Asean

Netflix, Facebook e Google sotto la pressione dei governi del Sud-Est

La rimozione su richiesta di Manila di due puntate della serie australiana Pine Gap dal catalogo di Netflix Philippines è solo la punta dell’iceberg delle recenti pressioni governative sulle piattaforme digitali occidentali in Asia.

Il 1° novembre il governo filippino ha richiesto e ottenuto la rimozione dal catalogo di Netflix Philippines degli episodi due e tre della serie australiana “Pine Gap”. L’irritazione di Manila è scaturita dall’apparizione di una cartina geografica del Mar Cinese Meridionale rappresentante la cosiddetta “linea dei nove tratti”, tipica delle carte geografiche cinesi di quelle acque ricche di risorse contese tra Cina, Filippine, Brunei, Malesia, Indonesia, Taiwan e Vietnam. L’autorità filippina per la classificazione dei film ha definito gli episodi eliminati come “inadatti alla messa in onda” e il Dipartimento degli Affari Esteri filippino sostiene che l’apparizione di tale mappa va contrastata poiché tesa alla legittimazione della “linea dei nove tratti” col rischio di “corrompere la conoscenza e la memoria dei giovani filippini circa i veri territori del Paese”. La rimozione dei due episodi incriminati è stata pressoché istantanea, avvenendo la stessa serata. La celerità con cui Netflix ha adempiuto alla richiesta del governo filippino non è stata però la stessa nel fornire spiegazioni a Reuters, rispondendo solo a notte inoltrata. La decisione di cancellazione è stata resa pubblica solo il 1° novembre per motivi attualmente sconosciuti.

Non è la prima volta che i servizi di streaming hanno problemi con le autorità circa le rappresentazioni cinematografiche che toccano temi sensibili nella regione. Il Vietnam è l’esempio di come la pressione dei governi locali possa divenire vera e propria coercizione. Se Pine Gap si è vista eliminare due episodi nelle Filippine, in Vietnam la serie è stata interamente cancellata dal catalogo per lo stesso motivo. Similmente, nel 2019 Hanoi aveva ritirato dalle sale il film della Dreamworks “Abominable” oltre alla rom-com cinese “Put Your Head on My Shoulder” e il dramma politico americano “Madam Secretary” dai servizi on demand per evitare di “ferire i sentimenti dell’intero popolo vietnamita”.

Netflix è solo uno degli attori in questa relazione tra governi e piattaforme. Nell’Asia-Pacifico si trova il 40% degli utenti dei social di Meta, ex Facebook, che ha quindi grandi interessi nell’area. Solo il Vietnam conta 100 milioni di utenti e un mercato dal valore di un miliardo di dollari. I filippini sono i più attivi sulle piattaforme Meta, passando in media oltre quattro ore al giorno online secondo eMarketer, mentre gli indonesiani usano WhatsApp come principale mezzo di comunicazione e informazione. Dato il grande impatto di Meta sulle popolazioni della regione, i governi locali pongono particolare attenzione a quanto avviene sulle sue piattaforme, in particolare dal 2017.

Facebook collabora con il Ministero dell’Informazione e Comunicazione (MoIC), la Banca di Stato del Vietnam, il Dipartimento Generale della Tassazione e il Ministero della Pubblica Sicurezza per identificare e perseguire i reati politici sui social media. Sotto minaccia di oscuramento e con l’obbligo di mantenere sede legale, server e dati locali in Vietnam, Facebook avrebbe preso parte alle attività di censura del governo di Hanoi: secondo Transparency Report, dal 2019 la repressione del dissenso nel Paese è aumentata del 983%, anno in cui Facebook ha buttato giù 200 siti antigovernativi. Dai Facebook Papers, documenti trapelati quest’anno insieme a un’inchiesta del Washington Post sulla società californiana, emerge che a inizio 2021 Mark Zuckerberg avrebbe dato il placet alla censura di molti dissidenti vietnamiti sulla piattaforma in concomitanza con il tredicesimo Congresso del Partito comunista vietnamita, fondamentale per la selezione della leadership dei cinque anni successivi. YouTube di Google non è escluso da queste dinamiche. Nel 2019 è stato costretto a rimuovere contenuto critico verso il governo di Hanoi cancellando oltre 7000 video e 19 canali. Dal Play Store sono stati eliminati 58 giochi vietnamiti, come anche da Apple.

Facebook di Meta ha un certo peso anche nelle Filippine. Dal 2017, partecipa col governo di Rodrigo Duterte allo sviluppo delle infrastrutture internet veloci nel Paese. Il bilanciamento di Facebook nei rapporti col governo è difficile: Duterte non ha accolto bene la chiusura nel 2020 di vari account collegati alla polizia e all’esercito filippino a causa del loro ruolo nella guerra alla droga avviata dal Presidente. Duterte ha minacciato il social dicendo che per i filippini ci sarebbe stata una vita dopo Facebook e che i delegati del social avrebbero dovuto dare spiegazioni dell’accaduto.

In Indonesia, il governo sfrutta la Legge sull’Informazione Elettronica e le Transazioni (ITE) per contrastare i dissidenti. Invocata circa duecento volte dal 2019, secondo Amnesty International questo eccessivo ricorrervi viola la libertà d’espressione. A completare questa legge, entrerà in vigore da dicembre 2021 il Regolamento Ministeriale 5 che permetterà di tassare le piattaforme straniere e coinvolgerle nel processo legislativo, pena l’oscuramento per evitare che venga diffuso materiale “proibito, illecito o che disturbi l’ordine pubblico”. Per questo motivo Facebook collabora con il Ministero della Comunicazione e della Tecnologia dell’Informazione (Kominfo).

Sotto la superficie del mare digitale, la libertà di espressione si congela sempre di più, ingrandendo così l’iceberg della repressione.

Chipped away. Cosa ci insegna la carenza globale dei semiconduttori?

La supply chain dei semiconduttori è in crisi dal 2020 e la scarsità durerà ancora. Basta poco per bloccare i flussi commerciali globali. I governi di tutto il mondo intendono investire nel settore per rafforzare la propria autonomia tecnologica, ASEAN e UE potrebbero giocare un ruolo importante.

Il 2021 sembra un annus horribilis per il commercio globale, ancora più del 2020. Molti settori dell’economia hanno beneficiato del “rimbalzo” post-crisi e sembrano tornati ai livelli precedenti alla pandemia. Altri invece sono ancora in difficoltà, con effetti tangibili per i consumatori. L’energia, le materie prime, le automobili, i prodotti IT. Tutto è più difficile da reperire e quindi più caro. Di particolare rilevanza è la carenza di chip, componenti essenziali ormai per tantissimi oggetti di uso quotidiano. La crisi globale della supply chain dei semiconduttori è un caso di studio eccellente per comprendere la natura e le fragilità dell’economia globalizzata. E tocca da vicino i Paesi ASEAN: un paio di loro – Singapore e Malesia – sono tra i principali produttori globali e buona parte dei chip, anche quando proviene da altre parti dell’Asia, passa per le acque del Sud-Est asiatico. 

La global value chain dei semiconduttori presenta delle caratteristiche molto particolari. Tutte le economie del mondo hanno bisogno di questi prodotti, eppure la loro fabbricazione è concentrata in pochissimi Paesi tra di loro interdipendenti, dato che ogni fase della filiera produttiva si svolge in uno Stato diverso. Le aziende di ciascun Paese si sono specializzate in una specifica fase della produzione o in un certo tipo di chip, creando a volte dei veri e propri monopoli regionali. Ad esempio, il 92% dei semiconduttori di dimensioni inferiori ai 10 nanometri viene prodotto a Taiwan. Una sola azienda UE, la ASML, è l’unica produttrice mondiale di scanner EUV, un’attrezzatura essenziale per produrre poi i chip sotto i 7 nanometri a Taiwan. Questa fitta rete di scambi ha spinto i governi a ridurre notevolmente i dazi e infatti i semiconduttori sono tra i prodotti meno tassati del sistema commerciale globale

I chip devono necessariamente circolare e hanno bisogno di un mercato globale liberalizzato e interconnesso. I grandi eventi capaci di rallentare i flussi commerciali, come la crisi Covid, producono in questo settore un susseguirsi di “colli di bottiglia” e infine la scarsità globale senza precedenti a cui stiamo assistendo. Molte fabbriche di chip in Asia sono state costrette a chiudere o a ridurre la produzione a causa della pandemia. Anche il settore dei trasporti sta attraversando un momento di crisi e non riesce più a distribuire i semiconduttori prodotti in Asia nel resto del mondo. Aumentare la capacità produttiva in Asia potrebbe non bastare, se poi mancano i vettori. Anche la guerra commerciale tra USA e Cina condotta da Donald Trump fino allo scorso anno ha avuto un impatto: le restrizioni all’import di chip cinesi ha portato le aziende americane a rivolgersi alla Taiwan Semiconductor Manufacturing Co. (TSMC) e alla coreana Samsung, i cui livelli di produzione erano già al limite. La crisi Covid o le tensioni commerciali non sono però le sole cause scatenanti. La novità è che anche fatti di minore entità, a prima vista dotati di rilevanza solo locale, hanno effetti globali. 

“Se una farfalla sbatte le ali in Brasile, può provocare un tornado in Texas”. L’effetto farfalla teorizzato dal meteorologo statunitense Edward Lorenz si applica anche alla globalizzazione e al mercato dei semiconduttori. Una manovra mal riuscita di una sola nave – costruita in Giappone, operata da una società di Taiwan, registrata a Panama e la cui manutenzione è gestita una ditta tedesca: la ormai celebre Ever Given – ha bloccato il canale di Suez per giorni, fermando il 12% del commercio mondiale e quasi 10 miliardi di dollari in merci per ogni giorno di ostruzione. Poche settimane dopo l’incidente a Suez, un altro evento apparentemente locale, la siccità che ha colpito Taiwan, ha avuto un impatto negativo sul mercato globale dei semiconduttori – per giunta, attirando l’attenzione del pubblico su quanta acqua sia necessaria per la loro produzione. Poche settimane prima invece, un incendio in una singola fabbrica in Giappone aveva dato un ulteriore colpo alla capacità produttiva del settore, causando la costernazione dell’industria automobilistica mondiale, per la quale ormai i chip sono sempre più indispensabili. 

Quanto tempo sarà necessario per risolvere questa crisi, secondo i produttori di chip? Almeno un altro anno. Lisa Su, CEO di AMD, ritiene che nel 2022 assisteremo a un miglioramento della situazione, mentre Pat Gelsinger, a capo di Intel, è meno ottimista e prevede che la scarsità di semiconduttori durerà fino al 2023. Nel breve periodo, i prezzi dei semiconduttori rimarranno alle stelle, anche a causa dell’hoarding, l’accumulazione dei chip da parte delle aziende. Hoarding che sta assumendo dimensioni e forme inaspettate, causando anche la reazione dell’amministrazione Biden. Su EBay e le altre piattaforme online sono attivi freelance che puntano i singoli pezzi usati o smontati, li comprano all’asta e poi li rivendono alle aziende. Un sintomo delle difficoltà che le ditte stanno affrontando nell’approvvigionamento. È naturale allora chiedersi cosa stiano facendo le aziende e i governi per affrontare l’emergenza. La soluzione condivisa sembra consistere in massicci piani di investimenti per aumentare la produzione. I governi di Stati Uniti e Unione Europea vogliono però che i nuovi impianti siano aperti sul proprio territorio. La questione va ben oltre il rafforzamento della supply chain o il ritorno economico e occupazionale: i semiconduttori sono un asset strategico troppo importante per correre il rischio di lasciarlo in monopolio ai paesi asiatici.  Nei discorsi di Joe Biden e Ursula Von der Leyen sul tema, espressioni come “sicurezza nazionale” e “sovranità tecnologica” compaiono puntualmente. Anche le aziende sono interessate a spostare parte della produzione fuori dall’Asia, specie dietro promessa di generosi incentivi pubblici: la TSMC ha già avviato la costruzione di un impianto da 12 miliardi di dollari in Arizona e promette ulteriori investimenti negli States, mentre Intel intende investire fino a 80 miliardi di dollari per aprire nuove fabbriche nell’UE. Occorre solo capire dove. L’Italia sta corteggiando il colosso americano per attirare parte dell’investimento, come anche la Baviera, dato che uno degli impianti sarà probabilmente costruito in Germania.

Sfortunatamente questi progetti potrebbero non avere l’effetto sperato. Per quanto la global value chain dei semiconduttori sia studiata con attenzione e rigore dagli esperti, rimane difficile ‘codificare’ i vantaggi competitivi delle aziende leader del settore. Il know-how richiesto cade, per una buona sua parte, nel campo della conoscenza tacita e non può essere trasferito facilmente dalle fabbriche in Asia a quelle in Europa o negli USA. Tanto è che le aziende costruiscono i nuovi impianti riproducendo in modo fedelissimo l’organizzazione e la planimetria di quelli già esistenti – coerentemente con la propria, celebre, strategia Copy Exactly!, Intel riproduce dettagli come la pressione barometrica, la temperatura del colore dell’illuminazione o la tinta dei guanti. Inoltre, il fatto che la produzione mondiale dei semiconduttori sia così concentrata in una singola regione, l’Asia dell’est, e dipenda da un fitto intrecciarsi di catene del valore regionali costituisce una debolezza, ma anche un punto di forza del settore. Le nuove fabbriche lontane dall’Asia riusciranno a trovare il loro posto nella global value chain? Riusciranno ad essere competitive?

I Paesi ASEAN possono giocare un ruolo importante nel futuro dei semiconduttori e già valgono il 22% dell’export mondiale di componentistica elettronica. Come accennavamo, Singapore e Malesia sono già degli attori importanti del settore e potranno attrarre nuovi investimenti da USA, Taiwan e Corea. Thailandia e Vietnam hanno varato dei piani ambiziosi di incentivi e investimenti per favorire la crescita del settore nel proprio territorio. Hanoi dovrebbe portare avanti un piano ambizioso di potenziamento infrastrutturale e riforme, se vuole attirare anche investimenti diretti dall’estero. Anche l’Indonesia è un ambiente promettente per lo sviluppo dell’industria dei semiconduttori, anche se tale sviluppo è frenato dalla mancanza di infrastrutture e dalla mancanza di accordi commerciali significativi con i suoi partner internazionali. Anche per i semiconduttori, infatti, i trattati di libero scambio giocheranno un ruolo cruciale nello sviluppo delle supply chain regionali e globali: tutti i Paesi ASEAN sono parte dell’accordo RCEP e, tra loro, Singapore e Vietnam già beneficiano di un legame molto stretto con l’UE. 

È difficile prevedere il futuro del mercato mondiale dei semiconduttori. O meglio, dove sarà tale futuro. Gli Stati produttori tradizionali intendono mantenere la propria centralità, mentre i Paesi ASEAN, l’UE e gli USA intendono iniziare a giocare un ruolo maggiore. L’unica cosa certa è che, negli anni a venire, il settore attrarrà miliardi di dollari in investimenti privati e pubblici.

Si ringrazia Filippo Bizzotto per il supporto nella preparazione e nella revisione dell’articolo.

Green e strategia: l’interesse di Londra per il Sud-Est asiatico

L’ambizione massima britannica è quella di tornare ad avere un ruolo rilevante nel contesto internazionale. Consolidare il rapporto con i Paesi dell’ASEAN è reputato un tassello fondamentale in questa strategia.

Articolo a cura di Luca Sebastiani

L’annuncio è arrivato durante la Cop26 di Glasgow. Il Regno Unito finanzierà con 110 milioni di sterline i progetti infrastrutturali sostenibili nel Sud-Est asiatico. Un sostegno economico al “Catalytic Green Finance Facility” dell’ASEAN (l’Associazione delle Nazioni del Sud-est asiatico), gestito dalla Banca Asiatica di sviluppo (Adb). I Paesi in via di sviluppo della regione potranno quindi beneficiare dei fondi per avviare dei programmi legati alle energie rinnovabili, a trasporti puliti e alle tecnologie “green”.

È una dichiarazione che si mescola con altre di simile impatto rilasciate nelle ultime ore dal governo britannico, come per esempio quello dei nuovi investimenti nel continente africano, e che è accompagnata da comunicati simili di altri paesi e organizzazioni – tra cui l’Unione europea. Nonostante questo, è una notizia degna di particolare attenzione.

La linea dettata dal premier Boris Johnson, in particolar modo dopo la Brexit, è chiara: “Riappropriarsi dei vecchi amici e abbracciarne di nuovi”. E la regione del sud-est asiatico è una delle aree preferite da Londra in cui stringere amicizie economiche e diplomatiche. Le 110 milioni di sterline, infatti, sono solo l’ultimo segnale e l’ultimo esborso di soldi che procede in questa direzione. Oltre a evidenziare l’incremento di occupazione e lavoro nel Regno Unito derivante dall’investimento, Liz Truss, Foreign Secretary britannica, ha definito l’ASEAN “un partner importante per la Global Britain”, esplicitando la volontà di approfondire i legami reciproci e portare il rapporto in una nuova era. Un ulteriore passo avanti dopo che nell’agosto del 2021 l’associazione del Sud-est asiatico ha conferito alla Gran Bretagna lo status di “dialogue partner”, un riconoscimento che non veniva rilasciato da più di 25 anni. Un segnale inequivocabile che anche da parte dell’ASEAN c’è la volontà di intessere rapporti ancora più stretti.

La ricerca obbligata di appoggi e di accordi commerciali in giro per il mondo, portata avanti da Londra dopo l’uscita dall’Unione europea, ha trovato particolare sfogo nell’area Indo-pacifica. Non una scelta casuale visto che oggi questa regione è sotto i riflettori dell’attenzione mondiale ed è considerata la zona strategica per eccellenza. Tra il 2020 e il 2021, i Paesi dell’ASEAN (Indonesia, Thailandia, Malesia, Singapore, Filippine, Vietnam, Myanmar, Cambogia, Laos e Brunei) con cui il 10 di Downing Street ha siglato trattati di libero scambio sono stati Singapore e Vietnam, sulla scia degli accordi simili già in vigore tra le due nazioni con l’Ue. Ma, per rafforzare le relazioni economiche, il Regno Unito ha firmato patti bilaterali con quasi tutti gli altri Stati.

D’altronde questi Paesi sono in una fase di espansione economica imponente. Attualmente l’ASEAN ricopre la sesta posizione tra le più grandi economie del mondo, ma la previsione è che entro il 2030 possa essere il quarto mercato del mondo, dietro a Stati Uniti, Cina e Ue (non per forza in questo ordine). Già solo questi dati spiegano il motivo delle particolari attenzioni britanniche. In questo momento il valore degli scambi di beni e servizi tra le due parti è importante. Nel 2020 le esportazioni britanniche verso i paesi dell’Asean erano pari a 21,5 miliardi di dollari, mentre le importazioni a 24 miliardi, per un totale di circa 46 miliardi. Una cifra in ribasso a causa della pandemia del Covid-19, visto che nel 2019 raggiungeva i 52 miliardi. E nello stesso anno gli investimenti provenienti dal Regno Unito, e diretti nel blocco regionale, raggiungevano i 36,5 miliardi di dollari.

Ma se la Global Britain si dirama da una parte con gli accordi commerciali, dall’altra emergono in maniera plastica i fattori diplomatici, strategici e militari. Nel novembre del 2019 Londra ha stabilito la sua missione in ASEAN e ha nominato un ambasciatore specifico per l’area. Lo scorso marzo, più di recente, è stata rilasciata dal governo britannico la “Integrated Review of Security, Defence, Development and Foreign Policy” dal titolo emblematico “Global Britain in a Competitive Age”. Nel documento viene evidenziato l’interesse verso l’Indo-Pacifico e i paesi dell’Asean. Tra gli obiettivi posti dal Regno Unito c’è quello di supportare il ruolo centrale dei paesi del sud-est asiatico per la stabilità e prosperità regionale.

In ultimo il carattere militare. In questi mesi, il Carrier Strike Group – con in testa la portaerei britannica HMS Queen Elizabeth – ha percorso e sta percorrendo le acque più scottanti del globo, attraversando quei celebri colli di bottiglia fondamentali per il commercio ed il controllo dei mari. Le più significative tappe del suo viaggio sono state effettuate proprio nei porti e nelle basi dell’area indo-pacifica e in alcuni paesi sud-est asiatici. Durante il dispiegamento, il gruppo ha svolto esercitazioni con diversi eserciti alleati, ma soprattutto ha avuto il compito di dimostrare la forza del Regno Unito – o quantomeno la sua volontà – di poter essere un valido strumento di contenimento in chiave anti-cinese utile agli Stati Uniti in un futuro.

L’ambizione massima britannica è quella di tornare ad avere un ruolo rilevante nel contesto internazionale. Consolidare il rapporto con i paesi dell’ASEAN è reputato un tassello fondamentale in questa strategia.

Tutti i progetti portano all’Indo-Pacifico

Quella sull’AUKUS è solo l’ultima di una serie di iniziative multilaterali focalizzate sulla regione. Dagli Stati Uniti al Regno Unito, dall’Australia all’Unione Europea, tutti hanno un motivo per aumentare la loro presenza nell’area.

Articolo a cura di Dmitrii Klementev

Tutte le strade portano a Roma – si poteva dire quando l’Impero romano si estendeva attraverso la vastità del Mediterraneo. La grandezza delle antiche civiltà ha modellato la maniera in cui la maggior parte di noi vede il pianeta avvicinandosi a una mappa del mondo concentrata sul Mediterraneo. Ora vediamo come il mondo stia andando nella direzione opposta – verso la regione dell’Indo-Pacifico. Ogni anno un numero crescente di progetti viene avviato in questa parte del mondo. Sempre più attori globali adattano le loro strategie tenendo in considerazione la sua crescente importanza. Questo articolo cerca di far luce sui più significativi di loro, traendo alcune conclusioni sul futuro dell’ordine mondiale.

Di recente, la firma dell’accordo AUKUS ha provocato accese discussioni in tutto il mondo. Alcuni paesi sono stati addirittura colti alla sprovvista dalla decisione degli Stati Uniti, del Regno Unito e dell’Australia. Tuttavia, AUKUS non è che un anello di una grande catena di eventi che si è sviluppata gradualmente durante l’ultimo decennio e non si tratta di uno sviluppo sorprendente.

Riguardo al Regno Unito, il concetto di politica estera “Global Britain”, pubblicato nel marzo 2021, ha sottolineato in particolare l’importanza della regione Indo-Pacifica per il Paese. Questo cambio di orientamento della politica estera britannica è stato già dimostrato nel 2016, quando Londra ha votato per uscire dall’Unione Europea. In linea con la nuova strategia, i Paesi europei sono considerati dei competitor del Regno Unito nella regione, vista l’intenzione di Londra di “stabilire una presenza maggiore e più persistente di qualsiasi altro Paese europeo” nell’Indo-Pacifico.

Gli Stati Uniti, un altro firmatario dell’AUKUS con il quale il Regno Unito gode di una Relazione Speciale, hanno iniziato a riorientare la loro politica estera verso l’Indo-Pacifico ancora prima. Pertanto, essi dispongono già di una serie di iniziative ambiziose, volte a promuovere la loro influenza nella regione. Il 12 giugno 2021, per iniziativa degli Stati Uniti, i leader del G7 hanno lanciato l’iniziativa “Build Back Better World” (B3W), che ufficialmente si focalizza sulla risposta alle esigenze infrastrutturali nei Paesi a basso e medio reddito. Ma la maggioranza assoluta degli esperti tende a considerare il progetto come un’alternativa alla Belt and Road cinese.

Vale la pena menzionare che l’amministrazione di Biden non ha progettato l’iniziativa B3W da zero. Si basava su un progetto sviluppato sotto Donald Trump – il Blue Dot Network (BDN). Quest’ultimo venne lanciato dagli Stati Uniti, dal Giappone e dall’Australia nel 2019 in occasione dell’Indo-Pacific Business Forum. Il BDN mira a fornire valutazioni e certificazioni dei progetti infrastrutturali in tutto il mondo, garantendo il rispetto di una serie di criteri ambientali, finanziari e sociali. La logica alla base era quella di distogliere i Paesi dalla BRI cinese, che si ritiene li costringa ad indebitarsi e, di conseguenza, cadere nell’influenza di Pechino. Sotto l’amministrazione di Biden, la BDN ha iniziato a operare sotto l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico.

Per il terzo componente dell’AUKUS, l’Australia, l’accordo è diventato un’opportunità per esprimere le preoccupazioni sulla sicurezza regionale. La cooperazione con gli Stati Uniti e il Regno Unito permette a Canberra di costruire una flotta sottomarina a propulsione nucleare, nonché di accedere potenzialmente a missili a lungo raggio e ad alcune altre capacità.

Senza dubbio, la crescente influenza cinese è la ragione principale per cui l’Australia è divenuta un attore attivo nella grande politica del giorno d’oggi. Questo può essere anche confermato dal fatto che nel 2018 l’Australia ha aggiornato le proprie relazioni con il Vietnam a un partenariato strategico. Sia Canberra che Hanoi condividono preoccupazioni riguardo la libertà di navigazione nel Mar Cinese Meridionale, che è il più importante centro di trasporto della regione.

È interessante notare che AUKUS non è la prima iniziativa multilaterale nella regione che riunisce Stati Uniti, Regno Unito e Australia. Insieme al Canada e alla Nuova Zelanda, i suddetti Paesi formano l’alleanza di intelligence Five Eyes, la cui istituzione risale all’inizio della Guerra Fredda. Originariamente progettato per contrastare la minaccia sovietica, oggi l’alleanza mira a fare i conti con la Cina.

Da ultimo ma non meno importante, l’annuncio del patto di difesa AUKUS il 15 settembre 2021, ha messo in ombra un altro evento importante – la presentazione della strategia Indo-Pacifica da parte dell’Unione europea, che non vuole arrendersi nella corsa per l’influenza nella regione.

Preoccupata delle crescenti tensioni nell’Indo-Pacifico, del mancato rispetto dei diritti umani e dei valori democratici, l’Unione europea si affida principalmente allo strumento della politica commerciale e degli investimenti, poiché è in questi settori che l’Unione gode di una serie di vantaggi nella regione.

Questa lista di iniziative, strategie e attori è lontana dall’essere esaustiva. Però, anche questo può essere sufficiente per affermare che l’ordine mondiale è entrato in una fase attiva di transizione. Una fase che rappresenta un’opportunità unica per fare un importante passo avanti per coloro che sono rimasti indietro. Tuttavia, questo processo non avrà egualmente alcuna pietà per coloro che l’hanno ignorato. Probabilmente, tra qualche anno la centralità della mappa mondiale a cui siamo abituati cambierà, dal momento che quasi tutti i progetti portano all’Indo-Pacifico.

I Facebook Papers scuotono anche l’ASEAN

Incitamento all’odio, propaganda politica senza contraddittorio e traffico di esseri umani. Problemi di cui il colosso di Mark Zuckerberg era a conoscenza ma non ha agito, secondo le accuse dell’inchiesta denominata Facebook Papers.

Nelle ultime settimane, Facebook è stato nell’occhio del ciclone dopo che diverse testate giornalistiche statunitensi ed europee hanno pubblicato contemporaneamente articoli basati sui documenti interni diffusi dalla whistleblower ed ex dipendente Frances Haugen su alcune faccende controverse riguardo la stessa azienda.

I documenti trapelati, conosciuti inizialmente come “Facebook Files” e successivamente denominati “Facebook Papers”, raccontano nel dettaglio i fallimenti della dirigenza dell’azienda nel contenere la disinformazione e l’incitamento all’odio e alla violenza sulla piattaforma. La situazione è aggravata dalla presunta conoscenza di Facebook di questi problemi, che non è però riuscita ad arginare, talora per inerzia, talora per mancanza di mezzi tecnici, ma soprattutto, sostiene l’inchiesta, per la scelta di anteporre il profitto e la ricerca dell’engagement alla sicurezza e al benessere degli utenti.

Per oltre un decennio, Facebook ha spinto per diventare la piattaforma online dominante nel mondo. Tuttavia, i suoi sforzi per mantenere il social sicuro ed inclusivo non hanno tenuto il passo con la sua espansione globale. Dai documenti sono anche emersi diverse vicende legate ai Paesi dell’ASEAN, in particolare Vietnam, Myanmar e Filippine, nei quali l’uso dei social network è cresciuto esponenzialmente negli ultimi anni, così come l’accesso alle reti mobili. Per molte persone in questi Paesi, Facebook rappresenta l’unico punto di accesso alle informazioni, e molti considerano i post come vere e proprie notizie.

Uno dei principali aspetti dell’inchiesta riguarda il fatto che Facebook sia in gran parte impreparato a contrastare la disinformazione fuori dagli Stati Uniti e da pochi altri Paesi occidentali. Se consideriamo infatti che, secondo un documento interno pubblicato dal New York Times, l’87% delle risorse della piattaforma sono dedicate a combattere la disinformazione negli Stati Uniti, il 13% rimanente per il resto del mondo appare una cifra assai esigua. Come altre aziende tecnologiche, il gigante dei social network usa degli algoritmi per segnalare ed eventualmente eliminare contenuti ritenuti dannosi prima che si diffondano rapidamente online, ma molti post sono scritti in linguaggi e dialetti locali o presentano riferimenti culturalmente specifici che gli algoritmi comprendono con estrema difficoltà. Ad esempio, fino al 2020 l’azienda non aveva algoritmi di screening in lingua birmana, una falla che ha permesso al linguaggio aggressivo e all’incitamento all’odio razziale di fiorire sulla piattaforma. Facebook è stato accusato di aver svolto un ruolo chiave nella diffusione dell’odio razziale nei confronti della minoranza Rohingya in Myanmar, quando i militari hanno effettuato “operazioni di pulizia” del gruppo etnico, costringendo 650.000 rifugiati Rohingya a fuggire in Bangladesh a causa delle persecuzioni.

Anche il Vietnam si è ritrovato coinvolto nello scandalo dei Facebook Papers, seppur per altre ragioni. Secondo una serie di documenti interni emersi nel corso dell’inchiesta, l’amministratore delegato Mark Zuckerberg avrebbe ceduto alle richieste del governo vietnamita di censurare i post di dissidenti anti-governativi per non rischiare di perdere un miliardo di dollari di entrate annuali nel Paese, cifra stimata da un report di Amnesty International. Il Vietnam è uno dei mercati asiatici più lucrativi di Facebook, con più di 53 milioni di utenti attivi (oltre la metà della popolazione). Secondo Huynh Ngoc Chenh, un influente blogger che si occupa di democrazia e questioni relative ai diritti umani, il colosso di Menlo Park “ha maltrattato gli attivisti eliminando la libertà di parola, trasformandosi in uno strumento mediatico a servizio del Partito Comunista del Vietnam”. Per tutta risposta, l’azienda ha affermato che la scelta di censurare è giustificata “al fine di garantire che i servizi rimangano disponibili per milioni di persone che si affidano a loro ogni giorno”, secondo una dichiarazione fornita al Washington Post.

Ma non finisce qui. Sono infine emersi scandali anche sul comportamento di Facebook nelle Filippine, dove peraltro post e contenuti spesso fuorvianti continuano ad alimentare la popolarità del controverso Presidente Duterte. All’inizio di quest’anno, un rapporto interno di Facebook ha identificato l’esistenza di lacune nel rilevamento di gruppi criminali che si servono della piattaforma per il traffico di esseri umani. Infatti, nonostante il governo delle Filippine abbia una task force impegnata a prevenire tali situazioni, le piattaforme della società sono utilizzate per la recluta e compravendita di collaboratori domestici.

Belt and Road Initiative: a che punto siamo in ASEAN?

Dall’entusiasmo dei primi anni allo stop della pandemia. Pechino non si arrende, alcuni governi tentennano e i dati mostrano pericoli incombenti, ma l’unione dei dieci paesi in diplomazia vede di buon occhio i capitali cinesi.

L’ASEAN ha bisogno della Belt and Road Initiative (BRI). O è la Cina ad avere bisogno dell’ASEAN per portare avanti le nuove Vie della seta? La risposta sta nel mezzo. E cosa sta accadendo dell’ultimo anno racconta qualcosa in più di come evolve il progetto più ambizioso dell’amministrazione Xi, che dal 2014 è molto cambiato nella sostanza e negli obiettivi.

L’arrivo della pandemia e lo stop alle attività produttive non potevano che dare un ulteriore colpo d’arresto ai piani di Pechino. Le previsioni di crescita delle economie del Sud-Est asiatico continuano a mantenere toni cauti, mentre il governo cinese sembra più attento sulla distribuzione dei propri investimenti diretti esteri. Questo non ha impedito alla Cina di mantenere il suo primato come maggiore investitore nella regione, mentre gli Stati Uniti iniziano ad avanzare per sostituire Pechino laddove inizia a perdere terreno. Che siano dispute territoriali nel Mar Cinese Meridionale, oppure semplice scetticismo unito a maggiore potere negoziale, la Cina si trova davanti a una BRI che sta cambiando.

BRI chiama Cina

Come Pechino gestisce i suoi investimenti all’estero è da tempo un fenomeno conosciuto. Gli accordi stretti tra Cina e nazioni più povere nel quadro BRI sono spesso inseriti in obbligazioni che vengono ripagate, in assenza di liquidità, con la fornitura di materie prime, o la concessione a uso proprio di un asset agli investitori. Il fascino dei capitali cinesi rimane, però, uno degli strumenti più potenti della politica estera della Repubblica popolare. Lo scorso 1° settembre al Belt and Road summit i rappresentanti ASEAN hanno annunciato che serve investire di più nei progetti BRI per aiutare l’economia dell’unione a riprendersi dopo la battuta d’arresto della pandemia.

Sono tanti i progetti promossi dall’inizio della crisi Covid19, ma arrivano anche alcuni stop dati dall’incertezza dell’identità delle joint venture tra imprese cinesi e locali. Solo nei primi quattro mesi del 2021 sono stati firmati 61 nuovi progetti con il Vietnam, per il valore totale di 1 miliardo di dollari. È stata avviata la fase di analisi per la Kyaukphyu Special Economic Zone (SEZ) in Rakhine, Myanmar. Un luogo dove la cinese China International Trust and Investment Corporation Group (CITIC) promette collaborazioni con un consorzio cinese-birmano ad hoc, anche se gli incentivi ambiziosi (9-10 miliardi di dollari) stanno lasciando spazio a progetti su “piccola-media scala”. In Malesia l’ultimo progetto nel quadro BRI prevede la costruzione di un nuovo impianto fotovoltaico. Anche in questo caso, le compagnie cinesi (quasi sempre statali) promettono 10,1 miliardi di dollari di lavori.

La Thailandia è un caso a parte. Sebbene come i vicini Cambogia e Laos la guida del Paese sia di facto autocratica, c’è maggiore attenzione e cautela da parte del governo verso i promettenti capitali cinesi. Ci si è accorti che, spesso, si sono favorite soluzioni onerose invece di sistemare i problemi alla radice, e che molti dei progetti cinesi potrebbero finire nel vuoto degli investimenti senza ritorno. Più basso il potere negoziale di nazioni come Cambogia e Laos, dove Pechino sembra dettare le regole con maggiore assenso dei governi, spesso perché le altre forme di organizzazione indipendenti sono più deboli.

Cina chiama BRI

La Cina dal canto suo rimane cauta, anche se i progetti in ambito BRI proseguono. È il caso della ferrovia Thailandia-Cina, che parte da Bangkok, passerà da Vientiane e punta a raggiungere Kunming. Pechino si è anche offerta di farsi carico del progetto di spostamento delle acque dei fiumi, un’ambizione del governo thailandese vecchia di trent’anni, ma che fino a oggi sembrava infattibile date le enormi spese che il progetto richiederebbe. La proattività della Cina, in questo senso, punta a toccare i bisogni dei singoli Paesi, anche se proprio dagli ambientalisti thai arriva la denuncia che un sistema idrico efficiente salverebbe i cittadini dall’acqua persa ogni anno (il 40% di quella trasportata).

A fare da polo attrattivo verso Pechino ci sono anche le numerose iniziative che coinvolgono i dieci paesi del Sudest asiatico. La Cina ha ospitato il primo incontro in presenza dopo 16 mesi con i rappresentanti ASEAN lo scorso 7 giugno, mentre la 18° China-Asean expo del 10-13 settembre ha permesso di avanzare nuove proposte sulla questione degli scambi commerciali. Questa relazione ha ispirato da tempo Pechino, che da allora si propone di superare il concetto di investimenti nella regione come capitale per costruire infrastrutture “vuote”, con una maggiore attenzione alla cooperazione per la ricerca e lo sviluppo avanzati.

Trappola del debito o debiti fantasma?

AidData, centro di ricerca affiliato alla William & Mary University, ha annunciato che i debiti accumulati dai Governi asiatici nei confronti della Cina potrebbero essere molto più onerosi di quanto preventivato. La ricerca ha analizzato i 13,427 progetti cinesi in Laos a partire dal 2000, calcolando un monte spese che si aggira attorno agli 800 miliardi di dollari. Di questi, almeno 385 miliardi sarebbero di debito “fantasma”. In totale sarebbero almeno 44 i paesi che hanno debiti con la Cina pari al 10% del proprio PIL.

Il G20 dello scorso anno aveva stabilito che nel 2020 andava sospeso il debito di 73 economie meno sviluppate per affrontare emergenza Covid. Questo tipo di investimenti, considerati rischiosi per la salute dei bilanci statali, possono però essere nascosti tra le svariate eccezioni contemplate dal diritto internazionale. Per esempio, gli accordi possono essere presi direttamente da aziende statali, joint venture e privati senza necessariamente ricevere la delibera del governo cinese. In questo modo, come nel caso della ferrovia Laos-Cina, il buco finanziario potrebbe essere ben maggiore del previsto. Una questione complessa, che vede protagonisti gli ultimi due progetti più importanti in corso: la ferrovia Laos-Cina e 580 km di autostrada.

I rischi per le nazioni più deboli dell’ASEAN in termini di governance spaventano gli analisti, che temono un ritorno alla “trappola del debito”. Con questo tipo di prassi la Cina ha già risolto diverse controversie ottenendo la concessione di alcuni asset laotiani, tra cui parte della rete elettrica. Anche in questo caso il debito è molto meno nascosto di quanto possa apparire: basta osservare la combinazione della joint venture per osservare che la maggioranza del capitale è controllata da tre compagnie statali cinesi. Un mix complicato di sfide e opportunità, che per ora non ha frenato in modo significativo la corsa di Pechino lungo le nuove Vie della seta, ma ha comunque contribuito a evolvere il ragionamento in alcuni dei governi ASEAN. Un’esperienza utile, che ora richiede più coesione per evitare il rischio di default tra gli stati membri più fragili.

Ambiente, chi sono le Greta dell’ASEAN

L’attivismo giovanile nel Sud-Est asiatico è una risorsa da valorizzare per combattere il cambiamento climatico.

Il messaggio ambientalista di Greta Thunberg anima i movimenti giovanili del Sud-Est asiatico. In questa regione l’incombenza del cambiamento climatico è particolarmente allarmante, specie per Paesi come Indonesia, Vietnam, Thailandia e Filippine. Ecco perché, in concomitanza con l’inaugurazione delle negoziazioni internazionali di Glasgow sul clima, schiere di giovani attivisti e attiviste si sono organizzate per fare pressioni sui governi nazionali affinché si impegnino di più per l’ambiente, per la riduzione delle emissioni di gas serra e per affrontare le implicazioni sociali che la crisi ambientale comporta. 

La speranza di un futuro sostenibile è davvero nelle mani delle nuove generazioni, e nel caso della lotta per la climate action non si tratta di vuota retorica. “Lo sviluppo sostenibile è uno sviluppo che soddisfa le necessità del presente”, si legge nel noto rapporto ONU “Our Common Future” (1987), pietra miliare della cooperazione internazionale sul tema, “senza compromettere la capacità delle generazioni future di soddisfare i propri bisogni”. Questo principio, che prende il nome di inter-generational equity, consiste in una responsabilità collettiva nei confronti del pianeta e di coloro che lo abiteranno, che trova espressione nelle rivendicazioni dell’attivismo giovanile.

Movimenti di informazione e sensibilizzazione sul tema sono proliferati in tutta l’area ASEAN. Nelle Filippine, la 23enne Mitzi Jonelle Tan ha fondato insieme ad alcuni coetanei Youth Advocates for Climate Action, una versione filippina dei Fridays For Future inaugurati da Greta Thunberg. Nelle settimane che precedono l’incontro della UN Climate Change Conference (COP26) che si terrà a Glasgow, gruppi attivisti e attiviste come Tan e il suo collettivo hanno preso parte a numerosi incontri di sensibilizzazione, scioperi e proteste per pretendere un vero cambiamento. In particolare, i giovani nelle Filippine sanno bene che il loro è tra i Paesi più esposti alle conseguenze ambientali e sociali dell’emergenza climatica. Tan ha detto che il Nord globale deve ai Paesi meno ricchi un impegno concreto alla cooperazione climatica, dal momento che loro “hanno causato la crisi climatica”. È quindi opportuno rivendicare un impegno sempre maggiore da parte di questi governi, per avere la sicurezza di “riuscire ad adattarci, ad affrontare le perdite e i danni e a passare alle energie rinnovabili”, ha concluso. 

Anche in Vietnam lo spirito dei Fridays For Future si sta diffondendo. Uno dei primi scioperi per il clima, tenutosi nel settembre 2019, è stato avviato da Huyen Phan. Una volta tornata dagli studi all’estero, questa giovane studentessa ha sentito di dover fare qualcosa per la sua città, Ho Chi Minh, una delle località più esposte ai rischi legati all’innalzamento del livello del mare, oltre che una delle città con la peggiore qualità dell’aria in Vietnam. “Sono rimasta molto sorpresa dal fatto che le persone intorno a me non si preoccupassero affatto del cambiamento climatico o dell’inquinamento atmosferico”, ha dichiarato Huyen, “quando ho sentito dello sciopero globale per il clima, ho provato a trovare un evento a Ho Chi Minh City senza riuscirci, quindi ho deciso di crearne uno io stessa”. Hong Hoang, coordinatore di un’associazione che si occupa di promuovere la rivoluzione energetica sensibilizzando le comunità locali dal basso, ha dichiarato di essere molto orgoglioso dell’evento. “Questa volta lo sciopero non è stato organizzato da nessuna ONG per il clima, ma da individui preoccupati”, ha detto, “questo è il potere popolare che è fondamentale per fare pressione sui leader mondiali affinché prendano le cose più seriamente”.

La determinazione di queste giovani ambientaliste non deve sorprenderci: per le nuove generazioni il cambiamento climatico è una minaccia esistenziale. Ecco perché l’etichetta di “giovane attivista”, impiegata da persone o istituzioni di potere, non è molto apprezzata. L’effetto è quello di sminuire in senso paternalistico l’impegno concreto che questi movimenti giovanili stanno rivendicando davanti ai leader mondiali. Si tratta, come suggeriscono alcuni esperti, di un espediente che rischia di continuare a escludere i giovani dai processi decisionali, che invece esprimono una forza dirompente proprio perché “sono orientate al futuro, orientate alla comunità e disposte a pensare oltre lo status quo”. Quello che rivendicano le nuove generazioni di attivisti nel Sud-Est asiatico è proprio che i governi nazionali e le istituzioni internazionali vadano oltre i paradigmi di sfruttamento delle risorse naturali, e immaginino strade di sviluppo alternative. L’azione dal basso dell’attivismo giovanile ha dimostrato finora di saper essere capillare e radicale, proprio il genere di cambiamento richiesto da circostanze eccezionali come l’attuale emergenza climatica. 

 

 

Vaccini, Italia in aiuto dei Paesi ASEAN

Il sostegno sanitario al Sud-Est asiatico può aiutare anche una ripresa economica inclusiva e duratura in un’area di crescente interesse per il nostro Paese

Editoriale a cura dell’Amb. Giorgio Marrapodi, Direttore Generale per la Cooperazione allo Sviluppo

Da alcuni mesi il Sud-Est asiatico è interessato da una nuova ondata pandemica, caratterizzata da un incremento preoccupante dei contagi e dei decessi, specie tra le fasce più vulnerabili della popolazione. L’impegno delle Autorità locali nella lotta alla pandemia si scontra con la limitatezza dei mezzi a disposizione, specie in termini di dosi vaccinali disponibili. L’Italia, Partner di Sviluppo dell’ASEAN dal 2020, si è immediatamente attivata per l’inclusione del Sud-Est asiatico fra le aree beneficiarie in via prioritaria di donazioni di vaccini mediante la Covax Facility. Tale azione si è finora tradotta nella donazione da parte italiana di oltre 2,8 milioni di dosi al Vietnam e di quasi 800.000 dosi all’Indonesia, per un totale di oltre 3,5 milioni di dosi. Altre dosi saranno in arrivo nelle prossime settimane, sulla base delle più recenti allocazioni, e sulla base della segnalazione della regione del Sud-Est Asiatico come un’area prioritaria. Il nostro Paese sta lavorando alla donazione di dosi anche a favore di altri Paesi ASEAN. Le donazioni si inseriscono nel più ampio impegno dell’Italia a destinare entro la fine dell’anno 45 milioni di dosi ai Paesi a medio-basso reddito, annunciato dal Presidente del Consiglio, Mario Draghi, il 22 settembre scorso nel corso del “Global COVID-19 Summit”, a margine della 76esima Assemblea Generale dell’ONU. L’Italia “triplica” in questo modo l’impegno assunto lo scorso 21 maggio in occasione del Global Health Summit di Roma di donare 15 milioni di dosi entro il 2021 e conferma di essere in prima linea, anche in qualità di Presidente di turno del G20, nella lotta alla pandemia e nell’accelerazione della campagna vaccinale nelle aree più colpite, incluso il Sud-Est asiatico. Ciò nella piena consapevolezza che “no one is safe until everyone is safe” e che solamente attraverso una più equa ed ampia distribuzione dei vaccini sarà possibile creare le condizioni necessarie per un ritorno alla normalità e per una ripresa economica inclusiva e duratura, specie in un’area di crescente interesse per il nostro Paese e per le nostre aziende quale l’ASEAN.

Rocco Papapietro: “Mercati ASEAN, esserci per crescere”

ITALIA-ASEAN/ Continua il ciclo di interviste e approfondimenti su aziende e realtà italiane presenti nel Sud-Est asiatico. Intervista al CEO di Verdevita Sdn Bhd, una società di consulenza con sede a Kuala Lumpur, specializzata nella progettazione di strategie per aziende che vogliono penetrare e investire in Malesia e nel mercato ASEAN.

Con oltre vent’anni di esperienza internazionale in posizioni direzionali, l’Ing. Rocco Papapietro, CEO e fondatore di Verdevita Sdn Bhd, si occupa di sviluppo commerciale di aziende italiane ed europee nei paesi ASEAN.

Come e quando è nata la sua attività in ASEAN?

I miei primi viaggi in Malesia risalgono al 1999. In quel periodo lavoravo come Responsabile dello Sviluppo in Asia del settore elettronico/automotive per una nota società internazionale. Ho ricoperto ruoli globali in cui il cross culture era fondamentale, collaborando anche con Toyota e Honda in Malesia. Ho apprezzato fin da subito la dinamicità del Sud-Est asiatico. Viaggio dopo viaggio notavo una continua evoluzione, chiaramente visibile dall’incessante costruzione di grattacieli e palazzi che modificavano lo skyline delle città.  Visto un tale fermento, ho immaginato la creazione di un ponte di conoscenza e affari tra l’Italia e il Sud-Est asiatico. Le aziende locali erano molto curiose e interessate ad apprendere il know how italiano. Essendomi appassionato all’attività dello sviluppo internazionale, nel 2009 ho iniziato una fase esplorativa e l’anno successivo ho deciso di spostarmi permanentemente in Malesia, avviando l’attività di consulenza. Ho capito che supportare le aziende direttamente dalla Malesia sarebbe stato l’asso nella manica. Così ho fondato Verdevita Sdn Bhd in collaborazione con un partner locale. Verdevita è una società di diritto malese, iscritta al Ministero delle Finanze, della quale sono il CEO. Ciò consente un accesso facilitato a gare, tender e incentivi del governo. Dal 2010 risiedo a Kuala Lumpur e nello stesso anno sono stato nominato Segretario Generale della Italy Malaysia Business Association – IMBA. Vivere qui mi consente la gestione diretta dei progetti e dello staff, formazione e training per i partner, l’aggiornamento continuo su incentivi, nuove leggi e opportunità nei vari territori. Non credo molto nella gestione da remoto, anche se la pandemia ci ha costretto a farlo attraverso nuove geometrie e dinamiche; difficoltà superata grazie anche al nostro fantastico staff locale, composto da collaboratori molto preparati, tra cui Elena Konovalova, Kumaressan Suppiah, Kenneth Karnan, Emanuele Esposito.

Perché ha deciso di investire in Malesia?

La spinta iniziale è stata il forte interesse di andare all’estero e mettersi in gioco per curiosità e voglia di fare. L’Italia e il Made in Italy possono contare su un’immagine molto positiva in Malesia, e la Malesia presenta, a sua volta, tutti gli elementi essenziali per lo sviluppo di un’impresa all’estero. È il terzo mercato più grande al mondo e attrae l’11% degli IDE globali. È un insieme di culture differenti e consente sbocchi non solo nel Sud-Est asiatico, ma anche verso l’India e la Cina. È un Paese ben collegato grazie alla presenza di 39 aeroporti, di cui 5 internazionali, e 8 porti, e hub logistico fondamentale per tutto il Sud-Est asiatico.  Il tasso di cambio favorevole e i costi contenuti di incorporazione per le nuove imprese sono stati elementi fondamentali, soprattutto rispetto ad altre realtà dell’ASEAN, come Singapore, Hong Kong. Così come i costi bassi dell’energia, degli affitti nei city center, l’ampia disponibilità di personale qualificato, di incentivi per le start-up digitali e le aziende, e la possibilità di aprire uffici regionali, molto utili nella fase di esplorazione e studio del mercato e delle leggi locali. La Malesia permette la sostenibilità dell’investimento. Questo è il concetto che racchiude tutti i motivi della mia scelta. Inoltre, il suo ruolo come testa di ponte per espandersi nel Sud-Est asiatico si sta rafforzando grazie ad una combinazione di fattori: posizione geografica strategica, sistema politico stabile (come hanno dimostrato le ultime elezioni e la formazione dell’attuale esecutivo), apertura al commercio internazionale, buon sistema di infrastrutture (attualmente è in corso il cablaggio della fibra in tutta la Mid Valley tra Selangor e KL; Penang e Johor sono punti di riferimento per l’industria elettronica), eccellente qualità di vita, diffusione della lingua inglese, e incentivi fiscali. L’attuale governo ha adottato un approccio fortemente pro-business, con l’obiettivo di incoraggiare lo sviluppo dell’imprenditoria locale. Tra l’altro, con l’entrata in vigore dell’Act 2016 è possibile costituire società di proprietà interamente straniera (WFOE, Wholly Foreign-Owned Enterprise) senza la presenza di un Local Director. Un’iniziativa altrettanto importante è il lancio della Digital Free Trade Zone per favorire l’export digitale delle aziende locali ed estere. La Malesia non è solo business, ma anche fascino naturalistico e culturale. “Malaysia Truly Asia” è il motto che meglio cattura e definisce l’unicità di questo Paese, anche nella diversità dei suoi paesaggi, da Langkawi al Borneo con Sipadan; una vera blessing country.

Il governo malese ha adottato misure di supporto alle imprese per affrontare la crisi pandemica?

Sì, il Recovery Plan della Malesia ha approvato un pacchetto completo di misure per stimolare la crescita economica dopo la pandemia e politiche di investimento favorevoli alle imprese. Ha stabilito anche un accordo contro le doppie imposizioni con l’Italia, e include un programma di incentivi alle assunzioni – Penjaya Kerjaya – che mira a ridurre la disoccupazione con sussidi fino al 60% dei salari.

Di cosa si occupa l’azienda Verdevita?

Verdevita Sdn Bhd è parte integrante dell’ecosistema economico malese. Fornisce servizi di consulenza personalizzati (servizi commerciali, amministrativi e legali) per supportare le imprese italiane ed europee che vogliono avviare progetti vincenti in Malesia, Indonesia, Cina, Australia. Ci avvaliamo di professionisti locali, che fanno parte del nostro network, e ci occupiamo anche del reperimento di risorse finanziarie per la realizzazione dei progetti di export e internazionalizzazione dei nostri clienti. Creiamo un progetto specifico di inserimento nei mercati, un business plan condiviso con l’azienda cliente, nel rispetto delle leggi locali e delle direttive del governo e del mercato. Analizziamo le esigenze dell’azienda, valutando la soluzione di inserimento migliore: ricerca distributori, apertura di uffici di rappresentanza e/o filiali, monitoraggio dell’avanzamento dei progetti sia con i clienti che con gli attori locali. Lavoriamo anche per ridurre le conflittualità interne, le diffidenze, la mancanza di spirito di squadra; se manca questo diventa complicato portare le aziende dall’altra parte del mondo. 

Collaboriamo con importanti agenzie governative malesi: MIDA – Malaysian Investment Development Authority, in Malesia e in Italia tramite il Direttore di MIDA Milano Mr. Awangku Fiarulnazri, e MARii – Malaysia Automotive, Robotics and IoT Institute, in cui ricopro il ruolo di Technologies Advisor. Oltre l’headquarter a Kuala Lumpur, siamo presenti anche in Cina e Australia, con le sedi di Shanghai e Sidney.   

Quali sono le prospettive future dell’azienda?

Il futuro è all’insegna di un miglioramento continuo. Abbiamo iniziato una collaborazione con l’Università Ca’ Foscari di Venezia, attraverso una convenzione di tirocini da avviare in ASEAN, per dare il nostro contributo al rafforzamento delle competenze professionali dei giovani e formare futuri manager. Seguiremo un nuovo progetto nello Stato del Sarawak per l’integrazione delle telecomunicazioni e la connettività digitale. Stiamo costituendo l’associazione UNITI allo scopo di coinvolgere gli italiani che vivono in Asia e Oceania per promuovere cultura e bellezza del Made in Italy. Stiamo lavorando a progetti di fusioni e acquisizioni. Poiché il governo malese sta incentivando l’attrazione di aziende del settore automotive, stiamo progettando, con il MARii, la creazione di un Academy in collaborazione con la Motor Valley dell’Emilia-Romagna. È prossima l’apertura della sede di Jakarta. Infine, stiamo lavorando a un progetto del Ministero dei Trasporti malese per il miglioramento della sicurezza stradale e la riduzione degli incidenti attraverso strumenti telematici, col supporto di Viasat Group per introdurre la tecnologia italiana nel tessuto economico malese.

I settori migliori per investire in Malesia.

La tecnologia rappresenta il core business di Verdevita, ma altri settori vincenti sono Oil&Gas, petrolchimico, telecomunicazioni, digitale, sanitario, automobilistico, produzione metalmeccanica, settore manifatturiero. La Malesia anche per il reperimento di materie prime: olio di palma, petrolio e derivati, latex.

In conclusione, cosa consiglia alle aziende italiane interessate all’internazionalizzazione?

Le esportazioni influenzano le prestazioni delle aziende, che risultano più proattive e innovatrici, e aumentano anche le loro capacità imprenditoriali. Credo sia necessario comprendere e valorizzare gli impatti positivi dei progetti di export sulle capacità di innovazione e di crescita delle aziende e del personale, poiché queste sono lo stimolo per la diffusione di una cultura globale e di una sana competitività. Le aziende italiane hanno molto da dare. Bisogna abbandonare la diffidenza e aumentare la curiosità perché non ci sono solo ostacoli, ma anche opportunità.  Export e internazionalizzazione significano anche scambio di culture e crescita aziendale, non solo vendita all’estero. Questi progetti devono partire dai leader e dai driver aziendali, allora il coinvolgimento è sentito da tutti i componenti dell’azienda. Bisogna avere consapevolezza della propria realtà imprenditoriale e utilizzare anche i finanziamenti per l’internazionalizzazione, non porsi sempre in un atteggiamento di attesa. Nei prossimi anni, anche grazie ai fondi che arriveranno dall’Europa, sarà necessario formare le aziende all’export. Facciamo diventare le aziende italiane cittadine del mondo.

I diritti della comunità LGBT+ nei Paesi ASEAN

I diritti della comunità LGBT+ sono un argomento controverso nei Paesi del Sud-Est asiatico. Anche se in alcuni casi si sono fatti passi avanti, la stigmatizzazione sociale, l’omofobia e la transfobia rimangono frequenti.

L’ASEAN dagli anni ’90 sembra essersi sempre più interessata alla questione dei diritti umani. Questo è dimostrato anche dalla volontà dei suoi Stati membri di istituire nel 2009 la Commissione Intergovernativa per i Diritti Umani (AICHR). A questo si aggiunge anche la promulgazione da parte della Commissione, nel dicembre 2012, della Dichiarazione sui Diritti Umani dell’ASEAN (AHRD). Questa dichiarazione non è però vincolante per gli stati membri. Infatti, la Commissione Intergovernativa per i diritti Umani è un organo puramente consultivo, privo di ogni capacità di coercizione sugli Stati membri dell’Asean. In secondo luogo, in questa dichiarazione non vengono di fatto garantiti i diritti alla sessualità. Nella dichiarazione sui diritti umani dell’ASEAN, per esempio, non si fa alcuna menzione del termine SOGI (Sexual Orientation and Gender Identity). I rappresentanti di Malesia, Brunei e Singapore si sono opposti fermamente alla menzione di questo termine nell’AHRD andando a scontrarsi con i rappresentati di Indonesia, Filippine e Thailandia, che erano stati invece a favore dell’inclusione di questo termine nella stessa dichiarazione.

I diritti della comunità LGBT+ sono un argomento controverso nell’Associazione delle Nazioni del Sud-est asiatico; infatti, alcuni paesi dell’ASEAN non riconoscono ancora i diritti fondamentali della comunità LGBT+, mentre altri stanno facendo passi in avanti in questo campo. Per esempio, Singapore ha una comunità LGBT+ molto organizzata, ma ha ancora nel suo codice penale l’articolo 337 che condanna le pratiche omosessuali. Anche se negli ultimi anni questo articolo è stato applicato sempre meno frequentemente, la sua presenza nel codice viene usata come giustificazione per non dare protezione e per non estirpare i pregiudizi verso la comunità LGBT+. In una indagine statistica realizzata nel 2019 emerge che la maggioranza degli intervistati, per la precisione il 61.6%, crede che una relazione sessuale tra due adulti dello stesso sesso sia sempre sbagliata o inopportuna e solo il 5,6% ritiene che non ci sia nulla di male. Questo dato mostra che purtroppo un cambio di passo su questo tema non è vicino.

Al contrario, il 73% dei filippini, secondo un sondaggio, è convinto che l’omosessualità debba essere accettata dalla società. Secondo una ricerca del Pew Research Centre di Washington, le Filippine nel 2013 erano già nella top 10 dei Paesi più gay-friendly nel mondo; a conferma di ciò nel Paese si sono avute diverse “pride marches” e nelle università sono state costituite delle “gay societies”. Le Filippine però, come gli altri membri ASEAN, non hanno una legge nazionale contro la discriminazione della comunità LGBT+. Tuttavia, Filippine e Thailandia si sono unite nel 2011 nella dichiarazione congiunta che rinuncia agli atti di violenza e violenze contro i diritti umani basati sull’orientamento sessuale e sono gli unici due stati dell’ASEAN in cui, a livello locale, ci sono ordinanze contro le discriminazioni della comunità LGBT+. Nelle Filippine ci sono all’incirca 25 ordinanze locali che condannano atti di discriminazione contro questa comunità. In ogni caso, anche se queste ordinanze sono un grande passo in avanti, non hanno dei meccanismi di applicazione chiari e quindi rimangono comunque perlopiù simboliche.

Anche il Brunei criminalizza l’omosessualità, essendo diventato nel 2013 il primo Paese dell’area ad applicare la Sharia a livello nazionale. In questo stato gli uomini che praticano atti omosessuali possono rischiare fino alla pena di morte. Inoltre, secondo il codice penale ogni uomo che si veste e si atteggia come una donna e ogni donna che si veste e si atteggia da uomo può andare incontro ad una sanzione di 4,000 $ o ad un anno di reclusione. Anche in Malesia sono previste pene severe alle persone della comunità LGBT+. A gennaio dello scorso anno, i ministri del governo avevano proposto di aumentare le sanzioni penali contro le persone lesbiche, gay, bisessuali e transgender e inoltre, solo da giugno 2021, oltre 1.700 malesi, appartenenti alla comunità LGBT+, sono stati inviati in un campo di rieducazione. Severe punizioni sono anche previste in Aceh, regione autonoma dell’Indonesia. In questa regione, che ha il permesso di seguire le leggi della Sharia, solo nove mesi fa sono state fustigate pubblicamente alcune persone in quanto omosessuali. Nel resto dell’Indonesia invece non c’è alcuna legge che impedisca relazione omosessuali e inoltre alle persone transgender è permesso di cambiare il genere legalmente, ma solo dopo l’intervento di riassegnazione del sesso. In Myanmar le persone omosessuali e transgender non godono invece di alcun diritto e sono legalmente perseguitate tramite l’articolo 377 del codice penale. In Cambogia, Vietnam e Laos, l’omosessualità è legale, ma spesso non è prevista una legislazione chiara a favore dei diritti della comunità LGBT+. 

Sud-est asiatico: green economy per il rilancio

Lo sviluppo delle infrastrutture verdi può spingere la ripresa economica post-pandemia. Ma servono ingenti finanziamenti.

L’ASEAN ha bisogno di nuove infrastrutture verdi. Non solo per migliorare l’approccio ecologico della regione, ma anche per migliorare la connettività, ridurre la povertà e incrementare lo sviluppo. Sotto questo profilo, le infrastrutture sono la spina dorsale della crescita economica di ogni Paese, ma i costi ambientali non sono indifferenti. Per questo l’Asian Development Bank ha stimato che il Sud-Est asiatico avrà bisogno di almeno 210 miliardi di dollari all’anno, per il periodo 2016-2030, per sostenere le spese delle infrastrutture green.

Se in epoca pre-Covid-19 gli investimenti in quest’area erano molto al di sotto dei livelli necessari per avvicinarsi anche minimamente a un cambiamento ecologico-ambientale significativo, la pandemia mondiale ha determinato una contrazione economica nella regione del 4%, riducendo ancora di più gli investimenti infrastrutturali. Di contrasto, però, è diventato ancora più urgente per l’ASEAN impegnarsi in questa direzione, per costruire un’economia più resiliente nel medio e lungo termine.

L’Asian Development Bank si è proposta come piattaforma di dialogo tra i Paesi del Sud-Est asiatico per capire come mitigare gli effetti negativi della pandemia, bilanciando la crescita economica con la salvaguardia del capitale naturale. Come? Sfruttando al meglio i fondi governativi, incentivando i finanziamenti privati e proteggendo le risorse naturali. Per farlo, i governi nazionali possono affidarsi a diverse strategie: imporre un prezzo alle esternalità ambientali, sovvenzionare prodotti e servizi a basso impatto ambientale, finanziare l’innovazione tecnologica e incentivare comportamenti individuali virtuosi.

Ma tutto questo non basta. Per un’efficace ripresa verde, le azioni dei governi del blocco ASEAN devono veicolare un cambiamento strutturale delle politiche ecologiche ed energetiche, integrando sempre di più gli obiettivi green nelle politiche di governo. Nel rapporto redatto da Bain & Company, Microsoft e Temasek, “La Green Economy del Sud-Est Asiatico: opportunità sulla strada per lo zero netto”, si evidenzia che circa il 40% degli investimenti infrastrutturali in Asia dovrà provenire dal settore privato. È necessario, poi, proseguire con una serie di interventi mirati riguardanti l’agricoltura sostenibile, lo sviluppo urbano verde e i modelli di trasporto, la transizione all’energia pulita, l’economia circolare e la protezione degli oceani e della biodiversità marina. Infine, i governi dovranno affidarsi a fonti di finanziamento sostenibili, introducendo tasse verdi come la Carbon Tax e rimuovendo i sussidi ai combustibili fossili.

La volontà di una ripresa verde è visibile anche nelle strategie regionali. L’ASEAN Comprehensive Recovery Framework enfatizza la sostenibilità ambientale come una componente chiave del processo di ripresa economica post-pandemia della regione.

Non sarà un cambiamento immediato né tantomeno facile, anche perché richiederà lo stanziamento di cifre imponenti. Si stima, però, che in questo modo si potranno creare oltre 30 milioni di nuovi posti di lavoro, stimolando un circolo virtuoso che nel lungo periodo potrebbe portare frutti positivi.

Food e city diplomacy tra Italia e ASEAN

Prosegue la collaborazione tra Associazione Italia-ASEAN, Comune di Milano e Paesi ASEAN sul fronte della sostenibilità dei sistemi alimentari. Grazie alla sinergia con l’Ambasciata d’Italia in Thailandia, anche Bangkok ha aderito al Milan Urban Food Policy Pact

Editoriale a cura di Valerio Bordonaro, Direttore Associazione Italia-ASEAN

Il 19 ottobre si è aperto a Barcellona il settimo Global Forum del Milan Urban Food Policy Pact, un’iniziativa del Comune di Milano, nata come eredità dell’EXPO di Milano 2015. Fanno parte del network del MUFPP oltre 200 città da tutto il mondo e, per la prima volta, quest’anno prenderà parte anche una delle capitali dell’ASEAN, Bangkok. Dalla fine del 2019, l’Associazione Italia-ASEAN, condividendo l’importanza di lavorare al livello globale per la sostenibilità dei sistemi alimentari attraverso la City Diplomacy, ha avviato una collaborazione con il Comune di Milano per sensibilizzare i Paesi ASEAN nei confronti di questa sfida. 

Grazie ad un lavoro sinergico tra Comune, Associazione e Ambasciata d’Italia in Thailandia, si è arrivati quest’anno all’adesione al MUFPP da parte della municipalità di Bangkok, prima capitale di un paese ASEAN a entrare nel Patto. Il tema della sostenibilità dei sistemi alimentari urbani è considerato uno dei più importanti mezzi per la protezione dell’ambiente, come riconosciuto dal prestigioso premio internazionale Earthshot Prize assegnato a Milano per un progetto collaterale al MUFPP. Date le previsioni di crescita dell’area e le dimensioni di molte città del Sud-Est asiatico, l’Associazione continuerà a fare Sistema con Milano e il MAECI affinché nuove città dell’ASEAN sposino il patto e la sua filosofia.