Cinque Paesi inaugurano la rete ASEAN per il pagamento tramite codice QR

Malesia, Indonesia, Thailandia, Singapore e Filippine hanno collegato le loro piattaforme nazionali per i pagamenti via QR code. I consumatori potranno pagare istantaneamente anche con una valuta straniera, con costi ridotti per loro e i venditori. La regione si conferma un polo fintech d’eccellenza mondiale.

Lo scorso giugno, Malesia e Indonesia hanno connesso le proprie piattaforme di pagamento digitale basate sulla tecnologia QR-code. Kuala Lumpur aveva  già completato la connessione con Singapore ad aprile e, ancor prima, con la Thailandia. Queste iniziative non sono isolate o bilaterali, ma fanno parte di un progetto coordinato a livello ASEAN e che coinvolge anche le Filippine. Cinque economie di primo piano della regione hanno deciso di coordinare gli standard tecnici delle rispettive piattaforme nazionali così da creare una rete che permetta di pagare con il proprio provider nazionale i codici QR emessi in un altro Paese, rendendo anche istantanea la conversione delle valute. Il progetto era stato annunciato lo scorso anno in occasione del summit G20 dei ministri delle finanze e dei governatori delle banche centrali presieduto dall’Indonesia. I cinque partner intendono proseguire nel progetto e, in futuro, i consumatori potrebbero anche fare bonifici istantanei o comprare le valute digitali nazionali grazie alla connessione tra piattaforme. E altri Paesi potrebbero connettersi.

L’iniziativa ASEAN si inserisce in un contesto globale di rapido sviluppo dei codici QR, sempre più utilizzati per i pagamenti digitali. Questo metodo di pagamento potrebbe spostare, entro il 2025, 3 trilioni di dollari a livello mondiale. Il suo principale punto di forza è l’accessibilità, dato che, in certe regioni del mondo, è molto più facile avere uno smartphone che una carta di credito. Tale condizione potrebbe spingere il Sud Est asiatico a “guidare una rivoluzione dei pagamenti digitali”. Più del 50% dei consumatori ASEAN che vivono nelle aree urbane utilizza già e-wallet per i propri pagamenti e il numero dovrebbe raggiungere l’84% per il 2025. I numeri non sono altrettanto impressionanti nelle zone rurali, dove nel 2020 meno del 20% dei consumatori usa e-wallet, ma il numero dovrebbe arrivare a sfiorare il 60% nel 2025. Questa tendenza è in linea con quanto sta succedendo anche in Cina con Alipay e WeChat. Il principale freno a questa conversione è lo scetticismo degli esercenti che ritengono le transazioni ancora poco affidabili e troppo costose e che quindi non accettano i metodi elettronici. L’adozione dei QR-code e la loro connessione a livello ASEAN però fornisce una risposta a tali preoccupazioni e contribuirà senz’altro a diffondere i portafogli digitali. I sostenitori dei codici QR affermano poi che il metodo è anche più sicuro, dato che si forniscono meno dati personali ai venditori.

Tale “rivoluzione” avrà un impatto sul futuro sviluppo di molti settori dell’economia, creando vincitori e vinti. Le banche tradizionali, già poco presenti in certe aree dei Paesi ASEAN, rischiano di essere sostituite dai concorrenti fintech. Per pagare con la carta di credito o ritirare contanti da uno sportello, servono un conto corrente e una rete fisica di distribuzione. Due ostacoli non facili da superare per le banche tradizionali, per i costi e la difficoltà nel reperire informazioni sull’affidabilità creditizia dei potenziali clienti. Le società fintech invece non sono “appesantite” da queste esigenze e possono più agilmente attrarre i nuovi clienti del Sud Est asiatico – ed estrarre valore dai dati delle loro transazioni. Si tratta di un mercato dalle immense potenzialità e “sbloccarlo” permetterà alle aziende dell’ASEAN di crescere ancora di più e alla regione di consolidare la sua posizione come laboratorio mondiale per il digitale e il fintech.

Queste iniziative però hanno anche una dimensione politica. I codici QR riducono i costi delle singole transazioni e, come detto, sono facilmente accessibili anche per le persone normalmente escluse dai circuiti bancari tradizionali. La cosiddetta “inclusività finanziaria”, ossia rendere il sistema finanziario accessibile anche al ceto medio e a chi vive nelle aree rurali, è un obiettivo strategico per i governi ASEAN e potrà rendere le loro economie più prospere e competitive. Inoltre, il fatto poi che il coordinamento degli standard tecnici sia avvenuto a livello ASEAN e non meramente bilaterale è prova delle potenzialità dell’organizzazione come foro per discutere e rafforzare l’integrazione regionale, sia economica sia digitale. Si tratta comunque di un progetto ristretto ad alcune tra le economie più competitive e affini tra loro dell’organizzazione. Quali altre piattaforme nazionali potrebbero aggiungersi nel futuro? Il Vietnam ha già lavorato con la Thailandia per connettere i loro sistemi di pagamento QR e, se parteciperà alla rete con gli altri quattro Paesi, tutte le economie più ricche della regione ne farebbero parte. Più difficile è il coinvolgimento dei Paesi più piccoli e con meno risorse.

L’impatto politico di questa iniziativa però va ben oltre l’ASEAN. Il coordinamento delle piattaforme QR permette ai consumatori di pagare il conto in una valuta straniera istantaneamente e con tassi di cambio minimi. Il sistema, in concreto, procede a convertire le valute ASEAN direttamente, senza passare per l’intermediazione del dollaro. La digitalizzazione dei flussi di denaro, quindi, è un ulteriore sfida alla centralità della moneta americana negli scambi internazionali. Infine, il rafforzamento dell’ASEAN come polo digitale innovativo e dinamico accresce il ruolo della regione nella definizione degli standard tecnologici del futuro. Forse, persino capace di ritagliarsi uno spazio in mezzo al duopolio USA-Cina. Coordinare e rendere più facili i pagamenti elettronici crea nuove opportunità. È curioso osservare che, invece, in Italia e in altri Paesi europei talvolta è ancora difficile pagare con la carta di credito e proteggere il ruolo del contante è un tema politico. Un approccio completamente opposto al dinamismo dimostrato dalle aziende e i governi asiatici e che rallenta la corsa delle nostre economie verso la nuova “rivoluzione” digitale.

UE e Filippine verso il libero scambio

Importante visita a Manila della Presidente della Commissione Europea Ursula Von Der Leyen. Si va verso un accordo di libero scambio

Articolo di Tommaso Magrini

Si è svolta nei giorni scorsi un’importante visita nelle Filippine di Ursula Von der Leyen. La Presidente della Commissione Europea ha incontrato il Presidente Ferdinand Marcos Junior nel palazzo presidenziale di Malacañang. Qui Von der Leyen ha manifestato l’intenzione di dare “un nuovo slancio alle relazioni bilaterali tra Unione europea e Filippine”. In cima all’agenda: commercio, transizione ecologica, innovazione digitale e sicurezza. Sul primo punto i due leader hanno annunciato l’intenzione di perseguire il rilancio dei negoziati per un accordo di libero scambio “ambizioso, moderno ed equilibrato, incentrato sulla sostenibilità”. Piano ambizioso, che segue gli accordi di libero scambio conclusi dall’Unione europea con Singapore e Vietnam negli scorsi anni. A testimonianza del fatto che Bruxelles punta molto sul Sud-Est asiatico, area in grande ascesa che consente anche una diversificazione dei rapporti commerciali e diplomatici nella regione asiatica rispetto alla Cina. “Le Filippine sono per noi un partner fondamentale nella regione indo-pacifica e con l’avvio di questo processo di valutazione stiamo aprendo la strada per portare il nostro partenariato al livello successivo”, ha detto von der Leyen. “Insieme, realizzeremo il pieno potenziale della nostra relazione, creando nuove opportunità per le nostre aziende e i consumatori, sostenendo anche la transizione verde e promuovendo un’economia giusta”. Per la Presidente della Commissione europea, il futuro accordo di libero scambio comprenderà impegni ambiziosi in materia di accesso al mercato, procedure sanitarie e fitosanitarie rapide ed efficaci, nonché la protezione dei diritti di proprietà intellettuale, comprese le indicazioni geografiche”. Al centro però anche il tema della sostenibilità, dossier su cui è già arrivato un annuncio durante la visita. Von der Leyen e Marcos hanno infatti lanciato l’iniziativa Team Europe sulla green economy, che prevede un contributo Ue di 466 milioni di euro per la gestione “verde” dei rifiuti. Il tutto nell’ambito del programma Global Gateway lanciato dalla Commissione europea. Previsto anche il trasferimento di competenze, formazione e tecnologie volte a costruire un modello alternativo di gestione dei rifiuti di plastica. “Le Filippine e l’Ue sono partner affini grazie ai nostri valori condivisi di democrazia, prosperità sostenibile e inclusiva, Stato di diritto, pace e stabilità e diritti umani”, ha detto invece Marcos. “I continui scambi tra me e la presidente von der Leyen, iniziati a Bruxelles l’anno scorso, testimoniano il nostro comune desiderio di portare le nostre relazioni bilaterali a livelli più alti”, ha aggiunto.

UE-ASEAN, verso nuove forme di cooperazione?

Pubblichiamo qui un estratto dall’introduzione del report di Carnegie Endowment for International Peace: “Ripensare le relazioni UE-ASEAN: Sfide e opportunità”

L’Unione europea (UE) e l’Associazione delle Nazioni del Sud-Est Asiatico (ASEAN) hanno formalmente segnato quasi mezzo secolo di legami diplomatici alla fine del 2022. Il vertice commemorativo dei quarantacinque anni dei due blocchi si è tenuto a Bruxelles. Paradossalmente, nonostante l’intensificarsi delle tensioni sulla sfera della sicurezza in entrambe le regioni, il dossier della sicurezza non ha avuto un ruolo centrale nell’agenda UE-ASEAN. Ciò è sintomatico non solo del modo in cui le due organizzazioni considerano le rispettive capacità e interessi in ciascuna regione, ma anche del modo in cui le relazioni sono andate finora. Si è assistito a una serie di alti e bassi, con molte delle questioni più controverse – in particolare quelle spinose relative alla democrazia e ai diritti umani – lasciate al vaglio dei diplomatici o affrontate dalla società civile, data la sensibilità a livello politico. L’asse principale delle relazioni UE-ASEAN si è concentrato soprattutto sul commercio e sugli investimenti, riflettendo la competenza dell’UE nei confronti dei suoi Stati membri e le aree in cui l’ASEAN nel suo complesso ha un margine di manovra leggermente più ampio. Nonostante l’incapacità di portare avanti un accordo di libero scambio (FTA) tra l’UE e l’ASEAN, in fase di stallo dal 2007, l’UE ha fatto passi avanti con FTA bilaterali con singoli Stati membri dell’ASEAN, tra cui Singapore e Vietnam. Sul fronte della politica estera, sia l’UE che l’ASEAN devono affrontare delle difficoltà. I membri dell’UE non hanno mai fatto passi avanti nel cedere il pieno controllo dell’impegno esterno al braccio esecutivo dell’Unione. Nonostante la ratifica del Trattato di Lisbona nel 2009, gli Stati membri dell’UE hanno continuato a mantenere la competenza nazionale sulle molte sfide che riguardano la politica estera e di sicurezza comune dell’Unione. L’ASEAN agisce in modo molto simile, ma favorisce in modo molto più deciso le prerogative dei singoli Stati membri. E non c’è mai stata alcuna ambizione o tentativo coordinato di esternalizzare l’impegno di politica estera dell’ASEAN al segretariato regionale. Tuttavia, nell’ultimo decennio circa, i paesaggi geopolitici in Europa e in Asia sono cambiati in modo significativo, lasciando l’UE e l’ASEAN esposte a vulnerabilità economiche e di sicurezza critiche sulle quali hanno un controllo limitato. Per questo l’UE e l’ASEAN possono lavorare insieme e creare uno spazio che sia fondato sulla loro cooperazione. L’UE e l’ASEAN hanno un bisogno reciproco della presenza dell’altro negli affari internazionali e di una relazione basata su una vera cooperazione e sulla realizzazione di risultati concreti.

Il futuro dei giovani dell’ASEAN

La crescita economica dei Paesi del Sud-Est asiatico dipenderà in gran parte dalla capacità dei governi di valorizzare i propri giovani 

Il Sud-Est asiatico è una delle regioni più dinamiche e in più rapida crescita del mondo dal punto di vista del mercato del lavoro. Con un totale di circa 700 milioni di persone, la regione ha una popolazione giovane, dinamica e sempre più istruita. Dal 1950 al 2020 la popolazione del Sud-Est in età lavorativa è cresciuta da 95 milioni a 453 milioni. Poiché la popolazione in età lavorativa è cresciuta più velocemente di quella non in età lavorativa, l’indice di dipendenza dell’economia, ossia il rapporto tra persone considerate “non autonome” a causa dell’età e persone invece abili al lavoro è calato portando a una fase di crescita economica.

Purtroppo, però, tale condizione favorevole dal punto di vista demografico non è destinata a durare ancora a lungo. In Thailandia, per esempio, si stima che già nel 2050 il numero di persone nella fascia di età 20-64 anni sarà del 21% inferiore rispetto al 2020. Inoltre, se al momento l’età media nei Paesi ASEAN risulta essere di 30 anni nel 2050 arriverà a 37,3 anni mostrando che anche i paesi del Sud-Est asiatico andranno verso una fase caratterizzata da un progressivo invecchiamento della popolazione in cui la crescita economica dipenderà in misura maggiore dal livello di produttività e di competenze dei giovani. Come dichiarato da Martijn Schouten, “workforce transformation leader” a Singapore per PWC, la necessità di un processo di processo di adeguamento e arricchimento delle competenze per creare una forza lavoro con competenze digitali e green non è mai stata così urgente, considerando l’impegno preso da molti Paesi ASEAN di passare a un’economia a zero emissioni. Tale transizione aggiungerà all’incirca 30 milioni di nuovi posti di lavoro nel Sud-Est asiatico entro il 2030. 

Per questo risulta fondamentale che i governi della regione del Sud Est asiatico investano nell’istruzione e nella formazione dei giovani al fine di aumentare la produttività e l’innovazione, favorendo una crescita economica dinamica e competitiva. Un’analisi condotta da PWC dimostra che un ampio investimento “nell’upskilling” avrebbe inoltre il potenziale di aumentare il PIL della regione del 4%, sbloccando così fino a 676.000 nuovi posti di lavoro entro il 2030. In termini di occupazione, i maggiori benefici si avrebbero in Indonesia, Vietnam e Filippine. 

Preso atto della situazione, molti Paesi del Sud-Est asiatico stanno agendo di conseguenza. Per esempio, in Malesia, dove gli under 35 costituiscono circa il 60% della popolazione, il governo ha stanziato 2.1 miliardi di ringgit di fondi al fine di mettere in condizione i giovani di diventare cittadini produttivi, innovativi e socialmente responsabili; tra questi, è previsto uno stanziamento di 500 milioni di euro per il Programma nazionale per le competenze digitali, finalizzato ad aiutare i giovani ad aggiornare le proprie competenze digitali. È previsto inoltre uno stanziamento di 150 milioni di euro per il Programma per l’imprenditoria giovanile, volto a sostenere i giovani imprenditori e le loro iniziative di start-up.  Il governo di Singapore ha invece stanziato 400 milioni di dollari in sovvenzioni dal Fondo per lo sviluppo del settore finanziario (FSDF) fino al 2025 per sostenere la formazione delle competenze dei professionisti nel settore finanziario. Il Ministero del Lavoro della Thailandia ha stretto una partnership con Microsoft Thailandia per fornire competenze digitali a 4 milioni di persone, al fine di sostenere settori chiave, tra cui la manifattura, creando nuovi posti di lavoro e opportunità commerciali. La prima fase della partnership ha potenziato le capacità digitali di 280.000 dipendenti thailandesi dal 2020 al 2022, ma un piano per creare ulteriori 180.000 opportunità lavorative è già in atto.

Cambogia, Hun Sen vince ancora le elezioni

Il Partito popolare cambogiano (CPP) del Premier ha dominato le elezioni di domenica 23 luglio, ottenendo oltre l’82% dei voti

Di Tommaso Magrini

Come ampiamente previsto, il Partito popolare cambogiano (CPP) del Primo Ministro Hun Sen ha dominato le elezioni in Cambogia di domenica 23 luglio, ottenendo oltre l’82% dei voti. Di fatto, il Partito popolare cambogiano non aveva rivali. L’unica credibile forza di opposizione, il Candlelight Party, non si è potuta presentare alle elezioni per questioni tecnico-burocratiche, e gli altri 17 partiti in lizza erano troppo deboli per poter impensierire il Primo Ministro, al potere dal 1985 con una breve interruzione dopo le elezioni del 1993. Il partito di Hun Sen ha conquistato 120 dei 125 seggi dell’Assemblea Nazionale. Il monarchico Funcinpec ha ottenuto il 9,2% dei voti vincendo i 5 restanti seggi. Secondo i dati ufficiali, ha votato circa l’84% degli aventi diritto (8,1 milioni di cambogiani su 9,7 milioni di elettori) e il 5,7% delle schede è risultata nulla (432.000 voti non validi). Il governo ha promesso azioni legali contro chi ha rovinato le schede elettorali, una forma di protesta alla quale avevano chiesto di aderire gli esponenti dell’opposizione al CPP. Già durante le fasi di spoglio ci sono stati alcuni arresti. Dopo mesi di speculazioni, poco prima del voto Hun Sen ha dichiarato che avrebbe lasciato il ruolo di premier a suo figlio Hun Manet “entro tre o quattro settimane”. Hun Manet, comandante dell’esercito cambogiano, si è candidato per la prima volta in questa tornata elettorale in uno dei seggi della capitale Phnom Penh, che ha conquistato senza problemi. Con tutta probabilità, comunque, Hun Sen resterà presidente del CPP, ruolo dal quale dovrebbe riuscire a mantenere il controllo sull’indirizzo politico del governo. Gli analisti si aspettavano una transizione più lunga, ma Hun Sen sembrerebbe voler accelerare per presiedere l’ascesa del figlio quando è ancora in forza e con una presa ben salda su partito e Paese, al quale dopo la travagliata storia del secolo scorso ha saputo garantire stabilità e crescita economica.

L’Ambasciatore Mario Vattani saluta Singapore

Il diplomatico lascia la città-stato. Pubblichiamo qui un estratto del suo commiato alla comunità italiana, effettuato in un video su youTube 

Nel momento in cui mi preparo a lasciare questa sede, tengo a salutare i membri della nostra comunità italiana a Singapore. Il vostro sostegno e la vostra presenza sono stati essenziali per sviluppare con Singapore questa partnership dinamica. Credo che siamo riusciti davvero a far conoscere meglio in Italia le opportunità offerte da Singapore, del resto le prove di ciò sono i tanti accordi firmati, le tante visite di alti funzionari che abbiamo accolto, dai responsabili degli esteri e dei trasporti fino a quelli per le infrastrutture, nonché le missioni del nostro ministero degli Interni, della Banca d’Italia e di tanti accademici. Con questo governo l’Italia guarda sempre di più al Sud-Est asiatico come regione di grande crescita per le nostre imprese e l’impegno aumenterà a Singapore vista la sua centralità geopolitica e economica. Ricorderete che proprio qui, il 1° maggio, è iniziata la primissima fase della campagna nell’Indo-Pacifico della nostra più moderna nave della Marina militare, la Francesco Morosini. Per noi Singapore è una vetrina importante, un Paese in grado di anticipare tendenze che saranno seguite dal resto di una regione che conta 600 milioni di abitanti e per questo motivo da quando sono arrivato ho cercato in tutti i modi di aumentare la nostra visibilità con eventi popolari come l’Italian Festival che quest’anno ha totalizzato qualcosa come 300 mila visitatori. Abbiamo aumentato la nostra presenza anche da un punto di vista strutturale. Dal settembre dello scorso anno siamo riusciti a trasferire l’Ambasciata in una nuova sede prestigiosa e centrale che ospita anche uno showroom a disposizione delle nostre aziende. Sappiamo che una caratteristica di Singapore è l’alta concentrazione di capitale e per questo lo scorso anno abbiamo lanciato il Global Sorta, portando con successo qui le nostre startup. Non a caso il nostro ministro degli Affari Esteri il presidente Antonio Tajani ha scelto proprio Singapore insieme a San Francisco e Tel Aviv per creare un Innovation Hub italiano. Singapore ha piani ambiziosi per il futuro e noi possiamo lavorare insieme per realizzarli. Ora la mia nomina a commissario generale per l’Italia all’Expo Osaka 2025 è una nuova sfida e sono sicuro che riusciremo a creare una vetrina eccezionale a Osaka per le aziende, creando nuove sfide per il futuro.

Il peculiare approccio dell’UE sulla Cambogia

Sotto il regime preferenziale EBA (Everything But Arms), l’UE azzera i suoi dazi per i Paesi in via di sviluppo che si impegnano nella promozione dei diritti umani e politici. Ma Bruxelles ha spesso soprasseduto in modo pragmatico, anche col Myanmar. La Cambogia, che si appresta alle elezioni del 23 luglio, è un’eccezione.

Il 12 febbraio 2020, la Commissione Europea ha sospeso parzialmente il regime commerciale EBA (Everything But Arms, “Tutto tranne le armi”) accordato alla Cambogia a causa delle violazioni dei diritti civili e politici da parte del Paese guidato da Hun Sen. La scelta di Bruxelles non ha praticamente precedenti e, ad oggi, la Cambogia è l’unico Paese al mondo colpito da tale provvedimento. Persino il Myanmar post-golpe gode ancora dell’EBA, nonostante molti osservatori e ONG chiedano alla Commissione di intervenire in modo simile contro il regime del Tatmadaw. La revoca dell’EBA è ancora in vigore e la scelta europea rivela che le relazioni, politiche e commerciali, tra il blocco e il Paese asiatico non godono di buona salute. Ma, nel complesso scacchiere del Sud-Est asiatico, Bruxelles e Phnom Penh devono osservare le mosse degli altri giocatori e mantenere un approccio pragmatico, se non vogliono finire in un angolo.

Per capire la portata della misura della Commissione, occorre prima conoscere le caratteristiche di questo strumento di politica commerciale. L’EBA è uno dei tre regimi del GSP (Generalised Scheme of Preference, in italiano Sistema di Preferenze Generalizzate), nonché il più vantaggioso. Gli altri due sono il GSP “semplice” e il GSP+. I regimi GSP concedono ai paesi in via di sviluppo maggiore accesso al mercato UE, riducendo in modo consistente i dazi su merci esportate verso l’Unione. L’EBA permette ai suoi beneficiari di esportare in UE senza quote e dazi quasi tutti i prodotti, “eccetto le armi”. Il Sistema ha due obiettivi: da un lato, stimolare lo sviluppo economico dei partner; dall’altro, promuovere in questi Paesi il rispetto dei diritti. Diritti in senso ampio: umani, politici, sindacali e anche ambientali. Questa seconda finalità si realizza attraverso un meccanismo di “condizionalità”: uno Stato può accedere al GSP+ o all’EBA se si impegna a ratificare e attuare concretamente una serie di convenzioni internazionali; ad esempio quelle ONU sui diritti umani e l’ambiente, o quelle dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL/ILO) sulle condizioni di lavoro e la libertà sindacale. Se il partner non si impegna in questo senso o, addirittura, si muove in senso contrario, l’UE può sospendere il regime di preferenze, portando a un immediato aumento dei dazi sulle merci che provengono da quel Paese.

Prima della Cambogia, l’UE aveva revocato un paio di volte il regime GSP e GSP+ tra 1997 e 2010, ma mai l’EBA. La scelta di Bruxelles è arrivata in risposta alla durissima repressione dell’opposizione da parte del regime di Hun Sen, particolarmente intensa a partire dal 2017. Dopo lo scioglimento per via giudiziaria del principale partito d’opposizione, il Partito della Salvezza Nazionale della Cambogia, nel 2017, tutti i suoi membri sono stati prima espulsi da ogni livello delle istituzioni cambogiane e poi arrestati, costretti all’esilio e, in alcuni casi, persino assassinati in circostanze poco chiare. Prima di prendere tale drastica decisione, Bruxelles aveva indicato a Phnom Penh alcune misure urgenti da attuare per tutelare l’opposizione, ricevendo un secco rifiuto dal Governo cambogiano. Hun Sen aveva risposto beffardo a Bruxelles, minimizzando l’importanza del supporto europeo e confondendo se stesso con l’intero Paese: “Non provate a spaventarmi. Non minacciatemi. Non minacciate la Cambogia tagliando gli aiuti allo sviluppo”.

In effetti, i rapporti commerciali tra UE e Cambogia, anche se buoni, hanno un’importanza relativa per entrambe le parti. Cina (23.4% degli scambi), Stati Uniti (15.5%), Giappone e il resto dell’ASEAN sono partner più stretti di Phnom Penh, con l’UE che complessivamente si piazza al quinto posto (9%). Ciononostante, il tono sprezzante e l’affettata sicurezza di Hun Sen stridono con l’importanza che l’UE ha per lo sviluppo del Paese e l’effettiva preoccupazione degli apparati cambogiani rispetto alla revoca dell’EBA. Nei mesi precedenti alla decisione, sia i rappresentanti cambogiani sia le lobby dei gruppi industriali più presenti nel Paese (in particolare, le aziende dello sportswear e delle biciclette) si erano dati da fare per provare a dissuadere la Commissione. E anche tra gli apparati europei c’erano prospettive differenti sulla linea da prendere. Infatti, sul piano commerciale, l’EBA liberalizza il commercio internazionale “a senso unico”, ossia favorisce l’export dalla Cambogia verso l’UE, ma non viceversa. Alcune aziende europee però ne traggono beneficio. Stabilire la produzione in Cambogia portava a un doppio risparmio: manodopera a basso costo e nessun dazio. La sospensione dell’EBA spinge perciò tali aziende a investire altrove. Non tanto per dissenso verso le politiche di Hun Sen, ma, più prosaicamente, per mantenere “efficienti le catene di approvvigionamento globali”.

Sul piano più squisitamente politico, la situazione si complica ulteriormente. Bruxelles deve tenere insieme due esigenze contrapposte. Da un lato, mantenere la credibilità del GSP e, più in generale, della sua politica commerciale orientata allo sviluppo sostenibile. Ignorare gli allarmanti sviluppi in Cambogia e continuare business as usual potrebbe sembrare ipocrita… Anche se, forse, l’UE dovrebbe prendere provvedimenti simili anche verso altri Paesi per rimanere coerente. Limitandosi al GSP, ci sono molti casi di violazioni dei diritti umani, ma tutti i Paesi “controversi” hanno beneficiato di una certa flessibilità da parte europea. Tutti tranne la Cambogia. Dall’altro lato, tagliare i legami commerciali e rendere esplicita una dura condanna politica potrebbe non avere l’effetto desiderato di promuovere i valori democratici nel Paese, ma, al contrario, potrebbe spingerlo verso altri partner “meno esigenti” che forniscono aiuti senza condizionalità. Anche su questo, Hun Sen è stato abbastanza diretto: “La Cina non mi ha mai dato preoccupazioni e non ha mai minacciato né ordinato di fare qualcosa alla Cambogia. Anche gli altri partner non dovrebbero minacciare la Cambogia”.

Anche queste parole nascondono le reali preoccupazioni della leadership cambogiana. Per Phnom Penh dipendere troppo dall’ingombrante vicino potrebbe diventare un problema, quindi è meglio seguire una sorta di “politica dei due forni”: approfittare degli aiuti (per ora) senza condizioni della Cina, ma cooperare anche con Stati Uniti e i loro alleati, in modo da “diversificare” le fonti di sostegno economico e legittimazione politica. In questo senso, è interessante osservare la postura cambogiana riguardo alla guerra russo-ucraina, nettamente pro-Kyiv. Questo riavvicinamento a Washington potrebbe spingere i Paesi liberal-democratici a chiudere un occhio sulle violazioni dei diritti umani e politici in nome della realpolitik. Il pragmatismo potrebbe anche aiutare a riavviare un dialogo tra UE e Cambogia. Per il momento, Bruxelles mantiene la linea dura, ma potrebbe riconciliarsi con il Paese asiatico in futuro. Forse non in nome dei diritti, ma del pragmatismo.

L’Ambasciatore Alessandro saluta il Vietnam

Il diplomatico italiano si prepara a lasciare Hanoi. Il commiato raccontato dai media vietnamiti

In Vietnam dal novembre del 2018, l’Ambasciatore italiano Antonio Alessandro, ha effettuato la scorsa settimana due importanti visite di commiato. Nello specifico al Presidente del Comitato del Popolo di Hanoi, Tran Sy Thanh, e al Ministro degli Affari Esteri, Bui Thanh Son. “Nel corso degli anni, gli scambi interpersonali hanno favorito la fiducia e la comprensione reciproca tra il Vietnam e l’Italia in generale, e tra Hanoi e Roma in particolare, aprendo la strada a un’ampia cooperazione in campo economico, commerciale e degli investimenti”,  ha dichiarato Tran Sy Thanh. Come racconta l’Hanoi Times, ha poi espresso gratitudine all’ambasciatore per le sue preziose intuizioni e ha riconosciuto il suo contributo allo sviluppo complessivo delle relazioni bilaterali tra le due nazioni. Con l’impegno di promuovere la cooperazione, Tran Sy Thanh ha assicurato che il governo locale continuerà a facilitare le attività dell’Ambasciata italiana ad Hanoi creando condizioni favorevoli. Il media vietnamita racconta che “durante l’incontro, l’Ambasciatore Antonio Alessandro ha espresso la sua profonda gratitudine e il suo senso di appartenenza dopo aver prestato servizio in Vietnam per oltre quattro anni, affermando di sentirsi un cittadino di Hanoi”. Alessandro ha poi affermato che l’Ambasciata d’Italia ha ricevuto un eccellente sostegno e collaborazione da parte del Comitato del Popolo di Hanoi, che ha portato a notevoli risultati nei vari campi della cooperazione tra Vietnam e Italia, che spaziano dalla cultura alla società, dall’economia al commercio e al turismo. Il commercio bilaterale tra Vietnam e Italia ha registrato una crescita positiva, con le imprese italiane che partecipano sempre più attivamente al mercato del Paese del Sud-Est asiatico. L’Ambasciatore ha poi anticipato nuovi progressi nelle relazioni tra Vietnam, Hanoi e diverse località italiane. Iniziative come il Memorandum d’intesa sulla cooperazione tra Roma e Hanoi e la candidatura di Roma a ospitare l’EXPO 2030 offrono prospettive promettenti per una maggiore cooperazione. Il tutto mentre proprio quest’anno si celebra il 50esimo anniversario dell’avvio delle relazioni diplomatiche ufficiali. Concludendo il suo intervento, racconta l’Hanoi Times, “Alessandro ha affermato che sebbene il suo mandato sia ormai concluso, il suo affetto e il suo legame con Hanoi e il Vietnam dureranno a tempo indeterminato”. 

Thailandia, gli scenari sul nuovo governo

Come previsto, il leader del Move Forward Pita Limjaroenrat non è riuscito a ottenere abbastanza voti dei senatori per essere nominato primo ministro. Per la Thailandia inizia una fase di grande incertezza politica. Il parlamento torna a votare il 19 luglio: ecco quali sono gli scenari per la formazione del nuovo governo

Articolo di Francesco Mattogno

Servivano 64 voti, ne sono arrivati 13. La prima sessione congiunta del parlamento thailandese per la votazione del nuovo primo ministro si è chiusa giovedì sera senza la nomina dell’unico candidato in lizza, il leader del Move Forward, Pita Limjaroenrat. Non è stata una sorpresa.

Dopo la vittoria nelle elezioni di maggio il Move Forward ha formato una coalizione di otto partiti, raggruppando un totale di 312 seggi: più che sufficienti per avere la maggioranza alla camera bassa di 500 deputati, ma troppo pochi per eleggere il nuovo governo senza l’influenza del senato. Fino a maggio del 2024 i 250 senatori nominati dai militari hanno infatti il potere costituzionale di partecipare alle votazioni per la nomina del primo ministro, che per essere eletto ha quindi bisogno di almeno 376 voti (diventati 375 mercoledì a seguito delle dimissioni di un senatore). Un ostacolo enorme per chi propone di scuotere lo status quo filo-monarchico e filo-conservatore che quegli stessi senatori sono stati incaricati di proteggere.

La seduta parlamentare

Al di là dell’ottimismo di facciata, era chiaro sin dalla vigilia che Pita non avrebbe avuto i numeri per uscire dall’aula come trentesimo premier della Thailandia. Prima della votazione i parlamentari hanno avuto a disposizione circa sei ore per il dibattito. La coalizione a guida Move Forward è rimasta unita e ha presentato Pita come suo unico candidato primo ministro, mentre i partiti del fronte filo-conservatore non hanno proposto alcun aspirante al ruolo. Ne è risultata una sessione monotematica.

Tutti gli interventi si sono concentrati sulla legittimità di Pita e del suo partito di governare, con al centro la volontà del Move Forward di emendare la legge sulla lesa maestà, proposta che deputati conservatori e senatori hanno a più riprese ritenuto pericolosa per la stabilità del paese. Altro punto centrale nell’opposizione al leader degli arancioni è stato il procedimento legale che pende su di lui. Mercoledì, il giorno prima della votazione, la commissione elettorale thailandese ha chiesto alla corte costituzionale di squalificare Pita come deputato, accusandolo di essere stato a conoscenza della sua ineleggibilità dovuta al possesso di azioni della società di media ITV (la costituzione in questi casi vieta la possibilità di candidarsi).

Secondo l’esponente del Move Forward si tratta di un’accusa pretestuosa – ITV non opera dal 2007 -, ma intanto la corte costituzionale potrebbe sospenderlo dal parlamento in attesa del giudizio definitivo, che potrebbe anche prevedere la sua interdizione dall’attività politica e una pena da uno a tre anni di carcere. Il tribunale ha anche accettato un altro caso che chiede lo scioglimento del Move Forward a causa dell’intenzione del partito di emendare la legge sulla lesa maestà. Pita ha denunciato le tempistiche sospette dei due procedimenti, che hanno fornito l’assist ai senatori per legittimare il loro rifiuto a votare un indagato come primo ministro.

La giornata si è conclusa con 324 voti a favore della nomina di Pita, 182 contrari, 199 astenuti. Tra i favorevoli si contano 311 deputati della coalizione (il presidente della camera, Wan Muhammad Noor Matha, si è astenuto come da consuetudine) e 13 senatori. Più di 40 membri del senato non si sono invece presentati in aula.

Gli scenari principali

Sul piano formale, non c’è un limite massimo al numero di votazioni che il parlamento può tenere per nominare il primo ministro. La prossima seduta congiunta è stata fissata al 19 luglio ed è previsto che una terza eventuale sessione possa tenersi già il 20. Sul piano politico le cose stanno diversamente. «Non mi arrendo», ha detto Pita a margine del voto. Ma il supporto di cui gode da parte dei partner della coalizione potrebbe essere a tempo. Alcuni esponenti del Pheu Thai, la seconda formazione più grande dell’alleanza, hanno dichiarato che il partito lo sosterrà per tre votazioni, ma poi dovrà pensare a una via alternativa.

Gli scenari possibili sono essenzialmente quattro. Il primo prevede che – al netto dei procedimenti legali – il leader del Move Forward riesca a trovare i 64 voti necessari per essere nominato premier. I deputati del Bhumjaithai, il terzo partito più grande alla camera (71 seggi), hanno detto che voterebbero per lui nel caso in cui il suo partito abbandonasse il progetto di modificare della legge sulla lesa maestà. Cosa che il Move Forward ha categoricamente smentito. Il secondo consiste nel mantenere così la coalizione, ma far eleggere come primo ministro Srettha Thavisin, candidato del Pheu Thai ritenuto più accettabile anche della stessa Paetongtarn Shinawatra, figlia del fondatore del partito. C’è però chi sostiene che l’establishment difficilmente accetterà che il Move Forward faccia anche solo parte della coalizione di governo.

C’è quindi l’eventualità di un “tradimento”. Il Pheu Thai potrebbe lasciare la coalizione e formare un governo con le forze conservatrici e filo-miliari, una scelta che potrebbe avere conseguenze sia sul piano del sostegno popolare al partito, che su quello dell’ordine pubblico. Si ritiene che in caso di estromissione del Move Forward dall’esecutivo potrebbero scatenarsi una serie di proteste di massa da parte dei suoi sostenitori. Molto probabili anche nel caso dell’ultimo scenario, quello della formazione di un debolissimo governo conservatore di minoranza.

Le altre possibilità

Ci sono però altre possibilità. Una più estrema e complicata consiste nel prolungare a oltranza le sessioni parlamentari congiunte per la votazione del premier fino alla scadenza del mandato del senato, nel maggio del 2024. Improbabile anche perché peggiorerebbe la situazione di già grande incertezza politica ed economica della Thailandia. Per questo la coalizione pro-democrazia starebbe pensando a una soluzione alternativa.

Come riportato dal Thai Enquirer, nel pomeriggio thailandese di venerdì il Move Forward ha in programma di proporre alla camera l’emendamento dell’articolo 272 della costituzione, quello che permette al senato di votare per la nomina del primo ministro. La proposta passerebbe con il supporto di metà dei deputati della camera bassa (250) e di un terzo dei senatori (84). Secondo Piyabutr Saengkanokkul, uno dei leader del movimento progressista, diversi dei senatori che si sono astenuti dalla votazione di giovedì potrebbero accogliere la modifica, che poi potrebbe entrare in vigore nell’arco di quattro settimane.Resta uno scenario complicato. Intanto il primo ministro ad interim rimane l’ex generale golpista Prayut Chan-o-cha, al potere dal golpe del 2014. Prayut ha annunciato di volersi ritirare dalla politica, ma se la nomina del nuovo premier dovesse trascinarsi a lungo il suo governo provvisorio finirebbe per dover prendere decisioni importanti, come quelle riguardanti il budget per il 2024 e il rimpasto dell’esercito e delle forze di polizia. L’instabilità politica è inoltre da sempre un pretesto, in Thailandia, per “riportare l’ordine” con un colpo di Stato. Ipotesi che nessun osservatore delle faccende thailandesi si sente mai di escludere del tutto.

I problemi di Barbie & co. con le mappe in Vietnam

Raffigurare il Mar Cinese Meridionale è una cosa delicata, viste le dispute territoriali tra alcuni Paesi dell’ASEAN e la Cina. E talvolta capita che film o band abbiano dei problemi 

Sarà anche uno “scarabocchio infantile”, come lo ha definito Warner Bros, ma tanto basta. La mappa che compare alle spalle di Barbie in una scena del trailer è stata sufficiente a far rimuovere il film dalle sale cinematografiche vietnamite. E non sono nemmeno nove tratti, ma otto. La loro posizione, accanto ad un parallelepipedo abbozzato con la scritta “Asia” trasmette un’immagine inequivocabile: quella è la “nine-dash line”, la linea di demarcazione di quei territori nel Mar Cinese meridionale che la Cina rivendica come suoi. 

Prima sono scomparsi i poster dai cinema, poi lunedì 26 giugno è arrivata la notizia definitiva: il film di Greta Gerwig non verrà distribuito “a causa di alcune scene raffiguranti la mappa con la nine-dash line , considerata una violazione della sovranità territoriale del Vietnam”. Parola del Consiglio nazionale per la valutazione e la classificazione dei film. Anche i social hanno favorito la prospettiva governativa: rammaricati ma infuriati con i produttori, i netizen vietnamiti si sono altrettanto dimostrati offesi dalla cartina pro Cina.

Anche Manila ha considerato l’opzione della censura totale. “La mappa legittima le rivendicazioni cinesi, che nessun governo al mondo sostiene” ed è “offensiva per tutti” i paesi della regione, sostiene l’analista militare José Antonio Custodio. Si tratta di mercati minori, ma non così indifferenti, spiega Hollywood Reporter: un cult hollywoodiano nelle Filippine e in Vietnam può aggiungere al bilancio di Warner Bros tra i cinque e i dieci milioni di dollari. Un bel rischio se l’orgoglio nazionale iniziasse a contagiare i paesi limitrofi. L’arcipelago asiatico, d’altronde, ha fatto da capofila all’istanza del 2016 presso il tribunale internazionale dell’Aia che denunciava le incursioni cinesi e chiedeva il rispetto della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (UNCLOS).

Nazionalismo pop

Non è certo la prima volta che la “lingua di mucca” (đường lưỡi bò), come viene comunemente chiamata la nine-dash line dai vietnamiti, fa strage di icone pop e film d’importazione. Uno dei casi più chiacchierati era stato quello di Uncharted, pellicola d’azione in uscita ad aprile 2022 e poi mai approvata per la proiezione a causa – ancora un volta – della mappa della discordia. 

La stessa “svista” nel 2019 è costata ben 170 dollari di multa al distributore di film vietnamita CJ CGV: aveva commercializzato Il piccolo Yeti, un cartone animato firmato DreamWorks finito nel mirino di Filippine, Vietnam e Malesia per la stessa ragione. Il 2019, d’altronde, è stato uno degli anni di maggiore tensione nel Mar cinese meridionale, causata dalle operazioni del vascello cinese Haiyang Dizhi 8 nei dintorni delle isole Spratly. 

La nine-dash line, che si prende circa il 90% dei tre milioni di chilometri quadrati di acque che bagnano l’Asia continentale sud-orientale, ha fatto infuriare il governo filippino con Netflix per la sua comparsa in alcune scene della serie australiana Pine Gap. Tanto che il gigante dello streaming ha proceduto con la loro rimozione dalla piattaforma. 

Dall’altra parte, affermano i critici, ci sarebbe un continuo processo di autocensura e condiscendenza nei confronti della Cina da parte dei giganti dell’industria culturale. Tra investimenti milionari nelle case di produzione Usa in arrivo dalla Rpc e l’evidente preponderanza del mercato cinese – il secondo al mondo per ampiezza – ecco che anche Hollywood sarebbe incline alle sottigliezze del soft power cinese. 

Nel 2016 ci avevano pensato un gruppo bipartisan di sedici membri del Congresso a denunciare il giro di affari cinesi intorno all’industria dell’intrattenimento statunitense, ottenendo il consenso del Comitato sugli investimenti esteri negli Stati Uniti (CFIUS). Nei paesi ASEAN, almeno in quelli più agguerriti nei confronti delle incursioni cinesi nelle aree rivendicate, il processo è meno complicato: ci pensa direttamente il governo.

Non solo cinema

La battaglia retorica non si limita alla sfera cinematografica. Inizialmente denunciata sui social, la controversa grafica sul sito degli organizzatori della tappa vietnamita del gruppo k-pop Blackpink ha generato le stesse minacce di boicottaggio. l’impresa, iMe Entertainment Group Asia, ha presto risposto alle richieste del ministero della Cultura promettendo di rimuovere la mappa del tour. E spiega in un comunicato: “La mappa non rappresenta nello specifico il territorio di alcun paese, siamo consapevoli e rispettiamo la sovranità e la cultura di ogni paese”.

Hanoi non ha ceduto neanche quando è stato il turno di validare i visti di ingresso nel paese sui nuovi passaporti cinesi. Nel 2012 tali passaporti riportavano chiaramente la mappa che dal 1949 giustificherebbe la storica appartenenza dei territori del Mar Cinese Meridionale alla Cina. E il Vietnam ha quindi chiesto di rilasciare dei documenti a parte, anziché timbrare le pagine dedicate.

In paesi come il Vietnam, la cultura è una delle valvole di sfogo concesse dal Partito. È stato il caso dell’ondata di manifestazioni che nel 2011 e nel 2014 ha portato masse di cittadini arrabbiati per le strade delle principali città vietnamite, il tutto per protestare contro le manovre cinesi nelle aree rivendicate di Hoàng Sa (Isole Paracelso) e Trường Sa (Isole Spratly). 

Abbassare il linguaggio del nazionalismo all’industria della cultura potrebbe permettere anche questo. Cosa meglio di un successo cinematografico globale per accendere la fiamma della partecipazione pubblica dove poche – se non nulle – sono le sedi del dissenso? Un processo che avviene, al contrario, in Cina, dove delle definizioni geografiche su una t-shirt possono far scattare la messa al bando di un brand. 

Il filosofo Alfred Korzybski sosteneva che “la mappa non è il territorio”, ma un costrutto ideologico. Per i paesi asiatici che si affacciano sul Mar Cinese Meridionale la mappa è qualcosa di più: una storia sempre necessaria, e mai uno “scarabocchio”.

I fondali della diplomazia

Tra i progetti più ambiti sul fronte dei cavi sottomarini c’è il Sud-Est asiatico-Medio Oriente-Europa occidentale 6, o SeaMeWe-6, che collega la Francia a Singapore, toccando una dozzina di altri Paesi

Articolo di Chiara Suprani

Tra le forme che i Paesi adottano per indirizzare la loro “economic diplomacy”, ce n’è una meno popolare dei semiconduttori, ma altrettanto centrale: si trova sott’acqua, e collega continenti con la “sola” forza di un cavo. Sono le reti di cavi di telecomunicazione sottomarini, diventate negli anni infrastrutture critiche per l’economia digitale, per il traffico di dati internazionali ma anche per la logistica. Anche l’Italia ha in progetto un proprio cavo sottomarino: si chiama Unitirreno, e collega Genova a Mazara Del Vallo, garantendo l’accesso ad un centro dati “carrier-neutral”, ossia non appartenente a nessuna compagnia di telecomunicazioni. I cavi sottomarini rendono le connessioni più veloci, diluiscono il traffico dati e permettono un miglior funzionamento delle telecomunicazioni e delle fasi digitali di innumerevoli settori economici. E fa tanto parte della rete un cavo, quanto ne fa parte un nodo. 

Tra questi nodi c’è Singapore, che ha all’attivo 25 cavi sottomarini operativi, i quali la rendono il più grande hub di connessione ethernet subacquea della regione. E oltre ai già pianificati 14 futuri progetti, la città stato nei prossimi anni raddoppierà il numero dei punti di aggancio dei cavi, tramite investimenti di miliardi di dollari. 

Aziende come Meta, Google assieme a Paesi come i Quad, quali Australia, Giappone, India e Stati Uniti hanno puntato il mirino su Singapore, i primi investendo in progetti chiamati Echo e Bifrost, entrambi saranno terminati il prossimo anno ed Echo collegherà per la prima volta Singapore direttamente agli Stati Uniti; i secondi siglando un nuovo accordo per l’aumento dei cavi ethernet sottomarini nell’Indo Pacifico. 

Ed in quanto infrastrutture critiche, non è passata inosservata nemmeno la loro fragilità. Spesso i cavi ethernet sottomarini sono stati soggetti e vittime di dispute diplomatiche tra paesi: per Wired, la rete globale di cavi sottomarini costituisce la maggior parte dello scheletro di internet al giorno d’oggi, insostituibile anche dal famigerato progetto Starlink di Elon Musk. Con l’aumento del numero di cavi sottomarini, si sono venuti a creare degli hub, che sono allo stesso tempo “choke points” o punti di rottura, come nel caso dell’Egitto da cui passa il 17% di tutto il traffico internet del mondo. Simile potrebbe essere il destino di Singapore, che dovrà garantire un traffico dati ininterrotto ed dimostrarsi una risorsa affidabile. La città stato dovrà elaborare un piano di intervento per la mitigazione dei disastri come quelli che hanno coinvolto le Isole Salomone nel 2018, gli Stati Federati della Micronesia nel 2021 e le Isole Matsu nel febbraio di quest’anno.Tra i progetti più ambiti c’è il Sud-Est asiatico – Medio Oriente – Europa occidentale 6, o SeaMeWe-6, che collega la Francia a Singapore, toccando una dozzina di altri Paesi. Un progetto al centro della competizione tra Stati Uniti e Cina, che collocherà Singapore ancora di più nel cuore della diplomazia mondiale.

L’ASEAN guiderà il prossimo decennio di commercio globale

Il Sud-Est asiatico è destinato a diventare uno dei principali centri di crescita dei prossimi anni. Lo sostiene un nuovo report di Standard Chartered Bank

“Il commercio globale si sta spostando sempre più verso l’Asia, mentre emergono corridoi ad alta crescita all’interno della regione e verso nuovi mercati in Africa e Medio Oriente. Il blocco dei Paesi del Sud-Est asiatico che fanno parte dell’ASEAN è ovviamente in cima alla lista, con il commercio tra gli Stati membri del blocco destinato ad accelerare a quasi il 9 per cento annuo nel prossimo decennio”. Lo sostiene con decisione Michael Spiegel, responsabile globale del settore Transaction Banking di Standard Chartered Bank, in un commento pubblicato sul Business Times. “Se da un lato queste tendenze segnalano grandi opportunità, dall’altro le imprese si trovano ad affrontare una policrisi, ovvero un insieme di sfide interdipendenti, dall’aumento delle tensioni geopolitiche, dell’inflazione e dei prezzi dell’energia alla necessità sempre più urgente di affrontare i rischi climatici”, scrive Spiegel. Secondo l’esperto di Standard Chartered Bank, “per avere successo, le aziende devono agire ora, collegandosi a nuovi mercati per diversificare sia l’approvvigionamento che la produzione per ottenere catene di approvvigionamento più resilienti. La sostenibilità è sempre più un imperativo sia per gli investitori che per i consumatori, il che rende la conformità ambientale, sociale e di governance (ESG) più urgente che mai, non solo per le società di capitale ma anche per i loro fornitori”. Spiegel sostiene che “le aziende devono bilanciare gli obiettivi di crescita con catene di approvvigionamento resilienti e sostenibili. Devono identificare e connettersi alle opportunità di crescita, quindi eseguire un piano di crescita sostenibile e resiliente”. L’esperto di Standard Chartered Bank conclude ponendo una domanda precisa alla quale propone una risposta altrettanto precisa: “Quindi, dove saranno gli hub di crescita del futuro? Noi siamo convinti che saranno in Asia, Africa e Medio Oriente, che sono destinati a spingere le esportazioni globali da 21.000 miliardi di dollari a 32.600 miliardi di dollari entro il 2030, secondo il nostro nuovo rapporto Future of Trade di Standard Chartered Bank”.

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