Asean

ASEAN e India, ridefinendo le future strategie energetiche dell’Asia meridionale

Articolo di Aishwarya Nautiyal

L’India e l’ASEAN hanno mostrato la volontà di sviluppare un altro ecosistema rafforzando l’infrastruttura per le risorse rinnovabili condividendo l’esperienza e la conoscenza al massimo delle sue potenzialità tra i paesi membri.

La transizione verso una nuova sinergia con la crescente domanda ed il progresso tecnologico stanno portando ad una nuova necessità di fonti di energia alternative e pulite. L’ASEAN con l’alto livello di potenziale dalla spinta tecnologica all’intraprendenza è stata vista dall’India come uno dei principali partner sia che si tratti di scambi commerciali che di un nuovo potenziale di innovazione per il futuro fabbisogno energetico. Così il mondo sta affrontando scenari fluttuanti a causa dei quali la crescente domanda di energie efficienti e la dipendenza orientata al rischio hanno portato ad una nuova esigenza nell’esplorazione di strade future per settori verdi ed efficienti delle risorse energetiche. Una conferenza di alto livello tra i delegati dell’India e dell’ASEAN nel mese di febbraio 2022 ha mostrato la volontà di sviluppare un altro ecosistema per rafforzare l’infrastruttura per le risorse rinnovabili condividendo l’esperienza e la conoscenza al massimo delle sue potenzialità tra i paesi membri.


È stata data la priorità a nuovi centri energetici e alla creazione di capacità con assistenza tecnica per promuovere iniziative congiunte nella regione dell’Asia meridionale. L’iniziativa dell’India di accogliere l’esperienza dell’ASEAN verso l’integrazione del mercato verde è uno degli aspetti chiave. La rete elettrica dell’ASEAN è una delle aree chiave d’ interesse e il suo funzionamento efficiente ha portato a una fase di integrazione e adattamento attraverso vari progetti di sviluppo infrastrutturale, compresa la cooperazione strategica per affinare le conoscenze ed espandere le opportunità nella regione del subcontinente indiano. L’India è disposta a cooperare con l’Indonesia per facilitare una nuova dimensione di transizione nel settore delle energie rinnovabili. Gli scambi accademici insieme a nuove idee per l’incoraggiamento reciproco con un coordinamento efficace tra ricercatori e studenti è stata anche una prospettiva importante tra i responsabili politici dell’India e dei paesi membri dell’ASEAN.


L’integrazione del Grid tra i paesi dell’ASEAN e il suo piano di progettazione di nuove capacità è stata un’area chiave con i segnali di benvenuto. Il Ministero delle Miniere e dell’Energia della Cambogia ha evidenziato l’importanza di un’ambizione unificata mirata alle azioni pianificate per basse emissioni di carbonio in base alle quali l’idrogeno verde è visto dall’India come una nuova chiave per la decarbonizzazione guidata attraverso una formazione intensiva e competenze reciproche, coordinandosi con i partner del gruppo ASEAN. Alcuni recenti sviluppi nei paesi dell’ASEAN hanno mostrato un enorme potenziale nell’organizzazione e nell’attuazione di nuove strategie per la transizione verso le energie rinnovabili. L’Indonesia non vede l’ora di risolvere la capacità di stoccaggio, mentre l’ RPD del Laos ha mostrato progressi con un aumento dell’89% in nuovi progetti ecologici, tra cui la generazione di energia idroelettrica, l’energia solare, la produzione di energia rinnovabile leader nella biomassa per un totale di oltre 9100 MW.


La Thailandia, d’altra parte, ha lanciato un impianto solare da 2700 MW creando la sua multiutility comprensiva di pompaggio dell’acqua. L’India ha recentemente fatto progressi nella futura quota di energia insieme a nuove innovazioni tecnologiche garantendo la sua efficacia in termini di costi e infrastrutture competitive insieme a partner dell’ASEAN come Brunei, Filippine e Myanmar. Guardare avanti verso le sfide future con opportunità crescenti che utilizzano le competenze tecnologiche della smart intelligence attraverso una delle più grandi reti dell’industria IT dell’India incentrata sull’integrazione robotica per l’ingegneria può portare ad una produzione sostenibile per bilanciare la domanda per il futuro fabbisogno energetico in una regione così vasta e popolata. Il coordinamento reciproco con le nazioni ASEAN vicine può fornire una piattaforma per rafforzare la cooperazione bilaterale e condividere lo sviluppo umano bilaterale.


Una risposta richiesta per una nuova sicurezza energetica è stata mantenuta come uno dei settori ad alta priorità dai responsabili politici indiani insieme all’ASEAN promuovendo alternative ai biocarburanti come olio di palma, canna da zucchero e cocco è emersa come una componente importante dell’alternativa per guidare la futura produzione di energia. L’India produce grandi quantità di canna da zucchero nella sua terraferma nella parte settentrionale del suo territorio, mentre la produzione di cocco nell’India meridionale, insieme all’essere il più grande importatore di olio di palma dalla Malesia e dall’Indonesia, mostra una strada di risorse reciproche guidata dalla cooperazione tecnica e dalla condivisione delle conoscenze. Secondo la Planning Commission indiana, una delle principali preoccupazioni riguarda la sua vasta popolazione di 1,36 miliardi di persone la cui domanda è in aumento a causa dell’aumento del tenore di vita e della forza lavoro che ha bisogno di un nuovo tipo di politiche di sicurezza che garantiscano il futuro fabbisogno energetico.


Secondo il Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente, la sola India ha speso quasi 10,2 miliardi di dollari nel 2015 mitigando gli effetti dei cambiamenti climatici e concentrandosi su nuove strategie per la transizione solare ed eolica che sono diventate un campo dominante nel nuovo ecosistema indiano di sostenibilità energetica. Nuove sfide crescenti nelle città alle prese con un massiccio livello di inquinamento e l’urgenza di trovare nuove strade attraverso la ricerca e la fiducia reciproca negli investimenti in progetti infrastrutturali, visione collaborativa guidata dall’impegno dell’ASEAN India per avere successo oltre la strategia del singolo stato in una politica regionale unificata integrata attraverso l’armonizzazione mediante impegni in vari passaggi e aspetti con una visione di superamento di un compito arduo di differenza a livello nazionale di obiettivi e impegni che possono variare quantitativamente a causa della variazione degli obiettivi e del suo lasso di tempo per superare il meccanismo delle fonti energetiche convenzionali.

Il Crypto Gaming nel Sud-Est asiatico

Negli ultimi mesi, la popolarità dei giochi play-to-earn basati sulla tecnologia blockchain ha continuato a crescere. Il videogioco online Axie Infinity, sviluppato dalla società vietnamita Sky Mavis, è diventato il simbolo di questa tendenza. Tuttavia, la corsa alla realizzazione di un universo digitalesostenuto datransazioni decentralizzatepotrebbe aver subito una prima battuta d’arresto. 

“Axie è una nazione digitale dove le persone in tutto il mondo si riuniscono con i loro Axie per giocare, guadagnare e vivere. Benvenuti nella nostra rivoluzione.” Così Sky Mavis presenta la propria mission. L’esperimento lanciato dalla startup vietnamita ha reso effettivamente reale – per i giocatori più dediti – la possibilità di guadagnare migliaia di dollari al mese allevando, collezionando e scambiando i propri avatars unici, digitalizzati come NFT, dando vita così a un’economia di proprietà degli utenti. Moneta degli scambi, nonché principale fonte di reddito sulla piattaforma Axie, sono i token ERC-20 chiamati Smooth Love Potion (SLP). Fino a qualche mese fa, questa criptovaluta poteva essere accumulata illimitatamente completando missioni o vincendo battaglie e riscattata per nuove funzionalità di gioco, o alternativamente convertita in moneta reale. 

Secondo Aleksander Larsen, co-fondatore e COO di Axie Infinity, il segreto del successo di Axie risiederebbe proprio nel sostanzioso incentivo monetario offerto agli utenti in cambio del tempo speso quotidianamente sul videogioco. Tuttavia, lo scorso 4 febbraio gli sviluppatori del gioco hanno deciso di intervenire drasticamente per bilanciare il sistema, azzerando le ricompense per la “Modalità Avventura” e la “Ricerca Quotidiana”, ponendo di fatto un tetto alla quantità di SLP emessi ogni giorno, al fine di limitare l’inflazione. Se, nel momento di massimo splendore, un giocatore poteva guadagnare fino a 150 SLP al giorno, per un valore di 54 dollari statunitensi, a dicembre dello scorso anno il bottino massimo è stato dimezzato a 75 SLP, dal valore non superiore a due dollari. Simultaneamente, il prezzo base degli Axie è sceso da circa 300 dollari ad agosto a soli 25 dollari a febbraio.

Il crollo del prezzo dell’SLP si spiegherebbe con la tendenza dei giocatori a convertire i token in valuta reale invece che reinvestirli all’interno del videogioco, causando un eccesso di offerta: le modalità con cui gli SLP venivano “bruciati” attraverso l’allevamento di nuovi Axie non riuscivano a stare al passo con la velocità con cui grandi quantità di token venivano emesse sul mercato.

Jeffrey Zirlin, altro co-fondatore del gioco, non si è detto stupito di fronte a questi squilibri e ha paragonato la volatilità in termini di flusso di capitale a quella che tipicamente caratterizza le nazioni con un mercato emergente. Al contrario, ha sottolineato la forza innovatrice di Axie Infinity, pioniera nella tendenza a trasformare le piattaforme di gioco digitali in economie di proprietà dei giocatori reali e, di conseguenza, prima a dover fronteggiare eventuali risvolti negativi.

In effetti, è bastato l’annuncio della versione aggiornata con i relativi aggiustamenti in termini di fornitura di SLP – a invertire un trend ribassista che durava ormai da tempo. Nel giro di sole 24 dal lancio della “Stagione 20”, il valore della criptovaluta del gioco è cresciuto del 40%. Inoltre, le significative modifiche apportate lascerebbero intravedere una serie di altri vantaggi, tra maggiori possibilità che l’economia del gioco possa svilupparsi in maniera sana e sostenibile nel tempo. “Riteniamo che il modo più veloce per ridurre questa volatilità sia per tutti noi fare i conti con le nostre responsabilità collettive all’interno di Axie e lavorare rapidamente per creare consenso e consentire gli sforzi reciproci della comunità”, si legge nella presentazione ufficiale dell’aggiornamento. “La prosperità in una comunità arriva quando collettivamente crea più valore di quello che consuma”.

Tuttavia, l’incertezza nel mondo delle criptovalute non dipende solo dalle oscillazioni del mercato. Alla fine di marzo, Ronin, la rete blockchain che supporta il videogioco, è stata presa di mira in un attacco hacker durante il quale al celebre videogioco è stato sottratto l’equivalente di oltre 600 milioni di dollari (reali) in Ethereum. Larsen ha riaffermato la solidità finanziaria di Sky Mavis, che nel frattempo si è messa all’opera per risarcire completamente i giocatori delle perdite subite. Tuttavia, ha riferito a Bloomberg che il recupero parziale dei fondi rubati potrebbe richiedere fino a due anni. Resta da vedere se la popolarità del gioco sopravviverà alle questo furto da record e se la società di Ho Chi Minh sarà capace di rispondere con prontezza ed efficacia a questi attacchi inediti e imprevisti ai propri sistemi di sicurezza, confermandosi capofila nel settore del Crypto Gaming.

Il post Ucraina delle economie asiatiche

Articolo di Lorenzo Riccardi

La guerra avrà un effetto diretto sulle economie asiatiche che hanno più scambi con i paesi in conflitto ma sarà esteso in modo indiretto all’intera regione del Far East in relazione all’impatto sulle relazioni economiche Europa-Asia

Oltre alle sofferenze della crisi umanitaria causata dal conflitto in Ucraina, l’intera economia globale dovrà affrontare gli effetti di un impatto diretto in ogni regione e di una crescente inflazione.

Russia ed Ucraina sono tra i principali produttori di materie prime, gas naturale e petrolio, oltre a rappresentare il 30 per cento delle esportazioni mondiali di grano.

La Russia è il terzo maggior produttore di petrolio, il secondo esportatore di gas naturale e tra i primi produttori di acciaio e alluminio.

L’Ucraina è uno dei primi produttori di mais, grano, barbabietola da zucchero, orzo e soia; il loro ruolo strategico è interconnesso con molti paesi e regioni del mondo.

Nelle ultime settimane sono stati pubblicati molti rapporti dalle principali istituzioni finanziarie sulle stime per il commercio, gli investimenti e la crescita economica, dal Fondo Monetario Internazionale, alla Banca Mondiale tutte le stime prevedono un rallentamento causato dal conflitto.

La guerra avrà un effetto diretto sulle economie asiatiche che hanno più scambi con i paesi in conflitto ma sarà esteso in modo indiretto all’intera regione del Far East in relazione all’impatto sulle relazioni economiche Europa-Asia.

La Cina, in base ai dati ufficiali delle dogane, ha registrato un volume di scambi con la Russia per 147 miliardi di dollari nel 2021 con un incremento del 36 per cento su base annua, mentre gli scambi con l’Ucraina sono stati pari a 19 miliardi di dollari nel 2021, con un incremento pari al 30 per cento sul trade aggregato. Questi dati rappresentano percentuali minori rispetto agli scambi con i principali partner commerciali di Pechino che sono la regione del Sud Est Asiatico, con le dieci economie dell’ASEAN, l’Unione Europea e gli Stati Uniti.

Gli effetti immediati sull’economia potrebbero essere minori grazie allo stimolo fiscale voluto dal Pechino per promuovere gli obiettivi di crescita 2022 e in relazione al fatto che il commercio con la Russia ammonta a meno dell’1% del prodotto interno lordo. Tuttavia, i prezzi delle materie prime e l’indebolimento della domanda nei grandi mercati di esportazione rappresentano una sfida.

Di fronte all’intensificarsi delle sanzioni da parte dei paesi occidentali, la leadership russa cercherà sempre più di rivolgersi a Pechino per promuovere nuovi flussi commerciali e nuovi strumenti finanziari con il sistema dei pagamenti internazionali CIPS alternativo al SWIFT e lo yuan cinese come moneta sostituita al dollaro americano.

La posizione della Cina non è né di condanna né di supporto verso la Russia, si è però espressa a gran voce contro le sanzioni, ritenendole inefficaci per la risoluzione del problema.  Questa posizione è diffusa in quasi la totalità dell’Asia Pacifico con l’unica eccezione per Giappone, Sud Corea, Singapore e Taiwan in Asia e Australia, Micronesia, e Nuova Zelanda nel Pacifico; che sono stati inseriti da Mosca in una lista di paesi e territori ostili per aver aderito alle sanzioni.

Per il blocco dei paesi ASEAN il commercio con la Cina vale il 20 per cento del trade internazionale in base ai dati 2021 comparato con 11 per cento verso Stati Uniti e 8 per cento con Unione Europea per tanto alcuni analisti valutano un possibile aumento dell’interazione economica intra-regionale nel Far East. Il volume degli scambi coi paesi in guerra sarà fortemente impattato ma tra le economie asiatiche solo Vietnam e Giappone hanno un surplus nella bilancia commerciale con Russia e Ucraina ed in generale il peso del volume di trade con questi paesi occupa quote minori del prodotto interno lordo locale. 

I paesi asiatici hanno vari livelli e tipi di esposizione all’economia russa e a quella ucraina, con maggiori criticità date dall’incremento nei prezzi dei settori energetico e alimentare oltre agli shock sulla catena di approvvigionamento manifatturiero che avranno un impatto diverso sui paesi della regione.

La Russia è un importante esportatore di energia, ma l’esposizione diretta dei paesi membri dell’ASEAN a questo riguardo è piuttosto limitata. ING Bank ha emesso un rapporto che stima l’impatto della guerra sulle economie asiatiche con indicatori legati al commercio, alle esportazioni, agli approvvigionamenti di gas e petrolio e all’incremento dei prezzi in ambito alimentare e con una classifica dei paesi asiatici più colpiti che risultano essere in ordine di rilevanza: Vietnam, Tailandia, Giappone e Sud Corea.

Secondo l’Asian Development Bank, l’impatto principale del conflitto sulle economie del Sud-est asiatico non sarà sulla crescita, ma bensì influenzerà il tasso di inflazione. Secondo la Banca Mondiale, i paesi della regione che vedranno la crescita maggiore nel 2022 sono le Filippine (5,7 per cento) la Malesia (5,5 per cento), il Vietnam (5,3 per cento), e l’Indonesia (5,1 per cento).

Il Fondo Monetario Internazionale ha previsto nel suo outlook di aprile un rallentamento dell’economia globale dovuto in primis al conflitto. Il rapporto del FMI prevede per la crescita mondiale una variazione dal +6.1 per cento nel 2021 al + 3.6 per cento nel 2022 con effetti anche sulla regione dell’Asia emergente che passerà da un incremento del 7.3 per cento del 2021 ad una performance 5.4 per cento nel 2022.

L’autore

Lorenzo Riccardi insegna presso Shanghai Jiaotong University ed è managing partner di RsA Asia (rsa-tax.com). Vive in Cina da 15 anni dove segue gli investimenti esteri nel Far East e ha ricoperto ruoli nella governance dei piu grandi gruppi industriali italiani. A gennaio 2020 ha completato un progetto di viaggio in ogni paese del mondo raccogliendo trend e dati economici da Shanghai, in ogni regione, lungo le nuove vie della seta (200-economies.com).

 

 

Timor Est, dopo le elezioni si punta all’ingresso nell’ASEAN

I cittadini della più recente democrazia asiatica hanno scelto Ramos-Horta come nuovo leader. Si tratta di un ritorno per il premio Nobel che vuole l’ingresso nell’Associazione delle Nazioni del Sud-Est asiatico

Timor Est ha scelto il proprio Presidente: si tratta di José Ramos-Horta, premio Nobel per la Pace nel 1996 e figura chiave della Resistenza all’occupazione indonesiana (1975-1999). Già presidente tra il 2007 e il 2012, Ramos-Horta ha sfidato al ballottaggio il presidente uscente Francisco “Lu Olo” Guterres. È la quinta elezione per una delle democrazie più giovani d’Asia, e la prima in era post-pandemica. Non sono quindi poche le sfide che la nuova amministrazione dovrà affrontare, tra crisi economica e nuove turbolenze politiche nella regione. 

Elezioni a Timor Est: una panoramica

Timor Est, noto anche come Timor Leste o Timor Lorosa-e, è la prima democrazia asiatica a nascere nel XXI secolo. Il dominio coloniale portoghese è durato circa 400 anni fino all’indipendenza, dichiarata unilateralmente nel 1975. Un’indipendenza durata poche settimane, fino al 7 dicembre dello stesso anno. La leadership politica emergente si era progressivamente formata intorno alle forze indipendentiste di stampo socialista: l’allora Presidente indonesiano Suharto poté quindi giustificare l’invasione e la repressione degli est-timoresi appoggiandosi su una politica estera nazionalista e anticomunista. Nel 1999 un referendum supervisionato dalle Nazioni Unite confermò la richiesta di autonomia da parte dei cittadini di Timor Est. Solo nel 2002 arrivò l’indipendenza ufficiale, dopo quasi tre anni di ripercussioni da parte delle forze di occupazione.

Il ventesimo anniversario dell’indipendenza – il 20 maggio 2022 – sarà il giorno dell’inizio della nuova presidenza. L’elezione di Ramos-Horta conferma la prevalenza di figure chiave della Resistenza nel panorama politico di Timor Est. Non è una caratteristica indifferente in un paese dove solo il 33% circa della popolazione ha più di 30 anni. La maggior parte del 1,3 milioni dei cittadini, infatti, ha solo un’esperienza limitata della violenza degli anni dell’occupazione. Molto più familiari a molti est-timoresi sono, invece, un’economia e un mercato del lavoro stagnanti. Le condizioni di vita sono lentamente migliorate nel corso dell’ultimo decennio, ma il 42% della popolazione vive ancora in stato di povertà. Il sistema economico è esposto agli shock esterni in quanto poggia su pochi settori vitali. Al di fuori degli aiuti internazionali, la maggior parte delle entrate dipende da gas e petrolio, che costituiscono il 90% delle esportazioni totali (e vedono il coinvolgimento anche di imprese italiane come Eni). Anche il caffè è un bene che porta ricchezza nel paese, ma non abbastanza per stabilizzare un mercato del lavoro legato in buona parte all’economia informale.

Il futuro di Timor Est e l’ASEAN

All’alba dell’elezione a nuovo presidente di Timor Est, José Ramos-Horta ha fatto riferimento all’obiettivo nell’ingresso di Timor Est nell’Associazione delle Nazioni del Sud-est asiatico (ASEAN) entro il 2023. Una promessa pronunciata per la prima volta oltre dieci anni fa durante il primo mandato, quando venne sottoposta ufficialmente la candidatura di Dili all’entrata nel gruppo. L’anno prossimo la presidenza di turno passerà all’Indonesia e, come afferma il neoeletto presidente, entrare nell’ASEAN in quest’occasione “sarebbe un gesto altamente simbolico”. L’ingresso di Timor Est nel blocco è stato posticipato a più riprese perché parte dei Paesi membri giudica la sua economia ancora “troppo sottosviluppata”. 

I Paesi ASEAN che più hanno intrecciato rapporti con Dili sono Cambogia e Filippine. Manila viene spesso associata a Timor Est in quanto “sorella maggiore” tra le (poche) realtà di fede cattolica in Asia. Le forze armate filippine sono inoltre coinvolte negli affari est-timoresi dai tempi della transizione a repubblica indipendente e contribuiscono all’addestramento dell’esercito, insieme a Portogallo, Brasile e – in piccola parte – Stati Uniti. Phnom Penh ha una parziale influenza sulla politica estera est-timorese: negli ultimi anni Dili ha cercato i favori della Cambogia in vista della presidenza ASEAN nel 2022, ma anche il legame comune con la Cina ha spesso favorito l’allineamento dei due Paesi in diverse questioni internazionali (da ultimo, Phnom Penh ha spinto per l’astensione di Dili al voto Onu per la condanna del colpo di stato in Myanmar).

Il rapporto con la Cina è una delle chiavi per comprendere l’importanza di Dili sullo scacchiere asiatico. Analogamente ad altre piccole economie della regione, gli investimenti in arrivo da Pechino rappresentano un’opportunità di crescita fondamentale. Opportunità che parte dello stesso blocco ASEAN favorirebbe per non addossarsi i costi dello sviluppo di Timor Est. Ma la situazione è molto più complessa, e l’allargamento della Repubblica Popolare nei piccoli Paesi dell’Asia pacifico rimane un segnale d’allerta per la stabilità dell’area. La Cina è stata il primo paese ad avviare i rapporti diplomatici con il paese nel 2002 e da allora ha contribuito in larga parte agli investimenti necessari per la ripresa economica. Molte infrastrutture a Timor Est sono opera di imprese cinesi (tra cui i palazzi governativi e alcune strutture militari). E le opportunità non sono terminate con la ricostruzione: l’intero sistema portuale deve essere potenziato per aprire il Paese ai commerci internazionali, mentre sono ancora numerosi i bacini di petrolio e gas a non essere ancora stati scoperti e sfruttati.Infine, un fattore sempre più determinante per il destino di Timor Est sarà il cambiamento climatico. Il paese è soggetto a fenomeni climatici estremi che si stanno intensificando con il passare degli anni. Il solo Governo non possiede le risorse per prevenire e riparare i danni che alluvioni, terremoti e frane causano a economia e società. Tre quarti della popolazione dipendono da un’agricoltura di sussistenza: questo significherà, quindi, una maggiore vulnerabilità ai limiti della sopravvivenza. E, quindi, un crescente rischio in termini di indipendenza economica e politica.

Cooperazione India-ASEAN: le implicazioni regionali

Sono numerose le opportunità di cooperazione tra Nuova Delhi e i Paesi del Sud-est asiatico, così come è alto il potenziale per approfondire tale relazione.

Articolo di Aishwarya Nautiyal

Con l’emergere dello sviluppo economico e di una maggiore influenza da parte dell’India, uno dei principali obiettivi dei responsabili politici è stata la cosiddetta “Look East Policy” (politica rivolta a est), in cui l’ASEAN ha assunto un ruolo fondamentale, favorendo la collaborazione allo scopo di promuovere gli interessi commerciali, economici e di sicurezza dell’India. Uno dei principali accordi è stato il “Free Trade Agreement”, ossia un accordo di libero scambio firmato da India e ASEAN a Bali, in Indonesia, nel 2009. Le mutevoli dinamiche internazionali e la crescente importanza della regione indopacifica rendono questa partnership un nodo centrale per la stabilità e la realizzazione di un coordinamento sostenibile nell’odierno mondo globalizzato. Un gruppo di dieci nazioni con variazioni nella crescita economica e molte risorse a disposizione ha gettato solide basi grazie a una liberalizzazione delle tariffe pari al 90%, rendendo questo FTA uno dei più grandi accordi di libero scambio nel mondo, e comprende inoltre alcuni prodotti pregiati come l’olio di palma, il tè e il caffè.

L’India prevede di esportare 46 miliardi di dollari nell’anno finanziario 2022, ed è tra le più grandi regioni commerciali verso il raggiungimento dell’obiettivo di 400 miliardi di dollari a livello globale. La cooperazione principale proviene dal settore ingegneristico, in cui l’ASEAN detiene il 15% della quota delle esportazioni indiane, pari a 35,3 miliardi di dollari nel 2021 e con un nuovo obiettivo fiscale di 105 miliardi di dollari per il 2022. Nello scenario globale, questa cooperazione sta diventando un’importante catena di approvvigionamento e del valore incentrata sulla partnership reciproca e sui mercati dell’export. L’ASEAN stessa è il terzo partner esportatore e il quinto partner commerciale dell’India al mondo. Mentre si guarda alla crescente interazione tra i due partner, tra i responsabili politici indiani hanno suonato un campanello d’allarme, dal momento in cui si è visto come la riduzione delle tariffe stia portando una maggiore partecipazione da parte dell’ASEAN nei mercati indiani rispetto a quanto l’India partecipi nei mercati competitivi delle economie ASEAN. Ciò è dovuto al fatto che alcuni dei Paesi più importanti come Singapore, Malesia e Indonesia sono economie esportatrici, ed hanno un vantaggio competitivo con un rapporto più alto tra PIL ed export di beni.

Il Kerala è uno dei maggiori esportatori, comprese le esportazioni nazionali di prodotti agricoli. La gomma, il caffè, il pesce sono la principale fonte di reddito, mentre la minore produttività dovuta all’aumento delle importazioni per poter raggiungere prezzi competitivi sta danneggiando l’industria agricola. L’importazione di pesce, gomma e olio di palma a minor prezzo dalla Malesia e dall’Indonesia può costituire uno dei maggiori ostacoli; ha già colpito la produzione locale  causando una riduzione della domanda. L’aumento della concorrenza dovuta alle importazioni dall’ASEAN ha posto alcune sfide al governo, che ha l’arduo compito di mantenere l’equilibrio tra agricoltura locale e liberalizzazione del commercio. Un’altra grande sfida è la variazione della stabilità economica e politica dell’ASEAN. Il Myanmar, in cui persiste l’instabilità politica, è il sorvegliato speciale nella visione che ha Nuova Delhi del Sud-est asiatico.

Un’altra sfida che questa cooperazione ha dovuto affrontare è il boicottaggio dell’esportazione di olio di palma malese in India da parte dei commercianti, che ha suscitato forti preoccupazioni tra gli Stati membri. L’India ha giudicato l’intervento della Malesia un’ingerenza nei propri affari interni quando il governo indiano ha revocato lo statuto speciale del Kashmir nel 2019. In quest’occasione, la dichiarazione del primo ministro malese Mahathir Mohamad, che si opponeva alla revoca, ha provocato una nuova spaccatura fra i due Paesi, in seguito a cui l’India ha deciso di imporre limiti sulle importazioni di olio di palma dalla Malesia. Queste dinamiche politiche e alcune tensioni mettono in evidenza un aspetto importante: è necessario un forte coordinamento da parte della diplomazia per attuare importanti misure di confidence building. Ciononostante, emergono sfide e interessi strategici, e i negoziati attraverso dialoghi multilaterali stanno facendo in modo che si trovino alternative per affrontare tali questioni. La crescente importanza dell’ASEAN e dell’Oceano Indiano fa emergere nuove possibilità in cui le controversie nel Pacifico possono essere considerate come un nuovo punto focale per migliorare la partnership strategica e modificare le dinamiche riguardanti la sicurezza.

Il dilemma di Malacca è uno degli aspetti centrali in cui le isole indiane di Andamane e Nicobare sono posizionate strategicamente nei pressi della principale rotta commerciale dello Stretto di Malacca, e la sua posizione geografica è condivisa con le principali economie come Tailandia, Malesia, Singapore e Indonesia; questo fa sì che l’India abbia confini marittimi con i vicini Paesi  dell’ASEAN. Negli ultimi anni si è rafforzata la cooperazione reciproca in vari ambiti del settore della difesa, fra cui le esercitazioni militari, lo sviluppo tecnologico, il commercio di armi e lo sviluppo reciproco delle infrastrutture. Lo stretto di Malacca è una delle importanti rotte commerciali che si trova sotto la supervisione degli Stati regionali e in cui vengono promosse  collaborazioni reciproche per garantire la libera navigazione e il commercio fra Paesi in conformità con le leggi internazionali, anche allo scopo di promuovere ed esplorare nuove opportunità economiche in scenari geopolitici mutevoli e complessi. D’altro canto, la cooperazione nel settore della difesa fra India e Vietnam, la vendita, per la prima volta, di missili supersonici Brahmos alle Filippine e l’utilizzo di jet da combattimento Tejas da parte dell’aeronautica militare della Malesia sono da ritenersi un elemento di confidence building che si inserisce in varie dinamiche di cooperazione strategica e sicurezza, condividendo le preoccupazioni reciproche sulle controversie regionali.

Rafforzare questo rapporto sfaccettato, dalla cooperazione politica e per la sicurezza alla partecipazione sociale, culturale e linguistica, è un obiettivo della nuova visione dell’India nell’ “Act East Forum” per i suoi Stati nord-orientali e il suo sviluppo delle infrastrutture, con l’aiuto di investimenti giapponesi che mirano ad una maggior collegamento con i vicini Paesi dell’ASEAN. Il porto di Sittwe nella provincia di Rakhine, in Myanmar, che è stato sviluppato con l’intento di sviluppare le infrastrutture e i trasporti, e garantire inoltre l’accesso alla Baia del Bengala al Mizoram, Stato nord-orientale dell’India privo di sbocco sul mare, e più all’interno. Un altro progetto trilaterale riguarda l’autostrada che collega Moreh (India) a Mae Sot (Thailandia) passando per Mandalay (Myanmar), ed è un esempio della collaborazione India-ASEAN per costruire nuove infrastrutture, con futuri piani di espansione verso Laos, Cambogia e Vietnam. Questi progetti hanno destato forte interesse nel governo del Bangladesh, alla ricerca di un’opportunità nello sviluppo delle infrastrutture fra India e ASEAN collegando Dhaka per estendere la propria rete infrastrutturale; il Bangladesh può inoltre fornire l’accesso a Paesi senza sbocco sul mare come il Nepal e il Bhutan ai membri dell’ASEAN attraverso l’India nord-orientale. Riconoscere questo potenziale di sviluppo reciproco può approfondire e rafforzare nuove prospettive per la regione, forgiando un forte legame storico-culturale tra i partner regionali e la loro ricca storia comune.

Primi passi nella gestione dei rifiuti plastici

Entro il 2024 l‘Onu e i Paesi asiatici vogliono realizzare il primo trattato mondiale sul contenimento dei rifiuti plastici

L’80% dei rifiuti plastici mondiali ha origine nel continente asiatico e più di un terzo deriva dalle Filippine. Per contrastare il fenomeno, i maggiori produttori di plastica dell’Asia, dalla Cina all’India, dall’Arabia Saudita al Giappone, hanno partecipato, nell’ambito delle Nazioni Uniti, alla stesura di un piano per la realizzazione del primo trattato mondiale sul contenimento dei rifiuti plastici entro il 2024.

“Un momento storico”, è stato definito così l’accordo raggiunto il 2 marzo dal Programma sull’ambiente dell’ONU. Ma gli scettici non hanno mancato di sottolineare le criticità di questo accordo. Il trattato infatti si concentra principalmente sul riciclaggio della plastica monouso, ma gli esperti dell’ambiente continuano ad insistere che per avere un impatto significativo bisogna fare i conti anche con la limitazione della produzione di prodotti in plastica. Una prospettiva che non piace ai governi di quelle nazioni con un’economia improntata sull’industria petrolchimica.

L’accordo, però, è più complesso: i Paesi hanno concordato una risoluzione che prevede il monitoraggio dell’inquinamento da plastica lungo tutta la filiera produttiva, dalla creazione allo smaltimento. Osservati speciali saranno i Paesi asiatici considerati i maggiori responsabili della dispersione di rifiuti plastici nell’ambiente, in particolar modo le Filippine. Anche la Malesia, destinazione preferita da molte altre nazioni per lo smaltimento della plastica, sarà al centro dell’attenzione. 

Secondo alcuni esperti, rendere più costoso il processo di smaltimento è l’unico modo per incentivare le Nazioni al riciclo. Non a caso, la maggior parte dei rifiuti plastici deriva dai Paesi del Sud-Est asiatico, dove le politiche sullo smaltimento dei rifiuti sono fin troppo permissive e le concentrazioni di plastica finiscono perlopiù bruciate nelle discariche o, direttamente, negli oceani.

Questa situazione, oltre che dannosa per l’ambiente, si traduce anche in una consistente perdita economica. Una serie di studi condotti dalla Banca mondiale conferma infatti come in Tailandia, Malesia e Filippine si perde oltre il 75% del valore materiale della plastica riciclabile – l’equivalente di sei miliardi di dollari l’anno – quando viene utilizzata una sola volta. Secondo il Programma sull’Ambiente ONU, globalmente vengono spesi tra i 6 e 19 miliardi di dollari all’anno per ripulire la sporcizia che deriva dall’inquinamento da plastica.

Una possibile soluzione, auspicata dagli esperti, potrebbe essere la creazione di centri di riciclaggio a livello internazionale, dove far confluire i rifiuti plastici. Un’altra area di interesse, che il trattato dovrebbe prendere in considerazione riguarda il coordinamento della strategia tra diversi Paesi e regioni, per appianare le discrepanze nelle azioni anti inquinamento. Senza contare che gli effetti dell’inquinamento si manifestano soprattutto nelle aree geografiche più arretrate. Questo significa che, anche se questo trattato è già stato incoronato come “il più grande accordo dai tempi di Parigi”, la strada è ancora lunga. 

ASEAN history and politics

Partito il primo corso “ASEAN History and Politics” diretto dall’Associazione Italia-ASEAN

Lo scorso mercoledì 23 marzo ha avuto inizio, presso l’Istituto Italiano di Studi Orientali della Sapienza Università di Roma, il primo corso interamente in lingua inglese su “Storia e politica dell’ASEAN” che l’Associazione Italia-ASEAN ha l’onore di dirigere e condurre. Il ciclo di lezioni si protrarrà fino a giugno e si inserisce all’interno della laurea in Global Humanities dell’Ateneo romano. Circa 70 studenti provenienti da tutto il mondo, dall’Indonesia passando per il Giappone fino all’Africa e all’Europa, affronteranno nei prossimi mesi le più importanti tematiche riguardanti la regione del Sud-Est asiatico: dagli aspetti storici a quelli economici e geopolitici, dai diritti umani al commercio internazionale, passando per la transizione digitale e sostenibile della regione. Durante la prima lezione, il Vicepresidente scientifico dell’Associazione, il prof. Romeo Orlandi, ha effettuato una panoramica sulla storia dell’Association, dalla fondazione alle sfide della pandemia e dei prossimi anni, compiendo un’attenta analisi sulle peculiarità dei singoli Paesi. Nelle prossime lezioni le studentesse e gli studenti avranno la possibilità di ascoltare le testimonianze di alcuni degli Ambasciatori dei Paesi ASEAN a Roma e di diversi analisti della regione, si confronteranno, inoltre, con i temi centrali che riguardano il Sud-Est asiatico, con laboratori e presentazioni che gli permetteranno di entrare in prima persona nel vivo di tutte le questioni. Questo corso sarà l’ennesima occasione di migliorare il grado di conoscenza e la percezione dell’ASEAN nel nostro Paese. Obiettivo al quale l’Associazione Italia-ASEAN lavora sin dalla sua fondazione e che ritiene essenziale per accompagnare presso istituti universitari, opinione pubblica e decision maker una ancora maggiore consapevolezza di una regione del mondo con la quale abbiamo molti interessi in comune.

In ASEAN cresce sempre di più il “femtech”

Il “femtech” – l’insieme di software, prodotti o servizi che utilizzano la tecnologia per migliorare la salute femminile – nasce come risposta al bisogno consapevole di informazioni, trattamenti specifici e supporto sanitario delle donne di tutto il mondo. Nell’Asia-Pacifico, dove molti temi come aborto, mestruazioni e menopausa sono talvolta ancora considerati taboo, il settore è in rapida crescita, con Singapore a guida della tendenza.

Le donne rappresentano la metà della popolazione mondiale, eppure le aziende tecnologiche che soddisfano le loro specifiche esigenze sanitarie non rappresentano che una quota minima del mercato tecnologico globale. Yan Li, professoressa di trasformazione digitale presso la Business School ESSEC Asia-Pacifico di Singapore, sostiene che la salute delle donne sia stata storicamente messa da parte non solo dai governi ma dalla stessa industria medica. In un’intervista al Nikkei-Asia ha detto che “l’assistenza sanitaria femminile è considerata un settore di nicchia. Molti studi sui farmaci non vengono nemmeno testati su soggetti di sesso femminile per cui le donne possono facilmente subire un’overdose accidentale”. Le affermazioni di Yan Li trovano riscontro anche in uno studio pubblicato sul British Journal of Clinical Pharmacology nel 2018: solo il 22% dei soggetti coinvolti negli studi farmacologici di Fase 1 sono donne.

Coniato nel 2016 da Ida Tin, fondatrice di Clue, un’app di tracciamento dell’ovulazione e del ciclo mestruale, il termine “femtech” si riferisce a qualsiasi software, prodotto o servizio che utilizza la tecnologia per migliorare la salute delle donne. Una risposta al bisogno consapevole di informazioni, trattamenti specifici e supporto sanitario delle donne di tutto il mondo.

Nel 2019, l’industria femtech ha generato 820,6 milioni di dollari di entrate globali e ha ricevuto 592 milioni di dollari in investimenti in capitale di rischio, secondo PitchBook, società di ricerca e dati finanziari. Una moltitudine di app e società tecnologiche è entrata sul mercato per soddisfare le esigenze specifiche delle donne, incluso il monitoraggio delle mestruazioni e della fertilità e soluzioni per la gravidanza, l’allattamento al seno e la menopausa, fino a programmi specifici per diagnosi e monitoraggio di patologie come il cancro al seno o alla cervice.

Nel maggio 2021 un articolo del New York Times titolava Is ‘Femtech’ the Next Big Thing in Health Care?: l’anno scorso, infatti, il report FemTech Analytics contava già 1.550 aziende femtech in tutto il mondo con il 51.9% del totale localizzato in Nord America, il 23.5% in Europa, il 13.9% in Asia, il 4.7% in Australia, il 4.4% in Sud America e l’1.6% in Africa.

FemTech Analytics prevede però che entro il 2026 sarà la regione Asia-Pacifico ad avere la crescita più rapida al mondo delle app per la salute delle donne. Nel sud-est asiatico, temi come l’aborto, il controllo delle nascite e persino le mestruazioni sono sempre stati tabù. “Ci sono diverse ragioni per cui i problemi di salute delle donne non sono propriamente trattati in questa regione del mondo. La prima è però senza dubbio la scarsa o quasi nulla educazione sessuale, che impedisce alle donne di conoscere e cercare una migliore cura del proprio corpo”, ha spiegato Yan Li in un’intervista a TechWire Asia. Nella regione ancora oggi è comune che le donne rimangano nascoste durante il ciclo mestruale. In alcune comunità del Laos, del Nepal o dell’Indonesia, ad esempio, le mestruazioni sono considerate impure o sporche. Questo rende difficile per le donne andare a scuola o svolgere le attività quotidiane e praticamente quasi impossibile ricevere la giusta e appropriata assistenza in caso di necessità. 

Ma è della necessità che si fa virtù. Ad oggi secondo l’ultimo report di Femtech Analytics esistono 24 società femtech a Singapore, 6 in Thailandia, 3 in Indonesia, Vietnam e Filippine rispettivamente e 2 in Malesia. Tra queste, Sehati, fondata dall’indonesiana Anda Waluyo, è basata sull’IoMT (Internet of Medical Things) e mira al monitoraggio fetale e all’accesso a consultazioni specialistiche per le madri in dolce attesa tramite app; EloCare, fondata a Singapore da Mabel Yen Ngoc Nguyen monitora e registra tramite dispositivi indossabili dati relativi ai sintomi della menopausa e infine ZaZaZu, fondata ugualmente a Singapore da Jingjin Liu, propone una piattaforma per educazione, prodotti e servizi digitali legati alla sessualità femminile.

Il settore è dunque fiorente e le donne asiatiche talmente entusiaste da aver reso possibile la nascita di FemTech Asia, “una piattaforma per la ricerca di lavoro fondata da giovani donne che desiderano sviluppare la propria carriera nei mercati tecnologici asiatici”.

Che cosa significano i numeri sulla spesa militare dei Paesi Asean

L’Asia è il nuovo centro delle dinamiche globali, e da maggiori interessi derivano maggiori responsabilità: una panoramica sulla percezione della sicurezza nella regione 

Le Filippine cercano di difendere la sovranità sul Mar cinese meridionale dal 2013. In quell’anno, Manila presentò ufficialmente un’istanza contro la Cina presso la Corte arbitrale permanente dell’Aia e vennero destinati 3,38 miliardi di dollari alla Difesa. Si tratta di uno dei maggiori investimenti dell’arcipelago nel comparto militare dell’ultimo decennio, che hanno raggiunto il picco nel 2017, quando la percezione dell’assertività cinese nella regione ha iniziato a farsi più evidente. Ma l’obiettivo non era solo quello di dover costruire un deterrente in caso un ipotetico conflitto nel Mar cinese meridionale: la “guerra alla droga” del Presidente Rodrigo Duterte si era trasformata in una campagna massiccia e indiscriminata contro la criminalità organizzata, e mancavano i mezzi per gestirla. Mentre la comunità internazionale assisteva a un’escalation della violenza nel Paese e cercava di prendere le distanze, a rifornire l’esercito flippino era rimasta lei: la Repubblica Popolare Cinese.

Non è semplice analizzare la spesa militare di uno Stato, come viene gestita e quali presupposti può creare in politica estera. I governi spesso stringono contratti per la fornitura di armi con Paesi che potrebbero essere la ragione stessa per migliorare l’arsenale militare e dimostrarsi “preparati” in caso di conflitto. Ma non mancano le ragioni interne per non abbassare la guardia. È quanto accade in Asia dall’inizio degli anni Duemila a oggi, in una regione che sta caratterizzando sempre di più le dinamiche e gli interessi internazionali. In questo scenario si gioca la partita tra le maggiori potenze globali, e i Paesi dell’area non possono che rispondere prendendo misure preventive: armarsi, ammodernarsi e inserirsi nelle dinamiche più vantaggiose della globalizzazione. E le crisi degli ultimi anni hanno contribuito ad aumentare la percezione di insicurezza.

Il report Sipri

Secondo il report del 2019 dello Stockholm International Peace Institute (Sipri) dedicato al Sud-Est asiatico, è in questa regione che l’acquisto di armi e la spesa per la Difesa hanno raggiunto la maggiore impennata degli ultimi venti anni, superando le tendenze delle altre zone. Tra le cause individuate dagli analisti, l’ascesa della potenza cinese, ma anche i conflitti interni o le tensioni lungo i confini. Ma l’elemento di allarme, evidenzia il rapporto, è un altro: in Asia mancano – o sono poco chiari – i meccanismi di gestione dei conflitti armati e delle contese territoriali. A creare questo pattern contribuiscono sia la “Asean way” nelle questioni internazionali che la politica estera cinese, entrambe caratterizzate – spesso – da tentativi di evitare il confronto diretto e da atteggiamenti impliciti e spesso criptici. Il caso più esemplare rimane proprio quello del Mar cinese meridionale, dove non solo i movimenti di mezzi militari, ma anche l’esplorazione di giacimenti di gas e minerali, o la pesca illegale, avvengono indiscriminatamente nonostante i Paesi abbiano ratificato la Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (UNCLOS) – e nonostante la promessa di arrivare presto a un “codice di condotta”.

Entrando nel dettaglio, la spesa militare dei dieci Paesi ASEAN è aumentata del 33% tra il 2008 e il 2017, anche se le motivazioni dietro a questa scelta sono differenti. I Paesi coinvolti nelle dispute territoriali nel Mar Cinese Meridionale sono quelli che hanno incrementato di più gli investimenti: una risposta alle azioni unilaterali e considerate “sospette” di navi e aerei cinesi. Negli altri casi, però, non sono meno evidenti la preoccupazione e l’incertezza nei confronti del vicinato e della porosità dei confini, che favoriscono lo spostamento di gruppi ribelli: è quanto viene dichiarato nella maggior parte dei contratti per l’importazione di armi, che citano la lotta al terrorismo, alla criminalità organizzata e il trasferimento di tecnologie avanzate per migliorare la qualità delle operazioni militari. A lanciare un allarme su questo ultimo obiettivo sono stati anche casi recenti di inefficienza degli asset militari, come la drammatica fine dell’equipaggio del sottomarino indonesiano indonesiano KRI Nanggala-402.

Esportatori e importatori

Dopo una prima fase di dipendenza da Usa, Russia o Cina, negli ultimi anni i paesi asiatici hanno iniziato a diversificare i propri fornitori di armi e tecnologie militari. Oggi, confermano i dati Sipri, una parte significativa del commercio di armi fluisce verso i mercati asiatici. È qui che arrivano il 37% delle esportazioni dagli Usa, il maggiore esportatore di armi al mondo, così come il 55% di quelle russe, sebbene in decrescita. Altri importanti esportatori sono invece il Giappone e la Corea del Sud, mentre l’India occupa una piccola quota sul mercato birmano – che con l’arrivo della giunta militare al potere cerca di ridurre la dipendenza maturata nei confronti di Pechino.

In Malesia, oltre alla Corea, hanno un ruolo rilevante le importazioni di armi da Spagna e Turchia. La Francia non rappresenta un attore fondamentale come esportatore di armi ma, con il crescere degli interessi internazionali nelle acque asiatiche, cerca di giocare un ruolo nelle operazioni di monitoraggio ed esercitazione: l’ultimo caso risale alle operazioni del 2021 nell’Oceano indiano nel quadro dell’accordo Quad. Proprio la neonata alleanza voluta dall’amministrazione Biden è, per quanto fragile, un elemento che contribuisce a influenzare la percezione della sicurezza in Asia. 

Tensioni sopite e nuove minacce

Sebbene l’Asia presenti una bassa percentuale di conflitti, concentrati soprattutto all’interno dei paesi stessi, non mancano i presupposti per un’escalation delle tensioni in alcune zone calde della regione. Per citarne alcuni: la disputa tra Malesia e Brunei intorno allo sfruttamento del tratto di mare comune, le rivendicazioni di Cambogia e Thailandia lungo il confine e le rivendicazioni delle Filippine sul distretto (oggi malese) di Sabah.

Infine, in un’ottica di rinnovo della Difesa, non è meno importante il ruolo delle crisi globali. Uno di questi fattori è la crescente presenza di Washington e degli alleati nel Pacifico per monitorare la regione come pratica di contenimento della Cina. Anche il conflitto in Ucraina pone dei nuovi interrogativi (o, meglio, preoccupazioni) sull’evoluzione delle relazioni globali: da un lato le sanzioni alla Russia rappresentano un imprevisto per i paesi che ricevono assistenza e armi da Mosca (come Vietnam e Myanmar), dall’altro la stessa Kiev esporta una piccola parte di armi (in particolare, missili) verso il Vietnam e Thailandia. In ultima analisi, l’impasse diplomatica e la violenza del conflitto potrebbe non solo aumentare l’incertezza nei confronti delle proprie capacità e risorse militari, ma anche aprire alla possibilità di impotenza della comunità internazionale nell’intervenire sul campo.

Siccità record nel bacino del Mekong: come mitigare i rischi ambientali

Il Mekong è tra i corsi d’acqua più lunghi del continente asiatico e rappresenta non solo una vitale fonte di sostentamento per le popolazioni che vivono nel suo bacino idrografico, ma anche un oggetto di contesa tra i governi locali. L’ASEAN può giocare un ruolo fondamentale nella promozione della cooperazione regionale e del dialogo con la Cina.

Il Mekong nasce sull’altopiano tibetano in Cina e si snoda per più di 4000 chilometri attraversando Myanmar, Laos, Thailandia, Cambogia e Vietnam prima di sfociare con un ampio delta nel Mar Cinese Meridionale.  Il fiume ricopre un ruolo chiave nella regione del Sud-Est asiatico: dalle sue acque dipendono non solo il sostentamento di oltre 60 milioni di persone, ma anche gli equilibri geopolitici regionali.

Per il quarto anno consecutivo, la regione si avvia ad affrontare un’emergenza idrica che, oltre a risentire dell’aggravamento della crisi climatica, riflette la conflittualità che caratterizza le politiche di gestione dei flussi. La Mekong River Commission (MRC) – organizzazione intergovernativa che raccoglie Laos, Thailandia, Cambogia e Vietnam, i quattro Paesi del basso bacino fluviale – ha citato “bassi flussi regionali, fluttuazioni idriche e siccità” tra i rischi che le autorità locali sono chiamate ad affrontare con urgenza. Il governo cambogiano ha comunicato che le precipitazioni della stagione delle piogge “non saranno sufficienti per soddisfare i bisogni immediati” e ha raccomandato un utilizzo parsimonioso delle preziose risorse idriche, in particolare nelle zone rurali.

Come evidenziato nell’ultimo rapporto della Mekong River Commission pubblicato a inizio gennaio, le significative anomalie che hanno colpito il regime idrologico a partire del 2015 sono il risultato della pericolosa combinazione tra rischi naturali e pressione antropica. La scarsità di precipitazioni si somma alle attività di sfruttamento intensivo delle acque, esacerbando l’impatto devastante su ecosistemi, attività economiche e sul sostentamento delle popolazioni locali. 

Secondo quanto emerge da uno studio congiunto realizzato dallo Stimson Center e dalla società di ricerca Eyes on Earth, in alcune aree del bacino del Mekong “il prelievo di acqua e il rilascio innaturale delle dighe hanno completamente alterato il flusso naturale del fiume”. L’acqua viene infatti trattenuta dai sistemi di stoccaggio durante la stagione umida, mentre i flussi aumentano relativamente nella stagione secca, quando però il livello delle acque è troppo basso per fare la differenza.

La competizione per il controllo dei flussi del Mekong è resa manifesta dal numero di dighe che continuano a sorgere lungo il suo percorso: undici le principali, la maggior parte delle quali si trova in territorio cinese, a cui vanno sommate le centinaia di costruzioni minori costruite lungo gli affluenti e utilizzate per le attività di pesca e agricoltura. Fin dagli anni ‘90, Pechino è stata impegnata in un ambizioso progetto idroelettrico che si è sostanziato nella costruzione di dighe e centrali lungo corso superiore del fiume nella provincia meridionale dello Yunnan. Inoltre, attraverso la concessione di ingenti finanziamenti, le autorità cinesi hanno appoggiato le ambizioni del vicino laotiano, che non ha fatto segreto di voler puntare sull’idroelettrico per convertirsi nella “batteria d’Asia” e rilanciare la propria economia.

In risposta ai crescenti rischi – con i livelli del fiume che raggiungono i valori più bassi livelli mai registrati negli ultimi 60 anni – la Mekong River Commission invita i sei Paesi coinvolti “ad agire con determinazione” e suggerisce l’istituzione un meccanismo di notifica comune sulle fluttuazioni anomale del livello dell’acqua e un sistema coordinato di gestione di bacini e dighe.

Nonostante la Cina abbia negato le accuse di approfittare della posizione strategica a monte del fiume per capitalizzare unilateralmente le acque comuni ed esercitare pressione politica sui Paesi vicini, la riluttanza a condividere i dati relativi al funzionamento delle dighe e la stessa assenza all’interno della Mekong River Commission evidenziano il persistere di tensioni politico-diplomatiche che compromettono la cooperazione regionale in tema di gestione delle risorse.

Secondo gli esperti dello Stimson Center e di Eyes on Earth, la soluzione migliore sembrerebbe essere un accordo internazionale di condivisione dell’acqua che garantisca “un livello di base del flusso dalle dighe a monte durante i periodi di siccità”, con l’obiettivo di scongiurare crisi future e attenuare simultaneamente la sfiducia nei confronti della Cina. In questo contesto, si rende necessaria una più stretta sinergia tra i segretariati della MRC e dell’ASEAN. L’Organizzazione può infatti contribuire a dare maggiore centralità al progetto di gestione sostenibile e coordinata del Mekong all’ interno dell’agenda politica regionale. Simultaneamente, resta cruciale il ruolo dell’ASEAN nel promuovere un percorso di sviluppo condiviso e sostenibile con la partecipazione della Cina, la quale auspicabilmente non resterà a lungo indifferente a fronte dei vantaggi reciproci che una convivenza pacifica lungo il fiume più produttivo della regione potrebbe offrire.

Il Boom del caffè nei mercati asiatici

Quasi un terzo della produzione mondiale di caffè proviene dal continente asiatico

C’è una nuova moda che ha contagiato tutta l’Asia. Una bevanda simbolo di gusto e raffinatezza, ma anche dell’influenza occidentale nella regione. Stiamo parlando del caffè. Negli ultimi cinque anni il consumo di caffè nei paesi asiatici è cresciuto dell’1,5%; una tendenza che segue l’aumento della classe media, desiderosa di provare sempre prodotti nuovi. Ma si tratta anche di un fenomeno culturale molto esteso, che deriva dal colonialismo e si intreccia con i trend di oggi che arrivano da ovest. In Cina, per esempio, il gusto per questa bevanda viene tramandato soprattutto da persone che hanno studiato o lavorato all’estero. La pandemia ha tuttavia ridotto notevolmente gli spostamenti e i cultori del caffè non hanno potuto che rimanere affascinati dalle varietà locali della bevanda. Non a caso negli ultimi due anni, i produttori di caffè asiatici stanno iniziando a rivaleggiare con le grandi industrie occidentali, come Starbucks e Costa. Ed oggi il 29% dei chicchi di caffè nel mondo proviene proprio dal continente asiatico.

Tra i principali produttori di caffè c’è il Vietnam, un vero e proprio colosso dell’industria. Fin da quando i colonizzatori francesi hanno raccolto per la prima volta le “ciliegie cremisi” – come venivano soprannominati i chicchi di caffè – questa bevanda è rimasta parte della tradizione vietnamita. Come da noi in Italia, anche in Vietnam si usa “andare a prendere un caffè” come metodo per socializzare. E sono soprattutto i social come TikTok a trainare l’interesse delle masse per il caffè, coinvolgendo un pubblico sempre più ampio: dai giovani che vogliono frappuccini sul modello di Starbucks ai consumatori “esperti”, intrigati dai procedimenti di preparazione e tostatura dei chicchi. Se prima della pandemia l’obiettivo principale era l’esportazione, oggi ci si è resi conto che il consumo domestico è altrettanto importante.

Anche l’Indonesia, seconda produttrice di caffè nella regione, ha osservato un incremento delle vendite locali negli ultimi anni. Spopolano anche le varianti locali, come il Kopi Susu, un caffè freddo con latte e zucchero di palma. Il caffè, efficacemente distribuito anche durante la pandemia con i servizi di delivery non ha mai smesso di circolare, attirando sempre più estimatori e curiosi, desiderosi di supportare i prodotti locali anziché consumare marchi stranieri. Senza contare che il 90% degli indonesiani è di religione musulmana, e quindi alla ricerca di una bevanda sociale che non contenga alcol.

La Cina sta vivendo un’esperienza simile. L’arrivo di catene straniere come Starbucks e Costa Coffee alla fine degli anni 90’ hanno innescato la cultura del caffè nelle metropoli, attirando i giovani consumatori. Ma con l’emergere di catene locali e chioschi lungo le strade negli ultimi anni, l’interesse del pubblico si è spostato verso il consumo di prodotti locali. Una scelta derivata, oltre che dalla pandemia, anche dalle tensioni commerciali con gli Stati Uniti. Secondo un rapporto del marzo 2021 del quotidiano finanziario Yicai, Shanghai ha ora il maggior numero di caffetterie indipendenti al mondo, con 6.913 punti vendita. Più dei 3.826 a Tokyo, 3.233 a Londra e 1.591 a New York. Anche in questo caso sono stati i giovani, in particolare quelli che hanno studiato all’estero, ad aver importato la moda del caffè. 

In Giappone il tè non regna più sovrano. Il mercato del caffè giapponese è il più grande del continente asiatico, con vendite che hanno superato i 24 miliardi di dollari nel 2020. Al contrario, il consumo di tè è in diminuzione. Secondo l’Associazione giapponese per la produzione di tè, infatti, il consumo della bevanda è sceso a 108.454 tonnellate nel 2019. Un calo del 30% rispetto al 2004. Sono soprattutto le donne ad essersi avvicinate al caffè. L’arrivo di caffetterie “all’occidentale”, in cui è vietato fumare, ha infatti attirato molte giovani clienti, in precedenza scoraggiate dalle tradizionali e fumose caffetterie giapponesi. Con l’arrivo della pandemia, poi, è partito il boom per la richiesta di macchinette e attrezzature per preparare il caffè in casa.

In Corea del Sud il caffè è diventato parte integrante dell’ecosistema sociale. Il mercato è indirizzato a consumatori di ogni età e provenienza e si rivolge soprattutto a coloro che hanno fatto delle caffetterie le loro seconde case: persone che oltre che per sorseggiare un caffè si siedono ai tavolini per studiare, lavorare e parlare con gli amici. E si prevede che la cultura del caffè diventerà ancora più radicata in Corea del Sud come del resto in tutta l’Asia. Con l’espandersi della classe media, le persone esposte a uno stile di vita occidentale aumenteranno, importando la tradizione del caffè anche a casa propria.

Le ripercussioni della guerra in Ucraina sul Sud-Est asiatico

Il blocco delle nazioni ASEAN è esposto, a varie intensità, alle sanzioni rivolte all’economia russa. Energia, grano e investimenti sono i settori in cui principalmente si intersecano queste relazioni

Mentre gran parte del mondo “occidentale” guarda con apprensione agli sviluppi del conflitto russo-ucraino e condanna Mosca con severe sanzioni economiche, i membri dell’Associazione delle Nazioni del Sud-Est asiatico hanno assunto posizioni poco omogenee. Secondo alcuni osservatori, il ritardo nel rilasciare dichiarazioni sulla crisi e la mancanza di esplicita condanna della Russia da parte dell’ASEAN sono sintomatici della difficoltà incontrata dagli attori della regione di trovare una sintesi soddisfacente tra le relazioni bilaterali che ciascuno intrattiene con la Russia. Singapore e Myanmar, ad esempio, condensano le divisioni del blocco, l’una condannando esplicitamente le azioni di Mosca, l’altra esprimendo sostegno. Le ragioni di queste contraddizioni sono da ricercarsi nei legami storici e commerciali che uniscono le sorti Sud-Est asiatico a quelle della Russia.

Il blocco delle nazioni ASEAN è esposto, a varie intensità, alle sanzioni rivolte all’economia russa. Energia, grano e investimenti sono i settori in cui principalmente si intersecano queste relazioni. Secondo James Guild del Diplomat, anche se c’è incertezza rispetto alle ripercussioni del conflitto sulla tenuta dell’economia del Sud-Est asiatico, esistono alcuni indizi che possono anticiparne l’impatto. In primo luogo, il ruolo della Russia come fornitrice di energia globale preoccupa alcuni Paesi in particolare. Anche se per Singapore solo il 5,7% del petrolio importato nel 2019 è russo, e per la Thailandia il 3,3%, il Vietnam potrebbe essere più esposto agli shock di fornitura energetica determinati dal conflitto, con il 15% del carbone importato nel 2019 che proviene proprio dalla Russia. Inoltre, i prezzi dell’energia erano già a rialzo prima dello scoppio del conflitto, e la guerra non farà che aggravare la situazione.

La pressione inflazionistica globale sui prezzi dei generi alimentari potrebbe subire un ulteriore aumento, mettendo in crisi economie come quella indonesiana e filippina, che nel 2019 hanno importato rispettivamente circa il 25% e il 16% del totale del grano da Russia e Ucraina. Molti Paesi del Sud-Est asiatico hanno agenzie statali specializzate nella raccolta di beni essenziali per affrontare eventuali shock delle catene di approvvigionamento, ma il fenomeno di contrazione dell’offerta avrà comunque degli effetti su prezzi e produzione.

Resta poi da affrontare la questione delle numerose joint ventures che uniscono i destini delle economie ASEAN a quello della Russia. In generale sembra vi sia urgenza di interrompere le partnership commerciali con Mosca, anche per via dell’impossibilità pratica di compiere scambi e transazioni. Un caso emblematico è quello della centrale a carbone vietnamita Long Phu 1, il cui appaltatore russo teme che non riceverà mai indietro il denaro investito nella realizzazione del progetto. Il legame tra Mosca e Hanoi risale ai tempi dell’era sovietica, ed era principalmente imperniato sulla fornitura di equipaggiamenti per la difesa da parte della Russia, che domina il 60% delle importazioni militari vietnamite. Nonostante il Vietnam non abbia condannato l’invasione russa del territorio ucraino, le sanzioni internazionali potrebbero compromettere le relazioni economiche anche con lo storico alleato comunista.

La Russia si era ritagliata pazientemente un margine d’influenza sulla regione del Sud-Est asiatico. Al di là del primato nella fornitura di armi, la politica “turn to the East” era un riconoscimento esplicito di quanto il presidente russo Vladimir Putin tenesse in considerazione le relazioni con gli attori regionali. Quando nel 2021 si sono celebrati i trent’anni delle relazioni ufficiali tra Russia e ASEAN, Putin aveva encomiato la prossimità politica tra le parti sottolineando come spesso le posizioni delle nazioni del blocco su questioni di rilevanza globale coincidano con quelle russe. In effetti i due attori hanno anche pubblicato un piano d’azione globale per attuare il loro partenariato strategico per il 2021-25, che tocca le dimensioni commerciale, strategica e securitaria. Tutto ciò dimostra come Mosca abbia riservato per sé relazioni specifiche con il Sud-Est asiatico, allontanandosi dagli altri due modelli dominanti, quello statunitense e quello cinese. Al contrario di Washington e Pechino – e fatta eccezione per la sua controversa fornitura di armi al Myanmar – Mosca non è infatti direttamente coinvolta in nessuna crisi politico-diplomatica nell’area. Per Russia e Paesi del Sud-Est asiatico, i legami economici e commerciali, e talvolta ideologici, sono anche un ponte di scambio diplomatico. Le diverse posture assunte dalle nazioni del blocco stigmatizzano le difficoltà dell’ASEAN di rivendicare il principio di centralità in questioni che toccano individualmente questi storici legami bilaterali.