Asean

Una nuova ondata di Covid minaccia la ripresa dell’Asia

Diversi Paesi asiatici avevano reagito con efficienza allo scoppio della crisi sanitaria, contenendo e talvolta prevenendo i contagi. La tempestività delle misure adottate rischia di essere ora compromessa dalla scarsa disponibilità di vaccini

Una nuova ondata di contagi da Covid-19 ha travolto nelle scorse settimane la regione dell’Indo-Pacifico. Mentre dall’altra parte dell’emisfero la pur contrastata diffusione dei vaccini consente di ritornare progressivamente alla normalità, il virus fa breccia in diversi Paesi asiatici. Tra questi anche vari stati ASEAN come Singapore, Vietnam e Malesia. E dire che i primi due nel 2020 erano state considerate tra le roccaforti mondiali della lotta al Covid-19. Le autorità erano state a tal punto virtuose nel contenere l’epidemia, che si era parlato di un vero e proprio modello asiatico di prevenzione della crisi sanitaria. Un modello che appunto, oltre ai casi più noti di Cina, Corea del Sud e Taiwan, includeva anche diversi Paesi ASEAN. Allora gli osservatori internazionali si erano interrogati a lungo sulle ragioni politiche e culturali di questo successo. Stavolta invece la causa principale della nuova emergenza è chiara: mancano i vaccini.

Secondo l’istituto di ricerca Our World Data, meno del 20% della popolazione è stata vaccinata in otto dei Paesi ASEAN – eccetto Singapore, che ne ha vaccinata la metà, e il Myanmar, i cui dati sono parziali e arrivano solo al 15 maggio scorso. Rispetto alle stime di Paesi più avanzati lo svantaggio è netto: è vaccinata il 52.71% della popolazione statunitense, il 46.6% di quella dell’Unione Europea e il 43.21% di quella cinese. L’approvvigionamento iniziale è stato una sfida in tutto il mondo, ma sono stati i Paesi più ricchi e colpiti maggiormente dalla pandemia a dotarsi più rapidamente dei brevetti vaccinali. Quelli del Sud-Est asiatico, con tassi di infezione più bassi, non hanno cavalcato questo vantaggio comparato o sono rimasti esitanti di fronte al traslare della competizione sino-statunitense dal piano commerciale a quello della diplomazia dei vaccini.

“Per porre fine alla pandemia, sono necessarie strategie sia difensive che offensive. La strategia offensiva sono i vaccini”, ha suggerito Jason Wang, docente presso la Stanford University School of Medicine. Secondo il Prof. Wang, quando la minaccia percepita dalla popolazione si è abbassata, i governi si sono limitati a rispondere a quella minaccia in modo reattivo. Ecco che quindi la strategia più diffusa in area ASEAN è stata la chiusura dei confini nazionali, una misura difensiva funzionale volta anche a placare alcune derive xenofobe che stavano conquistando spazio nel discorso pubblico sulla crisi sanitaria. Inoltre, come ha dichiarato Peter Collignon, medico e professore di microbiologia presso l’Australian National University, “la realtà è che coloro che producono i vaccini li tengono per sé”. Nel cercare risposte politicamente accettabili a questa realtà, i rappresentanti dei governi nazionali in Asia orientale hanno pensato che in fondo non c’era alcun motivo di affrettarsi. Mentre in Europa e negli Stati Uniti la corsa al vaccino è stata anche motivo di orgoglio nazionale, il Ministro della Sanità sudcoreano ha per esempio dichiarato a fine 2020: “Ce la siamo cavata abbastanza bene con il Covid-19, quindi non abbiamo fretta di partire con le vaccinazioni quando i rischi [dei vaccini] non sono stati ancora verificati”.

Attualmente il Vietnam, che aveva ricevuto l’encomio della comunità internazionale per l’efficienza con cui aveva prevenuto il diffondersi delle infezioni, sta subendo l’ondata più grave dall’inizio della pandemia. Dall’inizio della nuova ondata, cominciata la fine di aprile, è passato da pochissimi casi giornalieri ad averne quasi 500 ogni 24 ore, con un incremento esponenziale delle infezioni totali in soli due mesi (da 3.000 a 13.000 casi circa). Anche  Thailandia, Cambogia e Malesia sono alle prese con nuove restrizioni, specialmente Kuala Lumpur, che ha previsto un’estensione del lockdown nazionale almeno fino al 28 giugno.

Alcuni Paesi dell’area speravano di risollevare il turismo, attraverso la graduale riapertura dei confini. In Cambogia, Filippine e Thailandia, infatti, il contributo del settore all’economia nazionale è vicino al 20-30%: per questo una rapida ripresa dei viaggi internazionali avrebbe potuto contribuire fortemente alla ripresa economica regionale. Al contrario, il traffico passeggeri internazionale nel Sud-Est asiatico è fermo da diversi mesi a circa il 3% dei livelli pre-pandemia, secondo Channel News Asia. La situazione non può che peggiorare, dal momento che il successo delle campagne vaccinali in altre aree del mondo consentirà al settore turistico di riprendere fiato, lasciando indietro diversi Paesi asiatici.

La Thailandia è determinata ad attuare le misure necessarie perché l’economia del settore possa risollevarsi. Mercoledì 16 giugno i rappresentanti del governo si sono detti pronti a riaprire i confini entro 120 giorni per i viaggiatori che esibiscano un certificato di vaccinazione valido. Phuket è la meta individuata per il programma pilota che prevede l’accoglienza di turisti provenienti da Paesi a basso e medio rischio, a condizione che questi non lascino l’isola per almeno 14 giorni. Si tratta del “Phuket Sandbox plan”, che è stato approvato a fine maggio dalla task force economica del governo thailandese, e arriva a pochi giorni dall’inizio di una campagna di vaccinazioni di massa. La speranza è che questo possa aiutare chi vive di attività legate al turismo e ha subito gravemente l’assenza dei 40 milioni di turisti l’anno che visitavano il Paese prima della pandemia.

Gli sforzi di Bangkok potrebbero risultare insufficienti se i Paesi continueranno a reagire in modo disomogeneo alla nuova ondata da Covid-19. Una ripresa economica coordinata non può fare a meno della sicurezza sanitaria legata ai vaccini. Il contraccolpo subito dai Paesi ASEAN, e più in generale da buona parte dell’Asia orientale e meridionale, rischia di rallentare la ripresa economica post Covid della regione e di rendere vana la straordinaria tempestività con cui diversi governi asiatici avevano arginato i contagi nel 2020.

Energia, i Paesi ASEAN puntano sul nucleare

Articolo a cura di Sabrina Moles

Cinque Paesi ASEAN (Indonesia, Malesia, Vietnam, Thailandia e Filippine) hanno incluso lo sviluppo dell’energia nucleare civile nelle strategie di sviluppo dei prossimi anni

La sicurezza energetica nei Paesi ASEAN è un problema urgente per la loro strategia di sviluppo. La necessità di rispondere alle sfide per l’energia di domani è, inoltre, sempre più legata a doppio filo alla questione climatica e all’obbiettivo emissioni zero. In questo complesso quadro politico, economico e sociale si fa avanti un’opzione mai presa in considerazione dal gruppo fino agli ultimi anni: l’energia nucleare.

I Paesi ASEAN stanno raggiungendo gli altri Paesi nella corsa alle energie di nuova generazione, finanziando progetti ambiziosi per le rinnovabili. Così l’ASEAN punta a creare un ecosistema di collaborazione, confronto e crescita per il settore energetico, strategia che ora cerca di trasferire anche al settore nucleare. Tra i fattori determinanti emerge soprattutto la domanda energetica dei Paesi della regione, che dal 2000 è aumentata dell’80%. A questo si unisce la ricerca di fonti energetiche alternative e meno inquinanti, proprio perché la rapida crescita dei consumi ha anche dato la spinta alle emissioni con conseguenze dirette anche sulla salute pubblica. Si stima che negli stati ASEAN moriranno per causa delle emissioni nocive più di 650 mila persone all’anno entro il 2040, rispetto alle circa 450.000 vittime del 2018. Spinti da esigenze ambientali, economiche e sociali la regione ha registrato uno dei più promettenti tassi di crescita nel settore delle rinnovabili. I piani dei Paesi ASEAN sono ambiziosi, e puntano a far salire la quota delle energie rinnovabili al 70% sul totale del mix energetico. Ma per raggiungere l’obbiettivo delle emissioni zero servirà uno sforzo importante: per questo motivo, il nucleare appare come una soluzione coerente con gli obbiettivi del gruppo.

La crisi post-Covid ha portato i governi a ripensare la strategia di sviluppo energetico con maggiore pragmatismo, facendo rientrare nel calcolo anche l’opzione nucleare. Gli impianti sono sempre più longevi: in pochi anni si è passati da stime intorno ai 40 anni di vita degli impianti per arrivare a calcoli, più ottimisti, che raggiungono i 90-100 anni. L’impatto ambientale del nucleare in rapporto all’efficienza giustificherebbe ulteriormente gli investimenti in questo settore. Secondo l’ASEAN Centre for Energy (ACE), il nucleare ha la stessa impronta climatica dell’eolico, quando vengono calcolate anche le emissioni del processo di estrazione delle materie prime, la manutenzione e lo smantellamento delle infrastrutture. Un altro elemento chiamato in campo è il cosiddetto fattore CF (fattore di capacità). Questo misura il rapporto tra energia generata ed energia generabile, offrendo un quadro dell’affidabilità di una fonte energetica, quanto effettivamente è l’output prodotto in base alle potenzialità. Stando ai calcoli dell’Energy Information Administration (EIA) degli Stati Uniti il CF dell’energia nucleare ha toccato il 93,5% nel 2019, un valore molto più alto di tutte le altre fonti di energia. Cifre che in questo caso raggiungono al massimo il 52% con l’eolico, mentre crollano al 21% per il solare.

Per le nazioni ASEAN c’è un forte interesse a promuovere l’energia nucleare, che è stata sempre – anche prima della pandemia – “sottovalutata”. Per questa ragione i piani promossi dal gruppo dei Paesi del Sud-Est asiatico prevedono una precisa roadmap per implementare i progetti per l’energia nucleare nella regione. Un elemento interessante, che ricorre spesso nel Memorandum of Understanding firmato a marzo 2021 con la World Nuclear Association (WNA), è la questione dell’accettazione pubblica. Alla cosiddetta “alfabetizzazione” dei cittadini sul tema del nucleare sono dedicati alcuni paragrafi del capitolo sul nucleare nel documento per la fase II dell’APAEC (Piano d’azione e cooperazione energetica ASEAN) per il 2021-2025. In Asia le preoccupazioni sul nucleare sono arrivate dopo l’incidente all’impianto di Fukushima-Daiichi, seguite da un’ondata di dichiarazioni da parte dell’Occidente sulla recessione dal nucleare. Stati come Germania, Belgio, Spagna e Regno Unito hanno già dichiarato da tempo che desiderano spegnere i reattori entro il 2030. Ciononostante, la tendenza non è globale, anzi. Sono altrettanti i Paesi che stanno intraprendendo nuovi progetti, dal Medio Oriente (Emirati Arabi Uniti, Egitto, Iran) all’Asia, passando per la Russia.

Per avviare la nuova strategia non servirà solo la comunicazione, si evince dal documento sulla fase II, ma occorreranno altre forme di preparazione antecedenti l’inizio dei cantieri. Tra questi, la creazione di una solida base conoscitiva del mondo dell’energia nucleare e degli standard di sicurezza internazionali.  Qui entrano in campo attori più importanti sulla scena, che hanno permesso all’ASEAN di affidarsi anche alla cooperazione internazionale per progettare il suo futuro nucleare. Dal 2016 è iniziata una collaborazione con il governo del Canada nel quadro del progetto “ACE-Canada”. Dal lavoro congiunto è emerso il primo vero studio di fattibilità per l’energia nucleare nei paesi Asean. Rilasciato nell’aprile del 2018, il report dà un quadro generale dello stato del capitale umano ed economico a disposizione dell’ASEAN per lanciare un programma di sviluppo energetico. La collaborazione con l’estero permette di inquadrare gli obbiettivi del gruppo in un’ottica di condivisione delle competenze non solo da un punto di vista tecnico, ma anche come capacità in ambito legislativo, di adattamento delle politiche locali e della comunicazione dei rischi e dei benefici.

Metà dei Paesi ASEAN hanno sufficienti conoscenze e risorse per avviare dei piani di nucleare civile. Indonesia, Malesia, Vietnam, Thailandia e Filippine vengono identificati come l’avanguardia anche per i quadri normativi avanzati, la capacità di costruire infrastrutture nucleari e la formazione di risorse umane competenti sui diversi aspetti progettuali (ma non solo). Questi cinque Paesi hanno già incluso l’elemento nucleare nelle loro strategie di sviluppo dei prossimi anni. Le Filippine puntano ad attivare la centrale nucleare di Bataan, nel nord del Paese, e mai  operativa sin dalla sua costruzione terminata nel 1984. La scelta del nucleare di allora era nata durante lo shock petrolifero del 1973 come strategia di sicurezza energetica e oggi ritorna per rispondere sia a rischi sistemici sul mercato energetico, sia per allinearsi agli obbiettivi globali per il clima. La prima centrale indonesiana è programmata per entrare in funzione nel 2030, insieme ad altre due che arriveranno nel 2035. Anche Malesia e Thailandia guardano alla stessa scadenza: tra tutti la Malesia risulta il Paese più preparato al salto verso il nucleare, grazie alla collaborazione efficace tra governo e l’ente responsabile del programma per l’energia nucleare, la Malaysian Nuclear Power Corporation.

Non è esclusa l’opzione nucleare anche per Laos, Cambogia e Myanmar. Questi Paesi hanno intrapreso degli accordi in merito con la Russia, anche se per ora prevalgono i progetti per idroelettrico e solare con la Cina. Questa scelta avviene anche fronte della disponibilità di capitali cinesi destinati a questi progetti, mentre le centrali nucleari hanno importanti costi iniziali per la loro costruzione che frenano le ambizioni dei governi. Ciò non esclude che prossimamente la commercializzazione dei reattori cinesi raggiunga anche i vicini a sud, soprattutto per il potenziale dei cosiddetti Small modular reactors su cui la Cina sta puntando nella sua strategia di apertura sui mercati dell’energia globali. Brunei e Singapore sono le due grandi incognite del nucleare targato ASEAN, anche se nella metropoli-stato asiatica si sta lavorando per sviluppare un know-how di rilievo nel settore della sicurezza nucleare, e l’autosufficienza sostenibile sembra diventato il nuovo imperativo della fase post-pandemica.

Timor Est 11° Paese ASEAN: 2022 anno giusto?

Il prossimo potrebbe essere l’anno in cui, dopo una lunga attesa, Timor Est entrerà a far parte dell’ASEAN

Un undicesimo Paese del Sud-Est asiatico è pronto a sedersi al tavolo dell’ASEAN: il prossimo anno, infatti, Timor Est potrebbe entrare a far parte della più importante organizzazione politica, economica e culturale dell’area del Pacifico. Timor Est è stato riconosciuto ufficialmente come Stato indipendente  da meno di 20 anni, ma la sua storia recente è costellata da episodi di violenza e conflitti, sviluppatisi negli ultimi trent’anni del XX secolo durante la lotta per l’indipendenza dall’Indonesia.

Nel 1975 l’isola di Timor viene abbandonata dai portoghesi, dando vita a quello che doveva essere l’inizio del processo di decolonizzazione del Paese. Tuttavia, la situazione sull’isola è instabile a causa delle controversie tra i tre partiti principali del Paese e di questo ne approfitta l’Indonesia che con le sue truppe militari occupa Timor Est: l’anno seguente il dittatore indonesiano Suharto proclama Timor Timur nuova provincia dell’Indonesia.

Per circa 24 anni nell’area si susseguono scontri violenti tra le forze militari indonesiane e le forze socialiste-rivoluzionarie del Fronte Rivoluzionario di Timor Est indipendente (FRETILIN),  il movimento formato dai ribelli che chiedevano l’indipendenza di Timor. Il controllo del territorio da parte dell’Indonesia viene più volte contestato presso le Nazioni Unite che però sono intervenute per risolvere il conflitto solo nel 1999: negli anni precedenti, infatti, l’Indonesia riceve l’appoggio di numerosi Stati occidentali che erano interessati a mantenere buoni rapporti con il governo autoritario di Suharto (solo l’Australia, oggi tra i principali partner commerciali di Timor Est, appoggia la sua indipendenza).

È però con gli anni Novanta che vengono alla luce le atrocità commesse dalle forze militari indonesiane: grazie ad un servizio televisivo condotto da alcuni giornalisti australiani, vengono trasmesse in tutto il mondo le immagini del massacro di Santa Cruz del 12 novembre 1991 nella capitale Dili, nel quale i militari indonesiani spararono sulla folla timorese provocando circa la morte di 400 civili.

L’Indonesia perde credibilità internazionale e la situazione favorisce il FRETILIN che negli anni successivi trovò l’appoggio delle Nazioni Unite grazie all’International Force for East Timor (INTERFET), un contingente militare composto da soldati di 17 Paesi che nel 1999 intervengono per porre fine ai conflitti.  

Con la caduta del governo di Suharto, che nel 1998 si dimette dal ruolo di Presidente dell’Indonesia in seguito ad alcuni scandali, il suo successore Jusuf Habibie indice il referendum per l’indipendenza,  approvata con il 79% dei voti degli abitanti: Timor Est non è più sotto il controllo dell’Indonesia.

Dal 1999 al 2002 la United Nations Transitional Administration (UNTAET), la missione speciale delle Nazioni Unite, ha il compito di stabilire dialoghi di pace tra le etnie presenti a Timor Est in modo da creare un governo locale autonomo e porre solide basi per lo sviluppo del Paese, che all’epoca era una dei più poveri al mondo con un reddito pro capite di circa 350 dollari. Grazie all’UNTAET, nel 2000 l’economia  cresce del 18% mentre nel Paese vengono costruite strutture pubbliche come scuole ed ospedali.

È infine il 20 maggio 2002 il giorno in cui nasce lo Stato di Timor Est con l’insediamento del primo governo del Paese guidato da Xanana Gusmao, leader del FRETILIN.

Il percorso per entrare all’interno dell’ASEAN ha inizio già nel 2000 quando il Presidente Ramos Horta, durante il discorso di accettazione del Premio Nobel per la Pace, dice che Timor Est presto avrebbe cercato di entrare a far parte dell’associazione più importante del Sud-Est asiatico.

Con la stabilità politica ottenuta durante il governo Gusmao e un’economia più forte ed in crescita, grazie ai ricavi derivati dai giacimenti di petrolio e di gas naturale presenti nelle acque territoriali di Timor Est, il Paese ritiene di essere pronto a sedersi al tavolo insieme ai Paesi dell’ASEAN: Timor Est viene  invitato a partecipare ai summit dell’organizzazione e ottiene lo status di Paese osservatore, per poi firmare nel 2007 il TAC, il Trattato di Amicizia e Cooperazione che aveva fatto pensare ad un ingresso  imminente nell’associazione.

Ciò però non è accaduto.

Il processo di integrazione di Timor Est è rimasto bloccato per oltre dieci anni a causa delle perplessità di alcuni Paesi membri come Laos e Singapore che hanno ostacolato il suo ingresso nell’ASEAN.

Nel novembre 2007 i Paesi membri hanno firmato il Trattato dell’ASEAN con l’intento di rendere l’organizzazione più vicina al modello europeo: per Timor Est però si sono aggiunti ulteriori punti da rispettare  per poter entrare a far parte dell’organizzazione.

In precedenza, per poter diventare membro ufficiale  ASEAN era necessario rispettare alcuni parametri quali l’essere uno Stato presente nell’area geografica del Sud-Est asiatico e l’adesione ai principi fondamentali dell’organizzazione (rispetto della sovranità, dell’indipendenza, dell’integrità territoriale e della non interferenza negli affari interni di uno Stato membro). Il trattato del 2007 introduce invece l’obbligo di un voto unanime da parte di tutti i membri  ASEAN,  novità che ha di fatto interrotto per molti anni le speranze di Timor Est di  entrare nell’organizzazione. Nel 2011 il Paese ha presentato la richiesta ufficiale di poter far parte dell’ASEAN e solo negli ultimi due anni si cominciano ad intravedere degli spiragli per l’accettazione di Timor Est come undicesimo Paese membro.

Nonostante le prospettive economiche di futuri investimenti esteri e i buoni rapporti commerciali stretti  con  Thailandia, Indonesia e Singapore (oltre a quelli fiorenti con l’Australia), proprio quest’ultima per molti anni si è imposta contro l’ingresso di Timor Est nell’ASEAN, presentando tra le ragioni la debole stabilità politica del Paese e un’economia ancora troppo legata agli aiuti internazionali.

In realtà, Timor Est ha migliorato con gli anni la propria stabilità economica non basandosi solo sulle riserve di gas e petrolio, ma investendo nel mercato internazionale e incrementando il settore privato, oltre allo sviluppo del settore agricolo con esportazioni di prodotti quali caffè e riso.

I buoni risultati economici hanno portato nel 2014 Timor Est ad avere un tasso di crescita maggiore della Cambogia e in linea con i parametri di Vietnam, Myanmar e Laos mentre da oltre 25 anni, secondo le parole dell’Ambasciatore timorese a Giacarta Ermenigildo Kupa Lopes, il Paese non dipende da aiuti internazionali.

La stabilità politica infine è un altro elemento tradizionalmente criticato e renderebbe più complesso l’ingresso di Timor Est nell’ASEAN. Se andiamo però a vedere i dati dei Paesi del Sud-Est asiatico, nemmeno la Thailandia e Myanmar spiccano per la forte stabilità politica, tant’è che si posizionano rispettivamente al 141° e 171° posto nel ranking globale.Un rapporto pubblicato dall’Economist Intelligence Unit evidenzia inoltre che per quanto concerne il grado di democrazia dei Paesi, Timor Est è davanti a tutti i membri dell’ASEAN trovandosi perfino prima di alcuni Paesi dell’Unione Europea.

Nonostante le perplessità avanzate da Singapore, il supporto degli altri Paesi ASEAN e in particolar modo dell’Indonesia e della Cambogia, i quali nel corso degli anni hanno stretto accordi bilaterali e di cooperazione con Timor Est, rendono le speranze di Timor Est più concrete: Hun Sen, Presidente della Cambogia, negli ultimi anni ha infatti più volte confermato l’appoggio verso Timor Est, il cui ingresso nell’ASEAN sarebbe importante dal punto di vista geopolitico ed economico oltre a coniare il sogno di riunire tutti i Paesi del Sud-Est asiatico sotto la stessa organizzazione. Con la Cambogia che ricoprirà il ruolo di Presidente dell’ASEAN nel 2022, il sogno si potrebbe avverare.

Lo sviluppo sostenibile negli accordi commerciali UE-ASEAN

Articolo a cura di Pierfrancesco Mattiolo

L’UE punta a una politica commerciale “basata sui valori” e promuove la tutela dell’ambiente e dei diritti sociali con i suoi accordi di libero scambio. Un approccio che ha influenzato i negoziati con i Paesi ASEAN.

Commercio internazionale e sviluppo sostenibile sono indissolubilmente legati. L’aumento del traffico delle merci porta con sé maggiori opportunità economiche sia per l’UE sia per i Paesi ASEAN, ma potrebbe anche incoraggiare lo sfruttamento delle risorse naturali e umane in violazione degli standard internazionali in questi stessi Paesi. Bruxelles ha accettato la sfida e rilanciato: gli accordi di libero scambio degli ultimi anni includono dei capitoli TSD (Trade and Sustainable Development) per aumentare l’impegno e la cooperazione nel raggiungimento degli obiettivi di sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite (Sustainable Development Goals – SDGs). Proprio su questo tema la vicepresidente e segretaria generale dell’Associazione Italia-ASEAN Alessia Mosca è intervenuta lo scorso 4 giugno a una conferenza organizzata dal Collegio “Bernardo Clesio” dell’Università di Trento, ripercorrendo l’evoluzione della dottrina commerciale europea negli ultimi anni e lo sviluppo dei rapporti con i Paesi ASEAN. Il tema è rilevante anche per altre regioni: Mosca ha dialogato infatti con Paolo Garzotti, capo unità America Latina presso la DG Trade della Commissione Europea e già vice capo della missione UE all’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC), impegnato nei negoziati con i paesi Mercosur.

La Commissione Europea aveva già messo in chiaro il suo proposito di perseguire “una politica commerciale e degli investimenti basata sui valori” nel documento strategico Trade for all, inserendo quali obiettivi della sua trade agenda la promozione dello sviluppo sostenibile, dei diritti umani e della buona governance. Era l’ottobre 2015, nel giro di poche settimane sarebbe stato formalmente ratificato l’accordo di libero scambio tra UE e Corea del Sud (già in vigore in via provvisoria dal 2011), il primo dei c.d. “accordi di seconda generazione”. Questa nuova generazione di FTA (Free Trade Agreements) si distingue dalla precedente per l’inclusione di capitoli dedicati a materie mai coperte in passato: lo scambio dei servizi, la protezione della proprietà intellettuale e, appunto, la promozione dello sviluppo sostenibile attraverso i rapporti commerciali (TSD).

Il concetto di “sviluppo sostenibile” abbracciato dall’UE è quello articolato dall’ONU nell’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile, sottoscritta sempre nel 2015, e tiene insieme gli obiettivi di protezione dell’ambiente e dei diritti con la crescita sociale ed economica . Esaminando i TSD Chapters degli accordi di seconda generazione, troviamo per esempio disposizioni che impongono ai partner di rispettare gli accordi internazionali sul clima oppure di ratificare e implementare le convenzioni dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO). Lo scorso febbraio la Commissione ha ribadito nella sua Trade Policy Review non solo di voler continuare a perseguire gli obiettivi di sviluppo sostenibile ONU attraverso la politica commerciale, ma anche di voler essere più assertiva nell’enforcement degli FTA e dei TSD Chapters.

Per quanto riguarda i rapporti con i Paesi ASEAN, ad oggi l’UE ha firmato due FTA con Singapore (2018) e Vietnam (2019), mentre quello con l’Indonesia è in fase avanzata di negoziato. Coerentemente con la linea espressa dalla Commissione, tutti questi accordi includono un capitolo TSD. Per l’Accordo con Singapore, le trattative sul capitolo sono state particolarmente lineari, dato che lo stato insulare si stava già allineando con gli standard ILO fondamentali, e hanno prodotto regole anche sulla pesca e sul disboscamento. Anche l’Accordo con il Vietnam prevede un apprezzabile livello di impegno sul fronte dei diritti dei lavoratori (a cui Hanoi ha dato seguito ratificando alcune importanti convenzioni ILO) e della tutela ambientale. Singapore e Vietnam sono rispettivamente il primo e il secondo partner commerciale dell’UE tra i Paesi ASEAN per scambio di beni e servizi e i due FTA costituiranno un precedente fondamentale per i futuri negoziati con gli altri Paesi della regione. Mettere per iscritto degli impegni però non è sufficiente: occorrerà prestare particolare attenzione all’effettiva implementazione dei TSD Chapter e procedere, se necessario, ad azioni di enforcement degli Accordi. Il coinvolgimento della società civile dei Paesi partner sarà fondamentale per misurare i progressi concretamente fatti e, proprio per questo, gli FTA prevedono strumenti di consultazione ad hoc degli stakeholders.

Se i negoziati per l’Accordo commerciale con l’Indonesia sono in fase avanzata, gli altri tavoli aperti da Bruxelles con i paesi Asean sono a uno stallo (Malesia, Thailandia, Filippine). Proprio sui capitoli TSD si misurano a volte le distanze di vedute tra l’UE e i partner su temi specifici. Ad esempio, la questione degli oli vegetali non è facile da maneggiare per la Commissione, alla ricerca di un punto di equilibrio tra le richieste dell’opinione pubblica europea e le sensibilità di Giacarta e Kuala Lumpur – sensibilità che sfociano talvolta anche in dispute in seno all’OMC. È importante ricordare però che gli FTA non sono l’unico strumento con un approccio TSD utilizzato nella regione: gli schemi GSP (Generalised Scheme of Preferences) si sono rivelati un mezzo efficace per garantire condizioni privilegiate di accesso al mercato UE a paesi come Cambogia, Myanmar (beneficiari entrambi del regime più favorevole, l’EBA – Everything But Arms, che garantisce l’esonero da dazi e quote all’export verso l’Europa) e Filippine. Per continuare a beneficiare dei GSP però, i partner devono impegnarsi a adottare e realizzare politiche per lo sviluppo sostenibile, pena la revoca dello schema, misura adottata contro la Cambogia dopo un lungo processo di scrutinio e confronto e che potrebbe essere presa anche contro Myanmar.Il dilemma che si pone davanti all’UE non è di facile soluzione. Da un lato occorre un certo rigore nell’imporre ai Paesi ASEAN il rispetto degli obblighi ambientali e sociali, coerentemente con l’ambizione europea di avere una politica commerciale “basata sui valori”, in cui gli impegni sugli SDGs presi a livello bilaterale e multilaterale con il partner sono vincolanti. Dall’altro  bisogna anche tenere a mente le esigenze di questi Paesi e il rischio che, in assenza di un accordo con l’UE, finiscano nella sfera commerciale di altre potenze. Approfondire i legami, commerciali e non solo, tra l’Europa e ciascun Paese ASEAN è precondizione necessaria per una maggiore cooperazione nelle sfide poste dall’Agenda 2030.

L’accordo UE-ASEAN sul trasporto aereo rilancia economia e turismo

UE e ASEAN hanno siglato il primo storico accordo bloc-to-bloc sul trasporto aereo, per aumentare la connettività inter-regionale. Sarà un vettore per la ripresa economica del Sud-Est asiatico e il rilancio del turismo post Covid

L’ASEAN e l’Unione europea hanno concluso i negoziati sull’accordo globale sui trasporti aerei (AE CETA) durante la riunione straordinaria dei rispettivi alti funzionari dei trasporti tenutasi virtualmente il 2 giugno 2021. La stipula dell’accordo arriva dopo otto round negoziali che hanno avuto inizio nel 2016 e sono stati guidati da Singapore e dalla Commissione europea. Le negoziazioni sono durate a lungo, poiché i diritti aerei sono una questione estremamente delicata: le compagnie rappresentano spesso una proiezione dello Stato di appartenenza, dal momento che molte godono del sostegno diretto di sussidi nazionali. L’AE CETA è la prima intesa bloc-to-bloc sui trasporti aerei a livello mondiale, grazie al quale le compagnie aeree dell’ASEAN e dell’UE godranno di maggiori opportunità per operare servizi passeggeri e merci tra le due regioni e su tratte transregionali. L’accordo “fornisce garanzie essenziali di concorrenza leale per le nostre compagnie aeree e l’industria europea, rafforzando al contempo le reciproche prospettive di commercio e investimenti”, ha affermato Adina Valean, Commissaria europea per i trasporti.

Si tratta di un’intesa finalizzata ad aumentare la competitività dei rispettivi trasporti aerei. Le compagnie potranno infatti effettuare qualsiasi numero di servizi tra i territori degli Stati Membri europei e del Sud-Est asiatico, e fino a 14 servizi passeggeri settimanali e qualsiasi numero di servizi cargo. Rafforzare le relazioni tra Unione Europea e ASEAN comporterà una serie di benefici concreti: migliorerà l’efficienza dei rispettivi settori, verrà facilitato l’accesso al mercato, si creeranno nuove opportunità di business all’insegna dei principi di equità e trasparenza, oltre a un quadro normativo più omogeneo per quanto riguarda il mercato del lavoro. La Commissione europea ha stimato che nei primi sette anni dopo l’entrata in vigore, l’accordo potrebbe creare fino a 5.700 nuovi posti di lavoro e generare fino a 7,9 miliardi di euro in benefici economici.

L’AE CETA è un ulteriore segno dell’intensificazione delle relazioni inter-regionali tra Europa e Sud-Est asiatico, e contribuisce a rafforzarne le relazioni politiche ed economiche. L’accordo si inserisce nell’alveo di iniziative quali il programma di sostegno all’integrazione regionale (ARISE Plus) e l’impegno per rafforzare la cooperazione in tema di cambiamento climatico (che include lo schema di compensazione e riduzione di carbonio per l’aviazione internazionale, il partenariato per l’aviazione UE-Asia sudorientale). La conclusione dell’accordo è stata commentata da Dato Lim Jock Hoi, Segretario generale dell’ASEAN, che ha dichiarato: “Con 10,5 miliardi di dollari di flussi di investimenti esteri diretti e 226,2 miliardi di dollari di scambi di merci nel 2020, l’UE è già la terza fonte di investimenti e il terzo partner commerciale per l’ASEAN. L'[accordo] rafforzerebbe in modo significativo la connettività aerea tra l’ASEAN e l’Europa e avvicinerebbe ulteriormente le due regioni”.

L’accordo fornirà anche più connessioni e prezzi migliori per i passeggeri. A questo proposito, incrementare la connettività tra le due regioni rinvigorirà anche il settore del turismo, duramente colpito dalle recenti restrizioni imposte per contenere i contagi da Covid-19. Il presidente della sezione Cambogia della Pacific Asia Travel Association, Thourn Sinan, ha commentato: “Una delle carenze nel settore del turismo è che i collegamenti aerei sono ancora limitati. In passato, facevamo molto affidamento sui paesi che ci circondavano (…) Per come la vedo io, se il governo potesse collegare la Cambogia all’Europa o alle principali città europee con voli diretti, sarebbe una manna dal cielo per la Cambogia, dato l’enorme mercato dell’UE, con il potenziale per i prodotti agricoli e industriali cambogiani”. Come riportato da The Star, i turisti rappresentano una grande risorsa per le economie del Sud-Est asiatico. Basti pensare che i viaggi di piacere e di lavoro rappresentano circa il 5-10% del prodotto interno lordo in paesi come Malesia, Singapore e Thailandia.

Il ministro dei trasporti di Singapore, S. Iswaran, ha salutato con entusiasmo la conclusione dell’accordo, i cui negoziati sono stati guidati proprio dai rappresentanti della città-stato asiatica: “La conclusione positiva dell’accordo globale sui trasporti aerei ASEAN-UE è un risultato storico e una pietra miliare nei nostri legami bilaterali. È il primo accordo di questo tipo da regione a regione e una dichiarazione di impegno da parte dell’ASEAN e degli Stati membri dell’UE a lavorare insieme per superare l’attuale crisi di Covid-19, riconnettersi e riprendere i viaggi transfrontalieri”.

Uno sviluppo urbano sostenibile per salvare le città asiatiche dalla catastrofe ambientale

Articolo a cura di Michelle Cabula

In alcune delle maggiori città del Sud-Est asiatico l’impatto del cambiamento climatico rischia di minare la crescita e il forte dinamismo economico. Tuttavia, le imprese e gli operatori finanziari hanno l’opportunità di giocare un ruolo chiave nelle strategie di sviluppo e di ripresa sostenibile.

L’Environmental Risk Outlook 2021 pubblicato dalla società di consulenza Verisk Maplecroft lo scorso 13 maggio mette in luce un dato allarmante: attualmente, la qualità di vita di 1,5 miliardi di persone residenti nelle maggiori aree metropolitane del mondo è in balia di rischi ambientali “alti o estremi”. Questi comprendono inquinamento, scarsità di risorse idriche, temperature estreme, calamità naturali e rischi legati al cambiamento climatico.

Se l’Asia è “nell’occhio del ciclone ambientale” – 99 dei 100 centri urbani più vulnerabili si trovano nel continente – i Paesi membri dell’ASEAN sono particolarmente sensibili all’allarme rilanciato dal rapporto. Nel Sud-Est asiatico l’emergenza climatica si intreccia con la minaccia ricorrente di eventi metereologici estremi (come i tifoni) e ne esacerba gli effetti, dando vita a fenomeni sempre più devastanti e complessi da cui le economie emergenti locali possono faticare a riprendersi. Tra le città più vulnerabili nell’area figurano le indonesiane Surabaya e Bandung, insieme alla capitale della Malesia Kuala Lumpur e a Singapore. Giacarta si aggiudica un duplice primato: la capitale indonesiana si trova a fronteggiare ricorrenti catastrofi sismiche e allagamenti e una sempre più severa contaminazione dell’aria, mentre sprofonda sotto il livello del mare ad una velocità senza eguali nel mondo.

Questi dati lasciano intravedere un preoccupante scenario, in cui ad essere messa a dura prova non sarebbe solo la tenuta degli ecosistemi, ma anche la prospettiva futura di sviluppo economico e sociale. Questo è particolarmente vero in un’area che punta a rendersi sempre più attrattiva agli occhi degli investitori. Il peso crescente che il rischio climatico ricopre nell’analisi costi-benefici rischia di rendere gli investimenti nelle città e nelle zone più vulnerabili meno sicuri e profittevoli, e dunque meno appetibili, con possibili ripercussioni sugli sforzi avviati da tempo che hanno permesso di fare del Sud-Est asiatico una destinazione privilegiata per i flussi finanziari.

La metodologia adottata nel rapporto si allinea con la recente tendenza ad integrare parametri extra-finanziari nelle analisi delle decisioni di investimento e nell’elaborazione degli standard operativi a cui le aziende devono tendere, nella consapevolezza che le linee di demarcazione tra i rischi ambientali, politici, sociali ed economici sono sempre più sfumate. Il nuovo paradigma di sostenibilità e responsabilità finanziaria prevede infatti la valutazione integrata di istanze ambientali, sociali e di governance (Environmental, Social and Governance, ESG) e mira ad armonizzare il perseguimento degli obiettivi economici con la tutela degli interessi degli altri stakeholders coinvolti.

Come sostiene Fabio Panetta, economista e membro del Comitato esecutivo della Banca Centrale Europea (BCE), l’applicazione del modello ESG al mondo della finanza “costituisce un’importante innovazione al fine di porre il sistema finanziario al servizio del benessere collettivo” ed “è divenuta uno strumento fondamentale per far fronte ai rischi climatici, resi progressivamente più gravi dall’emersione di danni ambientali irreversibili”. Le potenzialità della finanza green e sostenibile finalizzata alla ripresa e alla crescita di lungo periodo sono state intraviste anche dall’ASEAN Capital Markets Forum (ACMF). Riuniti virtualmente, lo scorso marzo i Ministri delle Finanze dei Paesi ASEAN hanno approvato l’Action Plan 2021-2025, il quale pone la promozione della crescita e della ripresa in chiave sostenibile tra i suoi obiettivi strategici. Simultaneamente, l’Asian Development Bank lavora a stretto contatto con i governi locali, elaborando una serie di strategie volte a canalizzare i fondi del settore privato in direzione di uno sviluppo infrastrutturale in chiave green che possa al contempo garantire una ripresa sostenibile dalla crisi pandemica.

Will Nichols, che presiede il dipartimento Environment and Climate Change della Verisk Maplecroft, prevede che il tema della sostenibilità ambientale dei maggiori centri urbani asiatici diventerà  cruciale non solo nel dibattito pubblico e nell’agenda politica, ma anche nelle strategie di business. Se da un lato è nell’interesse delle imprese e degli investitori che vogliono rendere le proprie attività più resilienti e competitive allinearsi ai sempre più esigenti standard ambientali, dall’altro un’attenta allocazione delle risorse che tenga conto della necessità di mitigare i rischi ambientali permetterebbe di finanziare strategicamente attività capaci di produrre un effettivo impatto positivo sullo sviluppo dei Paesi del Sud-Est asiatico. Il tutto rendendo i contesti urbani più vivibili e sicuri, contribuendo a migliorare la qualità di vita di coloro che li abitano.

L’importanza del Mekong per l’ASEAN

Il Mekong è uno dei fiumi più importanti del Sud-Est asiatico e tra tutti quello con la valenza più rilevante da un punto di vista ambientale, economico e geopolitico. Il Mekong rappresenta non solo un vasto ecosistema con una ricchissima biodiversità la cui tutela è dirimente per la lotta al cambiamento climatico, ma in quanto corso d’acqua principale, ha anche un valore economico, poiché fornisce ingenti quantità di pescato e contribuisce all’irrigazione di ampie risaie, permettendo il sostentamento di ben oltre 60 milioni di persone che vivono per l’appunto grazie al fiume.

Il fiume nasce in Cina (dove è chiamato Lacang), per un lungo tratto la attraversa prima di segnare il confine con il Myanmar ed entrare nel Laos, da qui è condiviso con la Thailandia e dopo aver percorso la Cambogia finisce il suo itinerario in un ampio delta vicino a Ho Chi Minh City in Vietnam. Quindi il fiume interessa, oltre la Cina, cinque paesi dell’ASEAN: Myanmar, Laos, Thailandia, Cambogia e Vietnam. Proprio la caratteristica di essere un fiume che attraversa più stati lo mette al centro di vari interessi geopolitici. A tal proposito, va ricordato che da diversi anni, la Cina sta portando avanti nel Sud-Est asiatico una politica volta a legare più strettamente a sé i Paesi continentali dell’area, basata sulla costruzione di infrastrutture in cambio di appoggio politico a livello internazionale. Tale politica, con la sola eccezione del Vietnam, sta avendo successo in Myanmar, Laos, Thailandia e Cambogia. Quest’ultima, ha talmente favorito gli investimenti cinesi, che è stata più volte accusata di essersi trasformata in uno “stato-cliente” di Pechino, tanto è vero che in occasione della sua presidenza dell’ASEAN nel 2012, sostenne le posizioni cinesi nel mar Cinese meridionale a scapito di quelle degli altri Paesi ASEAN.

Il Mekong è al centro di questa strategia di penetrazione cinese e tra le infrastrutture più importanti in fase progettuale o di costruzione vi sono diverse dighe. In questo caso si può dire che l’elemento geopolitico, economico ed ambientale si fondono indissolubilmente: nel momento in cui la Cina ha deciso la costruzione di ben 11 dighe nel suo tratto di fiume, ha allarmato i Paesi a valle poiché, controllandone le sorgenti e quindi indirettamente il flusso d’acqua, può tenerli in scacco, con potenziali limitazioni nell’afflusso di acqua nel caso di tensioni diplomatiche. Inoltre, la Cina ha anche ha favorito la progettazione di altre dighe in territorio laotiano e cambogiano, elemento che qualcuno considera una strategia di scambio di infrastrutture per appoggio politico. Proprio le dighe sono al centro del dibattito ambientale poiché potrebbero essere la causa del continuo abbassamento del livello del fiume e delle conseguenti siccità (di cui la peggiore è avvenuta nel 2019), che in ultima analisi potrebbero minare la produttività delle grandi risaie e quindi portare all’impoverimento delle comunità che vivono grazie al fiume.

Il Vietnam, durante il suo turno di presidenza dell’ASEAN nel 2020, ha provato a sollevare la questione della gestione del fiume e a fare in modo che entrasse in pieno nell’agenda a livello ASEAN. Anche Malesia, Singapore, Filippine e Brunei sono interessati ai destini del fiume, perché sono grandi importatori di riso prodotto proprio dai Paesi del Mekong. Attualmente, esistono già due strutture che cercano con obiettivi diversi di favorire una gestione regionale del Mekong: la Lancang-Mekong Cooperation a guida cinese, nata nel 2016, che ha come fine quello di facilitare il flusso di acqua dalla Cina con la costruzione delle dighe e la Mekong-US Partnership, supportata dagli USA, nata nel 2020, che invece vuole favorire uno sviluppo sostenibile della regione. Da queste due strutture si evince chiaramente come siano in gioco interessi geopolitici più ampi che sovrastano gli stessi stati ASEAN.

Il Mekong, come sottolineato, ha una sua multiforme importanza per il Sud-Est asiatico e se l’ASEAN si assumerà il compito di gestire le problematiche connesse al fiume, contribuirà al contempo sia a rafforzare la propria integrazione regionale, sia a limitare l’influenza cinese nell’area. Non solo: contribuirà anche alla salvaguardia ambientale di una vasta area e in ultimo alla lotta ai cambiamenti climatici. Il rischio maggiore per il momento è che il fiume si trasformi in un secondo punto caldo per le relazioni tra ASEAN e Cina (e anche USA) dopo il mar Cinese meridionale.

Al boom dell’e-commerce ASEAN serve una svolta per la parità di genere

L’e-commerce è in grande crescita nel Sud-Est asiatico. Ma non sempre le donne ne beneficiano in pieno. Ecco come il settore può diventare un vettore dell’uguaglianza di genere per le lavoratrici asiatiche. 

Il  mercato dell’e-commerce potrebbe guidare la ripresa economica e avere un impatto trasformativo sulla condizione delle lavoratrici del Sud-Est asiatico, secondo un rapporto della International Financial Corporation (IFC). Nelle economie dell’area c’è una forte incidenza di imprenditrici. Sulla piattaforma di e-commerce Lazada, ad esempio, circa un terzo delle imprese indonesiane e due terzi delle imprese nelle Filippine sono di proprietà di donne. Ma queste aziende tendono ad essere più piccole, hanno vendite medie inferiori e hanno meno dipendenti.

L’IFC, membro della Banca mondiale, è la più grande istituzione di sviluppo globale. La scorsa settimana ha pubblicato il report Donne ed e-commerce nel Sud-Est asiatico, che osserva i trend di sviluppo dell’economia digitale nella regione. Il focus è sul fattore trainante della ripresa post-pandemia: la diffusione di transazioni online. “Nel Sud-Est asiatico, l’e-commerce è diventato un’ancora di salvezza per gli i bisogni quotidiani delle persone, nonché un perno naturale della strategia aziendale [per chi è stato colpito] dalle misure di sicurezza di Covid-19”, ha affermato Chun Li, amministratore delegato di Gruppo Lazada. 

Abbiamo già parlato, in generale, dell’effetto ambivalente che la pandemia da Covid-19 ha avuto sulle economie del Sud-Est asiatico. Da una parte, ha soffiato via alcuni settori delle economie tradizionali, che hanno lasciato il posto alla fiorente realtà dell’imprenditoria digitale. Le misure di contenimento hanno richiesto a piccole e grandi attività di adattarsi a nuovi rapporti di lavoro, di produzione e di consumo, e l’e-commerce ne è uscito rafforzato.

D’altra parte, la pandemia ha inasprito le diseguaglianze di genere, pesando sulle lavoratrici asiatiche molto più che sulle loro controparti maschili. A riprova del fatto che il progresso tecnologico non è di per sé un canale di emancipazione sociale: occorrono precisi interventi politici perché disponibilità materiali (e digitali) si convertano in vere e proprie opportunità, soprattutto per le donne. La partecipazione femminile al futuro del lavoro è annoverata infatti tra gli obiettivi di sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite, che promuovono un’azione sistemica a supporto di uno sviluppo socio-economico che non può prescindere dal pieno coinvolgimento della forza lavoro femminile.  A livello regionale sono stati fatti numerosi passi avanti in termini di politiche all’insegna per l’inclusione femminile, ma questi sforzi non si sono ancora tradotti in progressi verso un incremento del peso economico e professionale delle donne asiatiche. Le sfide più urgenti riguardano la partecipazione alla forza lavoro, la discriminazione di genere in ambito professionale, l’inclusione finanziaria e la rappresentanza nelle posizioni manageriali di alto livello. 

L’economia digitale si presta a una serie di considerazioni. Il mercato dell’e-commerce nel Sud-Est asiatico è triplicatodal 2015 e si prevede che triplicherà di nuovo entro il 2025. Il rapporto dell’IFC si concentra su come allargare la base di beneficiari di questo boom digitale, e ritiene fondamentale superare le barriere discriminatorie che impediscono la piena partecipazione delle donne ai vantaggi dell’economia digitale. Il report suggerisce come l’e-commerce possa offrire una soluzione all’eterno trade-off tra famiglia e lavoro, con cui le donne sono spesso chiamate a fare i conti. Secondo l’Asian Development Bank, aumentare la partecipazione femminile alla forza lavoro e colmare il divario salariale avrebbe un enorme impatto sulla crescita della regione in generale: i benefici stimati sono stati quantificati in 3,2 trilioni di dollari nelle economie dell’Asia-Pacifico. 

Il Sud-Est asiatico è una delle poche regioni in cui la presenza femminile nel mercato del lavoro è in calo, ma presenta almeno una caratteristica in comune con gran parte delle economie del mondo: la maggior parte del lavoro domestico non retribuito è svolto in netta maggioranza da donne. Nel report dell’IFC è riportata la significativa testimonianza di un’imprendrice che racconta: “La mia casa era lontana dal posto di lavoro e il mio piccolo era ancora un bambino. Alla fine, ho deciso di dimettermi dal mio lavoro a tempo pieno. Ma ero abituata a lavorare, quindi ho iniziato a vendere online”. Un esempio che potrebbero seguire in molte.

Se il lavoro di cura impiega per lo più le donne, e per lo più in modo gratuito, l’e-commerce può rappresentare un fattore di cambiamento. Garantirebbe più flessibilità alle lavoratrici asiatiche e consentirebbe loro di emanciparsi economicamente, portando avanti un’attività di business con modelli produttivi più snelli. D’altro canto, senza adeguate misure pubbliche a sostegno di un’inclusione sostanziale delle donne nelle maglie dell’economia digitale, il rischio può essere quello di creare prestazioni digitali remunerative senza mettere in discussione le discriminazioni strutturali, che prevengono la piena inclusione femminile al mercato del lavoro. Le lavoratrici asiatiche chiederanno pure l’e-commerce oltre a “il pane e le rose” (canzone-manifesto per reddito e dignità delle operaie statunitensi all’inizio del secolo scorso), ma la mancanza di un intervento politico oculato ad accompagnarne lo sviluppo potrebbe risultare un’occasione mancata per l’uguaglianza di genere. 

ASEAN: il coraggio di investire nelle idee

La politica di investimenti in tecnologia e capitale umano sta portando il Sud-Est asiatico ad avere vantaggio competitivo nella nuova era digitale

Il Sud-Est asiatico potrebbe presto diventare un punto di riferimento per il resto del mondo per la realizzazione di ‘economie della conoscenza’ (Knowledge-Based Economies), ovvero il concetto di maggior rilevanza per il progresso economico nel nuovo millennio. 
In un recente report delle Nazioni Unite, difatti, si nota come diversi campioni di innovazione e di imprenditorialità siano proprio a stampo asiatico, con alcune eccellenze assolute. Singapore risulta seconda a livello mondiale, solo dopo la Svezia, per trasferimento tecnologico; la Malesia viene raffigurata come primo paese tra le economie emergenti per capitale umano e politiche innovative.

Importanti progressi si notano anche in Indonesia e Filippine, dove lo sviluppo tecnologico negli ultimi decenni sta portando a un importante fermento imprenditoriale, oltre che a colmare diversi gap istituzionali.

In particolare, recenti studi confermano come in Indonesia l’aumento del numero di imprese innovative stia portando non solo ad un vantaggio competitivo tecnologico, ma anche e soprattutto ad una crescita economica sostenibile.

Il report enfatizza in tal senso il ruolo di tre fattori principali come ‘driver’ di crescita economica: qualità e accesso alle infrastrutture telecomunicative (ICTs), tasso di crescita del capitale umano per alfabetizzazione digitale e possibilità delle informazioni di circolare liberamente all’interno dei paesi.

In primis, un buon livello di infrastrutture telecomunicative garantisce un accesso alla rete rapido, sicuro ed economico per tutti. I governi di Singapore e Malesia risultano qui tra i più illuminati.

Strettamente correlato è invece il tema del capitale umano: massicci investimenti in formazione, ricerca e sviluppo e abilità digitali nelle scuole, oltre che in corsi di orientamento volti a meglio comprendere le dinamiche del mercato del lavoro, portano sempre ad un utilizzo inedito dei mezzi di comunicazione. Ciò porta consapevolezza nei cittadini, oltre che favorire la creazione e condivisione libera di nuove idee da cui nascono aziende innovative che portano ricchezza, in un circolo virtuoso.

Come il report nota, ‘una integrazione armoniosa fra persone e tecnologia è non solo necessaria, ma indispensabile per prosperare nel lungo termine’.

Il Sud-Est asiatico sta ponendo delle forti basi per passare da un sistema economico basato sulla manifattura a basso valore aggiunto ad una economia basata sulla dinamicità della conoscenza, dove il ruolo primario viene ricoperto dal trasferimento di informazioni e dagli imprenditori con competenze avanzate (Knowledge-Intensive Entrepreneurs), in un’ottica di ‘distruzione creativa’ della conoscenza.
Questi imprenditori, come nel caso dell’e-commerce e della sharing economy, hanno creato dei veri e propri ecosistemi digitali capaci di permeare ogni dimensione della vita degli utenti, dai pagamenti agli spostamenti, fino ad arrivare ai beni di prima necessità.

In aggiunta, la pandemia ha avuto in Sud-Est asiatico importanti conseguenze: una regione abitata da 600 milioni di persone, in cui la vicinanza e lo scambio fisico giornaliero era uno stile di vita, ha visto radicalmente cambiare le proprie abitudini: gli ultimi dati parlano di come questo fenomeno di digitalizzazione abbia portato prosperità solo nelle nazioni dove già in precedenza si era investito in ICTs, formazione e ricerca e sviluppo.

Filippine, Singapore e Malesia: chi sono i nuovi Ambasciatori italiani

Marco Clemente (Manila), Massimo Rustico (Kuala Lumpur) e Mario Vattani (Singapore) sono i nuovi ambasciatori italiani in area ASEAN. Ecco chi sono

Cambiano gli Ambasciatori in tre sedi italiane in Paesi ASEAN. Massimo Rustico è stato scelto per la sede di Kuala Lumpur, Marco Clemente per quella di Manila e Mario Vattani per Singapore. Ecco una loro breve biografia.

L’Ambasciatore Massimo Rustico, classe 1958, entra in diplomazia nel 1987 dopo la laurea in economia e commercio presso La Sapienza di Roma. Inizia la carriera nel 1989 come secondo segretario commerciale ad Al Kuwait per poi trasferirsi, nel 1991, alla Rappresentanza permanente d’Italia presso l’Onu a New York. Nel 1994 è chiamato alle funzioni di Console a Teheran e, dopo la soppressione del Consolato, è destinato in Ambasciata con funzioni di Primo segretario. Poi si sposta al Consolato Generale di Houston, dove diviene Console generale nel 2002. Dal gennaio 2006 è Console Generale ad Istanbul. Promosso Ministro plenipotenziario nel 2009, dal marzo 2010 è nominato Coordinatore per l’internazionalizzazione delle imprese italiane operanti nel settore delle costruzioni e dei grandi lavori. Nello stesso anno viene assegnato temporaneamente presso l’Associazione Nazionale Costruttori Edili (A.N.C.E.). Passa poi alle dirette dipendenze del Direttore Generale per la Promozione del Sistema Paese, mantenendo il medesimo incarico presso l’A.N.C.E. fino al 2015. Infine, assume le funzioni di Ambasciatore Straordinario e Plenipotenziario d’Italia in Ungheria il 14 novembre 2016. Ora l’approdo in Malesia: ancora una volta, come gli è già capitato in Kuwait, Iran e Turchia, svolgerà le sue mansioni in un Paese a maggioranza musulmano.

L’Ambasciatore Marco Clemente, classe 1959, si laurea alla LUISS di Roma ed entra in diplomazia nel 1985. Assegnato inizialmente alla Direzione Generale Emigrazione, viene destinato a Canberra come primo segretario di legazione. Nel settembre 1990 è a Caracas con funzioni di Console. Diventa Consigliere di legazione nel 1995 e svolge la sua attività presso la Direzione Generale Affari Politici fino al 1998. In seguito, nel 1999, viene nominato Reggente al Consolato Generale a Johannesburg e l’anno successivo, nel 2000, confermato Console Generale. Promosso Consigliere di Ambasciata nel 2002 viene incaricato d’Affari con Lettere a Erevan (Armenia) nel giugno 2003 e successivamente nel 2006 confermato Ambasciatore sempre in Armenia. Rientrato in Italia nel 2007, viene assegnato alla Direzione Generale Paesi dell’Europa fino al 2008, quando viene promosso Ministro plenipotenziario. Fuori ruolo nel 2008 per prestare servizio al Ministero della Difesa quale Consigliere Diplomatico, viene nominato Ambasciatore a Tallinn il 1° dicembre 2012. Ora il nuovo incarico a Manila, un Paese col quale l’Italia (dove quella filippina è la quarta comunità di migranti più numerosa) ha rapporti profondi.

Mario Vattani, nato nel 1966, entra in diplomazia nel 1991. Il primo incarico è a Washington D.C. Dal 1999 al 2001 è console italiano al Cairo, mentre dal 2001 al 2003 svolge le funzioni di consigliere diplomatico al Ministero delle politiche agricole e forestali. Nel 2004 è all’Istituto diplomatico, distaccato a Tokyo per un programma di studi e nel 2005 viene promosso Consigliere d’Ambasciata e confermato a Tokyo con funzioni di Primo consigliere commerciale. Nel 2008 presta servizio al Comune di Roma come consigliere diplomatico del Sindaco. Nel maggio 2011 viene nominato Ministro plenipotenziario e prende funzione come console generale a Osaka. Dal 2014 è in servizio alla Farnesina per il coordinamento nel settore Asia-Pacifico. In continuità con il suo impegno nella regione, dunque, la nomina a Singapore.

In un periodo di avvicinamento economico-politico all’ASEAN, il cambio di guardia nelle rappresentanze italiane non passa inosservato. È ancora presto per prevedere i risvolti degli avvicendamenti nel corpo diplomatico, ma ci si aspetta senza dubbio un ancora maggiore impegno del nostro Paese nell’area del Sud-Est Asiatico. Ai nuovi Ambasciatori la sfida ineludibile di implementare la partnership aiutando l’export italiano verso questa regione sempre più cruciale e promuovendo la stabilità in tutte le aree di crisi.

I fondi a sostegno delle lavoratrici asiatiche

I fondi per le lavoratrici asiatiche: la ripresa post-pandemica in Asia punta sulla resilienza economica delle donne

La società di moda PVH ha appena lanciato la prima iniziativa di finanziamento a supporto delle donne impiegate nelle catene del valore globali. Il cosiddetto Resilience Fund for Women in Global Value Chains è un’azione congiunta di BSR, Universal Access Project della Fondazione delle Nazioni Unite e Win/Win-Win Strategies in collaborazione con i loro partner fondatori e stakeholder. Un’iniziativa d’avanguardia che parte dall’Asia meridionale e intende investire sulla salute, sicurezza e resilienza economica delle donne, la spina dorsale delle catene del valore globali.

L’obiettivo del Fondo è raccogliere almeno 10 milioni di dollari in finanziamenti congiunti nel corso di tre anni per sostenere soluzioni, elaborate localmente, ai problemi sistemici che rendono le donne più vulnerabili alle crisi, come dimostrato dalla pandemia Covid-19. Partendo dagli impatti sproporzionati che il Covid-19 ha avuto sulle lavoratrici coinvolte nella supply chain, il Fondo vuole affrontare tali problematiche e fornire loro le risorse finanziarie necessarie. L’obiettivo è quello di contribuire a rafforzare la resilienza economica, la salute e il benessere a lungo termine delle donne.

Il Resilience Fund for Women sta avviando la sua prima fase in Asia meridionale, con espansioni in altre regioni pianificate entro l’inizio del 2022. Sono previsti finanziamenti ingenti alle organizzazioni dell’Asia meridionale, contando sull’esperienza degli attori locali per capire le esigenze delle lavoratrici e quindi indirizzare al meglio le risorse del Fondo. Il suo comitato consultivo di rappresentanza, ponendo le istituzioni locali e le leader femministe alla pari degli investitori nel determinare la gestione dei fondi, si propone di rispondere in modo flessibile alle mutevoli realtà da affrontare.

Il Fondo è aperto agli investitori di un’ampia gamma di settori. A loro è affidato il compito di costruire nuovi collegamenti con i fondi dedicati alle donne e con le organizzazioni locali che concentrano la loro attività su sicurezza, protezione, salute sessuale e riproduttiva delle donne, tutti intesi come fattori di resilienza economica a lungo termine.

Nella stessa direzione si pone il Fondo RISEResponsive Interventions Supporting Entrepreneurs – lanciato di recente dall’iniziativa del governo australiano Investing in Women per assistere la ripresa delle PMI femminili nel Sud-Est asiatico. Il progetto di finanziamento prevede l’iniezione di capitale in due fasi, integrando una più ampia gamma di sforzi pubblici e altre donazioni atte a mitigare l’impatto economico della pandemia da Covid-19. Le PMI femminili rappresentano una fonte importante di dinamismo economico, resilienza e opportunità di mercato inesplorate, che saranno invece fattori cruciali per la ripresa post pandemica nel Sud-Est asiatico.

A fare da collante a tali iniziative è il crescente focus dell’ASEAN sulle donne. Un segnale fondamentale in tal senso è stato  l’ASEAN Regional Study on Women, Peace and Security, lanciato in occasione della Giornata Internazionale della Donna 2021. Il primo studio sulle donne, la pace e la sicurezza in ASEAN sottolinea il rinnovato impegno istituzionale a sostegno dell’uguaglianza di genere e della leadership femminile, includendo questi principi cardine nell’ASEAN Comprehensive Recovery Framework e nell’ASEAN Vision post 2025.

L’adozione di notevoli misure di sostegno finanziario configura un futuro promettente per la tutela delle lavoratrici asiatiche. Il miglioramento delle condizioni di lavoro, l’empowerment e il sostegno economico alle donne rappresentano obiettivi essenziali nella ripresa post pandemica in Asia.

Abbracciare la circular economy: una necessità per il Sud-Est asiatico

Il modello di sviluppo del Sud-Est asiatico si prepara alla storica svolta dell’economia circolare. Ecco come si stanno muovendo i Paesi del blocco ASEAN per incentivare un sistema che porterà vantaggi su profitti e ambiente

Aumentare i profitti, ridurre gli sprechi e salvare il mondo: questi sono gli obiettivi della circular economy, il sistema economico che si basa sul concetto dell’eco-sostenibilità e della riduzione dei rifiuti e che potrebbe diventare nei prossimi anni l’asso nella manica per i Paesi del Sud-Est asiatico.                  

D’altronde, proprio i Paesi dell’area ASEAN sono ormai da anni colpiti da gravi problemi d’inquinamento, di sprechi delle risorse non riutilizzate e dall’accumulo dei rifiuti plastici nel mare. Problemi di cui si è occupata la stessa ASEAN in un report del 2019 dal titolo “Asean Framework of Action on Marine Debris”, dove vengono elencati i problemi dell’area asiatica in  materia di rifiuti marittimi e le possibili politiche ambientali da adottare per arginarli.

Secondo il World Economic Forum, entro il 2050 non sarà più sostenibile un’economia basata sul modello consumistico del “take, make, dispose” e l’economia circolare sarà il miglior strumento per combattere l’inquinamento e gli sprechi. I dati mostrano che solo il 20% di tutti i materiali prodotti a livello globale vengono riutilizzati, mentre l’80% non viene riciclato: oggi possiamo permettercelo, ma un domani questo non sarà possibile. I dati demografici sono  ulteriore motivo di preoccupazione per il Sud-Est asiatico: entro il 2050 la popolazione urbana aumenterà di oltre 260 milioni di abitanti ed è quindi necessario per questi Paesi iniziare ad introdurre politiche ambientali volte all’implementazione, all’interno delle aziende, di una struttura economica di tipo circolare che permetterà un recupero dei materiali stimabile tra l’80 e il 99%.

I Paesi del Sud-Est asiatico non sono preoccupati solo dall’aumento demografico ma anche e soprattutto dai danni provocati dall’inquinamento e dal cambiamento climatico che potrebbero colpirli profondamente. Secondo la società di consulenza Maplecroft, entro il 2050 i danni causati dal cambiamento climatico potrebbero provocare una perdita del 3% del PIL dell’area dei Paesi del Sud-Est asiatico, a fronte di una stima  dell’1-2% per il PIL globale. Nel rapporto, due città che presentano un rischio particolarmente elevato sono Giacarta e Manila: Indonesia e Filippine, secondo la ricerca “Plastic Waste Inputs from Land Into the Ocean” del 2015, risultano essere il secondo e terzo Paese del mondo per produzione di rifiuti plastici dispersi nel mare.

Per contrastare il fenomeno dell’inquinamento, l’Indonesia ad inizio anno ha pubblicato un report condotto dal Ministerodella Pianificazione dello Sviluppo Nazionale nel quale vengono analizzati gli effetti potenziali che l’adozione di un’economia circolare su cinque settori chiave dell’economia Effetti duplici: da una parte il miglioramento delle condizioni ambientali e dall’altra parte un aumento considerevole dei profitti. Secondo il report, infatti, entro il 2030 l’Indonesia potrebbe accrescere di 45 miliardi di dollari la propria economia, arrivando alla creazione di quasi 4 milioni e mezzo di nuovi posti di lavoro.

Nel 2020 un altro progetto di particolare rilievo è stato istituito per dare inizio alla svolta green dell’area asiatica:  si tratta del progetto “Closing the Loop”, sostenuto dal Giappone e che coinvolge quattro città in Malesia, Indonesia, Thailandia e Vietnam. Obiettivo del progetto è quello di creare un piano organizzativo per combattere lo spreco di rifiuti plastici, individuando le zone a rischio delle città dove è più facile la formazione e l’accumulo di ingenti quantità di rifiuti plastici, in modo tale da permettere alle autorità comunali di adottare strategie nell’ambito della circular economy per la gestione dei rifiuti.

Nonostante i buoni propositi, verosimilmente dettati più dalle possibilità di un aumento di punti del PIL che da motivi  ambientali, la strada per i Paesi del Sud-Est asiatico è ancora in salita e sono numerosi gli interventi  che devono essere ancora attuati dai rispettivi governi.

Anche se all’Indonesia si sono aggiunti il Vietnam, Singapore e le Filippine, che hanno annunciato dal 2021 di voler implementare nuove politiche green e strategie ad hoc per intraprendere il percorso verso l’economia circolare e le sue 5 R “ridurre, riusare, riciclare, rigenerare e rinnovare”, restano diversi rischi per i governi.

Secondo alcuni esperti, il rischio maggiore per i Paesi del Sud-Est asiatico riguarderebbe il mancato coinvolgimento delle piccole e medie imprese, (il 90% delle aziende registrate nell’area), nella transizione ecologica.

Anche se linea teorica è più facile per una piccola azienda modificare le proprie politiche rispetto ad una grande azienda, la mancanza di adeguati incentivi e supporti economici per attuare programmi incentrati sull’economia circolare, rischia di portare diverse pmi a rinunciare  alla svolta ecologica. Per ovviare al problema una buona soluzione è stata attuata in Vietnam, dove vengono proposti prestiti a basso tasso d’interesse alle imprese che vogliono sviluppare progetti a zero impatto ambientale.

Numerose ricerche, specialmente quelle che da dieci anni vengono condotte dalla Fondazione EllenMacArthur in tema di economia circolare, mostrano che il cambio di rotta dei Paesi del Sud-Est asiatico è necessario, perché seguire un’economia lineare non sarà più sostenibile nel futuro prossimo.

Quanto prima verranno adottate misure volte a portare cambiamenti concreti sul tema ambientale, prima vi saranno più possibilità di vedere raggiunti i risultati che questi Paesi si sono posti per il 2030 in termini di riduzione d’inquinamento e di rifiuti plastici. Il tutto insieme a un duplice stimolo alla transizione e alla crescita economica.