cento). È utile evidenziare che il Sud-Est Asiatico è il principale partner commerciale della Cina (878 miliardi di dollari di interscambio nel 2021, e 371 miliardi nei primi cinque mesi del 2022, in rialzo del 10,2 per cento rispetto allo stesso periodo 2021), nonché terzo mercato di destinazione dei beni cinesi e principale origine delle importazioni cinesi. Cina e ASEAN sono sempre più partner strategici nel ruolo crescente che ha oggi l’Asia sul commercio e gli investimenti  dell’economia globale.