Asean

Lo sviluppo delle monete digitali in ASEAN

Dall’e-riel cambogiano alle ultime dichiarazioni del MUI indonesiano: i Paesi del Sud-Est si interrogano su come regolamentare il mercato delle criptovalute e pensano a monete digitali ufficiali.

Articolo a cura di Fabrizia Candido

Si chiama ‘Cryptocurrency and Regulation of Official Digital Currency Bill’ il progetto di legge a cui l’India il 23 novembre ha annunciato di star lavorando. L’obiettivo sembrerebbe essere quello di vietare le  criptovalute private (sebbene si faccia riferimento ad alcune, vaghe, eccezioni) e, allo stesso tempo, aprire la strada a una valuta digitale ufficiale emessa dalla Reserve Bank of India. Non è una notizia del tutto inaspettata, se si considera che nel corso del 2021 il governo indiano aveva persino preso in considerazione la possibilità di criminalizzare il possesso, l’emissione, l’estrazione, il commercio e il trasferimento di asset in criptovalute. Il timore, come espresso dal Premier Narendra Modi qualche settimana fa, è che le criptovalute possano “finire nelle mani sbagliate, rovinando la gioventù”. Ma l’India non è l’unico Paese asiatico in cui le criptovalute, private e/o di Stato, sono oggetto di discussione.

A interrogarsi su come regolamentare il mercato, per definizione deregolamentato e intrinsecamente volatile, delle criptovalute e a immaginare una valuta digitale ufficiale ci sono anche alcuni dei Paesi ASEAN. 

In Indonesia, la banca centrale del paese dal 1 gennaio 2018 vieta l’uso di criptovalute, incluso il Bitcoin, come mezzo di pagamento: la rupiah è l’unica valuta legale nel Paese. Tuttavia, è permesso il trading di criptovalute come opzione d’investimento insieme ai commodity futures, ovvero contratti futuri in cui ci si obbliga a scambiare una prefissata quantità di merce a una data prefissata, e a un determinato prezzo fissato alla data della contrattazione. Lo scorso 11 novembre, però, il Consiglio Religioso Nazionale Indonesiano Ulema (MUI) ha dichiarato il trading di criptovalute haram e non conforme alla Sharia, ad eccezione di quei casi in cui esso comporta “chiari benefici”. Sebbene la decisione del MUI non significhi che tutto il trading di criptovalute verrà interrotto in Indonesia, ci si aspetta che il decreto dissuaderà parte dei musulmani dall’investire in criptovalute. Secondo il ministero del commercio indonesiano, alla fine del 2020 il numero di trader aveva raggiunto i 6.5 milioni. 

Meno rigida è la Malesia, che tramite uno statement sul sito web della Bank Negara dal 2014 avverte i propri cittadini che il Bitcoin non è riconosciuto come valuta legale nel Paese, che la banca centrale non ne regola le operazioni e che pertanto si raccomanda prudenza nell’utilizzo di questa criptovaluta. Nel luglio 2021, tuttavia, la nota piattaforma di scambio di criptovalute Binance è stata bannata dal Paese.

A non optare per il ban, ma per una rigida e selettiva regolamentazione che gli permetta al contempo di essere ancora un hub attivo, c’è infine Singapore. Circa 170 aziende hanno richiesto una licenza dalla Monetary Authority of Singapore (MAS), portando il numero totale di aziende che cercano di operare ai sensi del suo Payment Services Act a circa 400, dopo l’entrata in vigore della legge nel gennaio 2020. Da allora, solo tre società di criptovalute hanno ricevuto le tanto ambite licenze. “Non abbiamo bisogno che 160 di loro aprano un business qui. La metà di loro può farlo, ma con standard molto elevati, che penso sia un risultato migliore” aveva commentato in un’intervista a Bloomberg Ravi Menon, Direttore del Monetary Authority of Singapore

A guardare invece ad una valuta digitale di Stato sono Cambogia e Laos. La Cambogia, nello specifico, ha intrapreso un ambizioso progetto per far crescere la sua Central Bank Digital Currency (CBDC). Bakong, questo il nome scelto per la valuta digitale cambogiana, grazie ad un massivo progetto pilota oggi conta già 5.9 milioni di utenti. Secondo quanto riportato dal Nikkei Asia, durante la prima metà del 2021, gli utenti Bakong hanno effettuato circa 1.4 milioni di transazioni per un valore di 500 milioni di dollari. Il progetto è stato presentato per la prima volta dalla Banca nazionale della Cambogia (NBC) nell’ottobre dello scorso anno, basato sulla tecnologia blockchain sviluppata congiuntamente dalla società fintech giapponese Soramitsu. Obiettivo principale l’esplorazione dei pagamenti digitali, l’incoraggiamento all’uso della valuta locale e la riduzione della dipendenza dal dollaro, e l’inclusione finanziaria dei cittadini rimasti fuori dal sistema bancario tradizionale.

Lo scorso ottobre la fintech giapponese Soramitsu è stata ingaggiata anche dalla Banca centrale della Repubblica Democratica Popolare del Laos, per esplorare l’emissione di una CBDC laotiana. Una versione digitale del kip supporterebbe le autorità nel raccoglimento dei dati necessari a misurare il polso dell’economia, come la quantità di denaro in circolazione. Ma non solo: l’iniziativa segna un tentativo da parte del Laos di estendere la portata della sua valuta mentre lo e-yuan digitale si profila come una presenza potenzialmente invasiva nella nazione del sud-est asiatico per cui la Cina è il secondo partner economico.  

Anche il Vietnam ha deciso di esplorare la creazione di una propria valuta digitale, con la Decisione 942 del Primo Ministro che si allinea con la strategia per digitalizzare il governo entro il 2030. La policy invita la State Bank of Vietnam a ricercare, “sviluppare e sperimentare l’uso della valuta digitale basata sulla tecnologia blockchain.” In Vietnam, l’utilizzo di criptovalute per effettuare acquisti è illegale, ma queste vengono ancora acquistate attivamente come strumenti di investimento: il Paese è tra i primi tre a livello globale per percentuale di persone che affermano di detenere una qualche forma di criptovaluta, secondo un sondaggio di Statista.

Mobilità green, l’ASEAN punta sulle auto elettriche

L’ASEAN punta sulla produzione di veicoli elettrici per conciliare impegni di sostenibilità e crescita delle sue economie emergenti.

Sulla scia della conferenza sul clima di Glasgow 2021 (COP26), i Paesi del Sud-Est asiatico si sono impegnati ad accelerare la diffusione di veicoli elettrici per limitare le emissioni e rientrare negli standard stabiliti dall’accordo di Parigi. Secondo una ricerca di Our World in Data, i trasporti su strada sono responsabili del 15% circa delle emissioni totali di anidride carbonica, e la domanda di automobili è in aumento in tutto il mondo, in accordo con lo sviluppo delle economie emergenti e con l’incremento demografico. Per queste ragioni, molti decisori politici nell’area ASEAN hanno scommesso sulle nuove tecnologie per conciliare crescita economica e imperativi di sostenibilità. Il presidente della COP26, Alok Sharma, ha dichiarato che è necessario accelerare ulteriormente l’adozione di veicoli elettrici (EV) se si vuole fare la differenza per il pianeta: le stime che li vedono rappresentare circa la metà delle vendite di nuove auto entro il 2040, per quanto già ottimistiche, non sono più sufficienti.

In ASEAN la Thailandia e l’Indonesia guidano la svolta per la mobilità green, mentre le Filippine e la Malesia sono i Paesi più in ritardo. Anche il Vietnam, un’economia in rapida evoluzione nel panorama dei mercati emergenti asiatici, ha progetti nazionali molto ambiziosi in proposito. Ma gli approcci degli Stati Membri dell’ASEAN sono ancora frammentari, secondo gli esperti. Ad esempio, il Socio-Cultural Community Blueprint 2025 sulla cooperazione regionale non menziona la necessità di ricorrere alle nuove tecnologie dei trasporti nella sua agenda per il rafforzamento dell’Associazione come attore regionale e globale. In un’intervista rilasciata a Nikkei Asia, Vivek Vaidya, partner associato alla società di consulenza Frost & Sullivan, ha dichiarato che “ogni paese ha il proprio approccio, ogni paese ha le proprie considerazioni e quindi ha le proprie strategie”. Non ci sarebbe dunque una risposta univoca e coerente per la promozione degli EV nel blocco delle 10 nazioni del Sud-Est asiatico. 

La Thailandia è stata definita per anni la “Detroit dell’Asia”, per via del suo primato indiscusso nelle catene globali del valore che riguardano l’industria automobilistica. A questo proposito la strategia nazionale “Thailand 4.0” è il vettore della svolta elettrica intrapresa dal Paese, che cerca di mantenere i suoi vantaggi competitivi allineandosi con le istanze ambientaliste e con gli accordi internazionali. L’obiettivo finale per Bangkok è quello di permettere esclusivamente la vendita di veicoli elettrici dal 2035. Il piano prevede incentivi fiscali per attirare investimenti esteri di supporto alla sua crescita economica. Come suggerisce Pietro Borsano del Torino World Affairs Institute, si tratta di una strategia comprensiva volta ad “aumentare la competitività del sistema Thailandia”. La logica del governo thailandese ruota intorno al ruolo delle esportazioni come motore di crescita, per questo, secondo gli esperti, è ben accetto “qualsiasi tipo di investimento nella produzione che aumenterà le esportazioni”. Questo lascia spazio alla competizione tra i principali investitori internazionali del settore dell’automotive del Sud-Est asiatico, tra cui Giappone, Cina, Corea. 

Ma il ricorso alle nuove tecnologie ha aperto la strada ad un altro attore chiave nella global value chain delle automobili: l’Indonesia. Già in lizza per superare il primato di Bangkok grazie a una crescita del settore che si concentra più sulla domanda interna che sul commercio internazionale, Giacarta nasconde un asso nella manica che potrebbe segnare definitivamente il destino della sua rivale. Possiede, infatti, uno dei più grandi depositi di nichel grezzo del mondo. Si tratta di uno dei materiali fondamentali per la creazione delle batterie a ioni di litio, che alimentano le auto elettriche. Il governo thailandese ne ha recentemente vietato l’esportazione per spingere le aziende straniere a investire nella realizzazione in loco di prodotti finiti, e sta pensando di dare vita a un’industria di batterie a litio propria attraverso la Indonesia Battery Holding. 

Anche se i decisori politici manifestano spesso grande entusiasmo per questa nuova rivoluzione elettrica, alcuni attivisti ritengono che non sia la soluzione su cui puntare. Nonostante l’impiego di veicoli elettrici possa abbattere drasticamente le emissioni di CO2 attribuite ai trasporti su strada, ci sono una serie di altri fattori da considerare: le circostanze di estrazione del litio sono spesso controverse, la libertà di fare scelte sostenibili richiede un’autonomia economica che condanna le persone marginalizzate e, per estensione, i Paesi più poveri alla sistematica esclusione dal sogno della mobilità elettrica, e infine serve la volontà politica di coordinare gli sforzi rispondere alle istanze sindacali di quei settori che verrebbero sostituiti dall’elettrificazione del trasporto su strada. 

Quest’anno si è tenuta la prima conferenza su energia e ambiente promossa dall’ASEAN Center for Energy. In questa occasione è intervenuto l’esperto Muhammad Rizki Kresnawan, sintetizzando i temi principali della svolta elettrica nel Sud-Est asiatico. Innanzitutto, l’ingente fabbisogno di capitale per la creazione di infrastrutture potrebbe esporre ulteriormente le economie regionali alla dipendenza da investimenti esteri. Inoltre, i combustibili fossili dominano la produzione regionale di elettricità, e questo potrebbe comportare il ricorso a carburante importato che rischia di compromettere la sicurezza energetica dell’area. Anche se è opinione diffusa che le nuove tecnologie possano accelerare la transizione verso un’economia più verde, le sfide politiche, sociali e ambientali che si intersecano potrebbero rendere la diffusione di veicoli elettrici meno lineare di quanto le economie ASEAN avrebbero sperato.

Diaspore asiatiche: storie di luoghi e generazioni in Europa

Le diaspore asiatiche in Europa sono un fenomeno riconducibile ai fatti del Novecento, dal colonialismo alla Guerra Fredda passando per la Prima Guerra d’Indocina e la Guerra del Vietnam. Comunità asiatiche si sono stanziate nei confini cittadini e nei dintorni di Londra, Milano, Berlino e Parigi e continuano a crescere

Londra ospita la più grande diaspora del Sud-Est asiatico nel continente europeo. Sulle sponde del Tamigi è dove è più concentrata l’emigrazione filippina, circa 200.000 persone inizialmente fuggite dalla dittatura di Ferdinand Marcos Sr. negli anni Settanta e Ottanta e poi arrivate nel Regno Unito per motivi economici e di studio. Presenti anche circa 50.000 thailandesi e 50.000 vietnamiti, questi ultimi soprattutto in qualità di richiedenti asilo in seguito alla caduta di Saigon nel 1975.

La seconda comunità filippina in Europa si è stanziata a Milano e rappresenta anche la maggiore comunità dell’Asia sudorientale in Italia. La comunità ha vissuto una crescita straordinaria: dai 16 filippini giunti nel capoluogo lombardo nel 1970 si è passati ai quasi 50.000 di oggi. Un fattore rilevante che ha spinto molti di loro a scegliere l’Italia è quello religioso. L’affiliazione alla Chiesa Cattolica Romana è vitale per la loro vita comunitaria in quanto ponte di collegamento tra i due Paesi ed elemento di coesione tra le prime generazioni e le successive. All’ombra della Madonnina, oltre 200 associazioni filippine collaborano con il Comune e le nuove generazioni stanno dando vita a un solido tessuto imprenditoriale nella ristorazione tradizionale e nelle agenzie viaggio.

Dai tempi della Germania divisa, Berlino ospita la principale migrazione dal Sud-Est asiatico del Paese. Il principale gruppo etnico sono gli Hoa, sino-vietnamiti, concentrati a Little Hanoi nel quartiere di Lichtenberg, a Berlino Est. Il cuore della comunità è il Dong Xuan Center dove si trova la maggior parte delle attività imprenditoriali e dove si festeggiano le ricorrenze vietnamite. Esistono comunità vietnamite anche a Berlino Ovest che, a differenza della maggior parte dei connazionali che vivevano nell’Est, sono stati naturalizzati al momento della riunificazione nazionale. Questo ha fatto sì che oltre ai 20.000 vietnamiti legalmente nel Paese, altri 23.000 continuino a rimanere in Germania illegalmente.

La comunità vietnamita ha raggiunto anche la Repubblica Ceca, stabilendosi nella città di Praga a partire dall’ingresso del Paese all’interno del Patto di Varsavia del 1955. Little Hanoi si trova nel quartiere Sapa della capitale ceca, contando in tutto il Paese tra i 60-80.000 vietnamiti, crescendo molto rapidamente e rappresentando la terza etnia straniera nella Repubblica. All’infuori di Praga, la cittadina con la più alta concentrazione di vietnamiti è Cheb, vicino al confine con la Germania.

Nei Paesi Bassi, la migrazione asiatica proviene principalmente dall’arcipelago indonesiano, contando circa 352.000 persone arrivate per via dei legami coloniali e in seguito alla fuga dal Paese a causa della guerra d’indipendenza indonesiana protrattasi dal 1945 al 1949 conclusasi con la vittoria delle forze di Sukarno, primo presidente della Repubblica Indonesiana. Ad oggi la terza generazione conta circa 800.000 persone e sono concentrate nelle principali città del Paese.

La storia più peculiare, fatta di interculturalità e multietnica, viene dalla Francia. Conosciuta nel Paese come “la città del dragone addormentato”, Lognes è un villaggio della Seine-et-Marne a 20 chilometri a Est di Parigi con la più alta concentrazione asiatica dopo il XIII Arrondissement della capitale. L’epiteto non è stato scelto casualmente: in francese Lognes ha una pronuncia molto simile a “lóng” (龙), per l’appunto drago in cinese e in vietnamita. Qui la migrazione dal Sud-Est asiatico risale addirittura alla proclamazione della Repubblica Popolare Cinese del 1° ottobre 1949. Mentre Mao Zedong teneva il suo storico discorso dal Zhongnanhai di Pechino, in massa fuggirono dal sud della Cina nell’Indocina francese per poi raggiungere l’Europa dopo la Prima Guerra d’Indocina. In quanto le prime generazioni hanno vissuto nella Cina di Chiang Kai-Shek o sono figli di cinesi emigrati in Indocina prima della vittoria comunista del ’49, i legami con associazioni taiwanesi sono molto strette. Infatti, la vita comunitaria ruota attorno alla pagoda costruita dall’associazione taiwanese Fo Guang Shan, “la montagna della luce di Buddha”. Il villaggio vive da decenni un’esplosione demografica: da circa 250 abitanti nell’immediato secondo dopoguerra a oltre 15.000 attuali, al 70% di origine asiatica. La crescita è dovuta ai grandi finanziamenti del governo francese per facilitare l’acquisto di proprietà in loco, alla costruzione dell’Autostrada dell’Est A4, la cosiddetta Francilienne, e il collegamento ferroviario RER con Parigi e il resto della diaspora asiatica che vive nella capitale.

Ogni diaspora vive i suoi problemi d’identità. Le prime generazioni vivono la lontananza e il distacco dal Paese d’origine e da un passato da cui spesso sono fuggiti. Le generazioni successive vivono il dubbio esistenziale che li conduce a domandarsi se siano asiatici o europei. Non è raro che la gioventù asiatica europea scelga di recarsi nei Paesi dei propri genitori in viaggi di riscoperta: vedere i luoghi in cui i genitori sono cresciuti, incontrare i familiari mai conosciuti, vivere l’esperienza di quel posto cui, in fondo, ci si sente di appartenere. La gioventù asiatica europea ricuce così quei legami d’affetto che sembravano spezzati, il passato che sembrava non appartenergli ma che, in fondo, è sempre stato parte di loro.

High Level Meeting: i semi di un futuro condiviso

Si è svolto con successo il “vertice” tra top manager pubblici e privati dei Paesi ASEAN, Italia ed Emirati Arabi Uniti presso il Padiglione Italia di Expo Dubai 2020

Giovedì 9 dicembre si è svolto l’High Level Meeting, “A Partnership for Success in Asia, The Gulf and Europe”, organizzato dal Commissariato dell’Italia a Expo 2020 Dubai in collaborazione con l’Associazione Italia-ASEAN e la Camera di Commercio di Dubai.

Il “vertice” è stato aperto dall’intervento di Romano Prodi, Presidente dell’Associazione Italia-ASEAN ed ex Presidente della Commissione Europea, e da Lim Jock Hoi, Segretario Generale ASEAN e ha avuto l’obiettivo di definire modelli innovativi per il rilancio dell’economia dopo l’emergenza sanitaria attraverso collaborazioni multilaterali tra Paesi che svolgono un ruolo strategico nell’area del Mondo – dal Mediterraneo all’Asia passando per il Golfo – dove si avranno nei prossimi anni i tassi di maggiore crescita economica, tecnologica e finanziaria, ma anche le maggiori problematiche relative ai cambiamenti climatici, alla transizione energetica  e alla sostenibilità sociale. “L’Italia vuole approfondire la collaborazione già forte con l’ASEAN”, ha dichiarato Prodi. “Dopo la pandemia la sostenibilità non è più solo retorica ma è diventato un obiettivo strategico”, ha detto il Presidente dell’Associazione Italia-ASEAN: “Con la sostenibilità ambientale siamo chiamati a preservare anche la sostenibilità sociale. La pandemia non sarà la fine della globalizzazione, ma una sua profonda correzione. E dobbiamo farci trovare pronti”.

Lim Jock Hoi ha evidenziato la forza del legame tra Italia e ASEAN citando in particolare il settore dell’economia circolare, e ha sottolineato la traiettoria di sviluppo della regione, che deve però “trovare un modo più sostenibile di produzione e consumo” basato su uno sviluppo “più sicuro e più verde”. Sono poi intervenuti anche Jamal Saif Al Jarwan, Segretario Generale dello UAE International Investors Council, e Amedeo Scarpa, Direttore dell’Ufficio ICE di Dubai. L’evento si è poi sviluppato con tre gruppi di lavoro paralleli dedicati a: tecnologie e finanze per la sostenibilità, energie rinnovabili e agricoltura sostenibile.

Al termine hanno tracciato un bilancio i due Vicepresidenti dell’Associazione Italia-ASEAN. “Si è trattato di un meeting molto produttivo durante il quale sono stati stabiliti rapporti bilaterali e trilaterali. Con questo evento abbiamo aperto nuovi collegamenti utili a sviluppare follow up”, ha spiegato l’Ambasciatore Michelangelo Pipan. “La partecipazione è stata fantastica”, ha detto invece Romeo Orlandi. “Tutti concordano che bisogna andare verso le rinnovabili, ma come farlo? Abbiamo cercato di dare qualche risposta su eolico, solare e altri tipi di energia. Le conclusioni sono promettenti e tutte le parti coinvolte resteranno in contatto dopo questo evento”. Il Presidente Prodi ha tirato le somme: “Competenza, cultura e cuore. Siamo all’inizio di un processo di fertilizzazione per sviluppare le idee e le proposte che sono state messe sul tavolo durante questo incontro”.

La transizione verde sarà più forte dell’inflazione

Nel lungo termine la domanda di fonti rinnovabili non diminuirà a causa dei costi di produzione

I costi della produzione di energia rinnovabile sono in considerevole aumento. L’inflazione associata alla transizione verso un’economia verde – meglio nota come “greenflation” – è un argomento di discussione controverso, in quanto potrebbe avere un impatto significativo sui bilanci di governi e imprese. Negli ultimi mesi, infatti, l’incremento della domanda di energia pulita ha alimentato il boom delle richieste di materie prime che hanno subito un’impennata dei costi dal momento che l’utilizzo dei tradizionali metodi di estrazione è stato ora limitato: i prezzi dei metalli, come stagno, alluminio, rame, nichel e cobalto, tutti essenziali per le tecnologie di transizione energetica, sono aumentati tra il 20% e il 91% quest’anno. Un trend che potrebbe scoraggiare l’impiego di energia pulita.

Tuttavia, per quanto la transizione ecologica sia sempre più costosa, almeno nel breve periodo, non bisogna temere per la sostenibilità economica del settore. Lo ha dichiarato il Reuters Global Markets Forum. Quando infatti pannelli solari o altri componenti necessari della filiera dell’energia rinnovabile vengono prodotti in serie, si riducono i costi di produzione, generando quelle che vengono chiamate “economie di scala”, facilitando l’abbattimento dei costi legati alla tassazione, alla manodopera e alla pubblicità, permettendo al settore di crescere ancora di più. “I costi complessivi per l’industria green tenderanno al ribasso”, ha affermato Harry Boyd Carpenter, l’amministratore delegato per l’economia verde e l’azione per il clima della Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo.

Le previsioni sono dunque positive: l’Allied Market Research si aspetta che il mercato globale delle energie rinnovabili, oggi valutato oltre 1,2 trilioni di dollari USA, nel 2030 raddoppierà, raggiungendo quasi i 2 trilioni di dollari. Gauri Singh, vicedirettore generale dell’Agenzia internazionale per le energie rinnovabili, ha affermato che, nonostante l’inflazione e le interruzioni della catena di approvvigionamento, la diminuzione dei costi di finanziamento ha contribuito alla generazione record di 260 gigawatt di energia provenienti da fonti rinnovabili lo scorso anno. “Il mercato delle energie rinnovabili si sta ammorbidendo – ha dichiarato Singh – Da ora in poi non sarà più tanto facile guadagnare da quei prodotti che vengono considerati dannosi per l’ambiente”.

Ora puoi partecipare anche online all’ASEAN-UAE-ITALY High Level Meeting

L’High Level Meeting “A Partnership for Success in Asia, The Gulf and Europe” si avvicina. Temporalmente ma anche fisicamente. Top manager pubblici e privati dei Paesi ASEAN, Italia ed Emirati Arabi Uniti saranno riuniti per la prima volta il 9 dicembre a Dubai per esplorare obiettivi e modalità concrete di collaborazioni bi e trilaterali nel campo dello sviluppo sostenibile attraverso l’uso di risorse tecnologiche e finanziarie innovative.

Ma, visti gli ultimi sviluppi sanitari legati alla pandemia di Covid-19, è stato deciso che sarà permessa la partecipazione anche da remoto. A tutti sarà dunque consentito seguire l’evento, a prescindere dal luogo in cui si trovano.

Il “vertice”, organizzato dal Commissariato dell’Italia a Expo 2020 Dubai in collaborazione con l’Associazione Italia-ASEAN e la Camera di Commercio di Dubai, sarà aperto dagli interventi di Romano Prodi, Presidente dell’Associazione Italia-ASEAN ed ex Presidente della Commissione Europea, Lim Jock Hoi, Segretario Generale dell’ASEAN, e di un esponente del governo degli Emirati Arabi Uniti.

L’High Level Meeting, “A Partnership for Success in Asia, The Gulf and Europe”, avrà l’obiettivo di definire modelli innovativi per il rilancio dell’economia dopo l’emergenza sanitaria attraverso collaborazioni multilaterali tra Paesi che svolgono un ruolo strategico nell’area del Mondo – dal Mediterraneo all’Asia passando per il Golfo – dove si avranno nei prossimi anni i tassi di maggiore crescita economica, tecnologica e finanziaria, ma anche le maggiori problematiche relative ai cambiamenti climatici, alla transizione energetica e alla sostenibilità sociale.

Con l’intento di aprire la strada per nuove partnership bilaterali e trilaterali tra operatori pubblici e privati dell’area, l’evento si focalizzerà sui seguenti temi: tecnologie e finanza per la sostenibilità; energie rinnovabili; agricoltura sostenibile. Gli argomenti saranno affrontati in tre separati Gruppi di Lavoro, guidati dai Vicepresidenti dell’Associazione Italia-ASEAN, l’Ambasciatore Michelangelo Pipan e Prof. Romeo Orlandi, e dal Vicecommissario per l’Expo di Dubai Marcello Fondi. I moderatori saranno affiancati da esponenti delle autorevoli istituzioni specializzate che hanno fornito la documentazione di base: ERIA (Economic Research Institute for ASEAN and East Asia), Irena (Agenzia internazionale per le energie rinnovabili), Confagricoltura con un membro del board.

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Netflix, Facebook e Google sotto la pressione dei governi del Sud-Est

La rimozione su richiesta di Manila di due puntate della serie australiana Pine Gap dal catalogo di Netflix Philippines è solo la punta dell’iceberg delle recenti pressioni governative sulle piattaforme digitali occidentali in Asia.

Il 1° novembre il governo filippino ha richiesto e ottenuto la rimozione dal catalogo di Netflix Philippines degli episodi due e tre della serie australiana “Pine Gap”. L’irritazione di Manila è scaturita dall’apparizione di una cartina geografica del Mar Cinese Meridionale rappresentante la cosiddetta “linea dei nove tratti”, tipica delle carte geografiche cinesi di quelle acque ricche di risorse contese tra Cina, Filippine, Brunei, Malesia, Indonesia, Taiwan e Vietnam. L’autorità filippina per la classificazione dei film ha definito gli episodi eliminati come “inadatti alla messa in onda” e il Dipartimento degli Affari Esteri filippino sostiene che l’apparizione di tale mappa va contrastata poiché tesa alla legittimazione della “linea dei nove tratti” col rischio di “corrompere la conoscenza e la memoria dei giovani filippini circa i veri territori del Paese”. La rimozione dei due episodi incriminati è stata pressoché istantanea, avvenendo la stessa serata. La celerità con cui Netflix ha adempiuto alla richiesta del governo filippino non è stata però la stessa nel fornire spiegazioni a Reuters, rispondendo solo a notte inoltrata. La decisione di cancellazione è stata resa pubblica solo il 1° novembre per motivi attualmente sconosciuti.

Non è la prima volta che i servizi di streaming hanno problemi con le autorità circa le rappresentazioni cinematografiche che toccano temi sensibili nella regione. Il Vietnam è l’esempio di come la pressione dei governi locali possa divenire vera e propria coercizione. Se Pine Gap si è vista eliminare due episodi nelle Filippine, in Vietnam la serie è stata interamente cancellata dal catalogo per lo stesso motivo. Similmente, nel 2019 Hanoi aveva ritirato dalle sale il film della Dreamworks “Abominable” oltre alla rom-com cinese “Put Your Head on My Shoulder” e il dramma politico americano “Madam Secretary” dai servizi on demand per evitare di “ferire i sentimenti dell’intero popolo vietnamita”.

Netflix è solo uno degli attori in questa relazione tra governi e piattaforme. Nell’Asia-Pacifico si trova il 40% degli utenti dei social di Meta, ex Facebook, che ha quindi grandi interessi nell’area. Solo il Vietnam conta 100 milioni di utenti e un mercato dal valore di un miliardo di dollari. I filippini sono i più attivi sulle piattaforme Meta, passando in media oltre quattro ore al giorno online secondo eMarketer, mentre gli indonesiani usano WhatsApp come principale mezzo di comunicazione e informazione. Dato il grande impatto di Meta sulle popolazioni della regione, i governi locali pongono particolare attenzione a quanto avviene sulle sue piattaforme, in particolare dal 2017.

Facebook collabora con il Ministero dell’Informazione e Comunicazione (MoIC), la Banca di Stato del Vietnam, il Dipartimento Generale della Tassazione e il Ministero della Pubblica Sicurezza per identificare e perseguire i reati politici sui social media. Sotto minaccia di oscuramento e con l’obbligo di mantenere sede legale, server e dati locali in Vietnam, Facebook avrebbe preso parte alle attività di censura del governo di Hanoi: secondo Transparency Report, dal 2019 la repressione del dissenso nel Paese è aumentata del 983%, anno in cui Facebook ha buttato giù 200 siti antigovernativi. Dai Facebook Papers, documenti trapelati quest’anno insieme a un’inchiesta del Washington Post sulla società californiana, emerge che a inizio 2021 Mark Zuckerberg avrebbe dato il placet alla censura di molti dissidenti vietnamiti sulla piattaforma in concomitanza con il tredicesimo Congresso del Partito comunista vietnamita, fondamentale per la selezione della leadership dei cinque anni successivi. YouTube di Google non è escluso da queste dinamiche. Nel 2019 è stato costretto a rimuovere contenuto critico verso il governo di Hanoi cancellando oltre 7000 video e 19 canali. Dal Play Store sono stati eliminati 58 giochi vietnamiti, come anche da Apple.

Facebook di Meta ha un certo peso anche nelle Filippine. Dal 2017, partecipa col governo di Rodrigo Duterte allo sviluppo delle infrastrutture internet veloci nel Paese. Il bilanciamento di Facebook nei rapporti col governo è difficile: Duterte non ha accolto bene la chiusura nel 2020 di vari account collegati alla polizia e all’esercito filippino a causa del loro ruolo nella guerra alla droga avviata dal Presidente. Duterte ha minacciato il social dicendo che per i filippini ci sarebbe stata una vita dopo Facebook e che i delegati del social avrebbero dovuto dare spiegazioni dell’accaduto.

In Indonesia, il governo sfrutta la Legge sull’Informazione Elettronica e le Transazioni (ITE) per contrastare i dissidenti. Invocata circa duecento volte dal 2019, secondo Amnesty International questo eccessivo ricorrervi viola la libertà d’espressione. A completare questa legge, entrerà in vigore da dicembre 2021 il Regolamento Ministeriale 5 che permetterà di tassare le piattaforme straniere e coinvolgerle nel processo legislativo, pena l’oscuramento per evitare che venga diffuso materiale “proibito, illecito o che disturbi l’ordine pubblico”. Per questo motivo Facebook collabora con il Ministero della Comunicazione e della Tecnologia dell’Informazione (Kominfo).

Sotto la superficie del mare digitale, la libertà di espressione si congela sempre di più, ingrandendo così l’iceberg della repressione.

Chipped away. Cosa ci insegna la carenza globale dei semiconduttori?

La supply chain dei semiconduttori è in crisi dal 2020 e la scarsità durerà ancora. Basta poco per bloccare i flussi commerciali globali. I governi di tutto il mondo intendono investire nel settore per rafforzare la propria autonomia tecnologica, ASEAN e UE potrebbero giocare un ruolo importante.

Il 2021 sembra un annus horribilis per il commercio globale, ancora più del 2020. Molti settori dell’economia hanno beneficiato del “rimbalzo” post-crisi e sembrano tornati ai livelli precedenti alla pandemia. Altri invece sono ancora in difficoltà, con effetti tangibili per i consumatori. L’energia, le materie prime, le automobili, i prodotti IT. Tutto è più difficile da reperire e quindi più caro. Di particolare rilevanza è la carenza di chip, componenti essenziali ormai per tantissimi oggetti di uso quotidiano. La crisi globale della supply chain dei semiconduttori è un caso di studio eccellente per comprendere la natura e le fragilità dell’economia globalizzata. E tocca da vicino i Paesi ASEAN: un paio di loro – Singapore e Malesia – sono tra i principali produttori globali e buona parte dei chip, anche quando proviene da altre parti dell’Asia, passa per le acque del Sud-Est asiatico. 

La global value chain dei semiconduttori presenta delle caratteristiche molto particolari. Tutte le economie del mondo hanno bisogno di questi prodotti, eppure la loro fabbricazione è concentrata in pochissimi Paesi tra di loro interdipendenti, dato che ogni fase della filiera produttiva si svolge in uno Stato diverso. Le aziende di ciascun Paese si sono specializzate in una specifica fase della produzione o in un certo tipo di chip, creando a volte dei veri e propri monopoli regionali. Ad esempio, il 92% dei semiconduttori di dimensioni inferiori ai 10 nanometri viene prodotto a Taiwan. Una sola azienda UE, la ASML, è l’unica produttrice mondiale di scanner EUV, un’attrezzatura essenziale per produrre poi i chip sotto i 7 nanometri a Taiwan. Questa fitta rete di scambi ha spinto i governi a ridurre notevolmente i dazi e infatti i semiconduttori sono tra i prodotti meno tassati del sistema commerciale globale

I chip devono necessariamente circolare e hanno bisogno di un mercato globale liberalizzato e interconnesso. I grandi eventi capaci di rallentare i flussi commerciali, come la crisi Covid, producono in questo settore un susseguirsi di “colli di bottiglia” e infine la scarsità globale senza precedenti a cui stiamo assistendo. Molte fabbriche di chip in Asia sono state costrette a chiudere o a ridurre la produzione a causa della pandemia. Anche il settore dei trasporti sta attraversando un momento di crisi e non riesce più a distribuire i semiconduttori prodotti in Asia nel resto del mondo. Aumentare la capacità produttiva in Asia potrebbe non bastare, se poi mancano i vettori. Anche la guerra commerciale tra USA e Cina condotta da Donald Trump fino allo scorso anno ha avuto un impatto: le restrizioni all’import di chip cinesi ha portato le aziende americane a rivolgersi alla Taiwan Semiconductor Manufacturing Co. (TSMC) e alla coreana Samsung, i cui livelli di produzione erano già al limite. La crisi Covid o le tensioni commerciali non sono però le sole cause scatenanti. La novità è che anche fatti di minore entità, a prima vista dotati di rilevanza solo locale, hanno effetti globali. 

“Se una farfalla sbatte le ali in Brasile, può provocare un tornado in Texas”. L’effetto farfalla teorizzato dal meteorologo statunitense Edward Lorenz si applica anche alla globalizzazione e al mercato dei semiconduttori. Una manovra mal riuscita di una sola nave – costruita in Giappone, operata da una società di Taiwan, registrata a Panama e la cui manutenzione è gestita una ditta tedesca: la ormai celebre Ever Given – ha bloccato il canale di Suez per giorni, fermando il 12% del commercio mondiale e quasi 10 miliardi di dollari in merci per ogni giorno di ostruzione. Poche settimane dopo l’incidente a Suez, un altro evento apparentemente locale, la siccità che ha colpito Taiwan, ha avuto un impatto negativo sul mercato globale dei semiconduttori – per giunta, attirando l’attenzione del pubblico su quanta acqua sia necessaria per la loro produzione. Poche settimane prima invece, un incendio in una singola fabbrica in Giappone aveva dato un ulteriore colpo alla capacità produttiva del settore, causando la costernazione dell’industria automobilistica mondiale, per la quale ormai i chip sono sempre più indispensabili. 

Quanto tempo sarà necessario per risolvere questa crisi, secondo i produttori di chip? Almeno un altro anno. Lisa Su, CEO di AMD, ritiene che nel 2022 assisteremo a un miglioramento della situazione, mentre Pat Gelsinger, a capo di Intel, è meno ottimista e prevede che la scarsità di semiconduttori durerà fino al 2023. Nel breve periodo, i prezzi dei semiconduttori rimarranno alle stelle, anche a causa dell’hoarding, l’accumulazione dei chip da parte delle aziende. Hoarding che sta assumendo dimensioni e forme inaspettate, causando anche la reazione dell’amministrazione Biden. Su EBay e le altre piattaforme online sono attivi freelance che puntano i singoli pezzi usati o smontati, li comprano all’asta e poi li rivendono alle aziende. Un sintomo delle difficoltà che le ditte stanno affrontando nell’approvvigionamento. È naturale allora chiedersi cosa stiano facendo le aziende e i governi per affrontare l’emergenza. La soluzione condivisa sembra consistere in massicci piani di investimenti per aumentare la produzione. I governi di Stati Uniti e Unione Europea vogliono però che i nuovi impianti siano aperti sul proprio territorio. La questione va ben oltre il rafforzamento della supply chain o il ritorno economico e occupazionale: i semiconduttori sono un asset strategico troppo importante per correre il rischio di lasciarlo in monopolio ai paesi asiatici.  Nei discorsi di Joe Biden e Ursula Von der Leyen sul tema, espressioni come “sicurezza nazionale” e “sovranità tecnologica” compaiono puntualmente. Anche le aziende sono interessate a spostare parte della produzione fuori dall’Asia, specie dietro promessa di generosi incentivi pubblici: la TSMC ha già avviato la costruzione di un impianto da 12 miliardi di dollari in Arizona e promette ulteriori investimenti negli States, mentre Intel intende investire fino a 80 miliardi di dollari per aprire nuove fabbriche nell’UE. Occorre solo capire dove. L’Italia sta corteggiando il colosso americano per attirare parte dell’investimento, come anche la Baviera, dato che uno degli impianti sarà probabilmente costruito in Germania.

Sfortunatamente questi progetti potrebbero non avere l’effetto sperato. Per quanto la global value chain dei semiconduttori sia studiata con attenzione e rigore dagli esperti, rimane difficile ‘codificare’ i vantaggi competitivi delle aziende leader del settore. Il know-how richiesto cade, per una buona sua parte, nel campo della conoscenza tacita e non può essere trasferito facilmente dalle fabbriche in Asia a quelle in Europa o negli USA. Tanto è che le aziende costruiscono i nuovi impianti riproducendo in modo fedelissimo l’organizzazione e la planimetria di quelli già esistenti – coerentemente con la propria, celebre, strategia Copy Exactly!, Intel riproduce dettagli come la pressione barometrica, la temperatura del colore dell’illuminazione o la tinta dei guanti. Inoltre, il fatto che la produzione mondiale dei semiconduttori sia così concentrata in una singola regione, l’Asia dell’est, e dipenda da un fitto intrecciarsi di catene del valore regionali costituisce una debolezza, ma anche un punto di forza del settore. Le nuove fabbriche lontane dall’Asia riusciranno a trovare il loro posto nella global value chain? Riusciranno ad essere competitive?

I Paesi ASEAN possono giocare un ruolo importante nel futuro dei semiconduttori e già valgono il 22% dell’export mondiale di componentistica elettronica. Come accennavamo, Singapore e Malesia sono già degli attori importanti del settore e potranno attrarre nuovi investimenti da USA, Taiwan e Corea. Thailandia e Vietnam hanno varato dei piani ambiziosi di incentivi e investimenti per favorire la crescita del settore nel proprio territorio. Hanoi dovrebbe portare avanti un piano ambizioso di potenziamento infrastrutturale e riforme, se vuole attirare anche investimenti diretti dall’estero. Anche l’Indonesia è un ambiente promettente per lo sviluppo dell’industria dei semiconduttori, anche se tale sviluppo è frenato dalla mancanza di infrastrutture e dalla mancanza di accordi commerciali significativi con i suoi partner internazionali. Anche per i semiconduttori, infatti, i trattati di libero scambio giocheranno un ruolo cruciale nello sviluppo delle supply chain regionali e globali: tutti i Paesi ASEAN sono parte dell’accordo RCEP e, tra loro, Singapore e Vietnam già beneficiano di un legame molto stretto con l’UE. 

È difficile prevedere il futuro del mercato mondiale dei semiconduttori. O meglio, dove sarà tale futuro. Gli Stati produttori tradizionali intendono mantenere la propria centralità, mentre i Paesi ASEAN, l’UE e gli USA intendono iniziare a giocare un ruolo maggiore. L’unica cosa certa è che, negli anni a venire, il settore attrarrà miliardi di dollari in investimenti privati e pubblici.

Si ringrazia Filippo Bizzotto per il supporto nella preparazione e nella revisione dell’articolo.

Green e strategia: l’interesse di Londra per il Sud-Est asiatico

L’ambizione massima britannica è quella di tornare ad avere un ruolo rilevante nel contesto internazionale. Consolidare il rapporto con i Paesi dell’ASEAN è reputato un tassello fondamentale in questa strategia.

Articolo a cura di Luca Sebastiani

L’annuncio è arrivato durante la Cop26 di Glasgow. Il Regno Unito finanzierà con 110 milioni di sterline i progetti infrastrutturali sostenibili nel Sud-Est asiatico. Un sostegno economico al “Catalytic Green Finance Facility” dell’ASEAN (l’Associazione delle Nazioni del Sud-est asiatico), gestito dalla Banca Asiatica di sviluppo (Adb). I Paesi in via di sviluppo della regione potranno quindi beneficiare dei fondi per avviare dei programmi legati alle energie rinnovabili, a trasporti puliti e alle tecnologie “green”.

È una dichiarazione che si mescola con altre di simile impatto rilasciate nelle ultime ore dal governo britannico, come per esempio quello dei nuovi investimenti nel continente africano, e che è accompagnata da comunicati simili di altri paesi e organizzazioni – tra cui l’Unione europea. Nonostante questo, è una notizia degna di particolare attenzione.

La linea dettata dal premier Boris Johnson, in particolar modo dopo la Brexit, è chiara: “Riappropriarsi dei vecchi amici e abbracciarne di nuovi”. E la regione del sud-est asiatico è una delle aree preferite da Londra in cui stringere amicizie economiche e diplomatiche. Le 110 milioni di sterline, infatti, sono solo l’ultimo segnale e l’ultimo esborso di soldi che procede in questa direzione. Oltre a evidenziare l’incremento di occupazione e lavoro nel Regno Unito derivante dall’investimento, Liz Truss, Foreign Secretary britannica, ha definito l’ASEAN “un partner importante per la Global Britain”, esplicitando la volontà di approfondire i legami reciproci e portare il rapporto in una nuova era. Un ulteriore passo avanti dopo che nell’agosto del 2021 l’associazione del Sud-est asiatico ha conferito alla Gran Bretagna lo status di “dialogue partner”, un riconoscimento che non veniva rilasciato da più di 25 anni. Un segnale inequivocabile che anche da parte dell’ASEAN c’è la volontà di intessere rapporti ancora più stretti.

La ricerca obbligata di appoggi e di accordi commerciali in giro per il mondo, portata avanti da Londra dopo l’uscita dall’Unione europea, ha trovato particolare sfogo nell’area Indo-pacifica. Non una scelta casuale visto che oggi questa regione è sotto i riflettori dell’attenzione mondiale ed è considerata la zona strategica per eccellenza. Tra il 2020 e il 2021, i Paesi dell’ASEAN (Indonesia, Thailandia, Malesia, Singapore, Filippine, Vietnam, Myanmar, Cambogia, Laos e Brunei) con cui il 10 di Downing Street ha siglato trattati di libero scambio sono stati Singapore e Vietnam, sulla scia degli accordi simili già in vigore tra le due nazioni con l’Ue. Ma, per rafforzare le relazioni economiche, il Regno Unito ha firmato patti bilaterali con quasi tutti gli altri Stati.

D’altronde questi Paesi sono in una fase di espansione economica imponente. Attualmente l’ASEAN ricopre la sesta posizione tra le più grandi economie del mondo, ma la previsione è che entro il 2030 possa essere il quarto mercato del mondo, dietro a Stati Uniti, Cina e Ue (non per forza in questo ordine). Già solo questi dati spiegano il motivo delle particolari attenzioni britanniche. In questo momento il valore degli scambi di beni e servizi tra le due parti è importante. Nel 2020 le esportazioni britanniche verso i paesi dell’Asean erano pari a 21,5 miliardi di dollari, mentre le importazioni a 24 miliardi, per un totale di circa 46 miliardi. Una cifra in ribasso a causa della pandemia del Covid-19, visto che nel 2019 raggiungeva i 52 miliardi. E nello stesso anno gli investimenti provenienti dal Regno Unito, e diretti nel blocco regionale, raggiungevano i 36,5 miliardi di dollari.

Ma se la Global Britain si dirama da una parte con gli accordi commerciali, dall’altra emergono in maniera plastica i fattori diplomatici, strategici e militari. Nel novembre del 2019 Londra ha stabilito la sua missione in ASEAN e ha nominato un ambasciatore specifico per l’area. Lo scorso marzo, più di recente, è stata rilasciata dal governo britannico la “Integrated Review of Security, Defence, Development and Foreign Policy” dal titolo emblematico “Global Britain in a Competitive Age”. Nel documento viene evidenziato l’interesse verso l’Indo-Pacifico e i paesi dell’Asean. Tra gli obiettivi posti dal Regno Unito c’è quello di supportare il ruolo centrale dei paesi del sud-est asiatico per la stabilità e prosperità regionale.

In ultimo il carattere militare. In questi mesi, il Carrier Strike Group – con in testa la portaerei britannica HMS Queen Elizabeth – ha percorso e sta percorrendo le acque più scottanti del globo, attraversando quei celebri colli di bottiglia fondamentali per il commercio ed il controllo dei mari. Le più significative tappe del suo viaggio sono state effettuate proprio nei porti e nelle basi dell’area indo-pacifica e in alcuni paesi sud-est asiatici. Durante il dispiegamento, il gruppo ha svolto esercitazioni con diversi eserciti alleati, ma soprattutto ha avuto il compito di dimostrare la forza del Regno Unito – o quantomeno la sua volontà – di poter essere un valido strumento di contenimento in chiave anti-cinese utile agli Stati Uniti in un futuro.

L’ambizione massima britannica è quella di tornare ad avere un ruolo rilevante nel contesto internazionale. Consolidare il rapporto con i paesi dell’ASEAN è reputato un tassello fondamentale in questa strategia.

Tutti i progetti portano all’Indo-Pacifico

Quella sull’AUKUS è solo l’ultima di una serie di iniziative multilaterali focalizzate sulla regione. Dagli Stati Uniti al Regno Unito, dall’Australia all’Unione Europea, tutti hanno un motivo per aumentare la loro presenza nell’area.

Articolo a cura di Dmitrii Klementev

Tutte le strade portano a Roma – si poteva dire quando l’Impero romano si estendeva attraverso la vastità del Mediterraneo. La grandezza delle antiche civiltà ha modellato la maniera in cui la maggior parte di noi vede il pianeta avvicinandosi a una mappa del mondo concentrata sul Mediterraneo. Ora vediamo come il mondo stia andando nella direzione opposta – verso la regione dell’Indo-Pacifico. Ogni anno un numero crescente di progetti viene avviato in questa parte del mondo. Sempre più attori globali adattano le loro strategie tenendo in considerazione la sua crescente importanza. Questo articolo cerca di far luce sui più significativi di loro, traendo alcune conclusioni sul futuro dell’ordine mondiale.

Di recente, la firma dell’accordo AUKUS ha provocato accese discussioni in tutto il mondo. Alcuni paesi sono stati addirittura colti alla sprovvista dalla decisione degli Stati Uniti, del Regno Unito e dell’Australia. Tuttavia, AUKUS non è che un anello di una grande catena di eventi che si è sviluppata gradualmente durante l’ultimo decennio e non si tratta di uno sviluppo sorprendente.

Riguardo al Regno Unito, il concetto di politica estera “Global Britain”, pubblicato nel marzo 2021, ha sottolineato in particolare l’importanza della regione Indo-Pacifica per il Paese. Questo cambio di orientamento della politica estera britannica è stato già dimostrato nel 2016, quando Londra ha votato per uscire dall’Unione Europea. In linea con la nuova strategia, i Paesi europei sono considerati dei competitor del Regno Unito nella regione, vista l’intenzione di Londra di “stabilire una presenza maggiore e più persistente di qualsiasi altro Paese europeo” nell’Indo-Pacifico.

Gli Stati Uniti, un altro firmatario dell’AUKUS con il quale il Regno Unito gode di una Relazione Speciale, hanno iniziato a riorientare la loro politica estera verso l’Indo-Pacifico ancora prima. Pertanto, essi dispongono già di una serie di iniziative ambiziose, volte a promuovere la loro influenza nella regione. Il 12 giugno 2021, per iniziativa degli Stati Uniti, i leader del G7 hanno lanciato l’iniziativa “Build Back Better World” (B3W), che ufficialmente si focalizza sulla risposta alle esigenze infrastrutturali nei Paesi a basso e medio reddito. Ma la maggioranza assoluta degli esperti tende a considerare il progetto come un’alternativa alla Belt and Road cinese.

Vale la pena menzionare che l’amministrazione di Biden non ha progettato l’iniziativa B3W da zero. Si basava su un progetto sviluppato sotto Donald Trump – il Blue Dot Network (BDN). Quest’ultimo venne lanciato dagli Stati Uniti, dal Giappone e dall’Australia nel 2019 in occasione dell’Indo-Pacific Business Forum. Il BDN mira a fornire valutazioni e certificazioni dei progetti infrastrutturali in tutto il mondo, garantendo il rispetto di una serie di criteri ambientali, finanziari e sociali. La logica alla base era quella di distogliere i Paesi dalla BRI cinese, che si ritiene li costringa ad indebitarsi e, di conseguenza, cadere nell’influenza di Pechino. Sotto l’amministrazione di Biden, la BDN ha iniziato a operare sotto l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico.

Per il terzo componente dell’AUKUS, l’Australia, l’accordo è diventato un’opportunità per esprimere le preoccupazioni sulla sicurezza regionale. La cooperazione con gli Stati Uniti e il Regno Unito permette a Canberra di costruire una flotta sottomarina a propulsione nucleare, nonché di accedere potenzialmente a missili a lungo raggio e ad alcune altre capacità.

Senza dubbio, la crescente influenza cinese è la ragione principale per cui l’Australia è divenuta un attore attivo nella grande politica del giorno d’oggi. Questo può essere anche confermato dal fatto che nel 2018 l’Australia ha aggiornato le proprie relazioni con il Vietnam a un partenariato strategico. Sia Canberra che Hanoi condividono preoccupazioni riguardo la libertà di navigazione nel Mar Cinese Meridionale, che è il più importante centro di trasporto della regione.

È interessante notare che AUKUS non è la prima iniziativa multilaterale nella regione che riunisce Stati Uniti, Regno Unito e Australia. Insieme al Canada e alla Nuova Zelanda, i suddetti Paesi formano l’alleanza di intelligence Five Eyes, la cui istituzione risale all’inizio della Guerra Fredda. Originariamente progettato per contrastare la minaccia sovietica, oggi l’alleanza mira a fare i conti con la Cina.

Da ultimo ma non meno importante, l’annuncio del patto di difesa AUKUS il 15 settembre 2021, ha messo in ombra un altro evento importante – la presentazione della strategia Indo-Pacifica da parte dell’Unione europea, che non vuole arrendersi nella corsa per l’influenza nella regione.

Preoccupata delle crescenti tensioni nell’Indo-Pacifico, del mancato rispetto dei diritti umani e dei valori democratici, l’Unione europea si affida principalmente allo strumento della politica commerciale e degli investimenti, poiché è in questi settori che l’Unione gode di una serie di vantaggi nella regione.

Questa lista di iniziative, strategie e attori è lontana dall’essere esaustiva. Però, anche questo può essere sufficiente per affermare che l’ordine mondiale è entrato in una fase attiva di transizione. Una fase che rappresenta un’opportunità unica per fare un importante passo avanti per coloro che sono rimasti indietro. Tuttavia, questo processo non avrà egualmente alcuna pietà per coloro che l’hanno ignorato. Probabilmente, tra qualche anno la centralità della mappa mondiale a cui siamo abituati cambierà, dal momento che quasi tutti i progetti portano all’Indo-Pacifico.

I Facebook Papers scuotono anche l’ASEAN

Incitamento all’odio, propaganda politica senza contraddittorio e traffico di esseri umani. Problemi di cui il colosso di Mark Zuckerberg era a conoscenza ma non ha agito, secondo le accuse dell’inchiesta denominata Facebook Papers.

Nelle ultime settimane, Facebook è stato nell’occhio del ciclone dopo che diverse testate giornalistiche statunitensi ed europee hanno pubblicato contemporaneamente articoli basati sui documenti interni diffusi dalla whistleblower ed ex dipendente Frances Haugen su alcune faccende controverse riguardo la stessa azienda.

I documenti trapelati, conosciuti inizialmente come “Facebook Files” e successivamente denominati “Facebook Papers”, raccontano nel dettaglio i fallimenti della dirigenza dell’azienda nel contenere la disinformazione e l’incitamento all’odio e alla violenza sulla piattaforma. La situazione è aggravata dalla presunta conoscenza di Facebook di questi problemi, che non è però riuscita ad arginare, talora per inerzia, talora per mancanza di mezzi tecnici, ma soprattutto, sostiene l’inchiesta, per la scelta di anteporre il profitto e la ricerca dell’engagement alla sicurezza e al benessere degli utenti.

Per oltre un decennio, Facebook ha spinto per diventare la piattaforma online dominante nel mondo. Tuttavia, i suoi sforzi per mantenere il social sicuro ed inclusivo non hanno tenuto il passo con la sua espansione globale. Dai documenti sono anche emersi diverse vicende legate ai Paesi dell’ASEAN, in particolare Vietnam, Myanmar e Filippine, nei quali l’uso dei social network è cresciuto esponenzialmente negli ultimi anni, così come l’accesso alle reti mobili. Per molte persone in questi Paesi, Facebook rappresenta l’unico punto di accesso alle informazioni, e molti considerano i post come vere e proprie notizie.

Uno dei principali aspetti dell’inchiesta riguarda il fatto che Facebook sia in gran parte impreparato a contrastare la disinformazione fuori dagli Stati Uniti e da pochi altri Paesi occidentali. Se consideriamo infatti che, secondo un documento interno pubblicato dal New York Times, l’87% delle risorse della piattaforma sono dedicate a combattere la disinformazione negli Stati Uniti, il 13% rimanente per il resto del mondo appare una cifra assai esigua. Come altre aziende tecnologiche, il gigante dei social network usa degli algoritmi per segnalare ed eventualmente eliminare contenuti ritenuti dannosi prima che si diffondano rapidamente online, ma molti post sono scritti in linguaggi e dialetti locali o presentano riferimenti culturalmente specifici che gli algoritmi comprendono con estrema difficoltà. Ad esempio, fino al 2020 l’azienda non aveva algoritmi di screening in lingua birmana, una falla che ha permesso al linguaggio aggressivo e all’incitamento all’odio razziale di fiorire sulla piattaforma. Facebook è stato accusato di aver svolto un ruolo chiave nella diffusione dell’odio razziale nei confronti della minoranza Rohingya in Myanmar, quando i militari hanno effettuato “operazioni di pulizia” del gruppo etnico, costringendo 650.000 rifugiati Rohingya a fuggire in Bangladesh a causa delle persecuzioni.

Anche il Vietnam si è ritrovato coinvolto nello scandalo dei Facebook Papers, seppur per altre ragioni. Secondo una serie di documenti interni emersi nel corso dell’inchiesta, l’amministratore delegato Mark Zuckerberg avrebbe ceduto alle richieste del governo vietnamita di censurare i post di dissidenti anti-governativi per non rischiare di perdere un miliardo di dollari di entrate annuali nel Paese, cifra stimata da un report di Amnesty International. Il Vietnam è uno dei mercati asiatici più lucrativi di Facebook, con più di 53 milioni di utenti attivi (oltre la metà della popolazione). Secondo Huynh Ngoc Chenh, un influente blogger che si occupa di democrazia e questioni relative ai diritti umani, il colosso di Menlo Park “ha maltrattato gli attivisti eliminando la libertà di parola, trasformandosi in uno strumento mediatico a servizio del Partito Comunista del Vietnam”. Per tutta risposta, l’azienda ha affermato che la scelta di censurare è giustificata “al fine di garantire che i servizi rimangano disponibili per milioni di persone che si affidano a loro ogni giorno”, secondo una dichiarazione fornita al Washington Post.

Ma non finisce qui. Sono infine emersi scandali anche sul comportamento di Facebook nelle Filippine, dove peraltro post e contenuti spesso fuorvianti continuano ad alimentare la popolarità del controverso Presidente Duterte. All’inizio di quest’anno, un rapporto interno di Facebook ha identificato l’esistenza di lacune nel rilevamento di gruppi criminali che si servono della piattaforma per il traffico di esseri umani. Infatti, nonostante il governo delle Filippine abbia una task force impegnata a prevenire tali situazioni, le piattaforme della società sono utilizzate per la recluta e compravendita di collaboratori domestici.

Belt and Road Initiative: a che punto siamo in ASEAN?

Dall’entusiasmo dei primi anni allo stop della pandemia. Pechino non si arrende, alcuni governi tentennano e i dati mostrano pericoli incombenti, ma l’unione dei dieci paesi in diplomazia vede di buon occhio i capitali cinesi.

L’ASEAN ha bisogno della Belt and Road Initiative (BRI). O è la Cina ad avere bisogno dell’ASEAN per portare avanti le nuove Vie della seta? La risposta sta nel mezzo. E cosa sta accadendo dell’ultimo anno racconta qualcosa in più di come evolve il progetto più ambizioso dell’amministrazione Xi, che dal 2014 è molto cambiato nella sostanza e negli obiettivi.

L’arrivo della pandemia e lo stop alle attività produttive non potevano che dare un ulteriore colpo d’arresto ai piani di Pechino. Le previsioni di crescita delle economie del Sud-Est asiatico continuano a mantenere toni cauti, mentre il governo cinese sembra più attento sulla distribuzione dei propri investimenti diretti esteri. Questo non ha impedito alla Cina di mantenere il suo primato come maggiore investitore nella regione, mentre gli Stati Uniti iniziano ad avanzare per sostituire Pechino laddove inizia a perdere terreno. Che siano dispute territoriali nel Mar Cinese Meridionale, oppure semplice scetticismo unito a maggiore potere negoziale, la Cina si trova davanti a una BRI che sta cambiando.

BRI chiama Cina

Come Pechino gestisce i suoi investimenti all’estero è da tempo un fenomeno conosciuto. Gli accordi stretti tra Cina e nazioni più povere nel quadro BRI sono spesso inseriti in obbligazioni che vengono ripagate, in assenza di liquidità, con la fornitura di materie prime, o la concessione a uso proprio di un asset agli investitori. Il fascino dei capitali cinesi rimane, però, uno degli strumenti più potenti della politica estera della Repubblica popolare. Lo scorso 1° settembre al Belt and Road summit i rappresentanti ASEAN hanno annunciato che serve investire di più nei progetti BRI per aiutare l’economia dell’unione a riprendersi dopo la battuta d’arresto della pandemia.

Sono tanti i progetti promossi dall’inizio della crisi Covid19, ma arrivano anche alcuni stop dati dall’incertezza dell’identità delle joint venture tra imprese cinesi e locali. Solo nei primi quattro mesi del 2021 sono stati firmati 61 nuovi progetti con il Vietnam, per il valore totale di 1 miliardo di dollari. È stata avviata la fase di analisi per la Kyaukphyu Special Economic Zone (SEZ) in Rakhine, Myanmar. Un luogo dove la cinese China International Trust and Investment Corporation Group (CITIC) promette collaborazioni con un consorzio cinese-birmano ad hoc, anche se gli incentivi ambiziosi (9-10 miliardi di dollari) stanno lasciando spazio a progetti su “piccola-media scala”. In Malesia l’ultimo progetto nel quadro BRI prevede la costruzione di un nuovo impianto fotovoltaico. Anche in questo caso, le compagnie cinesi (quasi sempre statali) promettono 10,1 miliardi di dollari di lavori.

La Thailandia è un caso a parte. Sebbene come i vicini Cambogia e Laos la guida del Paese sia di facto autocratica, c’è maggiore attenzione e cautela da parte del governo verso i promettenti capitali cinesi. Ci si è accorti che, spesso, si sono favorite soluzioni onerose invece di sistemare i problemi alla radice, e che molti dei progetti cinesi potrebbero finire nel vuoto degli investimenti senza ritorno. Più basso il potere negoziale di nazioni come Cambogia e Laos, dove Pechino sembra dettare le regole con maggiore assenso dei governi, spesso perché le altre forme di organizzazione indipendenti sono più deboli.

Cina chiama BRI

La Cina dal canto suo rimane cauta, anche se i progetti in ambito BRI proseguono. È il caso della ferrovia Thailandia-Cina, che parte da Bangkok, passerà da Vientiane e punta a raggiungere Kunming. Pechino si è anche offerta di farsi carico del progetto di spostamento delle acque dei fiumi, un’ambizione del governo thailandese vecchia di trent’anni, ma che fino a oggi sembrava infattibile date le enormi spese che il progetto richiederebbe. La proattività della Cina, in questo senso, punta a toccare i bisogni dei singoli Paesi, anche se proprio dagli ambientalisti thai arriva la denuncia che un sistema idrico efficiente salverebbe i cittadini dall’acqua persa ogni anno (il 40% di quella trasportata).

A fare da polo attrattivo verso Pechino ci sono anche le numerose iniziative che coinvolgono i dieci paesi del Sudest asiatico. La Cina ha ospitato il primo incontro in presenza dopo 16 mesi con i rappresentanti ASEAN lo scorso 7 giugno, mentre la 18° China-Asean expo del 10-13 settembre ha permesso di avanzare nuove proposte sulla questione degli scambi commerciali. Questa relazione ha ispirato da tempo Pechino, che da allora si propone di superare il concetto di investimenti nella regione come capitale per costruire infrastrutture “vuote”, con una maggiore attenzione alla cooperazione per la ricerca e lo sviluppo avanzati.

Trappola del debito o debiti fantasma?

AidData, centro di ricerca affiliato alla William & Mary University, ha annunciato che i debiti accumulati dai Governi asiatici nei confronti della Cina potrebbero essere molto più onerosi di quanto preventivato. La ricerca ha analizzato i 13,427 progetti cinesi in Laos a partire dal 2000, calcolando un monte spese che si aggira attorno agli 800 miliardi di dollari. Di questi, almeno 385 miliardi sarebbero di debito “fantasma”. In totale sarebbero almeno 44 i paesi che hanno debiti con la Cina pari al 10% del proprio PIL.

Il G20 dello scorso anno aveva stabilito che nel 2020 andava sospeso il debito di 73 economie meno sviluppate per affrontare emergenza Covid. Questo tipo di investimenti, considerati rischiosi per la salute dei bilanci statali, possono però essere nascosti tra le svariate eccezioni contemplate dal diritto internazionale. Per esempio, gli accordi possono essere presi direttamente da aziende statali, joint venture e privati senza necessariamente ricevere la delibera del governo cinese. In questo modo, come nel caso della ferrovia Laos-Cina, il buco finanziario potrebbe essere ben maggiore del previsto. Una questione complessa, che vede protagonisti gli ultimi due progetti più importanti in corso: la ferrovia Laos-Cina e 580 km di autostrada.

I rischi per le nazioni più deboli dell’ASEAN in termini di governance spaventano gli analisti, che temono un ritorno alla “trappola del debito”. Con questo tipo di prassi la Cina ha già risolto diverse controversie ottenendo la concessione di alcuni asset laotiani, tra cui parte della rete elettrica. Anche in questo caso il debito è molto meno nascosto di quanto possa apparire: basta osservare la combinazione della joint venture per osservare che la maggioranza del capitale è controllata da tre compagnie statali cinesi. Un mix complicato di sfide e opportunità, che per ora non ha frenato in modo significativo la corsa di Pechino lungo le nuove Vie della seta, ma ha comunque contribuito a evolvere il ragionamento in alcuni dei governi ASEAN. Un’esperienza utile, che ora richiede più coesione per evitare il rischio di default tra gli stati membri più fragili.