Shangri-La Dialogue, l’ASEAN chiede pace

Durante il summit sulla sicurezza dell’Asia-Pacifico di Singapore, è stata ribadita la centralità dell’ASEAN, i cui Paesi chiedono maggiore dialogo a livello internazionale

Editoriale a cura di Lorenzo Lamperti

“Il Sud-Est asiatico ha pagato più di altri le devastanti conseguenze dello scontro tra grani potenze. Non vogliamo che questo accada di nuovo”. Ng Eng Hen, il ministro della Difesa di Singapore, lo dice chiaramente nel suo discorso durante l’ultima sessione plenaria dello Shangri-La Dialogue, il massimo summit sulla sicurezza dell’Asia-Pacifico che si è svolto nella città-stato dal 2 al 4 giugno. Singapore e in generale l’area ASEAN si conferma ancora una volta cruciale crocevia della diplomazia globale. In un momento a dir poco complicato, tra guerra in Ucraina e le tensioni tra Stati Uniti e Cina, il Sud-Est fa sentire la sua voce chiedendo saggezza ai leader mondiali. “Le spese militari stanno aumentando in modo esponenziale anche in Asia-Pacifico”, dice il ministro di Singapore. “Non è una fonte di instabilità in sé, ma in assenza di un dialogo adeguato tra le potenze allora rischia di portare a una corsa al riarmo che può destabilizzare l’intera regione”. Durante gli incontri, a cui hanno partecipato anche il segretario alla Difesa degli Stati Uniti, Lloyd Austin, e il ministro della Difesa cinese, Li Shangfu, è stata menzionata più volta la “centralità dell’ASEAN” e la bontà della sua ASEAN way. E tutti i rappresentanti dei Paesi del Sud-Est asiatico hanno sottolineato la loro volontà di mantenere i rapporti sia con Washington sia con Pechino, promuovendo un multilateralismo basato su commercio e regole internazionali. Ma anche e soprattutto sul dialogo. “Sia Austin sia Li hanno garantito che Stati Uniti e Cina non chiedono ai Paesi ASEAN di scegliere da che parte stare, ma noi auspichiamo anche che questi due Paesi possano tornare a parlare tra loro”, ha detto Ng Eng Hen. “Entrambi sono da tempo in Asia-Pacifico ed entrambi non se ne andranno. Bisogna trovare o ritrovare il modo per garantire stabilità e sicurezza alla regione”. Lo stesso concetto espresso anche dall’IISS, l’istituto internazionale che organizza da 20 anni lo Shangri-La Dialogue a Singapore, dove si sono peraltro incontrati a porte chiuse anche i capi dell’intelligence di diversi Paesi, Stati Uniti e Cina compresi. A riprova, ancora una volta, di come Singapore e il Sud-Est garantiscano una eccezionale piattaforma di confronto. Se il futuro del mondo si scriverà (anche o soprattutto) in questa regione, forse sarebbe il caso di ascoltarla.

‘In quale porto dirigersi’: geografia ed economia dei porti ASEAN

Il mare è il luogo naturale della globalizzazione. La maggioranza delle merci si sposta via mare. L’efficienza nel muovere i container, unita a una posizione strategica e ai rapporti economico-politici, fa la fortuna dei porti dell’Asia orientale. Tra i 50 porti più attivi al mondo, nove sono nell’ASEAN e 18 in Cina.

Per chi non sa in quale porto dirigersi, nessun vento va bene. Anche se questa massima di Seneca proviene da una “epistola morale”, potremmo restituire la metafora al suo contesto di partenza – la navigazione – e trarne un nuovo, attuale, insegnamento. Il commercio marittimo globale risponde oggi a logiche in parte diverse da quelle dei tempi del Mare Nostrum romano. Se, da un lato, le condizioni ambientali (vento, correnti, distanza del viaggio in mare) influenzano meno le colossali navi portacontainer, la scelta del porto di approdo rimane essenziale per chi deve disegnare le rotte commerciali. Il mare è ancora la principale via di scambio delle merci: secondo i dati dell’UE, più del 50% del suo commercio esterno si è spostato via nave nel 2021. Un altro dato interessante è che, nella classifica dei primi 50 porti del mondo, 18 sono cinesi (il primo è Shanghai e altri sei porti cinesi occupano la top ten), nove sono nei Paesi ASEAN (il secondo a livello mondiale è Singapore) e sette sono europei.

Non è una sorpresa che i porti asiatici siano così numerosi nella classifica. Il titolo di ‘fabbrica del mondo’ può essere riconosciuto ormai non solo alla Cina, ma a buona parte del continente. Il dragone è affiancato da un sempre più numeroso gruppo di tigri. Secondo l’UNCTAD, nel 2021 i porti asiatici hanno scaricato e caricato, rispettivamente, il 64% e il 42% di tutte le merci mondiali per tonnellata. È interessante osservare che in Asia, così come in Europa (Russia inclusa), le merci scaricate (quindi importate) sono più di quelle caricate. Tale dato va accompagnato a un’altra recente tendenza del commercio via nave. Nel 2015, i paesi in via di sviluppo asiatici esportavano più tonnellate di merci di quante ne importavano, mentre il contrario avveniva nei paesi sviluppati. I dati del 2021 dimostrano che tale rapporto si è invertito. Sempre secondo l’UNCTAD, tale cambiamento può spiegarsi alla luce del fatto che i mercantili traportano sempre più dry cargo (ossia colli ‘secchi’ nei container) al posto di tanker cargo (ossia merci ‘in cisterna’, come prodotti petroliferi raffinati, chimici e gas). Se, negli anni Settanta, più della metà delle stive era occupata da tanker cargo, quindi in buona parte da materie prime e prodotti a bassa elaborazione, oggi tre quarti dei carichi è occupata da dry cargo, una categoria molto più vasta che include, tra le altre cose: minerali, componentistica, macchinari avanzati, prodotti di consumo…

Le economie asiatiche ed europee, dunque, sono affamate di prodotti per il proprio consumo interno e, soprattutto, per trasformarli in altri, più avanzati, beni da rivendere in altri mercati. Nell’ASEAN, Singapore spicca come grande porto mondiale, seguendo un destino già tracciato durante la dominazione coloniale britannica. Nel 1819, Sir Thomas Stamford Raffles acquistò l’isola dal Sultano di Johore per fondare un insediamento e competere, da una posizione strategica, con il vicino porto di Malacca, sotto il controllo neerlandese, per i traffici degli Stretti. Poco dopo l’acquisto, Raffles scrisse: “Singapore è un porto libero, aperto alle navi e ai vascelli di ogni nazione, senza distinzioni”. Raffles è ricordato positivamente nella Città del Leone ed è considerato il fondatore della moderna Singapore più che un colonizzatore. Oltre a determinare la vocazione commerciale della futura città-stato, a lui si deve il primo piano urbanistico e infrastrutturale per aprire l’isola al commercio internazionale. L’intuizione di Raffles e dei britannici, sul cui solco si è mosso anche Lee Kuan Yew, primo leader della Singapore indipendente, e la posizione strategica dell’isola rappresentano le radici del successo di questo porto. Sono però le scelte industriali più recenti ad aver consolidato la sua fortuna: l’infrastruttura portuale continua ad essere ingrandita e modernizzata. Nei prossimi due decenni, proseguiranno i lavori per l’espansione del ‘megaporto’ Tuas, seguendo un progetto in quattro fasi. Solo la prima fase, conclusasi nel 2021, è costata 1.76 miliardi di dollari. Il porto può anche contare su una efficace governance basata sulla collaborazione tra Governo e privati e sulla fitta rete di accordi di libero scambio conclusi da Singapore, tra cui uno con l’UE.

Nella classifica dei 50 principali porti mondiali figurano poi i malesi Port Klang (12° posto) e Tanjung Pelepas (19°), entrambi sullo Stretto di Malacca. Seguono il porto thailandese di Laem Chabang (20°) e quello di Giacarta, Tanjung Priok (23°). In Vietnam, la regione di Ho Chi Minh è servita dal porto della città sulla foce del Mekong (26°) e da quello di Cai Mep (50°), mentre il distretto industriale di Hanoi si appoggia al porto di Hai Phong (33°). La capitale filippina Manila è invece al 31° posto. La principale ragione del successo dei porti dell’ASEAN e del resto dell’Asia orientale è da ricercarsi nell’efficienza con cui le infrastrutture portuali riescono a caricare e scaricare i container dalle navi per trasferirli su un’altra imbarcazione o su un altro mezzo di trasporto, come emerge dal Global Container Port Performance Index (CPPI) curato dalla Banca Mondiale. L’efficienza logistica può rendere un porto un grande hub dei flussi commerciali anche se l’economia del suo ‘entroterra’ ricopre un ruolo relativamente piccolo nell’economia o nella manifattura (si pensi a Singapore) globali. Viceversa, le aziende potrebbero far circolare le proprie merci attraverso i porti di un altro Paese se quelli più vicini geograficamente non sono altrettanto puntuali e affidabili per tempistiche. In conclusione, sembra quasi che “sapere in quale porto dirigersi” sia più importante di avere il “vento a favore”, ossia raggiungere il porto più vicino. Alla luce di questa riflessione, possiamo leggere anche i dati sui porti UE. Nella classifica mondiale, spiccano i tre porti di Rotterdam (10° posto), Anversa (14°) e Amburgo (18°), tutti e tre sul Mare del Nord e collocati su un fiume. Queste tre città rappresentano la principale via di scambio tra la “banana blu” europea e il resto del mondo. Oltre all’efficienza, un fattore che influisce sempre più nella scelta del porto da parte delle aziende è la sostenibilità: ridurre le emissioni prodotte dal trasporto è un passo necessario per raggiungere la neutralità carbonica della catena di approvvigionamento. Anversa, ad esempio, è un “porto sostenibile” riconosciuto a livello internazionale. E nel Mediterraneo? Nella classifica compaiono dei casi interessanti come il Pireo di Atene (28° posto) e le città spagnole di Valencia (30°) e Algeciras (34°). Il Pireo deve la sua importanza agli scambi con l’Asia ed è al centro di una delicata questione politica dato che, nei piani della Cina, dovrebbe diventare il punto di attracco in Europa per la sua Belt and Road Initiative. Algeciras invece, oltre alla posizione strategica sullo Stretto di Gibilterra, può vantare di essere il primo porto europeo per efficienza nella già menzionata classifica CPPI della Banca Mondiale. I porti italiani e francesi sono invece assenti dalla top 50. Nonostante il Mediterraneo sia ancora al centro dei traffici marittimi globali, i porti italiani dovrebbero modernizzare le loro infrastrutture e rafforzarsi sul piano logistico per poter competere con gli altri porti mondiali.

La corsa al nichel dell’Indonesia

Sempre più Paesi e investitori internazionali guardano con attenzione alle enormi risorse minerarie di Giacarta

Articolo di Tommaso Magrini

Nel 2022 l’Indonesia ha prodotto 1,6 milioni di tonnellate di nichel, più di qualsiasi altro Paese. È a pari merito con l’Australia per le maggiori riserve mondiali, con 21 milioni di tonnellate. Nella speranza di far risalire il suo Paese nella catena del valore delle materie prime, nel 2020 il governo del presidente Joko  Widodo ha vietato le esportazioni di minerale di nichel non lavorato. Diversi governi e multinazionali si stanno muovendo con sempre maggiore decisione per assicurarsi l’accesso alle vaste riserve di nichel indonesiane. Il produttore di acciaio sudcoreano POSCO Holdings ha dichiarato di voler spendere 441 milioni di dollari per costruire una raffineria di nichel sull’isola indonesiana di Halmahera, nella provincia di North Maluku. L’inizio della costruzione è previsto per la fine dell’anno, con l’obiettivo di iniziare le operazioni nel 2025. La raffineria di POSCO produrrà intermedi di nichel da utilizzare nelle batterie ricaricabili che potrebbero alimentare l’equivalente di 1 milione di veicoli elettrici. Il produttore chimico tedesco BASF e l’azienda mineraria francese Eramet investiranno 2,6 miliardi di dollari in una raffineria a North Maluku, che produrrà un composto di nichel-cobalto utilizzato nelle batterie EV. Gli investimenti diretti esteri nel settore metallurgico indonesiano hanno raggiunto circa 10,9 miliardi di dollari nel 2022, con quasi il 60% proveniente dalla Cina continentale e da Hong Kong. Gli operatori indonesiani stanno intanto muovendosi per quotarsi in borsa. Meglio conosciuta come Harita Nickel, Trimegah si è quotata in borsa il 12 aprile, raccogliendo quasi 10.000 miliardi di rupie (673 milioni di dollari), una delle più grandi offerte pubbliche iniziali dell’anno. Merdeka Battery Materials, una fonderia di nichel sotto l’ombrello di Merdeka Copper Gold, ha condotto la propria IPO poco dopo, raccogliendo 9,2 trilioni di rupie. Merdeka Battery collabora con un’unità del gigante cinese delle batterie Contemporary Amperex Technology (CATL).

Il nuovo treno tra Laos e Cina

Con la linea ad alta velocità tra Kunming e Vientiane inizia un più ampio progetto di collegamento tra la Repubblica Popolare e il Sud-Est asiatico

Di Lorenzo Riccardi, Managing Partner RsA Asia

Ad aprile 2023 è stato inaugurato il primo treno passeggeri ad alta velocità tra la Cina e il Sud-Est asiatico, che collega la città di Kunming, capoluogo della provincia cinese dello Yunnan, e Vientiane, capitale del Laos. Il viaggio ha una durata di circa dieci ore e percorre 1.035 chilometri.

La ferrovia è un progetto che fa parte dell’iniziativa Belt and Road, ha avuto un costo di 6 miliardi di dollari, ed è entrata in funzione nel dicembre 2021 limitatamente al transito di merci transfrontaliero e nell’aprile 2023 per il trasporto passeggeri. La rete ad alta velocità ha l’obiettivo di promuovere il movimento di persone e beni tra la Cina meridionale ed il Sudest asiatico, facilitando il commercio e la logistica nella regione.

Questo progetto ha un valore storico e segue le iniziative di collegamento della regione che in passato videro anche i paesi europei protagonisti, infatti, ad inizio ‘900 fu realizzata una ferrovia che collegava la città di Yunnanfu, nella provincia cinese dello Yunnan, ad Hanoi in gran parte realizzata da aziende, operai, e tecnici italiani.

La nuova ferrovia Kunming-Vientiane permetterà di aumentare gli scambi e gli investimenti a livello bilaterale e regionale con nuovi posti di lavoro nell’area e la ripresa del settore turistico, anche grazie al nuovo flusso di viaggiatori cinesi. La Banca Mondiale stima che il prodotto interno lordo del Laos aumenterà del 21% a seguito della costruzione della ferrovia.

Nel primo quadrimestre del 2023 la regione ASEAN si è confermata primo partner commerciale di Pechino con un interscambio pari a 304,6 miliardi di dollari, di cui 185,2 miliardi di dollari in esportazioni verso l’ASEAN e 119,5 miliardi di dollari di importazioni in Cina. Rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, è stato registrato un incremento nel volume di trade aggregato del 6 per cento e nell’export dalla Cina ai paesi del Sudest asiatico pari al 15 per cento.

Questo è il primo segmento di un progetto più grande che porterà a collegare con 5.500 chilometri di rete ad alta velocità Pechino con Singapore attraverso Laos, Thailandia, Malesia e collegando le capitali Vientiane, Bangkok, Kuala Lumpur e Singapore per promuovere la logistica della regione, il commercio e il turismo.

Dalla transizione energetica un nuovo inizio tra Thailandia e Arabia Saudita

Il colosso thailandese PTT punta alla produzione di idrogeno verde e alla ripartenza dei rapporti diplomatici con l’Arabia Saudita.

Il colosso petrolifero statale thailandese, PTT Group, investirà sette miliardi di dollari in idrogeno verde con la principale società di energia rinnovabile dell’Arabia Saudita, ACWA Power, puntando contemporaneamente alla decarbonizzazione e alla ripartenza dei rapporti diplomatici tra i due Paesi.
L’investimento fa parte dei diversi approcci adottati da PTT Group per trovare un equilibrio tra la riduzione delle emissioni e il mantenimento della redditività. L’accordo si rivelerebbe anche un passo importante nel ripristino delle relazioni diplomatiche tra i due regni, interrotte per circa 32 anni fino a gennaio 2022. Le due società, unite dall’Autorità Statale per la Generazione di Energia Elettrica della Thailandia, hanno firmato a novembre un memorandum d’intesa per avviare il progetto. L’impegno di investimento di sette miliardi di dollari si profila come un ulteriore passo avanti nella sua realizzazione.

Auttapol Rerkpiboon, il CEO di PTT, ha affermato che il progetto mira a costruire un impianto in Thailandia con una capacità produttiva di 225.000 tonnellate di idrogeno all’anno, il primo provvedimento necessario a far diventare la Thailandia un esportatore internazionale, nonché il principale fornitore ASEAN, di energia verde. Il piano d’investimento servirà all’identificazione dell’idrogeno verde come futura fonte di energia per creare domanda e alimentare sempre più l’utilizzo di veicoli elettrici nella regione.

A differenza dell’idrogeno “marrone” e “grigio”, la cui generazione prevede combustibili fossili, l’idrogeno verde si ottiene utilizzando esclusivamente fonti energetiche rinnovabili e, di conseguenza, genera zero emissioni. Sulle orme di molti altri Paesi, come l’Arabia Saudita, il Kazakistan, Singapore e l’Australia, anche la Thailandia sta investendo importanti risorse economiche nella produzione di idrogeno verde su scala gigawatt. La strategia net-zero di PTT si allinea così agli impegni del governo thailandese per raggiungere la neutralità del carbonio entro il 2050 e le emissioni net-zero di gas serra entro il 2065. Tuttavia, l’utilizzo dell’idrogeno verde su scala industriale richiede due fattori fondamentali – elevata capacità e basso costo del capitale – per abbassare i prezzi a un livello competitivo e incoraggiare le persone a smettere l’uso di combustibili fossili. In tal senso, PTT sta provando a generare ecosistemi di offerta per aumentare la domanda. La sua controllata PTT Oil and Retail ha stretto una partnership con Bangkok Industrial Gas, Toyota Daihatsu Engineering & Manufacturing e Toyota Motors, per creare stazioni di ricarica dell’idrogeno nel corridoio economico orientale del regno, una zona industriale speciale nel distretto di Bang Lamung, nella provincia di Chonburi. La stazione dovrebbe servire veicoli a celle a combustibile che saranno utilizzati come limousine dall’aeroporto di U-Tapao verso le famose destinazioni turistiche di Pattaya, Chonburi e aree circostanti.L’investimento negli impianti di produzione di idrogeno verde aiuterà sicuramente a sanare le relazioni tra la Thailandia e il regno saudita decenni dopo che i loro legami furono raffreddati dal Blue Diamond Affair, iniziato con il furto di gioielli dal palazzo di un principe saudita ad opera del giardiniere tailandese Kriangkrai Techamong nel 1989. Un furto dal valore di 20 milioni di dollari, tra cui un diamante blu da 50 carati. I due Paesi hanno raggiunto un disgelo diplomatico solo nel gennaio 2022, quando il primo ministro Prayuth Chan-ocha ha effettuato la prima visita di un capo di governo in oltre tre decenni. Dopo la ripresa delle relazioni, un ulteriore segnale dell’avvenuto disgelo tra i due Paesi, è arrivato dal colosso petrolifero statale saudita Aramco, che ha incrementato a PTT Group la fornitura di greggio, prodotti petrolchimici e gas naturale liquefatto.

La missione italiana in Thailandia

Di Maria Tripodi, Sottosegretario di Stato agli Affari Esteri e alla Cooperazione Internazionale

Dal 16 al 18 maggio sono stata in missione in Thailandia per partecipare alla 79a sessione della Commissione Economica e Sociale delle Nazioni Unite per l’Asia e il Pacifico (ESCAP) e per incontri bilaterali, in concomitanza con la tappa nel Paese del Pattugliatore Polivalente d’Altura “Francesco Morosini”. È stata la mia prima visita in Thailandia, nonché la prima di un membro di Governo italiano dal 2018, a riprova della rinnovata attenzione dell’Italia per un attore chiave dell’Indo-Pacifico. Alla Commissione ESCAP sono intervenuta sul tema “Disaster Resilience: Early Warnings for All in Asia and the Pacific”. L’Italia è in prima linea nella lotta ai cambiamenti climatici e nella gestione dei disastri naturali nella regione e sostiene, con un contributo di 260.000 euro, il “Multi-Donor Trust Fund for Tsunami, Disaster and Climate Preparedness” di ESCAP. Tale impegno è stato molto apprezzato dall’Under-Secretary-General dell’ONU e Segretaria Esecutiva ESCAP, Armida Salsiah Alisjahbana, a cui ho rinnovato l’intenzione di continuare a lavorare insieme per l’attuazione dell’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile. La sessione è stata anche l’occasione per promuovere la candidatura di Roma a EXPO 2030, nel corso di brevi incontri con alcuni nostri partner dell’area (Tuvalu, Palau, Samoa).

Ho poi avuto un proficuo colloquio con il Vice Ministro degli Affari Esteri, Vijavat Isarabhakdi: nel 155° anniversario di relazioni diplomatiche tra Italia e Thailandia, abbiamo auspicato che i nostri profondi rapporti possano continuare a rafforzarsi grazie anche alla prossima apertura dell’Istituto italiano di Cultura, alle borse di studio offerte dal Governo italiano e agli ottimi risultati raggiunti nel 2022 dal nostro interscambio bilaterale (+21%), che potrà beneficiare anche dell’Accordo di libero scambio UE-Thailandia, i cui negoziati sono stati di recente riavviati. L’Italia è sempre più apprezzata in Thailandia, come ho avuto modo di constatare in occasione della visita alla fiera “Future Energy Asia” (uno dei principali eventi regionali nel settore energetico) e dell’accoglienza riservata al pattugliatore Morosini, eccellenza della nostra Difesa, un settore in cui è possibile rafforzare la collaborazione bilaterale.

Il prossimo “High-Level Dialogue on Italy-ASEAN Economic Relations”, che si terrà a Bangkok in autunno, sarà l’occasione per approfondire la collaborazione con la Thailandia e con l’ASEAN in settori strategici: farmaceutico, agro-alimentare, moda, spazio, energie rinnovabili, difesa.

Laos e Vietnam puntano sull’energia eolica

I Paesi dell’ASEAN stanno facendo progressi nel loro impegno verso le energie rinnovabili. In questa strategia l’energia eolica sta diventando sempre più importante.

Secondo un rapporto del Southeast Asia Energy Outlook 2022, negli ultimi vent’anni la domanda di energia nel Sud-Est asiatico è aumentata in media del 3% all’anno. Si prevede che questa tendenza continui fino al 2030. Sebbene la pandemia di Covid-19 abbia rallentato lo sviluppo economico della regione, il rapporto prevede che il PIL della regione crescerà in media del 5% all’anno fino al 2030, per poi scendere a una media del 3% fino al 2050. L’energia svolge un ruolo fondamentale in questa crescita economica. Dalla metà degli anni Novanta, la regione ha fatto grande affidamento sulle importazioni di petrolio dal Medio Oriente e dall’Africa. Se le politiche attuali rimarranno invariate, le importazioni di petrolio aumenteranno. Tuttavia, le recenti impennate dei prezzi e la crisi ucraina potrebbero avere un impatto a lungo termine sull’utilizzo del gas naturale nella regione, influenzando la percezione pubblica dell’accessibilità economica e l’atteggiamento dei governi nei confronti degli investimenti in infrastrutture per l’importazione di gas.

In questo contesto, i Paesi dell’ASEAN stanno facendo progressi verso il loro impegno per le energie rinnovabili. Infatti, nel 2020/2021, hanno aggiornato i loro obiettivi NDC e hanno piani per raggiungerli entro anni specifici. Ad esempio, la Thailandia mira a ridurre le emissioni di gas serra del 20-25%, mentre l’Indonesia punta a una riduzione del 29-41% entro il 2030. Altri Paesi hanno fissato i loro obiettivi e attuato strategie per raggiungerli. Durante la COP26, 8 dei 10 Paesi dell’ASEAN hanno annunciato la loro volontà di raggiungere obiettivi netti zero, il primo entro il 2050 e il secondo entro il 2065. Per raggiungere questi obiettivi, i governi dell’ASEAN stanno diversificando le risorse energetiche rinnovabili. Tra queste, l’energia eolica sta diventando sempre più importante.

Prima del COVID-19, si prevedeva che la domanda di elettricità in Vietnam sarebbe aumentata del 10% all’anno. Secondo le previsioni, entro il 2050 la domanda dovrebbe quintuplicare il livello attuale. Pertanto, è essenziale diversificare le tecnologie per le energie rinnovabili e impegnarsi con i partner e i governi locali. Al momento, in Vietnam, il governo sta dando priorità all’energia eolica rispetto a quella solare. Con una linea costiera di oltre 3.000 km, l’energia eolica offshore offre eccellenti opportunità. Il Vietnam ha un potenziale tecnico di 599 GW, superiore a quello di altri Paesi del Sud-Est asiatico. Il governo ha intrapreso azioni tempestive per stimolare la crescita dell’energia eolica, aggiornando i meccanismi di sostegno e introducendo un modello di partnership pubblico-privato. L’impegno del Vietnam per la decarbonizzazione è promettente e l’energia eolica ha un immenso potenziale di crescita. 

Tuttavia, per il momento la capacità di generazione del Vietnam non è in grado di soddisfare il suo fabbisogno energetico e l’obiettivo di emissioni nette zero entro il 2050. Vietnam e Thailandia hanno infatti fissato l’obiettivo di raggiungere l’azzeramento delle emissioni di gas serra entro il 2050. Il Laos sta cercando di capitalizzare questa domanda. La crescente domanda di energia rinnovabile nei Paesi limitrofi ha spinto il Laos ad adottare una strategia di investimento nell’energia eolica. Il Laos esporta circa l’80% dell’elettricità verso i vicini Thailandia e Vietnam, contribuendo al 30% del valore delle esportazioni. Inoltre, il Paese sta costruendo infrastrutture di trasmissione per fornire energia anche alla Cambogia. 

Il Laos, un importante esportatore di energia idroelettrica in Asia, sta infatti diversificando il proprio portafoglio energetico con l’ingresso nell’energia eolica per ridurre la propria dipendenza dalle risorse idriche. In questo contesto, il Laos sta compiendo uno sforzo significativo per ridurre la sua dipendenza dall’energia idroelettrica per la produzione di elettricità. Sebbene l’energia idroelettrica rappresenti attualmente il 70% della produzione totale di elettricità del Paese, le preoccupazioni per questa dipendenza hanno spinto il Laos a passare alla produzione di energia eolica. Questo spostamento è dovuto a un paio di ragioni. In primo luogo, la produzione di energia idroelettrica del Laos di solito diminuisce durante la stagione secca. In secondo luogo, il controllo della Cina sui fiumi a monte comporta il rischio di improvvisi cambiamenti nei livelli dell’acqua, che rappresentano una minaccia per l’agricoltura e la pesca. Inoltre, nel 2018 è scoppiata una diga idroelettrica costruita da società sudcoreane e thailandesi nella provincia di Attapeu, nel Laos sudorientale, causando almeno 71 morti e oltre 6.000 senzatetto. Oggi la generazione di energia eolica è diventata un’opzione promettente per il Laos. I parchi eolici sono più efficienti dei pannelli solari, poiché le turbine possono funzionare quasi giorno e notte. 

Il Paese sta attualmente costruendo un parco eolico nella regione montuosa poco popolata del Laos sud-orientale, che dovrebbe entrare in funzione nel 2025. Il progetto coinvolge diverse società, tra cui Mitsubishi Group (Giappone) e BCPG Renewable Energy Company (Bangchak, Thai Energy Group). Fornirà elettricità al Vietnam per un periodo di 25 anni. Il parco eolico Monsoon occuperà un’area estesa di 70000 ettari e comprenderà 133 turbine eoliche, diventando così uno dei più grandi parchi eolici onshore del sud-est asiatico, con una capacità di generazione di 600 megawatt. La politica energetica del Laos è orientata all’esportazione e il Paese ha già pianificato progetti eolici simili.

I colossi tech asiatici puntano sul Vietnam

I giganti delle auto elettriche cinesi guardano al Vietnam come hub produttivo. E anche i fornitori taiwanesi di Apple fanno lo stesso

Di Tommaso Magrini

I produttori cinesi di auto elettriche puntano senza mistero alla leadership globale. E per raggiungere l’obiettivo si stabiliscono sempre di più nel Sud-Est asiatico. Nei giorni scorsi, la casa automobilistica BYD Co. ha fatto sapere che intende espandersi nella produzione e nell’assemblaggio di veicoli elettrici in Vietnam. Il produttore di veicoli elettrici con sede a Xi’an ha intenzione di aprire uno stabilimento in Vietnam per la produzione di parti di automobili, con l’obiettivo di esportare i componenti verso un impianto di assemblaggio previsto nella vicina Thailandia. In una dichiarazione governativa rilasciata dopo un incontro tra il fondatore e presidente di BYD, Wang Chuanfu, e il Vice Primo Ministro Tran Hong Ha, Wang ha affermato di aspettarsi che il Vietnam crei condizioni favorevoli affinché BYD completi le procedure di investimento. L’azienda cinese, che attualmente gestisce una fabbrica per l’assemblaggio di dispositivi e parti elettroniche nella provincia settentrionale vietnamita di Phu Tho, ha anche proposto di formare una catena di fornitura locale. La presenza di BYD rappresenterebbe una sfida diretta a VinFast, un produttore vietnamita di veicoli elettrici che ha iniziato a vendere auto nel 2019 e ha in programma di espandersi negli Stati Uniti e in Europa. L’interesse per il Sud-Est asiatico di BYD va oltre il Vietnam. Lo scorso settembre l’azienda, sostenuta dalla Berkshire Hathaway di Warren Buffett, ha annunciato la costruzione di un impianto di assemblaggio di veicoli elettrici in Thailandia con una capacità annua di 150 mila auto a partire dal 2024. L’azienda ha venduto 210.295 veicoli nel mese di aprile, circa il doppio rispetto all’anno precedente, con un dato leggermente superiore al mese precedente. Sebbene la maggior parte delle vendite provenga dalla Cina continentale, BYD si sta espandendo all’estero: soprattutto in Asia, Europa e America Latina. Le esportazioni rappresentano circa il 6% delle vendite di veicoli elettrici.

Anche i produttori taiwanesi a contratto per colossi americani come Apple guardano con sempre maggiore interesse al Sud-Est asiatico e in particolare al Vietnam. Il produttore di elettronica Quanta Computer, il principale produttore a contratto dei MacBook di Apple, ha siglato questo mese un accordo per costruire il suo primo stabilimento vietnamita nella provincia settentrionale di Nam Dinh. Iniziative come questa, volte a diversificare la produzione dalla Cina, sono in corso da anni per i produttori che hanno assistito all’aumento dei salari. Ulteriore impulso viene dalle tensioni commerciali e tecnologiche tra Washington e Pechino. Quanta aveva sfruttato la sua base produttiva cinese per una rapida crescita, registrando vendite per oltre 41 miliardi di dollari nel 2022. Ma nel 2022, a causa delle restrizioni anti Covid, non è stata in grado di produrre il suo MacBook Pro principale, ritardando le consegne per più di due mesi e sconvolgendo i piani di Apple. Secondo le stime di TrendForce, nei tre anni fino al 2025 l’azienda dovrebbe aumentare la produzione al di fuori del Paese fino a raggiungere circa il 30% del totale. Nel primo trimestre del 2023, il numero di progetti di IDE taiwanesi in Vietnam è cresciuto dell’87% rispetto all’anno precedente. Il principale assemblatore di iPhone, Foxconn, sta investendo molto nella provincia settentrionale di Bac Giang. L’estate scorsa Foxconn ha comunicato ai media locali l’intenzione di spendere altri 300 milioni di dollari e di assumere 30.000 persone, e a febbraio ha firmato un contratto di affitto di un sito di 45 ettari fino al 2057. Secondo le stime, entro il 2025 circa il 30% della produzione dovrebbe avvenire fuori dalla Cina. Pegatron, che è al secondo posto nella produzione di iPhone, ha fatto grandi investimenti nella città costiera di Haiphong, mentre il numero 4 Wistron intende avviare una fabbrica di personal computer l’anno prossimo.

L’Italia al II Forum UE-Indo-Pacifico

Di Maria Tripodi, Sottosegretario di Stato agli Affari Esteri e alla Cooperazione Internazionale

Il 13 maggio scorso, insieme ai Ministri degli Esteri europei e ai partner dell’Asia e del Pacifico, ho partecipato – su delega del VP/On. Ministro Tajani – al II Forum Ministeriale UE-Indo-Pacifico, organizzato a Stoccolma dalla Presidenza svedese dell’UE e dal SEAE. L’iniziativa era stata avviata dalla Presidenza francese dell’UE, con l’evento del 22 febbraio 2022, a Parigi. Nel mio intervento, ho sottolineato il concreto impegno dell’Italia nel dare seguito alla Strategia UE per l’Indo-Pacifico. Ho evidenziato la nostra crescente proiezione nell’area, la cui rilevanza geopolitica, economica e demografica la pongono al centro delle complesse sfide globali in atto, aggravate dall’aggressione russa all’Ucraina. Tra queste: le minacce alla sicurezza e all’ordine internazionale basato sulle regole, la sicurezza energetica, la crisi alimentare, le (spesso devastanti) conseguenze del cambiamento climatico e lo sviluppo sostenibile. È proprio sul clima che ho voluto soffermarmi, intervenendo alla tavola rotonda “Pursuing green opportunities and overcoming global challenges”. L’Indo-Pacifico ospita alcuni fra gli Stati maggiormente esposti ai cambiamenti climatici e anche più bisognosi di energia, considerati gli elevati tassi di crescita economica e demografica. L’Italia, impegnata a ridurre le emissioni di gas serra del 55% entro il 2030 e a raggiungere la neutralità climatica entro il 2050, è al fianco di questi Paesi con numerose iniziative, tra cui: il sostegno a Vietnam e Indonesia nell’ambito dell’iniziativa del G7 “Just Energy Transition Partnership”; l’organizzazione di corsi di formazione in materia di protezione civile e sviluppo sostenibile a favore dei Paesi dell’ASEAN e del “Pacific Islands Forum” di cui l’Italia è rispettivamente Partner di Sviluppo e di Dialogo; la partecipazione, attraverso Cassa Depositi e Prestiti, all’”ASEAN Catalytic Green Finance Facility” e alle  iniziative “Team Europe” a favore dell’ASEAN. Con queste e altre misure in fase di ideazione intendiamo fare in modo che nessun Paese sia lasciato indietro e che le economie emergenti dell’area siano dotate degli strumenti necessari a perseguire una crescita inclusiva e sostenibile, condizione essenziale per il mantenimento della pace e della stabilità in una regione sempre più cruciale per gli equilibri mondiali.

Come sono andate le elezioni in Thailandia

Articolo di Francesco Mattogno

Il Move Forward ha vinto le elezioni in Thailandia smentendo i pronostici che a lungo hanno ritenuto il Pheu Thai il partito dominante. I due hanno già deciso di unirsi in coalizione, ma la netta maggioranza ottenuta alla camera potrebbe non bastare

L’opinione diffusa tra gli analisti che si occupano di Thailandia è che i sondaggi elettorali non siano così affidabili. Sia per il metodo di raccolta dei dati (prevalentemente online), sia per la distribuzione del campione, che proviene soprattutto dalle città, da Bangkok in particolare. E infatti i sondaggi si sbagliavano. La crescita del Move Forward nelle intenzioni di voto delle ultime settimane veniva ritenuta credibile, ma forse sopravvalutata. Invece il partito di Pita Limjaroenrat ha vinto le elezioni del 14 maggio con un discreto margine sul Pheu Thai, secondo, e ha già formato sulla carta una coalizione per guidare la Thailandia in base alla propria agenda politica, focalizzata su riforme costituzionali e istituzionali che promettono di scuotere la struttura di potere del paese. Proprio per questo, però, vedere governare il Move Forward non sarà così semplice.

Domenica i thailandesi hanno votato per eleggere i 500 deputati della camera bassa del parlamento, ma non i 250 membri del senato, nominati invece dall’ormai defunto Consiglio nazionale per la pace e l’ordine, cioè la giunta militare che ha guidato il paese dal 2014 alle elezioni del 2019. Secondo quanto previsto ad hoc dalla costituzione, fino al 2024 i senatori hanno il potere di partecipare alle votazioni del parlamento per la nomina del primo ministro. Condizione che nel 2019 ha permesso al generale golpista Prayut Chan-o-cha di restare al potere nonostante il partito che lo aveva candidato, il Palang Pracharat (PPRP), fosse arrivato secondo alle elezioni. E che oggi mette potenzialmente in minoranza il fronte democratico guidato dal Move Forward sebbene abbia ottenuto una netta vittoria alle urne.

LA COALIZIONE

Il partito guidato da Pita ha ottenuto un totale di 152 seggi (uno in più rispetto a quanto previsto inizialmente), battendo quella che si riteneva la principale formazione pro-democrazia, il Pheu Thai di Paetongtarn Shinawatra, che ha eletto 141 deputati. Tra gli scenari ipotizzati, sia prima che dopo il voto, si riteneva che il Pheu Thai potesse scegliere di allearsi con i partiti filo-militari e conservatori nel tentativo di formare un governo di compromesso. Nella giornata di lunedì però il partito ha smentito questa ipotesi, e Pita ha dichiarato ufficialmente la nascita sulla carta di una coalizione che coinvolge altri quattro partiti, oltre a Move Forward e Pheu Thai: il Prachachart (9 seggi), il Thai Sang Thai (6), il Seree Ruam Thai (1) e il Fair Party (1).

I 310 seggi della coalizione sono più che sufficienti per arrivare a una maggioranza alla camera, dove il PPRP ha eletto 40 deputati e il “nuovo” partito di Prayut, lo United Thai Nation (UTN), 36. Ma sono meno dei 376 necessari per formare un governo senza che il voto dei senatori risulti decisivo. L’idea di Pita e dei suoi è che il mandato popolare ricevuto sia troppo forte, e che il senato non voterà in massa per impedirgli di governare. In caso contrario «chi sta pensando di abolire i risultati elettorali o formare un governo di minoranza pagherà un prezzo piuttosto alto», ha dichiarato nella conferenza stampa di proclamazione della vittoria. Il leader del Move Forward ritiene l’ipotesi appena descritta «inverosimile», ma qualche senatore ha già detto che non lo sosterrà come primo ministro.

Per questo potrebbe risultare fondamentale il terzo classificato alle elezioni, il Bhumjaithai (BJT) di Anutin Charnvirakul, che ha ottenuto 71 seggi. Anutin è il ministro della Salute uscente del governo guidato dal PPRP, però il suo è un partito di centro, non anti-establishment ma nemmeno schierato completamente dalla parte dei militari. Per ora Pita ha dichiarato che «non è necessario» coinvolgere il BJT, ma le cose potrebbero cambiare. Intanto il leader del Move Forward – che si dice «pronto a diventare il trentesimo primo ministro della Thailandia» – sta preparando un memorandum d’intesa per la coalizione. Una sorta di “contratto di governo” nel quale quale verrà delineato il programma delle cose da fare durante il primo anno dell’esecutivo al potere.

IL PROGRAMMA

Ci sono infatti diverse questioni sulle quali i partiti devono mettersi d’accordo. La coalizione è formata da chi ha condiviso gli ultimi quattro anni all’opposizione, ma i rapporti, specialmente tra Move Forward e Pheu Thai, hanno avuto alti a bassi. Il tema fondamentale è senza dubbio quello che riguarda l’articolo 112 del codice penale thailandese, cioè la “legge sulla lesa maestà” che prevede fino a 15 anni di carcere per chiunque «diffami, insulti o minacci» i membri della famiglia reale.

Il Move Forward ha tra i suoi candidati diversi dei manifestanti accusati di lesa maestà per il loro ruolo nelle manifestazioni democratiche e anti-monarchiche del 2020-21, e a lungo Pita ha espresso la sua volontà di abrogare la legge. Con l’avvicinarsi delle elezioni la posizione del partito si è ammorbidita, ma l’intenzione di emendare e depotenziare la norma rimane, ed è stata confermata dallo stesso leader in diverse dichiarazioni post-vittoria.

Nonostante sia stata smussata, resta una posizione radicale nel contesto thailandese: la monarchia è tra le più potenti al mondo ed è fonte di legittimità politica (il re deve approvare la nomina del primo ministro), nessun altro grande partito ha osato metterla in discussione così apertamente. Alla conferenza stampa in cui il Pheu Thai ha annunciato di aver accettato di unirsi alla coalizione, Pateongtarn ha detto che il partito «non sosterrà l’abolizione dell’articolo 112», ma che «si può discutere in parlamento su come applicarlo in modo efficace».

Ma il programma del Move Forward va oltre la questione monarchica. Il partito ha proposto anche l’organizzazione di un referendum per eleggere un’assemblea costituente che riscriva la costituzione, sostituendo quella di matrice militare del 2017 e limitando così l’influenza e il potere dell’esercito nella politica thailandese. C’è poi la volontà – questa condivisa con il Pheu Thai – di cancellare la coscrizione obbligatoria, di produrre una legge anti-monopolio, innalzare il salario minimo giornaliero da 330 a 450 baht (da 9 a più di 12 euro) e legalizzare i matrimoni gay. Sulla marijuana, invece, il Move Forward vorrebbe limitarne l’utilizzo ai soli scopi medici.

Per quanto riguarda la politica estera, Pita propone di fatto il non-allineamento tra Stati Uniti e Cina, richiamando però alla «diplomazia fondata su regole» da rispettare. Ha condannato l’aggressione della Russia in Ucraina, e sul Myanmar ha detto che la Thailandia dovrebbe collaborare con la comunità internazionale così che il popolo birmano possa «risolvere il proprio conflitto». Anche questa una posizione di fatto distante dai vertici dell’esercito thailandese, che hanno sempre mantenuto un rapporto di ambiguità con la giunta militare del Myanmar.

GLI SCENARI

Pita è stato accusato di detenere circa 42.000 azioni di ITV, un’emittente thailandese che ha chiuso nel 2007 ma la cui registrazione rimane ancora attiva. Sarebbe una violazione delle leggi elettorali (che vietano ai candidati al parlamento di avere partecipazioni in società dei media), e nel peggiore dei casi potrebbe portare a una squalifica del candidato e del partito. Pita si dice tranquillo, ma per un contenzioso simile il precedessore de facto del Move Forward, il Future Forward, è stato sciolto nel 2020 e i suoi vertici banditi per dieci anni dalla politica.

A indagare sulla vicenda sarà la commissione elettorale. Nel caso in cui l’esercito volesse rovesciare il risultato delle elezioni, al momento si ritiene che la via giudiziaria sia più probabile di un ulteriore colpo di Stato, che ha smentito lo stesso capo delle forze armate Narongphan Jitkaewthae (che sarà inoltre in visita ufficiale alle Hawaii fino al 28 maggio). Se è legittimo avere dubbi su tali dichiarazioni, lo stesso può valere per quelle di Prayut, che una volta divenuta chiara la sconfitta ha detto che avrebbe rispettato la transizione democratica.Con il senato dalla parte dei conservatori, resta viva anche la possibilità di un governo di minoranza filo-militare, che a quel punto (per questioni numeriche) dovrebbe essere guidato dal BJT. Il tempo per eventuali ribaltoni non manca. La commissione elettorale dovrà pubblicare i risultati ufficiali delle elezioni entro 60 giorni, poi il parlamento verrà convocato per la votazione del primo ministro. Dopo essere approvato dal re, il premier potrà formare il suo governo. Si prevede che accadrà non prima di inizio agosto.

Prosperità e dubbi: il rapporto bifronte tra Cina e Sud-Est

Articolo di Vittoria Mazzieri

Target regionale per gli investimenti, alleati ideologici, partner di sicurezza, attori in rivendicazioni territoriali: dall’inizio delle relazioni diplomatiche i paesi del Sud-Est asiatico hanno assunto agli occhi di Pechino ruoli mutevoli e complessi. In termini di vicinanza geografica e cooperazione economica, l’ASEAN occupa un ruolo prioritario nella politica estera cinese

Il viaggio che Deng Xiaoping compie nel 1979 in Thailandia, Malesia e Singapore segna un punto importante delle relazioni tra Pechino e i paesi del Sud-Est asiatico. Il “piccolo timoniere” rimane stupito dai progressi socio economici di un’area che aveva erroneamente considerato come arretrata dal punto di vista economico. Come si legge in un saggio sul tema dei docenti della Nanyang Technological University di Singapore Zhou Taomo e Hong Liu, a colpire particolarmente Deng è la città-stato a sud della Malesia. All’indomani dell’incontro con l’allora primo ministro singaporiano Lee Kuan Yew, il Quotidiano del popolo passa dal raccontare Singapore come il “cane da guardia degli imperialisti americani” a dipingerla come un’“isola di pace”, una “città giardino che vale la pena di studiare”. Deng, invece, riceve l’ennesima conferma della necessità di abbandonare le lenti ideologiche con le quali fino ad allora il Partito comunista ha interpretato le relazioni con il Sud-Est asiatico.

I rapporti tra il gigante asiatico e la città-stato dimostrano le mutevoli relazioni della Repubblica popolare con l’area tradizionalmente conosciuta come Nanyang 南洋, “mari del Sud”. Oltre che dal contesto politico interno, le relazioni tra Pechino e la regione sono state influenzate da questioni legate all’identità delle comunità diasporiche (a Singapore il 75% della popolazione è di etnia cinese), dalle dispute territoriali e dai vari progetti infrastrutturali nell’ambito della Belt and Road Initiative. 

I primi anni dalla nascita della Repubblica popolare sono caratterizzati da un approccio moderato e flessibile: Pechino si fa promotrice di una “terza via” che possa offrire un’alternativa ai due blocchi della Guerra Fredda anche ai paesi ideologicamente non affini al Partito comunista. La promulgazione dei Cinque principi per la coesistenza pacifica, nel 1954, presenta un nuovo quadro di relazioni internazionali basate sul rispetto reciproco della integrità territoriale e del principio di non interferenza, anche per i paesi ideologicamente non affini. Il Trattato di doppia nazionalità sino-indonesiano, firmato l’anno successivo, pone fine alla politica che concede la nazionalità a tutte le persone di etnia cinese. La Cina incoraggia così le comunità d’oltremare a adottare la cittadinanza dei paesi in cui vivono, puntando in tal modo a placare le preoccupazioni di alcuni paesi del Sud-est asiatico, timorosi che le comunità di cinesi possano essere usati dal Partito per intraprendere attività sovversive. 

Nel corso degli anni le minoranze di etnia cinese diventano bersaglio di pesanti pesanti politiche discriminatorie: nel 1959 il presidente indonesiano Sukarno revoca la licenza per la gestione di attività di vendita al dettaglio a tutti gli “stranieri”, per lo più cinesi. In alcune realtà si rafforza, di conseguenza, il sentimento di appartenenza alla madrepatria. Con l’inizio della Rivoluzione culturale gruppi di studenti di etnia cinese iniziano a indossare i distintivi di Mao Zedong nelle scuole di Rangoon, nell’attuale Myanmar. Ne segue un’ondata di rivolte etniche su larga scala e un drastico deterioramento delle relazioni bilaterali.

Dalla fine degli anni Sessanta, in generale, la politica estera cinese è caratterizzata da una tendenza alla radicalizzazione, anche a causa della recessione economica che segue il disastroso Grande balzo in avanti. La nascita nel 1967 dell’Associazione delle Nazioni del Sud-Est Asiatico (ASEAN), fondata da Indonesia, Malesia, Filippine, Singapore e Thailandia in chiave anti-comunista, viene percepita da Mao Zedong come uno strumento dell’imperialismo. Ai paesi vicini dal punto di vista ideologico si chiede di riconoscere come bersagli principali della rivoluzione, per usare le parole del premier Zhou Enlai, l’“imperialismo, il feudalesimo e il capitalismo comprador”. Un approccio che muterà in maniera drastica all’indomani dell’invasione vietnamita della Cambogia. Come spiegato in un articolo per l’ISPI da Ngeow Chow-Bing, direttore dell’Istituto degli Studi Cinesi alla University of Malaya, in questo scenario l’ASEAN assume per Pechino un’importanza strategica per contenere le mire espansionistiche del governo di Hanoi (con cui le relazioni si sono irrimediabilmente deteriorate) sull’Indocina e sull’intera regione. 

Lo sviluppo economico da record che interessa la Repubblica popolare dagli anni Novanta è un elemento chiave nella espansione della sua influenza in termini di soft power, come ha scritto Joshua Kurlantzick, fellow per il Sud-Est asiatico presso il Council on Foreign Relations. Le prestazioni economiche della Cina attirano l’interesse dei paesi in via di sviluppo e hanno anche l’effetto di migliorare la reputazione delle comunità di cinesi che vivono nella regione. 

È in quegli anni che inizia quello che la retorica ufficiale cinese descrive come il “decennio d’oro” dei rapporti con l’ASEAN (che ad oggi, oltre ai paesi fondatori, conta anche Brunei, Myanmar, Cambogia, Timor Est, Laos, Vietnam). Durante la crisi finanziaria asiatica del 1997 Pechino prende la decisione simbolica di non svalutare la propria moneta, offrendosi come garante di stabilità. Negli anni successivi sigla rilevanti accordi multilaterali: l’Iniziativa Chang Mai di scambio di valuta, l’accordo di libero scambio del 2002 e la Dichiarazione sulla condotta delle parti nel Mar Cinese Meridionale, che stabilizza le controversie territoriali, nello stesso anno. 

Ma con la salita al potere di Xi Jinping la politica estera cinese acquisisce un profilo più proattivo e assertivo. Il deterioramento dei rapporti nell’ultimo decennio, soprattutto con le Filippine e il Vietnam, è legato a doppio filo alle rivendicazioni territoriali nell’area del Mar cinese meridionale. Dagli anni Settanta le dispute con il Vietnam per le Isole Spratly e le Paracelso si sono trasformate in una controversia di portata regionale, o addirittura globale. A poco o a nulla è servito il codice di condotta del 2002, che seppur celebrato all’epoca come un mezzo per garantire un “ambiente pacifico, amichevole e armonioso nel Mar Cinese Meridionale”, non ha incluso disposizioni su meccanismi di applicazione o di risoluzione delle controversie. 

La tensione, quindi, è cresciuta, arrivando a coinvolgere anche l’Indonesia per la prima volta nel 2016. Nello stesso anno una sentenza del Tribunale di arbitrato permanente de L’Aja ha bocciato le rivendicazioni di Pechino, rappresentate dalla cosiddetta “linea a nove punti”. Pechino non ha accettato la decisione che riconosce a Manila i diritti di sfruttamento delle risorse all’interno delle 200 miglia marittime della Zona economica esclusiva (Zee). Ha anzi accusato Washington di aver spinto le Filippine a ricorrere al tribunale per “sabotare le relazioni tra la Cina e i paesi dell’ASEAN”.

Malgrado le rivendicazioni marittime, la Cina non ha mai smesso di corteggiare i paesi della regione. La Regional Comprehensive Economic Partnership (RCEP), lo storico accordo siglato nel 2020 dopo otto anni di negoziati ed entrato in vigore a gennaio 2022, è servito a Pechino per consolidare la cooperazione economica nell’area. Ma le reciproche relazioni commerciali non possono essere spiegate senza tirare in ballo la Belt and Road Initiative, l’ambiziosa nuova via della seta lanciata nel 2013 che conta investimenti cinese per un valore di circa 85 miliardi l’anno. Già agli inizi degli anni Duemila il Sud-Est asiatico si è configurato come un importante target regionale per gli investimenti diretti esteri cinesi. Nel 2020, in piena crisi pandemica, l’ASEAN è salito al primo posto tra le destinazioni degli investimenti BRI. 

L’iniziativa si è scontrata con diversi gradi di accettazione nei paesi della regione. Malgrado le tensioni per le dispute territoriali, molte nazioni coinvolte hanno continuato a desiderare investimenti cinesi nelle infrastrutture e nella produzione. A differenza dei vicini più accoglienti, Hanoi ha assunto un approccio prudente: la strategia vietnamita sembra puntare a evitare il confronto con la Cina, al contempo scongiurando il rischio di dipendenza economica. Ad oggi l’unico progetto BRI attuato nel paese è la linea tranviaria Cat Linh-Ha Dong, che ha attirato ampie critiche a causa dei costi elevati.

Il deragliamento di un treno ad alta velocità dell’ambizioso progetto ferroviario Jakarta-Bandung dimostra che i rischi legati alla sicurezza possono minare la credibilità della Repubblica popolare. Da un recente rapporto dell’istituto di credito malese Maybank emerge che la ripresa post-pandemia potrebbe essere meno forte delle aspettative. I progetti potrebbero subire battute d’arresto a causa della crescente diffidenza dei governi, ad esempio per i costi sociali e ambientali: nel 2014 le attività estrattive di bauxite di proprietà cinese negli altopiani centrali del Vietnam hanno scatenato ampie proteste contro i danni ambientali e il mancato rispetto delle leggi locali. Per altri paesi che si sono impegnati più attivamente nella BRI, come Laos, Cambogia e Myanmar, ritornano periodicamente i timori per la “trappola del debito” da parte di economisti e osservatori. 

Nel complesso i paesi del Sud-Est asiatico restano essenziali a Pechino per numerose ragioni. Ad esempio, come partner verso i quali la Cina può accelerare la diffusione di infrastrutture “soft” come servizi sanitari ed economia digitale. O come attori utili per sovvertire gli equilibri internazionali e accrescere la rilevanza dell’Asia-Pacifico. Sullo sfondo delle tensioni con gli Stati Uniti, la Repubblica popolare punta a proporsi ai paesi ASEAN come un attore non assertivo, volenteroso a perseguire “il rispetto reciproco”, il “dialogo” e sinergie “win-win”, come rivendicato lo scorso anno in occasione del lancio della Global Security Initiative (GSI). D’altro canto, gli investimenti cinesi si configurano come risorse imperdibili per i paesi in via di sviluppo della regione: l’iniziativa gemella della GSI, la Global Development Initiative (GDI), rappresenta la volontà di Pechino di intestarsi un ruolo centrale nella promozione multilaterale dello sviluppo. L’ASEAN è diventato il gruppo regionale più numeroso a beneficiarne, accaparrandosi 14 progetti su un totale di 50 di quelli previsti dal primo lotto del GDI Project Pool.

 

Com’è andato il 42° vertice ASEAN

Si è svolto tra il 9 e l’11 maggio in Indonesia il summit dell’Associazione delle Nazioni del Sud-Est asiatico. Ecco quali sono i documenti firmati e la dichiarazione congiunta finale

Nella Dichiarazione congiunta approvata in occasione del 42° Vertice ASEAN, che si è svolto a Labuan Bajo, in Indonesia, dal 9 all’11 maggio, i leader dell’ASEAN hanno sottolineato la necessità di perseguire una risoluzione pacifica delle controversie in conformità con i principi universalmente riconosciuti del diritto internazionale, compresa la Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (UNCLOS) del 1982. Hanno sottolineato l’importanza della piena ed effettiva attuazione della Dichiarazione sulla condotta delle parti nel Mare Orientale (DOC) nella sua interezza, evidenziando al contempo la necessità di rafforzare la fiducia reciproca, di esercitare l’autocontrollo nella conduzione di attività che possano complicare o inasprire le controversie e incidere sulla pace e sulla stabilità, e di evitare azioni che possano complicare ulteriormente la situazione. Hanno accolto con favore gli sforzi in corso per rafforzare la cooperazione tra l’ASEAN e la Cina, nonché i progressi dei negoziati sostanziali verso la rapida conclusione di un Codice di Condotta nel Mare Orientale (COC) efficace e sostanziale; e l’iniziativa di accelerare i negoziati COC, compresa la proposta di sviluppare linee guida per accelerare la rapida conclusione di un COC efficace e sostanziale. I leader dell’ASEAN hanno inoltre sottolineato la necessità di mantenere e promuovere un ambiente favorevole ai negoziati sul COC. Tra i 10 documenti approvati al vertice figurano la Dichiarazione dei leader ASEAN sullo sviluppo dell’ecosistema regionale dei veicoli elettrici; la Dichiarazione dei leader ASEAN sull’iniziativa One Health; la Dichiarazione dei leader ASEAN sull’avanzamento della connettività regionale dei pagamenti e la promozione delle transazioni in valuta locale; la Dichiarazione dei leader ASEAN sulla lotta alla tratta di persone causata dall’abuso di tecnologia. I leader hanno approvato la Dichiarazione dell’ASEAN sulla protezione dei lavoratori migranti e dei membri delle famiglie in situazioni di crisi; la Dichiarazione dell’ASEAN sul collocamento e la protezione dei pescatori migranti; la Dichiarazione congiunta dei leader dell’ASEAN sull’istituzione di una rete di villaggi dell’ASEAN; e una tabella di marcia per l’ammissione di Timor Est come membro ufficiale dell’ASEAN. Hanno inoltre adottato la dichiarazione dei leader dell’ASEAN sullo sviluppo della visione post-2025 della Comunità ASEAN, che mira a promuovere una crescita forte, completa e inclusiva e a risolvere le sfide interne ed esterne alla regione nei prossimi 20 anni. Nel corso del vertice è stata approvata anche la Dichiarazione dei leader ASEAN sul rafforzamento della capacità e dell’efficacia istituzionale dell’ASEAN, che ribadisce l’impegno dei leader ASEAN a compiere sforzi per mantenere la centralità, l’unità e la rilevanza in mezzo alle sfide che la regione deve affrontare. I leader hanno inoltre discusso l’attuazione del consenso in cinque punti sul Myanmar e hanno condannato l’attacco a un convoglio del Centro di coordinamento ASEAN per l’assistenza umanitaria sulla gestione dei disastri (Centro AHA) e del gruppo di monitoraggio ASEAN in Myanmar.

Clicca qui per la dichiarazione congiunta finale del summit.

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