Asean

L’importanza del Mekong per l’ASEAN

Il Mekong è uno dei fiumi più importanti del Sud-Est asiatico e tra tutti quello con la valenza più rilevante da un punto di vista ambientale, economico e geopolitico. Il Mekong rappresenta non solo un vasto ecosistema con una ricchissima biodiversità la cui tutela è dirimente per la lotta al cambiamento climatico, ma in quanto corso d’acqua principale, ha anche un valore economico, poiché fornisce ingenti quantità di pescato e contribuisce all’irrigazione di ampie risaie, permettendo il sostentamento di ben oltre 60 milioni di persone che vivono per l’appunto grazie al fiume.

Il fiume nasce in Cina (dove è chiamato Lacang), per un lungo tratto la attraversa prima di segnare il confine con il Myanmar ed entrare nel Laos, da qui è condiviso con la Thailandia e dopo aver percorso la Cambogia finisce il suo itinerario in un ampio delta vicino a Ho Chi Minh City in Vietnam. Quindi il fiume interessa, oltre la Cina, cinque paesi dell’ASEAN: Myanmar, Laos, Thailandia, Cambogia e Vietnam. Proprio la caratteristica di essere un fiume che attraversa più stati lo mette al centro di vari interessi geopolitici. A tal proposito, va ricordato che da diversi anni, la Cina sta portando avanti nel Sud-Est asiatico una politica volta a legare più strettamente a sé i Paesi continentali dell’area, basata sulla costruzione di infrastrutture in cambio di appoggio politico a livello internazionale. Tale politica, con la sola eccezione del Vietnam, sta avendo successo in Myanmar, Laos, Thailandia e Cambogia. Quest’ultima, ha talmente favorito gli investimenti cinesi, che è stata più volte accusata di essersi trasformata in uno “stato-cliente” di Pechino, tanto è vero che in occasione della sua presidenza dell’ASEAN nel 2012, sostenne le posizioni cinesi nel mar Cinese meridionale a scapito di quelle degli altri Paesi ASEAN.

Il Mekong è al centro di questa strategia di penetrazione cinese e tra le infrastrutture più importanti in fase progettuale o di costruzione vi sono diverse dighe. In questo caso si può dire che l’elemento geopolitico, economico ed ambientale si fondono indissolubilmente: nel momento in cui la Cina ha deciso la costruzione di ben 11 dighe nel suo tratto di fiume, ha allarmato i Paesi a valle poiché, controllandone le sorgenti e quindi indirettamente il flusso d’acqua, può tenerli in scacco, con potenziali limitazioni nell’afflusso di acqua nel caso di tensioni diplomatiche. Inoltre, la Cina ha anche ha favorito la progettazione di altre dighe in territorio laotiano e cambogiano, elemento che qualcuno considera una strategia di scambio di infrastrutture per appoggio politico. Proprio le dighe sono al centro del dibattito ambientale poiché potrebbero essere la causa del continuo abbassamento del livello del fiume e delle conseguenti siccità (di cui la peggiore è avvenuta nel 2019), che in ultima analisi potrebbero minare la produttività delle grandi risaie e quindi portare all’impoverimento delle comunità che vivono grazie al fiume.

Il Vietnam, durante il suo turno di presidenza dell’ASEAN nel 2020, ha provato a sollevare la questione della gestione del fiume e a fare in modo che entrasse in pieno nell’agenda a livello ASEAN. Anche Malesia, Singapore, Filippine e Brunei sono interessati ai destini del fiume, perché sono grandi importatori di riso prodotto proprio dai Paesi del Mekong. Attualmente, esistono già due strutture che cercano con obiettivi diversi di favorire una gestione regionale del Mekong: la Lancang-Mekong Cooperation a guida cinese, nata nel 2016, che ha come fine quello di facilitare il flusso di acqua dalla Cina con la costruzione delle dighe e la Mekong-US Partnership, supportata dagli USA, nata nel 2020, che invece vuole favorire uno sviluppo sostenibile della regione. Da queste due strutture si evince chiaramente come siano in gioco interessi geopolitici più ampi che sovrastano gli stessi stati ASEAN.

Il Mekong, come sottolineato, ha una sua multiforme importanza per il Sud-Est asiatico e se l’ASEAN si assumerà il compito di gestire le problematiche connesse al fiume, contribuirà al contempo sia a rafforzare la propria integrazione regionale, sia a limitare l’influenza cinese nell’area. Non solo: contribuirà anche alla salvaguardia ambientale di una vasta area e in ultimo alla lotta ai cambiamenti climatici. Il rischio maggiore per il momento è che il fiume si trasformi in un secondo punto caldo per le relazioni tra ASEAN e Cina (e anche USA) dopo il mar Cinese meridionale.

Al boom dell’e-commerce ASEAN serve una svolta per la parità di genere

L’e-commerce è in grande crescita nel Sud-Est asiatico. Ma non sempre le donne ne beneficiano in pieno. Ecco come il settore può diventare un vettore dell’uguaglianza di genere per le lavoratrici asiatiche. 

Il  mercato dell’e-commerce potrebbe guidare la ripresa economica e avere un impatto trasformativo sulla condizione delle lavoratrici del Sud-Est asiatico, secondo un rapporto della International Financial Corporation (IFC). Nelle economie dell’area c’è una forte incidenza di imprenditrici. Sulla piattaforma di e-commerce Lazada, ad esempio, circa un terzo delle imprese indonesiane e due terzi delle imprese nelle Filippine sono di proprietà di donne. Ma queste aziende tendono ad essere più piccole, hanno vendite medie inferiori e hanno meno dipendenti.

L’IFC, membro della Banca mondiale, è la più grande istituzione di sviluppo globale. La scorsa settimana ha pubblicato il report Donne ed e-commerce nel Sud-Est asiatico, che osserva i trend di sviluppo dell’economia digitale nella regione. Il focus è sul fattore trainante della ripresa post-pandemia: la diffusione di transazioni online. “Nel Sud-Est asiatico, l’e-commerce è diventato un’ancora di salvezza per gli i bisogni quotidiani delle persone, nonché un perno naturale della strategia aziendale [per chi è stato colpito] dalle misure di sicurezza di Covid-19”, ha affermato Chun Li, amministratore delegato di Gruppo Lazada. 

Abbiamo già parlato, in generale, dell’effetto ambivalente che la pandemia da Covid-19 ha avuto sulle economie del Sud-Est asiatico. Da una parte, ha soffiato via alcuni settori delle economie tradizionali, che hanno lasciato il posto alla fiorente realtà dell’imprenditoria digitale. Le misure di contenimento hanno richiesto a piccole e grandi attività di adattarsi a nuovi rapporti di lavoro, di produzione e di consumo, e l’e-commerce ne è uscito rafforzato.

D’altra parte, la pandemia ha inasprito le diseguaglianze di genere, pesando sulle lavoratrici asiatiche molto più che sulle loro controparti maschili. A riprova del fatto che il progresso tecnologico non è di per sé un canale di emancipazione sociale: occorrono precisi interventi politici perché disponibilità materiali (e digitali) si convertano in vere e proprie opportunità, soprattutto per le donne. La partecipazione femminile al futuro del lavoro è annoverata infatti tra gli obiettivi di sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite, che promuovono un’azione sistemica a supporto di uno sviluppo socio-economico che non può prescindere dal pieno coinvolgimento della forza lavoro femminile.  A livello regionale sono stati fatti numerosi passi avanti in termini di politiche all’insegna per l’inclusione femminile, ma questi sforzi non si sono ancora tradotti in progressi verso un incremento del peso economico e professionale delle donne asiatiche. Le sfide più urgenti riguardano la partecipazione alla forza lavoro, la discriminazione di genere in ambito professionale, l’inclusione finanziaria e la rappresentanza nelle posizioni manageriali di alto livello. 

L’economia digitale si presta a una serie di considerazioni. Il mercato dell’e-commerce nel Sud-Est asiatico è triplicatodal 2015 e si prevede che triplicherà di nuovo entro il 2025. Il rapporto dell’IFC si concentra su come allargare la base di beneficiari di questo boom digitale, e ritiene fondamentale superare le barriere discriminatorie che impediscono la piena partecipazione delle donne ai vantaggi dell’economia digitale. Il report suggerisce come l’e-commerce possa offrire una soluzione all’eterno trade-off tra famiglia e lavoro, con cui le donne sono spesso chiamate a fare i conti. Secondo l’Asian Development Bank, aumentare la partecipazione femminile alla forza lavoro e colmare il divario salariale avrebbe un enorme impatto sulla crescita della regione in generale: i benefici stimati sono stati quantificati in 3,2 trilioni di dollari nelle economie dell’Asia-Pacifico. 

Il Sud-Est asiatico è una delle poche regioni in cui la presenza femminile nel mercato del lavoro è in calo, ma presenta almeno una caratteristica in comune con gran parte delle economie del mondo: la maggior parte del lavoro domestico non retribuito è svolto in netta maggioranza da donne. Nel report dell’IFC è riportata la significativa testimonianza di un’imprendrice che racconta: “La mia casa era lontana dal posto di lavoro e il mio piccolo era ancora un bambino. Alla fine, ho deciso di dimettermi dal mio lavoro a tempo pieno. Ma ero abituata a lavorare, quindi ho iniziato a vendere online”. Un esempio che potrebbero seguire in molte.

Se il lavoro di cura impiega per lo più le donne, e per lo più in modo gratuito, l’e-commerce può rappresentare un fattore di cambiamento. Garantirebbe più flessibilità alle lavoratrici asiatiche e consentirebbe loro di emanciparsi economicamente, portando avanti un’attività di business con modelli produttivi più snelli. D’altro canto, senza adeguate misure pubbliche a sostegno di un’inclusione sostanziale delle donne nelle maglie dell’economia digitale, il rischio può essere quello di creare prestazioni digitali remunerative senza mettere in discussione le discriminazioni strutturali, che prevengono la piena inclusione femminile al mercato del lavoro. Le lavoratrici asiatiche chiederanno pure l’e-commerce oltre a “il pane e le rose” (canzone-manifesto per reddito e dignità delle operaie statunitensi all’inizio del secolo scorso), ma la mancanza di un intervento politico oculato ad accompagnarne lo sviluppo potrebbe risultare un’occasione mancata per l’uguaglianza di genere. 

ASEAN: il coraggio di investire nelle idee

La politica di investimenti in tecnologia e capitale umano sta portando il Sud-Est asiatico ad avere vantaggio competitivo nella nuova era digitale

Il Sud-Est asiatico potrebbe presto diventare un punto di riferimento per il resto del mondo per la realizzazione di ‘economie della conoscenza’ (Knowledge-Based Economies), ovvero il concetto di maggior rilevanza per il progresso economico nel nuovo millennio. 
In un recente report delle Nazioni Unite, difatti, si nota come diversi campioni di innovazione e di imprenditorialità siano proprio a stampo asiatico, con alcune eccellenze assolute. Singapore risulta seconda a livello mondiale, solo dopo la Svezia, per trasferimento tecnologico; la Malesia viene raffigurata come primo paese tra le economie emergenti per capitale umano e politiche innovative.

Importanti progressi si notano anche in Indonesia e Filippine, dove lo sviluppo tecnologico negli ultimi decenni sta portando a un importante fermento imprenditoriale, oltre che a colmare diversi gap istituzionali.

In particolare, recenti studi confermano come in Indonesia l’aumento del numero di imprese innovative stia portando non solo ad un vantaggio competitivo tecnologico, ma anche e soprattutto ad una crescita economica sostenibile.

Il report enfatizza in tal senso il ruolo di tre fattori principali come ‘driver’ di crescita economica: qualità e accesso alle infrastrutture telecomunicative (ICTs), tasso di crescita del capitale umano per alfabetizzazione digitale e possibilità delle informazioni di circolare liberamente all’interno dei paesi.

In primis, un buon livello di infrastrutture telecomunicative garantisce un accesso alla rete rapido, sicuro ed economico per tutti. I governi di Singapore e Malesia risultano qui tra i più illuminati.

Strettamente correlato è invece il tema del capitale umano: massicci investimenti in formazione, ricerca e sviluppo e abilità digitali nelle scuole, oltre che in corsi di orientamento volti a meglio comprendere le dinamiche del mercato del lavoro, portano sempre ad un utilizzo inedito dei mezzi di comunicazione. Ciò porta consapevolezza nei cittadini, oltre che favorire la creazione e condivisione libera di nuove idee da cui nascono aziende innovative che portano ricchezza, in un circolo virtuoso.

Come il report nota, ‘una integrazione armoniosa fra persone e tecnologia è non solo necessaria, ma indispensabile per prosperare nel lungo termine’.

Il Sud-Est asiatico sta ponendo delle forti basi per passare da un sistema economico basato sulla manifattura a basso valore aggiunto ad una economia basata sulla dinamicità della conoscenza, dove il ruolo primario viene ricoperto dal trasferimento di informazioni e dagli imprenditori con competenze avanzate (Knowledge-Intensive Entrepreneurs), in un’ottica di ‘distruzione creativa’ della conoscenza.
Questi imprenditori, come nel caso dell’e-commerce e della sharing economy, hanno creato dei veri e propri ecosistemi digitali capaci di permeare ogni dimensione della vita degli utenti, dai pagamenti agli spostamenti, fino ad arrivare ai beni di prima necessità.

In aggiunta, la pandemia ha avuto in Sud-Est asiatico importanti conseguenze: una regione abitata da 600 milioni di persone, in cui la vicinanza e lo scambio fisico giornaliero era uno stile di vita, ha visto radicalmente cambiare le proprie abitudini: gli ultimi dati parlano di come questo fenomeno di digitalizzazione abbia portato prosperità solo nelle nazioni dove già in precedenza si era investito in ICTs, formazione e ricerca e sviluppo.

Filippine, Singapore e Malesia: chi sono i nuovi Ambasciatori italiani

Marco Clemente (Manila), Massimo Rustico (Kuala Lumpur) e Mario Vattani (Singapore) sono i nuovi ambasciatori italiani in area ASEAN. Ecco chi sono

Cambiano gli Ambasciatori in tre sedi italiane in Paesi ASEAN. Massimo Rustico è stato scelto per la sede di Kuala Lumpur, Marco Clemente per quella di Manila e Mario Vattani per Singapore. Ecco una loro breve biografia.

L’Ambasciatore Massimo Rustico, classe 1958, entra in diplomazia nel 1987 dopo la laurea in economia e commercio presso La Sapienza di Roma. Inizia la carriera nel 1989 come secondo segretario commerciale ad Al Kuwait per poi trasferirsi, nel 1991, alla Rappresentanza permanente d’Italia presso l’Onu a New York. Nel 1994 è chiamato alle funzioni di Console a Teheran e, dopo la soppressione del Consolato, è destinato in Ambasciata con funzioni di Primo segretario. Poi si sposta al Consolato Generale di Houston, dove diviene Console generale nel 2002. Dal gennaio 2006 è Console Generale ad Istanbul. Promosso Ministro plenipotenziario nel 2009, dal marzo 2010 è nominato Coordinatore per l’internazionalizzazione delle imprese italiane operanti nel settore delle costruzioni e dei grandi lavori. Nello stesso anno viene assegnato temporaneamente presso l’Associazione Nazionale Costruttori Edili (A.N.C.E.). Passa poi alle dirette dipendenze del Direttore Generale per la Promozione del Sistema Paese, mantenendo il medesimo incarico presso l’A.N.C.E. fino al 2015. Infine, assume le funzioni di Ambasciatore Straordinario e Plenipotenziario d’Italia in Ungheria il 14 novembre 2016. Ora l’approdo in Malesia: ancora una volta, come gli è già capitato in Kuwait, Iran e Turchia, svolgerà le sue mansioni in un Paese a maggioranza musulmano.

L’Ambasciatore Marco Clemente, classe 1959, si laurea alla LUISS di Roma ed entra in diplomazia nel 1985. Assegnato inizialmente alla Direzione Generale Emigrazione, viene destinato a Canberra come primo segretario di legazione. Nel settembre 1990 è a Caracas con funzioni di Console. Diventa Consigliere di legazione nel 1995 e svolge la sua attività presso la Direzione Generale Affari Politici fino al 1998. In seguito, nel 1999, viene nominato Reggente al Consolato Generale a Johannesburg e l’anno successivo, nel 2000, confermato Console Generale. Promosso Consigliere di Ambasciata nel 2002 viene incaricato d’Affari con Lettere a Erevan (Armenia) nel giugno 2003 e successivamente nel 2006 confermato Ambasciatore sempre in Armenia. Rientrato in Italia nel 2007, viene assegnato alla Direzione Generale Paesi dell’Europa fino al 2008, quando viene promosso Ministro plenipotenziario. Fuori ruolo nel 2008 per prestare servizio al Ministero della Difesa quale Consigliere Diplomatico, viene nominato Ambasciatore a Tallinn il 1° dicembre 2012. Ora il nuovo incarico a Manila, un Paese col quale l’Italia (dove quella filippina è la quarta comunità di migranti più numerosa) ha rapporti profondi.

Mario Vattani, nato nel 1966, entra in diplomazia nel 1991. Il primo incarico è a Washington D.C. Dal 1999 al 2001 è console italiano al Cairo, mentre dal 2001 al 2003 svolge le funzioni di consigliere diplomatico al Ministero delle politiche agricole e forestali. Nel 2004 è all’Istituto diplomatico, distaccato a Tokyo per un programma di studi e nel 2005 viene promosso Consigliere d’Ambasciata e confermato a Tokyo con funzioni di Primo consigliere commerciale. Nel 2008 presta servizio al Comune di Roma come consigliere diplomatico del Sindaco. Nel maggio 2011 viene nominato Ministro plenipotenziario e prende funzione come console generale a Osaka. Dal 2014 è in servizio alla Farnesina per il coordinamento nel settore Asia-Pacifico. In continuità con il suo impegno nella regione, dunque, la nomina a Singapore.

In un periodo di avvicinamento economico-politico all’ASEAN, il cambio di guardia nelle rappresentanze italiane non passa inosservato. È ancora presto per prevedere i risvolti degli avvicendamenti nel corpo diplomatico, ma ci si aspetta senza dubbio un ancora maggiore impegno del nostro Paese nell’area del Sud-Est Asiatico. Ai nuovi Ambasciatori la sfida ineludibile di implementare la partnership aiutando l’export italiano verso questa regione sempre più cruciale e promuovendo la stabilità in tutte le aree di crisi.

I fondi a sostegno delle lavoratrici asiatiche

I fondi per le lavoratrici asiatiche: la ripresa post-pandemica in Asia punta sulla resilienza economica delle donne

La società di moda PVH ha appena lanciato la prima iniziativa di finanziamento a supporto delle donne impiegate nelle catene del valore globali. Il cosiddetto Resilience Fund for Women in Global Value Chains è un’azione congiunta di BSR, Universal Access Project della Fondazione delle Nazioni Unite e Win/Win-Win Strategies in collaborazione con i loro partner fondatori e stakeholder. Un’iniziativa d’avanguardia che parte dall’Asia meridionale e intende investire sulla salute, sicurezza e resilienza economica delle donne, la spina dorsale delle catene del valore globali.

L’obiettivo del Fondo è raccogliere almeno 10 milioni di dollari in finanziamenti congiunti nel corso di tre anni per sostenere soluzioni, elaborate localmente, ai problemi sistemici che rendono le donne più vulnerabili alle crisi, come dimostrato dalla pandemia Covid-19. Partendo dagli impatti sproporzionati che il Covid-19 ha avuto sulle lavoratrici coinvolte nella supply chain, il Fondo vuole affrontare tali problematiche e fornire loro le risorse finanziarie necessarie. L’obiettivo è quello di contribuire a rafforzare la resilienza economica, la salute e il benessere a lungo termine delle donne.

Il Resilience Fund for Women sta avviando la sua prima fase in Asia meridionale, con espansioni in altre regioni pianificate entro l’inizio del 2022. Sono previsti finanziamenti ingenti alle organizzazioni dell’Asia meridionale, contando sull’esperienza degli attori locali per capire le esigenze delle lavoratrici e quindi indirizzare al meglio le risorse del Fondo. Il suo comitato consultivo di rappresentanza, ponendo le istituzioni locali e le leader femministe alla pari degli investitori nel determinare la gestione dei fondi, si propone di rispondere in modo flessibile alle mutevoli realtà da affrontare.

Il Fondo è aperto agli investitori di un’ampia gamma di settori. A loro è affidato il compito di costruire nuovi collegamenti con i fondi dedicati alle donne e con le organizzazioni locali che concentrano la loro attività su sicurezza, protezione, salute sessuale e riproduttiva delle donne, tutti intesi come fattori di resilienza economica a lungo termine.

Nella stessa direzione si pone il Fondo RISEResponsive Interventions Supporting Entrepreneurs – lanciato di recente dall’iniziativa del governo australiano Investing in Women per assistere la ripresa delle PMI femminili nel Sud-Est asiatico. Il progetto di finanziamento prevede l’iniezione di capitale in due fasi, integrando una più ampia gamma di sforzi pubblici e altre donazioni atte a mitigare l’impatto economico della pandemia da Covid-19. Le PMI femminili rappresentano una fonte importante di dinamismo economico, resilienza e opportunità di mercato inesplorate, che saranno invece fattori cruciali per la ripresa post pandemica nel Sud-Est asiatico.

A fare da collante a tali iniziative è il crescente focus dell’ASEAN sulle donne. Un segnale fondamentale in tal senso è stato  l’ASEAN Regional Study on Women, Peace and Security, lanciato in occasione della Giornata Internazionale della Donna 2021. Il primo studio sulle donne, la pace e la sicurezza in ASEAN sottolinea il rinnovato impegno istituzionale a sostegno dell’uguaglianza di genere e della leadership femminile, includendo questi principi cardine nell’ASEAN Comprehensive Recovery Framework e nell’ASEAN Vision post 2025.

L’adozione di notevoli misure di sostegno finanziario configura un futuro promettente per la tutela delle lavoratrici asiatiche. Il miglioramento delle condizioni di lavoro, l’empowerment e il sostegno economico alle donne rappresentano obiettivi essenziali nella ripresa post pandemica in Asia.

Abbracciare la circular economy: una necessità per il Sud-Est asiatico

Il modello di sviluppo del Sud-Est asiatico si prepara alla storica svolta dell’economia circolare. Ecco come si stanno muovendo i Paesi del blocco ASEAN per incentivare un sistema che porterà vantaggi su profitti e ambiente

Aumentare i profitti, ridurre gli sprechi e salvare il mondo: questi sono gli obiettivi della circular economy, il sistema economico che si basa sul concetto dell’eco-sostenibilità e della riduzione dei rifiuti e che potrebbe diventare nei prossimi anni l’asso nella manica per i Paesi del Sud-Est asiatico.                  

D’altronde, proprio i Paesi dell’area ASEAN sono ormai da anni colpiti da gravi problemi d’inquinamento, di sprechi delle risorse non riutilizzate e dall’accumulo dei rifiuti plastici nel mare. Problemi di cui si è occupata la stessa ASEAN in un report del 2019 dal titolo “Asean Framework of Action on Marine Debris”, dove vengono elencati i problemi dell’area asiatica in  materia di rifiuti marittimi e le possibili politiche ambientali da adottare per arginarli.

Secondo il World Economic Forum, entro il 2050 non sarà più sostenibile un’economia basata sul modello consumistico del “take, make, dispose” e l’economia circolare sarà il miglior strumento per combattere l’inquinamento e gli sprechi. I dati mostrano che solo il 20% di tutti i materiali prodotti a livello globale vengono riutilizzati, mentre l’80% non viene riciclato: oggi possiamo permettercelo, ma un domani questo non sarà possibile. I dati demografici sono  ulteriore motivo di preoccupazione per il Sud-Est asiatico: entro il 2050 la popolazione urbana aumenterà di oltre 260 milioni di abitanti ed è quindi necessario per questi Paesi iniziare ad introdurre politiche ambientali volte all’implementazione, all’interno delle aziende, di una struttura economica di tipo circolare che permetterà un recupero dei materiali stimabile tra l’80 e il 99%.

I Paesi del Sud-Est asiatico non sono preoccupati solo dall’aumento demografico ma anche e soprattutto dai danni provocati dall’inquinamento e dal cambiamento climatico che potrebbero colpirli profondamente. Secondo la società di consulenza Maplecroft, entro il 2050 i danni causati dal cambiamento climatico potrebbero provocare una perdita del 3% del PIL dell’area dei Paesi del Sud-Est asiatico, a fronte di una stima  dell’1-2% per il PIL globale. Nel rapporto, due città che presentano un rischio particolarmente elevato sono Giacarta e Manila: Indonesia e Filippine, secondo la ricerca “Plastic Waste Inputs from Land Into the Ocean” del 2015, risultano essere il secondo e terzo Paese del mondo per produzione di rifiuti plastici dispersi nel mare.

Per contrastare il fenomeno dell’inquinamento, l’Indonesia ad inizio anno ha pubblicato un report condotto dal Ministerodella Pianificazione dello Sviluppo Nazionale nel quale vengono analizzati gli effetti potenziali che l’adozione di un’economia circolare su cinque settori chiave dell’economia Effetti duplici: da una parte il miglioramento delle condizioni ambientali e dall’altra parte un aumento considerevole dei profitti. Secondo il report, infatti, entro il 2030 l’Indonesia potrebbe accrescere di 45 miliardi di dollari la propria economia, arrivando alla creazione di quasi 4 milioni e mezzo di nuovi posti di lavoro.

Nel 2020 un altro progetto di particolare rilievo è stato istituito per dare inizio alla svolta green dell’area asiatica:  si tratta del progetto “Closing the Loop”, sostenuto dal Giappone e che coinvolge quattro città in Malesia, Indonesia, Thailandia e Vietnam. Obiettivo del progetto è quello di creare un piano organizzativo per combattere lo spreco di rifiuti plastici, individuando le zone a rischio delle città dove è più facile la formazione e l’accumulo di ingenti quantità di rifiuti plastici, in modo tale da permettere alle autorità comunali di adottare strategie nell’ambito della circular economy per la gestione dei rifiuti.

Nonostante i buoni propositi, verosimilmente dettati più dalle possibilità di un aumento di punti del PIL che da motivi  ambientali, la strada per i Paesi del Sud-Est asiatico è ancora in salita e sono numerosi gli interventi  che devono essere ancora attuati dai rispettivi governi.

Anche se all’Indonesia si sono aggiunti il Vietnam, Singapore e le Filippine, che hanno annunciato dal 2021 di voler implementare nuove politiche green e strategie ad hoc per intraprendere il percorso verso l’economia circolare e le sue 5 R “ridurre, riusare, riciclare, rigenerare e rinnovare”, restano diversi rischi per i governi.

Secondo alcuni esperti, il rischio maggiore per i Paesi del Sud-Est asiatico riguarderebbe il mancato coinvolgimento delle piccole e medie imprese, (il 90% delle aziende registrate nell’area), nella transizione ecologica.

Anche se linea teorica è più facile per una piccola azienda modificare le proprie politiche rispetto ad una grande azienda, la mancanza di adeguati incentivi e supporti economici per attuare programmi incentrati sull’economia circolare, rischia di portare diverse pmi a rinunciare  alla svolta ecologica. Per ovviare al problema una buona soluzione è stata attuata in Vietnam, dove vengono proposti prestiti a basso tasso d’interesse alle imprese che vogliono sviluppare progetti a zero impatto ambientale.

Numerose ricerche, specialmente quelle che da dieci anni vengono condotte dalla Fondazione EllenMacArthur in tema di economia circolare, mostrano che il cambio di rotta dei Paesi del Sud-Est asiatico è necessario, perché seguire un’economia lineare non sarà più sostenibile nel futuro prossimo.

Quanto prima verranno adottate misure volte a portare cambiamenti concreti sul tema ambientale, prima vi saranno più possibilità di vedere raggiunti i risultati che questi Paesi si sono posti per il 2030 in termini di riduzione d’inquinamento e di rifiuti plastici. Il tutto insieme a un duplice stimolo alla transizione e alla crescita economica.

La finanza green guida il Sud-Est asiatico verso la de-carbonizzazione

De-carbonizzazione e transizione energetica sono temi di primo piano per i Paesi del Sud-Est asiatico. Qui la rivalità virtuosa tra Cina e Giappone si gioca a colpi di finanza green.

Il 7 maggio l’Asian Development Bank (ADB) ha annunciato l’interruzione di ulteriori finanziamenti a centrali elettriche a carbone, ad attività estrattive di combustibili fossili e a quelle di produzione ed esplorazione di petrolio e gas naturale. La notizia si inserisce nell’alveo della ADB’s Strategy 2030 pubblicata nel 2018, con la quale la banca si era impegnata a investire cumulativamente 80 miliardi di dollari in finanziamenti sostenibili tra il 2019 e il 2030. 

Sin dalla seconda metà del diciottesimo secolo, l’umanità ha sistematizzato l’impiego di combustibili fossili per produrre energia. È lo sviluppo tecnologico che ha dato impulso alla seconda rivoluzione industriale in Europa, consentendo di realizzare il motore a vapore, che ha abbattuto i costi dei trasporti e iniziato a intessere le prime maglie di quella che sarebbe presto divenuta l’economia globalizzata. Il progresso umano continua ancora oggi a misurarsi in rivoluzioni: stavolta, però, tocca all’industria globale delle energie rinnovabili, e in generale a processi produttivi che limitino drasticamente il nostro impatto sul pianeta.  

Per Paesi in via di sviluppo come le economie del Sud-Est asiatico si tratta di una sfida non da poco. Se da una parte sono aree particolarmente esposte ai disastri ambientali causati dai cambiamenti antropogenici del clima, dall’altra le economie del Sud-Est asiatico sono ancora in stadi di sviluppo poco avanzati, per quanto emergenti. Per questo gioca un ruolo cruciale la tensione tra scelte nazionali e imperativi internazionali di sostenibilità. Per governi e attività produttive il carbone resta infatti la fonte prediletta del mix energetico regionale. La domanda di elettricità cresce a ritmo sostenuto in mercati emergenti, per questo è prioritario per i governi garantirne l’offerta a prezzi accessibili. Esiste quindi un disallineamento tra le necessità politiche di stimolare la domanda interna rendendo al contempo competitivo il processo produttivo, e quelle di alcuni investitori stranieri che invece interrompono i finanziamenti ad attività che fanno uso di tecnologie obsolete. A questo proposito, Tim Buckley dell’Istituto per l’Economia energetica e l’Analisi finanziaria ha affermato che se queste banche smettono di finanziarlo, il carbone è morto: “Coal is not bankable without government subsidised finance”.

In effetti, l’ultimo rapporto annuale della International Energy Agency (IEA), pubblicato a inizio anno, sottolinea come l’ingente crescita demografica che travolgerà il Sud-Est asiatico nel prossimo futuro giocherà un ruolo cruciale nel plasmare le politiche energetiche globali. A questo proposito, l’Asian Development Bank aveva già previsto con l’ASEAN un piano di progetti infrastrutturali sostenibili nell’aprile 2019: l’ASEAN Catalytic Green Finance Facility, un meccanismo di finanza green in mano ai singoli governi regionali, focalizzato sullo sviluppo di progetti positivi per il clima, di cui l’ADB gestisce la struttura. 

L’ADB non è l’unica ad aver puntato sul Sud-Est asiatico per i suoi investimenti sostenibili. La banca, di matrice giapponese, è chiamata a competere con la Asian Infrastructure Investment Bank (AIIB) a guida cinese, istituto finanziario multilaterale adibito principalmente alla promozione di progetti infrastrutturali in Asia, “with sustainability at its core”. 

Il ruolo della Cina nei programmi di de-carbonizzazione del Sud-Est asiatico è in realtà ambivalente. Come riportato da Channel News Asia, l’IEA sostiene che oltre l’80% della crescita dell’impiego di carbone proverrà dall’Asia, e tale crescita sarà trainata proprio dalla Cina. Per accelerare la ripresa post-pandemia i Pechino aveva tra l’altro incrementato l’utilizzo del carbone con l’intento di stimolare la sua economia, alimentando la domanda interna. D’altra parte, la Cina resta fedele alla prassi marxista per cui è bene servirsi degli strumenti materiali a disposizione dello status quo prima di compiere una rivoluzione, in questo caso energetica. I piani a medio termine della leadership prevedono una transizione ecologica ambiziosa, che punta a rendere il Paese carbon-neutral entro il 2060. Tim Buckley ha commentato, a questo proposito, che la Cina è leader in ogni settore industriale che è fondamentale per la de-carbonizzazione del mondo, e questo dovrebbe placare i timori occidentali circa l’affidabilità degli impegni assunti dal Partito-Sato. 

Il sostanziale antagonismo tra Cina e Giappone sembrerebbe quindi indirizzarsi verso una competizione virtuosa nel Sud-Est asiatico, con l’enfasi su investimenti infrastrutturali sostenibili che si allinea con l’urgenza delle istanze ambientali nella regione. Per ragioni strutturali come quelle geografiche, economiche e politico-istituzionali, il Sud-Est asiatico rimane un contesto particolarmente esposto alle conseguenze della crisi climatica, aggravata dall’uso irresponsabile di risorse energetiche obsolete. Quindi per i governi nazionali di quest’area la tensione tra imperativi di crescita insostenibili e la dirompenza dei disastri ambientali resta una sfida storica. Ecco perché la finanza green può assumere il ruolo di game changer nella regione, per spostare l’ago della bilancia a favore di politiche e pratiche più sostenibili nel prossimo futuro.

L’AEC Blueprint 2025 è anche un’occasione per l’Unione Europea

Mentre la Comunità Economica dell’ASEAN (AEC) fa il punto sul suo AEC Blueprint 2025, l’Unione Europea dovrebbe tutelare lo spazio privilegiato che si è ritagliata nella relazione con il Sud-Est asiatico

Lo scorso 28 aprile si è tenuta la revisione intermedia dell’AEC Blueprint 2025,  alla presenza anche della rappresentanza dell’Unione Europea in ASEAN. Le attività della Comunità Economica dell’ASEAN (AEC) sono coordinate infatti attraverso questo piano di sviluppo, messo a punto grazie agli studi sull’ambiente economico regionale forniti dall’Economic Research Institute for ASEAN and East Asia (ERIA), dalla S. Rajaratnam School of International Studies (RSIS) e dell’Institute of Southeast Asian Studies (ISEAS), che hanno contribuito a delineare le direttive dell’AEC per i prossimi anni. L’AEC Blueprint 2025 è stato progettato sulla base del precedente AEC 2015, e si propone perciò di realizzare alcuni obiettivi generali: un’economia integrata e coesa; competitività, innovazione e dinamismo in ASEAN; connettività e cooperazione settoriale; maggiore inclusività e un approccio people-centered; e infine un ASEAN che aspiri a divenire un attore globale rilevante. Inoltre, non si tratta solo di un documento significativo per le economie del Sud-Est asiatico ma anche per partner internazionali quali l’UE.

La revisione ha avuto lo scopo di valutare i risultati ottenuti nei primi anni di attuazione del progetto. Secondo il Segretario Generale Dato Lim Jock Hoi, che è intervenuto all’incontro, sarebbe opportuno far luce su tre dimensioni fondamentali. Innanzitutto, nonostante le prestazioni positive, i risultati non sono ancora sufficienti: occorre migliorare la reattività alle tematiche trasversali e il coordinamento intersettoriale all’interno dell’ASEAN. In secondo luogo, anche se l’obiettivo primario resta la realizzazione di una maggiore integrazione economica, bisogna sempre tenere a mente che l’ambiente esterno è in evoluzione, e che se sfide urgenti come il cambiamento climatico si inaspriscono è necessario aggiustare il piano 2025 incorporando queste nuove istanze. In terzo luogo, ha concluso il Segretario Generale, l’ASEAN deve considerare le caratteristiche materiali dei suoi mercati e affrontarne lacune e complessità attraverso la cooperazione regionale.

Al lancio della revisione intermedia era presente anche una delegazione dell’Unione Europea, che ha salutato con favore la costanza che l’Associazione ha dimostrato nel mantenere questi impegni economico-commerciali. Solo dieci giorni prima, il 19 aprile, l’UE aveva inaugurato la sua Strategia per la Cooperazione nell’Indo-Pacifico, che d’altra parte riconosce la crescente rilevanza economica e geopolitica che la regione sta dimostrando negli ultimi anni. L’Unione Europea è il partner commerciale con il quale l’ASEAN mantiene una delle relazioni mutualmente più vantaggiose, essendo valso nel 2020 circa 123 miliardi di euro di esportazioni, secondo le stime dell’International Trade Center. Inoltre, non solo la regione dell’Indo-Pacifico costituisce una fetta significativa del PIL mondiale e quasi due terzi della crescita globale, ma presenta anche alcune delle maggiori linee di frattura nella maglia geopolitica globale. Tra questioni relative alle controversie con la Cina nel Mar Cinese Meridionale, una particolare esposizione alle conseguenze più dirompenti del cambiamento climatico, e il fatto che gli attori regionali presentano preferenze differenziate rispetto ai Paesi coi quali cooperare più attivamente, il Sud-Est asiatico è molto più che un hub economico per l’Europa. 

Osservare da vicino le dinamiche politico-economiche dei Paesi ASEAN è dunque fondamentale per riuscire a intravedere la direzione che potrebbe prendere l’economia globale in futuro. Non solo la regione del Sud-Est asiatico presenta un mercato enorme e in corso di sviluppo nonostante la pandemia. Ma il modo in cui queste economie reagiscono alla minaccia dei disastri ambientali, e alle questioni legate all’inclusione di categorie sociali marginalizzate, è la sintesi perfetta delle sfide globali che ci attendono. Ecco perché l’AEC Blueprint 2025, un progetto propriamente regionale, ha una sua rilevanza anche per l’Unione, che sembra essersi ritagliata un ruolo come principale supporter dello sviluppo economico del Sud-Est asiatico. Nonostante si tratti di organizzazioni regionali di natura diversa, ASEAN e UE rappresentano infatti i progetti di integrazione economica più avanzati al mondo, e condividono anche alcuni dei paradigmi valoriali su cui si fondano: multilateralismo, stato di diritto, libero mercato. L’Unione dovrebbe perciò cogliere l’occasione di queste affinità per tutelare il vantaggio acquisito rispetto a partner economici geograficamente più vicini, ma ideologicamente molto più lontani.

Alla ricerca di start-up nel mercato del Sud-Est asiatico

Grab, Gojek, Sea e Tokopedia: la finanza internazionalescommette sulle start-up made in ASEAN

Wall Street si è accorta del potenziale delle start-up del Sud-Est Asiatico. È una regione molto più grande e molto più popolosa dell’Europa o dell’America del Nord e la sua economia, nonostante la crisi pandemica, cresce a ritmo sostenuto. Ma per avere successo in questo mercato bisogna conoscerne le specificità. Non è un caso che le attività di Uber siano state interamente comprate dalla sua variante locale, Grab, nel 2018. Così come anche la cinese Alibaba ha faticato a lungo per surclassare Lazada, un’azienda di e-commerce regionale.

Negli ultimi anni il panorama delle start-up tecnologiche dell’Asia orientale si è espanso sempre di più. Servizi digitali come il ride-hailing o il delivery sono diventati sempre più popolari. Dal 2015 venture capitalist, gruppi tecnologici (tra cui Alibaba e Tencent, Google e SoftBank) e veterani di Wall Street hanno investito 26 miliardi di dollari nella regione.  La capitalizzazione del gruppo Sea, una società singaporiana di e-commerce quotata a New York, è quadruplicata nel corso dell’ultimo anno, raggiungendo i 125 miliardi di dollari. Anche Grab è stata recentemente quotata in borsa per un valore di quasi 40 miliardi di dollari, sostenuta, tra gli altri, da BlackRock, il più grande asset manager del mondo. Gojek, l’alternativa indonesiana di ride-hailing, è stata valutata a oltre 10 miliardi e potrebbe fondersi con Tokopedia, una società indonesiana di e-commerce, prima di accettare la quotazione a New York. Anche Traveloka, una società specializzata in prenotazioni aeree, è in trattativa per essere quotata a Wall Street. In sintesi, i servizi di e-commerce più apprezzati e utilizzati nella regione superano insieme il valore di 200 miliardi di dollari.

Tutte queste società hanno iniziato ritagliandosi un mercato di nicchia. Poi, sono evolute fino a diventare dirette concorrenti delle omonime aziende americane e cinesi. Grab è presente in otto Paesi, e oltre al trasporto offre servizi di food delivery, pagamenti digitali, assicurazioni, investimenti e consulenza sanitaria. Quest’anno, inoltre, prevede di lanciare una banca digitale a Singapore. Uno dei suoi co-fondatori, Tan Hooi Ling, la descrive come una commistione di Uber, DoorDash (un’app made in USA per la consegna di cibo) e Ant (la succursale finanziaria di Alibaba). Insomma, una super app che racchiude servizi normalmente distribuiti su più piattaforme. Stessa cosa vale per Gojek, che offre un simile catalogo di servizi.

La crescita esponenziale di queste piattaforme, tuttavia, non è affatto scontata. Se la qualità delle infrastrutture e delle reti di comunicazione non migliora molti dei potenziali fruitori saranno tagliati fuori, soprattutto se le aziende considereranno poco redditizio offrire i loro servizi in determinate zone. Il problema è stato sollevato in riferimento alla particolare conformazione geografica dell’Indonesia che ospita più di 6.000 isole e non possiede la rete infrastrutturale della vicina Cina. Senza contare che gran parte della popolazione ha un reddito molto basso, con pochi soldi a disposizione per fare acquisti online. E anche se le piattaforme emergenti riuscissero a superare tali ostacoli, prima o poi si troverebbero inevitabilmente a sovrapporsi l’un l’altra. Grab e Gojek già competono per stesso mercato. 

Rischi ampiamente giustificati dagli ottimi risultati. Dopotutto, una crescita elevata si traduce in investitori tolleranti; le entrate di Sea sono aumentate del 101% lo scorso anno e Grab prevede di raggiungere il pareggio di bilancio entro il 2023. Molti investitori sostengono infatti che il mercato del Sud-Est asiatico sia talmente vasto e variegato da rendere impossibile la formazione di monopoli. Ciò rende credibili le parole del fondatore di Gojek, Kevin Alawi, “non è un mercato in cui chi vince prende tutto”. Una prospettiva che presenta molte opportunità per gli investitori occidentali specie in un contesto post-pandemia e di ripresa dei consumi interni.

Sea: un modello ASEAN per l’e-commerce

La più grande piattaforma e-commerce nel Sud-Est asiatico combina tratti di Amazon, Alibaba e Tencent in una formula nuova

Quando Sea fu fondata nel 2009 come ‘piattaforma di comunicazione’, per soli video gamer e nel solo Sud-Est asiatico, Forrest Li, il fondatore, non aveva previsto che la sua azienda avrebbe spodestato Uber per capitalizzazione di mercato ($120 miliardi), né che la sua crescita avrebbe di gran lunga superato quella di Lazada (gruppo Alibaba).

Sea è cresciuta ininterrottamente dal 2016 (+750%) e ora il suo fatturato si attesta a $4,37 miliardi (+101% rispetto al 2019) diventando un simbolo del successo dell’e-commerce nel Sud-Est asiatico. Oggi le azioni di Sea vengono considerate tra le più attrattive nel mondo tech, seconde solo a Tesla. 

Cosa è quindi Sea, come è arrivata ad essere una potenza digitale? E perche il suo motto è ‘connecting the dots’?

Partiamo dall’inizio. Sea viene fondata sul modello di business di TenCent (che difatti è la sua azienda mentore e ne detiene il 21%): focus primario sul gaming per espandersi successivamente nei mercati e-commerce, social network e infine nei pagamenti digitali.

Sea punta in primis a conquistare i gamer nel Sud-Est asiatico: prima come piattaforma di comunicazione, poi come azienda di pubblicazione, infine come  società di sviluppo di videogame. Garena Free Fire, il gioco di maggior successo degli ultimi anni in ASEAN, rappresenta la consacrazione dell’azienda nell’industria, e segna l’inizio della scalata di Sea nella e-conomy.

Con la successiva espansione nell’e-commerce, Sea sviluppa una sua piattaforma interna che prende il nome di Shopee. Una mossa determinante che la distacca però dall’esperienza di TenCent, la quale, a suo tempo, si espanse acquisendo le piattaforme cinesi di Pinduodo e JD. 

Nel complesso, la strategia di crescita organica ha portato a Sea enormi benefici: oggi Shopee è la prima piattaforma di e-commerce in ASEAN per dimensione, registrando un volume di affari annuo di $2,16 miliardi.

Infine, seguendo la traiettoria tracciata da TenCent, Sea ha recentemente investito nell’industria della tecnologia applicata alla finanza (fintech). SeaMoney, una piattaforma di proprietà simile a Mercado Libre (Sud America), è cresciuta del 282% nel 2020 e sta rivoluzionando le modalità di pagamento in ASEAN, anche sull’onda degli effetti del distanziamento sociale. Questo fenomeno ha tratti del tutto simili a quanto accaduto con Alipay e WeChat pay durante la pandemia da SARS nel 2003. 
Non solo, l’azienda ha di recente acquisito la banca indonesiana BKE al fine di ovviare i suoi problemi di liquidità, oltre che aver istituito un fondo, Sea Capital, tramite cui impegnare risorse nel mondo fintech (credito, portafogli digitali, SPayLater).

In ultima analisi, il vantaggio competitivo di Sea si basa su due fattori, insieme cruciali e complementari. Il focus sulle esigenze dei mercati locali e lo sfruttamento delle economie di scala su base regionale. 

Al contrario di altri player, Sea ha deciso infatti di investire massivamente in ricerca e sviluppo anche al fine di analizzare dati ed elaborare campagne marketing rivolte alle esigenze delle popolazioni locali nei rispettivi Paesi. Come ha dichiarato Forrest Li, CEO di Sea, l’investimento costante è l’unica via di crescita, anche quando questo porta a ingenti perdite nel breve termine (Sea è in crescente perdita dal 2015, e non ha mai registrato profitti).

Questa ripida scalata è tuttavia resa possibile dalla dimensione di Sea, che, sia organicamente che tramite acquisizione, continua ad allargare il suo portafoglio di business e potenziali sinergie interne, in un circolo virtuoso che evoca il modello Amazon.

Forse è proprio questo che rende questa azienda così attrattiva per gli investitori internazionali: la prospettiva di avere davanti non solo un conglomerato e-commerce asiatico, ma un enorme powerhouse con potenza di gestione dati pressoché illimitata in grado di rivoluzionare la vita dei suoi utenti.

Oltretutto, come suggeriscono i rumors sulla fusione tra Gojek e Tokopedia, gli altri due giganti ASEAN, i prossimi mesi saranno cruciali per il futuro sviluppo di una delle industrie più dinamiche del Sud-Est asiatico. 

Inquinamento marittimo: una questione inderogabile per il Sud-Est asiatico

I Paesi dell’ASEAN devono risolvere il problema dell’inquinamento marittimo

Da diversi anni l’inquinamento marittimo è diventato uno dei dossier principali per gli Stati e per le  organizzazioni internazionali che si occupano di ambiente. 

Uno studio del 2015 ha messo in luce una scomoda verità per i Paesi del Sud-Est asiatico: ad oggi sono la causa di oltre il 60% dell’inquinamento marino. Tra i 20 Paesi al mondo con il tasso più alto di inquinamento causato dai rifiuti plastici dispersi in mare, 11 Paesi appartengono all’area asiatica: dopo la Cina troviamo infatti Indonesia (2°), Filippine (3°), Vietnam (4°), Thailandia (6°), Malesia (8°) e Myanmar (17°).

Secondo le statistiche, ogni anno la maggior quantità di inquinamento da plastica proviene dalle industrie di imballaggio e dal settore tessile, le quali sono sempre più presenti in Cina e nei Paesi asiatici: su circa 300 milioni di tonnellate di rifiuti plastici nel mare, più della metà provengono proprio dal settore tessile e da quello dell’imballaggio.

Questi numeri, non solo mettono in cattiva luce i Paesi asiatici agli occhi dell’opinione pubblica, ma dimostrano l’inefficienza di questi Paesi nell’implementare politiche idonee al riciclaggio dei rifiuti: secondo i dati della Banca Mondiale, circa il 75% della plastica in Malesia, Thailandia e nelle Filippine non viene riciclata, facendo si che ogni anno i Paesi del Sud-Est asiatico perdano 7 miliardi di dollari.  

Un così elevato tasso di inquinamento di rifiuti plastici è causato principalmente da due fattori: da una parte le correnti marine trasportano i rifiuti di altri Paesi verso le coste del Pacifico, dall’altra parte il fattore dominante sono i fiumi. Tra i dieci più inquinanti del mondo, ben otto si trovano in Asia: i più importanti, per tasso di inquinamento, sono alcuni fiumi che si trovano in Cina (Fiume Azzurro, Xi Jiang, Huangpu), seguiti dal fiume Brantas (Indonesia), dal Pasig (Filippine), dall’Irrawaddy (Myanmar) e dal Mekong (Cina, Myanmar, Laos, Thailandia, Vietnam e Cambogia) che aumentano in maniera considerevole il già ampio problema dell’inquinamento dei mari del Sud-Est asiatico. 

Per cercare di ovviare al problema dei rifiuti plastici, negli ultimi anni i Paesi dell’ASEAN hanno trovato accordi per la riduzione dell’inquinamento marittimo: ad esempio a Bangkok nel 2019 è stata adottata la Bangkok Declaration on Combating Marine Debris in the ASEAN Region con l’obiettivo di “rinforzare le azioni a livello nazionale e le azioni di collaborazione affinché si prevenga e si riduca drasticamente l’inquinamento marittimo”.  Attualmente i maggiori sforzi sono stati intrapresi da Malesia e Filippine, dove le principali aziende e brand internazionali stanno cercando di ridurre il consumo di plastica. A questi due Paesi si è unita la Thailandia, dove la plastica ricopre un ruolo importante nell’economia del Paese: i proventi delle aziende produttrici di plastica ricoprono da sole il  7% del PIL del Paese.  

Recentemente sono stati sviluppati importanti progetti nella regione asiatica: il più importante di questi è il “Closing Loop” istituito dall’ESCAP, la Commissione ONU per l’Economia e il Sociale per l’Asia e il Pacifico, in collaborazione con il Giappone e l’ASEAN. Il progetto, che vede coinvolte Kuala Lumpur (Malesia), Surabaya (Indonesia), Nakhon Si Thammarat (Thailandia) e Da Nang (Vietnam), si pone come obiettivo quello di fornire gli strumenti essenziali e il know-how per sviluppare politiche e strategie di investimento, affinché si sviluppi un approccio verso l’economia circolare e una migliore gestione del riciclaggio della plastica all’interno dei Paesi coinvolti. 

Nei prossimi anni i Paesi del Sud-Est asiatico dovranno condurre politiche ambientali sempre più rivolte alla transizione verso l’economia circolare, fattore che potrebbe rivelarsi decisivo per il futuro. 

Attraverso l’economia circolare, questi Paesi hanno l’occasione di accrescere le rispettive economie, migliorando da una parte le condizioni del settore ittico, di vitale importanza per i Paesi che si affacciano sul Mar Cinese Meridionale, e dall’altra parte incrementando la domanda del turismo costiero e marittimo. 

Combinare uguaglianza di genere ed economia digitale in ASEAN

L’accelerata digitalizzazione economica nel Sud-Est asiatico è un’occasione per i Paesi ASEAN di realizzare una ripresa economica che punti all’uguaglianza di genere

L’Economic Research Institute for ASEAN and East Asia ha recentemente pubblicato un policy brief dal titolo “Women’s Participation in the Digital Economy: Improving Access to Skills, Entrepreneurship, and Leadership Across ASEAN”. Le autrici del policy brief, Giulia Ajmone Marsan e Araba Sey, hanno osservato come tra le tendenze riscontrate all’indomani della pandemia da Covid-19 vi sia la progressiva digitalizzazione dell’economia, considerata una vera opportunità per le lavoratrici del Sud-Est asiatico.

In un recente webinar, Araba Sey ha constatato la difficoltà di trattare tali argomenti, sostenendo “it is difficult to legislate gender equality because it comes from the heart”. In effetti, affrontare tematiche legate alla sistematica esclusione delle donne da alcuni settori economici, specie quello delle tecnologie digitali, è sempre un’impresa complessa. È difficile destreggiarsi nella pluralità di istanze racchiuse nella nozione di uguaglianza di genere, poiché la battaglia per una maggiore inclusione si gioca su livelli materiali e immateriali – dal divario salariale alle discriminazioni sociali.

In generale, l’obiettivo del report è quello di indicare un paradigma di strategie che possa favorire l’integrazione delle lavoratrici asiatiche in un’economia regionale che sta registrando prestazioni sempre in crescita. Ricordiamo infatti che alcuni Paesi ASEAN, pur avendo conosciuto tracolli del PIL nel 2020, hanno dimostrato eccezionali capacità di ripresa negli ultimi mesi. A questo proposito, puntare su un’economia digitale più inclusiva può contribuire ulteriormente alla ripresa post-pandemica delle economie nazionali. 

Le autrici del rapporto sostengono che per includere le lavoratrici nella digital economy del Sud-Est asiatico sia necessario elaborare strategie politiche mirate e realizzare un piano d’azione a livello regionale. La popolazione femminile è stata duramente colpita dalle conseguenze economiche del Covid-19, perché in percentuale è sovra-rappresentata in settori come il turismo e vendita al dettaglio e l’abbigliamento: il primo settore è quasi completamente fermo da un anno a questa parte, i secondi sono ambiti a forte rischio di automazione. Inoltre, sottolineano, esiste una profonda connessione tra bassi salari, lavori poco qualificati e rischio di automazione. Ecco perché suggeriscono di investire nella creazione di una forza lavoro femminile più qualificata, che favorisca maggiori opportunità di accesso all’economia digitale. 

Durante il webinar, Araba Sey ha sottolineato che a una strategia economica coordinata a livello regionale debba coniugarsi anche un impegno volto a decostruire stereotipi e pregiudizi di genere, che supportano simbolicamente la sistematica esclusione femminile. Ad esempio, mentre gli uomini sono premiati per la loro devozione al lavoro, le donne sono frequentemente chiamate a scegliere tra una devozione familiare e lavorativa, con il risultato che il desiderio di non rinunciare a nessuna delle due comporta il ricorso a impieghi poco qualificati, e dunque sottopagati, ha sottolineato Sey.Il report dimostra infine che i Paesi ASEAN sono a un buon punto per quanto riguarda l’accesso a tecnologie e strumenti digitali basilari, come tablet e smartphone. Ma le donne vengono lasciate indietro quando si tratta di fornire l’accesso a tecnologie più avanzate e posizioni di leadership in ambito digitale, che garantirebbero l’integrazione di una prospettiva di genere nel settore, e dunque un contesto economico più inclusivo. Considerando che entro il 2025 quasi la metà della popolazione mondiale risiederà in Asia, il destino delle lavoratrici nel Sud-Est asiatico ha grande rilevanza per la condizione delle lavoratrici di tutto il mondo.