Come il Vietnam è diventato un mercato di riferimento per l’UE

Il Vietnam è un case-history per il Sud-Est asiatico. Tra successi politici ed economici, è riuscito a guadagnarsi la fiducia dell’UE e si prepara ad affrontare la scena globale

Il Vietnam è oggi il fiore all’occhiello del Sud-Est asiatico. Gli anni contrastati della decolonizzazione sembrano un passato decisamente remoto: oggi Hanoi ha una prospera economia, istituzioni politiche stabili e una efficace proiezione internazionale che l’ha portato a concludere importanti accordi commerciali. Il 2020 è stato un anno negativo un po’ per tutti, ma non per il Vietnam che ha prima saputo prevenire e contenere efficacemente la pandemia da coronavirus (anche se ora è in atto una nuova ondata nel Paese) e poi ripartire. Tanto che la sua economia è cresciuta del 2,9%, meglio di chiunque altro (Cina e Taiwan comprese) in Asia. 

La fiducia nel multilateralismo e l’attivismo dimostrato durante la presidenza ASEAN (che hanno portato tra l’altro alla conclusione dell’accordo sulla Regional Comprehensive Economic Partnership) gli sono valsi l’attenzione della comunità internazionale e la fiducia dei mercati finanziari, specie quelli europei.

Lo scorso inverno, gli esiti del 13° Congresso del Partito Comunista vietnamita hanno sintetizzato le dinamiche in atto. Come osservato da alcuni analisti, i congressi del Partito Comunista di solito non entusiasmano i mercati finanziari, ma quest’anno si è verificata  un’eccezione. L’attenzione degli investitori stranieri è stata attratta dal lancio di un piano di sviluppo delle infrastrutture, che prevede lo stanziamento di 119 miliardi di dollari e l’impegno ad aumentare il contributo del settore privato al prodotto interno lordo dal 42% al 55% entro il 2025. In questo scenario, si inserisce anche gli accordi di libero scambio e  sulla protezione degli investimenti siglati con l’Unione Europea nel 2019, di cui proprio in questi mesi si raccolgono i frutti. Secondo Dezan Shira & Associates, si registra un aumento sostenuto del flusso di IDE europei in Vietnam. Ciò è stato possibile grazie alla revisione del contesto normativo divenuto più accogliente per gli attori internazionali, grazie alle maggiori garanzie sulla proprietà intellettuale e all’aumento della quota massima di partecipazione straniera nelle banche commerciali dal 30% al 49%. 

In generale, negli ultimi 10 anni il fatturato commerciale vietnamita è cresciuto vertiginosamente. Gli ambiti che hanno registrato la crescita più elevata sono l’industria pesante e il settore minerario, che hanno generato 57,58 miliardi di dollari in esportazioni – un volume in aumento del 33% dall’anno scorso. Seguono poi le industrie leggere e artigianali (27,5%) e l’agricoltura e la silvicoltura (8,8%). L’UE è la terza destinazione di esportazioni vietnamite, con 12,6 miliardi di dollari in entrata – in aumento del 18,1% su base annua. Come riporta Vietnam Briefing, le principali esportazioni dell’UE in Vietnam includono prodotti ad alta tecnologia, macchinari e apparecchiature elettriche, aeromobili, veicoli e prodotti farmaceutici. Viceversa, le principali esportazioni vietnamite in Europa sono rappresentate da apparecchi telefonici, prodotti elettronici, calzature, tessuti e abbigliamento, caffè, riso, frutti di mare e mobili. A questo proposito, una grandissima parte di IDE in Vietnam verrebbe proprio da società italiane, specie negli ambiti dell’industria farmaceutica, dei trasporti, delle macchine e dei prodotti alimentari. Qui il sistema economico italiano avrebbe ampie opportunità di crescita, in particolare nei settori ad alto livello di specializzazione.

Il percorso verso la liberalizzazione economica non è stato lineare. La Repubblica Socialista del Vietnam ha spesso seguito le orme della Cina, a partire dalle riforme economiche inaugurate intorno agli anni Ottanta, e si è ispirata all’esperienza del vicino socialista anche per quanto ha riguardato la definizione delle strutture produttive: un modello di crescita fondato sull’industria pesante, la filosofia politica comunista, i bassi costi del lavoro e della terra che oggi supportano le elevate esportazioni. Tutti questi elementi farebbero del Vietnam il degno erede del cosiddetto “modello cinese”, ma Hanoi ha una propria visione di futuro.

La leadership vietnamita ha saputo ritagliarsi una certa autonomia nel contesto geopolitico regionale. Attraverso invidiabili doti di equilibrismo diplomatico, ha schivato le lusinghe dell’ex segretario di stato statunitense Mike Pompeo pur tenendo il punto con la Cina per le questioni riguardanti il Mar Cinese Meridionale. Grazie al suo ruolo strategico, Hanoi ha evitato l’imposizione di sanzioni da parte degli USA, nonostante le accuse di manipolazione valutaria. D’altra parte, il Vietnam si è trovato indirettamente coinvolto nella tensione commerciale tra Washington e Pechino beneficiando della ri-localizzazione di alcune multinazionali che dalla Cina meridionale si sono trasferite alla ricerca di contesti politico-commerciali più favorevoli. Rispetto a Pechino, Hanoi ha adottato un approccio assertivo ma responsabile, a riprova del fatto che i progetti della classe dirigente vietnamita puntano a ritagliarsi uno spazio autonomo nelle dinamiche politiche regionali.

Non sorprende quindi che il Vietnam stia divenendo il mercato di riferimento dell’Unione Europea nel Sud-Est asiatico. Nonostante le similitudini esistenti con quello cinese, il modello di Hanoi si è dimostrato più facilmente integrabile nell’ambito della cooperazione multilaterale con l’UE. Restano delle zone d’ombra sul fronte dei diritti umani e dei diritti dei lavoratori, non pienamente tutelate da un regime centralista che non ammette una reale opposizione. Ma sulla sfera commerciale e geopolitica il Vietnam si è dimostrato un partner stabile e affidabile in una regione nella quale invece permangono alcune incognite, dal golpe in Myanmar al posizionamento delle Filippine.  

La crescita di IDE comunitari in Vietnam sembrerebbe quindi solo all’inizio. Se neanche le contingenze della pandemia hanno potuto ostacolarne il progresso, bisognerà guardare con ancora maggiore attenzione agli sviluppi futuri che ci riserverà questa florida economia emergente del Sud-Est asiatico.

La finanza green guida il Sud-Est asiatico verso la de-carbonizzazione

De-carbonizzazione e transizione energetica sono temi di primo piano per i Paesi del Sud-Est asiatico. Qui la rivalità virtuosa tra Cina e Giappone si gioca a colpi di finanza green.

Il 7 maggio l’Asian Development Bank (ADB) ha annunciato l’interruzione di ulteriori finanziamenti a centrali elettriche a carbone, ad attività estrattive di combustibili fossili e a quelle di produzione ed esplorazione di petrolio e gas naturale. La notizia si inserisce nell’alveo della ADB’s Strategy 2030 pubblicata nel 2018, con la quale la banca si era impegnata a investire cumulativamente 80 miliardi di dollari in finanziamenti sostenibili tra il 2019 e il 2030. 

Sin dalla seconda metà del diciottesimo secolo, l’umanità ha sistematizzato l’impiego di combustibili fossili per produrre energia. È lo sviluppo tecnologico che ha dato impulso alla seconda rivoluzione industriale in Europa, consentendo di realizzare il motore a vapore, che ha abbattuto i costi dei trasporti e iniziato a intessere le prime maglie di quella che sarebbe presto divenuta l’economia globalizzata. Il progresso umano continua ancora oggi a misurarsi in rivoluzioni: stavolta, però, tocca all’industria globale delle energie rinnovabili, e in generale a processi produttivi che limitino drasticamente il nostro impatto sul pianeta.  

Per Paesi in via di sviluppo come le economie del Sud-Est asiatico si tratta di una sfida non da poco. Se da una parte sono aree particolarmente esposte ai disastri ambientali causati dai cambiamenti antropogenici del clima, dall’altra le economie del Sud-Est asiatico sono ancora in stadi di sviluppo poco avanzati, per quanto emergenti. Per questo gioca un ruolo cruciale la tensione tra scelte nazionali e imperativi internazionali di sostenibilità. Per governi e attività produttive il carbone resta infatti la fonte prediletta del mix energetico regionale. La domanda di elettricità cresce a ritmo sostenuto in mercati emergenti, per questo è prioritario per i governi garantirne l’offerta a prezzi accessibili. Esiste quindi un disallineamento tra le necessità politiche di stimolare la domanda interna rendendo al contempo competitivo il processo produttivo, e quelle di alcuni investitori stranieri che invece interrompono i finanziamenti ad attività che fanno uso di tecnologie obsolete. A questo proposito, Tim Buckley dell’Istituto per l’Economia energetica e l’Analisi finanziaria ha affermato che se queste banche smettono di finanziarlo, il carbone è morto: “Coal is not bankable without government subsidised finance”.

In effetti, l’ultimo rapporto annuale della International Energy Agency (IEA), pubblicato a inizio anno, sottolinea come l’ingente crescita demografica che travolgerà il Sud-Est asiatico nel prossimo futuro giocherà un ruolo cruciale nel plasmare le politiche energetiche globali. A questo proposito, l’Asian Development Bank aveva già previsto con l’ASEAN un piano di progetti infrastrutturali sostenibili nell’aprile 2019: l’ASEAN Catalytic Green Finance Facility, un meccanismo di finanza green in mano ai singoli governi regionali, focalizzato sullo sviluppo di progetti positivi per il clima, di cui l’ADB gestisce la struttura. 

L’ADB non è l’unica ad aver puntato sul Sud-Est asiatico per i suoi investimenti sostenibili. La banca, di matrice giapponese, è chiamata a competere con la Asian Infrastructure Investment Bank (AIIB) a guida cinese, istituto finanziario multilaterale adibito principalmente alla promozione di progetti infrastrutturali in Asia, “with sustainability at its core”. 

Il ruolo della Cina nei programmi di de-carbonizzazione del Sud-Est asiatico è in realtà ambivalente. Come riportato da Channel News Asia, l’IEA sostiene che oltre l’80% della crescita dell’impiego di carbone proverrà dall’Asia, e tale crescita sarà trainata proprio dalla Cina. Per accelerare la ripresa post-pandemia i Pechino aveva tra l’altro incrementato l’utilizzo del carbone con l’intento di stimolare la sua economia, alimentando la domanda interna. D’altra parte, la Cina resta fedele alla prassi marxista per cui è bene servirsi degli strumenti materiali a disposizione dello status quo prima di compiere una rivoluzione, in questo caso energetica. I piani a medio termine della leadership prevedono una transizione ecologica ambiziosa, che punta a rendere il Paese carbon-neutral entro il 2060. Tim Buckley ha commentato, a questo proposito, che la Cina è leader in ogni settore industriale che è fondamentale per la de-carbonizzazione del mondo, e questo dovrebbe placare i timori occidentali circa l’affidabilità degli impegni assunti dal Partito-Sato. 

Il sostanziale antagonismo tra Cina e Giappone sembrerebbe quindi indirizzarsi verso una competizione virtuosa nel Sud-Est asiatico, con l’enfasi su investimenti infrastrutturali sostenibili che si allinea con l’urgenza delle istanze ambientali nella regione. Per ragioni strutturali come quelle geografiche, economiche e politico-istituzionali, il Sud-Est asiatico rimane un contesto particolarmente esposto alle conseguenze della crisi climatica, aggravata dall’uso irresponsabile di risorse energetiche obsolete. Quindi per i governi nazionali di quest’area la tensione tra imperativi di crescita insostenibili e la dirompenza dei disastri ambientali resta una sfida storica. Ecco perché la finanza green può assumere il ruolo di game changer nella regione, per spostare l’ago della bilancia a favore di politiche e pratiche più sostenibili nel prossimo futuro.

GoTo: il nuovo colosso dell’e-commerce ASEAN

Gojek e Tokopedia annunciano la fusione in un nuovo soggetto chiamato a sfidare Grab e Sea. Ecco come cambia il mercato dell’e-commerce del Sud-Est asiatico

Gojek e Tokopedia hanno confermato i rumors delle scorse settimane, annunciando la loro fusione. GoTo, la piattaforma che ne nascerà, sarà un nuovo gigante e-commerce ASEAN da oltre 18 miliardi di dollari.Una notizia che si inserisce in un contesto in cui l’industria tech, e specialmente il digital commerce, è stata recentemente caratterizzata da una estrema dinamicità.

Rilevante il senso di urgenza che accompagna la nascita di GoTo, il che fa pensare che possa essere l’unica soluzione, per entrambe le aziende, per guadagnarsi un ruolo più rilevante nel mercato di riferimento.

Tokopedia e Gojek sono due importanti scale-up, entrambe indonesiane, ed entrambe con ottimi fondamentali oltre che prospettive di crescita rosee nei rispettivi mercati.

Tokopedia è una piattaforma e-commerce, una delle maggiori cinque in ASEAN, mentre Gojek è il leader della shared mobility sullo stesso mercato nazionale.

Entrambe le aziende sono molto promettenti e si sono dimostrate in grado di competere in larga scala, anche e soprattutto grazie alle caratteristiche del loro Paese di origine. Con una popolazione che supera i 270 milioni (la quarta più grande al mondo) e un’economia che prima del Covid era in fortissima crescita (+5% nel 2019 prima di calare del 2,1% nel 2020), l’Indonesia rappresenta uno dei mercati più attrattivi per l’e-commerce. 

In aggiunta, Tokopedia ha ricevuto round di finanziamenti per 2,8 miliardi di dollari al fine di potenziare la sua piattaforma e-commerce, e può vantare tra i suoi investitori nomi come SoftBank, Google e Alibaba.

Gojek, d’altro canto, vanta un portafoglio investitori del calibro di Facebook, PayPal, Visa e MUFG (colosso bancario giapponese) per oltre 5 miliardi di dollari, e rappresenta una promessa certa della mobilità digitale, simile a Uber nei suoi primi anni negli USA.

Entrambe hanno non solo ottime basi ma anche i fondi necessari e l’accesso alle infrastrutture ICT asiatiche best-in-class.

La causa della fusione tra Tokopedia e Gojek va quindi ricercata all’esterno, soprattutto nella minaccia rappresentata dagli altri competitor, e qui vale la regola d’oro dell’e-commerce: agglomerazione e accentramento sono sinonimo di potere e garanzia di sopravvivenza.

Da un lato, infatti, le due aziende devono far fronte all’exploit di Grab, la più grande piattaforma di shared mobility del SudEst asiatico con 200 milioni di utenti, che ha annunciato una imminente quotazione al NASDAQ per un valore di oltre 40 miliardi di dollari. Grab è la prima vera superapp della regione, ossia il primo esempio di applicazione mobile totalizzante che racchiude servizi di social networking, pagamento digitale, e-commerce, mobilità e servizi finanziari: da qui il suo motto, ‘The Everyday Everything app’. Tutto lascia pensare alla volontà strategica di raggiungere una rapida espansione a livello internazionale, oltre che l’esplicita ambizione di diventare leader indiscusso in area ASEAN.

Dall’altro lato, Tokopedia e Gojek si devono confrontare con giganti come Sea, che sta iniziando a rappresentare un grande competitor nello stesso mercato indonesiano. Il gruppo di Singapore continua a investire incessantemente per aumentare la propria presenza nei singoli mercati locali della regione: con una capitalizzazione stellare, ha una potenza di fuoco in grado di escludere gli altri player da molti mercati digital della regione.

L’AEC Blueprint 2025 è anche un’occasione per l’Unione Europea

Mentre la Comunità Economica dell’ASEAN (AEC) fa il punto sul suo AEC Blueprint 2025, l’Unione Europea dovrebbe tutelare lo spazio privilegiato che si è ritagliata nella relazione con il Sud-Est asiatico

Lo scorso 28 aprile si è tenuta la revisione intermedia dell’AEC Blueprint 2025,  alla presenza anche della rappresentanza dell’Unione Europea in ASEAN. Le attività della Comunità Economica dell’ASEAN (AEC) sono coordinate infatti attraverso questo piano di sviluppo, messo a punto grazie agli studi sull’ambiente economico regionale forniti dall’Economic Research Institute for ASEAN and East Asia (ERIA), dalla S. Rajaratnam School of International Studies (RSIS) e dell’Institute of Southeast Asian Studies (ISEAS), che hanno contribuito a delineare le direttive dell’AEC per i prossimi anni. L’AEC Blueprint 2025 è stato progettato sulla base del precedente AEC 2015, e si propone perciò di realizzare alcuni obiettivi generali: un’economia integrata e coesa; competitività, innovazione e dinamismo in ASEAN; connettività e cooperazione settoriale; maggiore inclusività e un approccio people-centered; e infine un ASEAN che aspiri a divenire un attore globale rilevante. Inoltre, non si tratta solo di un documento significativo per le economie del Sud-Est asiatico ma anche per partner internazionali quali l’UE.

La revisione ha avuto lo scopo di valutare i risultati ottenuti nei primi anni di attuazione del progetto. Secondo il Segretario Generale Dato Lim Jock Hoi, che è intervenuto all’incontro, sarebbe opportuno far luce su tre dimensioni fondamentali. Innanzitutto, nonostante le prestazioni positive, i risultati non sono ancora sufficienti: occorre migliorare la reattività alle tematiche trasversali e il coordinamento intersettoriale all’interno dell’ASEAN. In secondo luogo, anche se l’obiettivo primario resta la realizzazione di una maggiore integrazione economica, bisogna sempre tenere a mente che l’ambiente esterno è in evoluzione, e che se sfide urgenti come il cambiamento climatico si inaspriscono è necessario aggiustare il piano 2025 incorporando queste nuove istanze. In terzo luogo, ha concluso il Segretario Generale, l’ASEAN deve considerare le caratteristiche materiali dei suoi mercati e affrontarne lacune e complessità attraverso la cooperazione regionale.

Al lancio della revisione intermedia era presente anche una delegazione dell’Unione Europea, che ha salutato con favore la costanza che l’Associazione ha dimostrato nel mantenere questi impegni economico-commerciali. Solo dieci giorni prima, il 19 aprile, l’UE aveva inaugurato la sua Strategia per la Cooperazione nell’Indo-Pacifico, che d’altra parte riconosce la crescente rilevanza economica e geopolitica che la regione sta dimostrando negli ultimi anni. L’Unione Europea è il partner commerciale con il quale l’ASEAN mantiene una delle relazioni mutualmente più vantaggiose, essendo valso nel 2020 circa 123 miliardi di euro di esportazioni, secondo le stime dell’International Trade Center. Inoltre, non solo la regione dell’Indo-Pacifico costituisce una fetta significativa del PIL mondiale e quasi due terzi della crescita globale, ma presenta anche alcune delle maggiori linee di frattura nella maglia geopolitica globale. Tra questioni relative alle controversie con la Cina nel Mar Cinese Meridionale, una particolare esposizione alle conseguenze più dirompenti del cambiamento climatico, e il fatto che gli attori regionali presentano preferenze differenziate rispetto ai Paesi coi quali cooperare più attivamente, il Sud-Est asiatico è molto più che un hub economico per l’Europa. 

Osservare da vicino le dinamiche politico-economiche dei Paesi ASEAN è dunque fondamentale per riuscire a intravedere la direzione che potrebbe prendere l’economia globale in futuro. Non solo la regione del Sud-Est asiatico presenta un mercato enorme e in corso di sviluppo nonostante la pandemia. Ma il modo in cui queste economie reagiscono alla minaccia dei disastri ambientali, e alle questioni legate all’inclusione di categorie sociali marginalizzate, è la sintesi perfetta delle sfide globali che ci attendono. Ecco perché l’AEC Blueprint 2025, un progetto propriamente regionale, ha una sua rilevanza anche per l’Unione, che sembra essersi ritagliata un ruolo come principale supporter dello sviluppo economico del Sud-Est asiatico. Nonostante si tratti di organizzazioni regionali di natura diversa, ASEAN e UE rappresentano infatti i progetti di integrazione economica più avanzati al mondo, e condividono anche alcuni dei paradigmi valoriali su cui si fondano: multilateralismo, stato di diritto, libero mercato. L’Unione dovrebbe perciò cogliere l’occasione di queste affinità per tutelare il vantaggio acquisito rispetto a partner economici geograficamente più vicini, ma ideologicamente molto più lontani.

La sufficiency economy philosophy

La Thailandia ha ideato una propria teoria economica dello sviluppo immaginata dal defunto Re Bhumibol Adulyadej per modernizzare il Paese

La Thailandia è uno dei Paesi che maggiormente ha beneficiato di uno sviluppo economico dagli anni ’90, ma le basi di tale sviluppo possono anche essere ricondotte alla Sufficiency Economy Philosophy (SEP) ideata da re Bhumibol Adulyadej. Negli ultimi tre decenni, il Re ha sempre spronato il suo popolo verso un approccio graduale ed equilibrato allo sviluppo, ovvero verso un’economia della sufficienza che potesse garantire i bisogni basilari per tutti senza inseguire ciecamente la crescita economica fine a sé stessa. Dopo la crisi economica del 1997, il Re ha rivisto la SEP, da interpretarsi anche come un percorso attraverso il quale garantire sia la ripresa economica sia uno sviluppo più resiliente e sostenibile, in grado di affrontare le sfide derivanti dalla globalizzazione. Nel 1999, il National Economic and Social Development Board ha dato la seguente definizione della SEP: 

“Sufficiency Economy is a philosophy that stresses the middle path as an overriding principle for appropriate conduct by the populace at all levels. This applies to conduct starting from the level of the familiescommunities and to the nation in terms of development and administration, so as to modernize in line with the forces of globalization. ‘Sufficiency’ means moderation, reasonableness, and the need for self-immunity to protect from impacts arising from internal and external change… In addition, a way of life based on patience, perseverance, diligence, wisdom and prudence is indispensable in creating balance and in coping appropriately with critical challenges arising from extensive and rapid socioeconomic, environmental, and cultural changes in the world.”

La SEP è nei fatti un principio-guida da applicare a tutti i livelli, dal singolo individuo fino ai rapporti tra Stati e al mondo naturale e nel lungo periodo vuole costruire una Thailandia socialmente equilibrata e in grado di rispondere ai rapidi ed estesi cambiamenti nella società, nell’ambiente e nella cultura dovuti alla globalizzazione. Per arrivare a questo risultato, la SEP implica che si agisca con moderazione e ragionevolezza e che si ricerchi sempre conoscenza e moralità nel proporre e attuare progetti di sviluppo.

L’esempio più pratico di attuazione della SEP è nella corretta gestione della terra e delle risorse idriche. Questo nuovo approccio all’agricoltura è comunemente noto in Thailandia come New Theory Agriculture, che si basa appunto su un’agricoltura sostenibile che garantisca l’autosufficienza per le famiglie rurali e una vita in armonia con la natura. La New Theory si articola in tre fasi: 1) sufficienza a livello familiare, 2) sufficienza a livello comunitario, 3) sufficienza a livello nazionale. In pratica si tratta di garantire accesso al cibo e aumento del reddito delle famiglie rurali; cooperazione tra agricoltori all’interno della comunità e creazione di una rete di sicurezza sociale al suo interno; infine arrivare alla sufficienza nazionale grazie alla responsabilità sociale delle imprese verso le comunità rurali e al sostegno del settore pubblico che facilita la fiducia tra gli attori rurali attraverso accordi istituzionali.

Nel 2003, il NESDB ha avviato un movimento a favore della SEP con l’intento di farla conoscere maggiormente all’interno e all’esterno del Paese. Le autorità sperano che una migliore comprensione del concetto tra le persone porti a sia a un più ampio riconoscimento della SEP, sia a una sua maggiore applicazione su scala più vasta e potenzialmente anche ad una sua possibile espansione al di fuori del Paese. Il movimento prevede anche di creare una rete che faciliti l’apprendimento della SEP in tutti i settori e a tutti i livelli della società. Essa si articola in quattro distinti programmi di attuazione: 1) sviluppo e coordinamento della rete di apprendimento, 2) creazione di nuove conoscenze attraverso lo studio e la ricerca, 3) produzione di nuovi curricula e rivisitazione del processo di apprendimento, 4) diffusione dell’informazione e della conoscenza al pubblico.

Il fine dell’istituzione di questo movimento di propaganda a favore della SEP è quello di consentire alla Thailandia di perseguire uno sviluppo equilibrato e sostenibile nel mondo globalizzato. Nelle intenzioni dei promotori vi è la consapevolezza che la teoria contribuirà a costruire e sviluppare fondamenta solide per la società e a migliorare la capacità di adattarsi a qualsiasi cambiamento e shock interno o esterno. Alla fine, l’obiettivo ultimo è il raggiungimento del benessere del popolo thailandese nel suo insieme.

Alla ricerca di start-up nel mercato del Sud-Est asiatico

Grab, Gojek, Sea e Tokopedia: la finanza internazionalescommette sulle start-up made in ASEAN

Wall Street si è accorta del potenziale delle start-up del Sud-Est Asiatico. È una regione molto più grande e molto più popolosa dell’Europa o dell’America del Nord e la sua economia, nonostante la crisi pandemica, cresce a ritmo sostenuto. Ma per avere successo in questo mercato bisogna conoscerne le specificità. Non è un caso che le attività di Uber siano state interamente comprate dalla sua variante locale, Grab, nel 2018. Così come anche la cinese Alibaba ha faticato a lungo per surclassare Lazada, un’azienda di e-commerce regionale.

Negli ultimi anni il panorama delle start-up tecnologiche dell’Asia orientale si è espanso sempre di più. Servizi digitali come il ride-hailing o il delivery sono diventati sempre più popolari. Dal 2015 venture capitalist, gruppi tecnologici (tra cui Alibaba e Tencent, Google e SoftBank) e veterani di Wall Street hanno investito 26 miliardi di dollari nella regione.  La capitalizzazione del gruppo Sea, una società singaporiana di e-commerce quotata a New York, è quadruplicata nel corso dell’ultimo anno, raggiungendo i 125 miliardi di dollari. Anche Grab è stata recentemente quotata in borsa per un valore di quasi 40 miliardi di dollari, sostenuta, tra gli altri, da BlackRock, il più grande asset manager del mondo. Gojek, l’alternativa indonesiana di ride-hailing, è stata valutata a oltre 10 miliardi e potrebbe fondersi con Tokopedia, una società indonesiana di e-commerce, prima di accettare la quotazione a New York. Anche Traveloka, una società specializzata in prenotazioni aeree, è in trattativa per essere quotata a Wall Street. In sintesi, i servizi di e-commerce più apprezzati e utilizzati nella regione superano insieme il valore di 200 miliardi di dollari.

Tutte queste società hanno iniziato ritagliandosi un mercato di nicchia. Poi, sono evolute fino a diventare dirette concorrenti delle omonime aziende americane e cinesi. Grab è presente in otto Paesi, e oltre al trasporto offre servizi di food delivery, pagamenti digitali, assicurazioni, investimenti e consulenza sanitaria. Quest’anno, inoltre, prevede di lanciare una banca digitale a Singapore. Uno dei suoi co-fondatori, Tan Hooi Ling, la descrive come una commistione di Uber, DoorDash (un’app made in USA per la consegna di cibo) e Ant (la succursale finanziaria di Alibaba). Insomma, una super app che racchiude servizi normalmente distribuiti su più piattaforme. Stessa cosa vale per Gojek, che offre un simile catalogo di servizi.

La crescita esponenziale di queste piattaforme, tuttavia, non è affatto scontata. Se la qualità delle infrastrutture e delle reti di comunicazione non migliora molti dei potenziali fruitori saranno tagliati fuori, soprattutto se le aziende considereranno poco redditizio offrire i loro servizi in determinate zone. Il problema è stato sollevato in riferimento alla particolare conformazione geografica dell’Indonesia che ospita più di 6.000 isole e non possiede la rete infrastrutturale della vicina Cina. Senza contare che gran parte della popolazione ha un reddito molto basso, con pochi soldi a disposizione per fare acquisti online. E anche se le piattaforme emergenti riuscissero a superare tali ostacoli, prima o poi si troverebbero inevitabilmente a sovrapporsi l’un l’altra. Grab e Gojek già competono per stesso mercato. 

Rischi ampiamente giustificati dagli ottimi risultati. Dopotutto, una crescita elevata si traduce in investitori tolleranti; le entrate di Sea sono aumentate del 101% lo scorso anno e Grab prevede di raggiungere il pareggio di bilancio entro il 2023. Molti investitori sostengono infatti che il mercato del Sud-Est asiatico sia talmente vasto e variegato da rendere impossibile la formazione di monopoli. Ciò rende credibili le parole del fondatore di Gojek, Kevin Alawi, “non è un mercato in cui chi vince prende tutto”. Una prospettiva che presenta molte opportunità per gli investitori occidentali specie in un contesto post-pandemia e di ripresa dei consumi interni.

Sea: un modello ASEAN per l’e-commerce

La più grande piattaforma e-commerce nel Sud-Est asiatico combina tratti di Amazon, Alibaba e Tencent in una formula nuova

Quando Sea fu fondata nel 2009 come ‘piattaforma di comunicazione’, per soli video gamer e nel solo Sud-Est asiatico, Forrest Li, il fondatore, non aveva previsto che la sua azienda avrebbe spodestato Uber per capitalizzazione di mercato ($120 miliardi), né che la sua crescita avrebbe di gran lunga superato quella di Lazada (gruppo Alibaba).

Sea è cresciuta ininterrottamente dal 2016 (+750%) e ora il suo fatturato si attesta a $4,37 miliardi (+101% rispetto al 2019) diventando un simbolo del successo dell’e-commerce nel Sud-Est asiatico. Oggi le azioni di Sea vengono considerate tra le più attrattive nel mondo tech, seconde solo a Tesla. 

Cosa è quindi Sea, come è arrivata ad essere una potenza digitale? E perche il suo motto è ‘connecting the dots’?

Partiamo dall’inizio. Sea viene fondata sul modello di business di TenCent (che difatti è la sua azienda mentore e ne detiene il 21%): focus primario sul gaming per espandersi successivamente nei mercati e-commerce, social network e infine nei pagamenti digitali.

Sea punta in primis a conquistare i gamer nel Sud-Est asiatico: prima come piattaforma di comunicazione, poi come azienda di pubblicazione, infine come  società di sviluppo di videogame. Garena Free Fire, il gioco di maggior successo degli ultimi anni in ASEAN, rappresenta la consacrazione dell’azienda nell’industria, e segna l’inizio della scalata di Sea nella e-conomy.

Con la successiva espansione nell’e-commerce, Sea sviluppa una sua piattaforma interna che prende il nome di Shopee. Una mossa determinante che la distacca però dall’esperienza di TenCent, la quale, a suo tempo, si espanse acquisendo le piattaforme cinesi di Pinduodo e JD. 

Nel complesso, la strategia di crescita organica ha portato a Sea enormi benefici: oggi Shopee è la prima piattaforma di e-commerce in ASEAN per dimensione, registrando un volume di affari annuo di $2,16 miliardi.

Infine, seguendo la traiettoria tracciata da TenCent, Sea ha recentemente investito nell’industria della tecnologia applicata alla finanza (fintech). SeaMoney, una piattaforma di proprietà simile a Mercado Libre (Sud America), è cresciuta del 282% nel 2020 e sta rivoluzionando le modalità di pagamento in ASEAN, anche sull’onda degli effetti del distanziamento sociale. Questo fenomeno ha tratti del tutto simili a quanto accaduto con Alipay e WeChat pay durante la pandemia da SARS nel 2003. 
Non solo, l’azienda ha di recente acquisito la banca indonesiana BKE al fine di ovviare i suoi problemi di liquidità, oltre che aver istituito un fondo, Sea Capital, tramite cui impegnare risorse nel mondo fintech (credito, portafogli digitali, SPayLater).

In ultima analisi, il vantaggio competitivo di Sea si basa su due fattori, insieme cruciali e complementari. Il focus sulle esigenze dei mercati locali e lo sfruttamento delle economie di scala su base regionale. 

Al contrario di altri player, Sea ha deciso infatti di investire massivamente in ricerca e sviluppo anche al fine di analizzare dati ed elaborare campagne marketing rivolte alle esigenze delle popolazioni locali nei rispettivi Paesi. Come ha dichiarato Forrest Li, CEO di Sea, l’investimento costante è l’unica via di crescita, anche quando questo porta a ingenti perdite nel breve termine (Sea è in crescente perdita dal 2015, e non ha mai registrato profitti).

Questa ripida scalata è tuttavia resa possibile dalla dimensione di Sea, che, sia organicamente che tramite acquisizione, continua ad allargare il suo portafoglio di business e potenziali sinergie interne, in un circolo virtuoso che evoca il modello Amazon.

Forse è proprio questo che rende questa azienda così attrattiva per gli investitori internazionali: la prospettiva di avere davanti non solo un conglomerato e-commerce asiatico, ma un enorme powerhouse con potenza di gestione dati pressoché illimitata in grado di rivoluzionare la vita dei suoi utenti.

Oltretutto, come suggeriscono i rumors sulla fusione tra Gojek e Tokopedia, gli altri due giganti ASEAN, i prossimi mesi saranno cruciali per il futuro sviluppo di una delle industrie più dinamiche del Sud-Est asiatico. 

Inquinamento marittimo: una questione inderogabile per il Sud-Est asiatico

I Paesi dell’ASEAN devono risolvere il problema dell’inquinamento marittimo

Da diversi anni l’inquinamento marittimo è diventato uno dei dossier principali per gli Stati e per le  organizzazioni internazionali che si occupano di ambiente. 

Uno studio del 2015 ha messo in luce una scomoda verità per i Paesi del Sud-Est asiatico: ad oggi sono la causa di oltre il 60% dell’inquinamento marino. Tra i 20 Paesi al mondo con il tasso più alto di inquinamento causato dai rifiuti plastici dispersi in mare, 11 Paesi appartengono all’area asiatica: dopo la Cina troviamo infatti Indonesia (2°), Filippine (3°), Vietnam (4°), Thailandia (6°), Malesia (8°) e Myanmar (17°).

Secondo le statistiche, ogni anno la maggior quantità di inquinamento da plastica proviene dalle industrie di imballaggio e dal settore tessile, le quali sono sempre più presenti in Cina e nei Paesi asiatici: su circa 300 milioni di tonnellate di rifiuti plastici nel mare, più della metà provengono proprio dal settore tessile e da quello dell’imballaggio.

Questi numeri, non solo mettono in cattiva luce i Paesi asiatici agli occhi dell’opinione pubblica, ma dimostrano l’inefficienza di questi Paesi nell’implementare politiche idonee al riciclaggio dei rifiuti: secondo i dati della Banca Mondiale, circa il 75% della plastica in Malesia, Thailandia e nelle Filippine non viene riciclata, facendo si che ogni anno i Paesi del Sud-Est asiatico perdano 7 miliardi di dollari.  

Un così elevato tasso di inquinamento di rifiuti plastici è causato principalmente da due fattori: da una parte le correnti marine trasportano i rifiuti di altri Paesi verso le coste del Pacifico, dall’altra parte il fattore dominante sono i fiumi. Tra i dieci più inquinanti del mondo, ben otto si trovano in Asia: i più importanti, per tasso di inquinamento, sono alcuni fiumi che si trovano in Cina (Fiume Azzurro, Xi Jiang, Huangpu), seguiti dal fiume Brantas (Indonesia), dal Pasig (Filippine), dall’Irrawaddy (Myanmar) e dal Mekong (Cina, Myanmar, Laos, Thailandia, Vietnam e Cambogia) che aumentano in maniera considerevole il già ampio problema dell’inquinamento dei mari del Sud-Est asiatico. 

Per cercare di ovviare al problema dei rifiuti plastici, negli ultimi anni i Paesi dell’ASEAN hanno trovato accordi per la riduzione dell’inquinamento marittimo: ad esempio a Bangkok nel 2019 è stata adottata la Bangkok Declaration on Combating Marine Debris in the ASEAN Region con l’obiettivo di “rinforzare le azioni a livello nazionale e le azioni di collaborazione affinché si prevenga e si riduca drasticamente l’inquinamento marittimo”.  Attualmente i maggiori sforzi sono stati intrapresi da Malesia e Filippine, dove le principali aziende e brand internazionali stanno cercando di ridurre il consumo di plastica. A questi due Paesi si è unita la Thailandia, dove la plastica ricopre un ruolo importante nell’economia del Paese: i proventi delle aziende produttrici di plastica ricoprono da sole il  7% del PIL del Paese.  

Recentemente sono stati sviluppati importanti progetti nella regione asiatica: il più importante di questi è il “Closing Loop” istituito dall’ESCAP, la Commissione ONU per l’Economia e il Sociale per l’Asia e il Pacifico, in collaborazione con il Giappone e l’ASEAN. Il progetto, che vede coinvolte Kuala Lumpur (Malesia), Surabaya (Indonesia), Nakhon Si Thammarat (Thailandia) e Da Nang (Vietnam), si pone come obiettivo quello di fornire gli strumenti essenziali e il know-how per sviluppare politiche e strategie di investimento, affinché si sviluppi un approccio verso l’economia circolare e una migliore gestione del riciclaggio della plastica all’interno dei Paesi coinvolti. 

Nei prossimi anni i Paesi del Sud-Est asiatico dovranno condurre politiche ambientali sempre più rivolte alla transizione verso l’economia circolare, fattore che potrebbe rivelarsi decisivo per il futuro. 

Attraverso l’economia circolare, questi Paesi hanno l’occasione di accrescere le rispettive economie, migliorando da una parte le condizioni del settore ittico, di vitale importanza per i Paesi che si affacciano sul Mar Cinese Meridionale, e dall’altra parte incrementando la domanda del turismo costiero e marittimo. 

Combinare uguaglianza di genere ed economia digitale in ASEAN

L’accelerata digitalizzazione economica nel Sud-Est asiatico è un’occasione per i Paesi ASEAN di realizzare una ripresa economica che punti all’uguaglianza di genere

L’Economic Research Institute for ASEAN and East Asia ha recentemente pubblicato un policy brief dal titolo “Women’s Participation in the Digital Economy: Improving Access to Skills, Entrepreneurship, and Leadership Across ASEAN”. Le autrici del policy brief, Giulia Ajmone Marsan e Araba Sey, hanno osservato come tra le tendenze riscontrate all’indomani della pandemia da Covid-19 vi sia la progressiva digitalizzazione dell’economia, considerata una vera opportunità per le lavoratrici del Sud-Est asiatico.

In un recente webinar, Araba Sey ha constatato la difficoltà di trattare tali argomenti, sostenendo “it is difficult to legislate gender equality because it comes from the heart”. In effetti, affrontare tematiche legate alla sistematica esclusione delle donne da alcuni settori economici, specie quello delle tecnologie digitali, è sempre un’impresa complessa. È difficile destreggiarsi nella pluralità di istanze racchiuse nella nozione di uguaglianza di genere, poiché la battaglia per una maggiore inclusione si gioca su livelli materiali e immateriali – dal divario salariale alle discriminazioni sociali.

In generale, l’obiettivo del report è quello di indicare un paradigma di strategie che possa favorire l’integrazione delle lavoratrici asiatiche in un’economia regionale che sta registrando prestazioni sempre in crescita. Ricordiamo infatti che alcuni Paesi ASEAN, pur avendo conosciuto tracolli del PIL nel 2020, hanno dimostrato eccezionali capacità di ripresa negli ultimi mesi. A questo proposito, puntare su un’economia digitale più inclusiva può contribuire ulteriormente alla ripresa post-pandemica delle economie nazionali. 

Le autrici del rapporto sostengono che per includere le lavoratrici nella digital economy del Sud-Est asiatico sia necessario elaborare strategie politiche mirate e realizzare un piano d’azione a livello regionale. La popolazione femminile è stata duramente colpita dalle conseguenze economiche del Covid-19, perché in percentuale è sovra-rappresentata in settori come il turismo e vendita al dettaglio e l’abbigliamento: il primo settore è quasi completamente fermo da un anno a questa parte, i secondi sono ambiti a forte rischio di automazione. Inoltre, sottolineano, esiste una profonda connessione tra bassi salari, lavori poco qualificati e rischio di automazione. Ecco perché suggeriscono di investire nella creazione di una forza lavoro femminile più qualificata, che favorisca maggiori opportunità di accesso all’economia digitale. 

Durante il webinar, Araba Sey ha sottolineato che a una strategia economica coordinata a livello regionale debba coniugarsi anche un impegno volto a decostruire stereotipi e pregiudizi di genere, che supportano simbolicamente la sistematica esclusione femminile. Ad esempio, mentre gli uomini sono premiati per la loro devozione al lavoro, le donne sono frequentemente chiamate a scegliere tra una devozione familiare e lavorativa, con il risultato che il desiderio di non rinunciare a nessuna delle due comporta il ricorso a impieghi poco qualificati, e dunque sottopagati, ha sottolineato Sey.Il report dimostra infine che i Paesi ASEAN sono a un buon punto per quanto riguarda l’accesso a tecnologie e strumenti digitali basilari, come tablet e smartphone. Ma le donne vengono lasciate indietro quando si tratta di fornire l’accesso a tecnologie più avanzate e posizioni di leadership in ambito digitale, che garantirebbero l’integrazione di una prospettiva di genere nel settore, e dunque un contesto economico più inclusivo. Considerando che entro il 2025 quasi la metà della popolazione mondiale risiederà in Asia, il destino delle lavoratrici nel Sud-Est asiatico ha grande rilevanza per la condizione delle lavoratrici di tutto il mondo.

I vantaggi economici della RCEP per il Sud-Est asiatico

La RCEP è l’accordo di libero scambio più grande al mondo. Quali saranno i vantaggi economici per il Sud-Est asiatico?

Un report pubblicato di recente dalla Conferenza delle Nazioni Unite per il Commercio e lo Sviluppo (UNCTAD) sostiene che l’implementazione della Regional Comprehensive Economic Partnership (RCEP) potrebbe essere dannosa per molti Stati partecipanti. Infatti, il report afferma che, in seguito alla ratifica della RCEP, la bilancia commerciale dei Paesi ASEAN potrebbe risentirne poiché le loro importazioni di merci verso altri Paesi partecipanti all’accordo saranno maggiori rispetto alle esportazioni. Ciò vale in particolare per la Cina, che grazie alla sua efficiente capacità di esportazione, potrebbe beneficiare più di tutti dalla deviazione del traffico commerciale.
Secondo Deborah Elms, Direttrice Esecutiva dell’Asian Trade Centre di Singapore, è molto probabile che le conclusioni tratte da questo report siano sbagliate. Partecipando al più grande accordo di libero scambio (ALS) del mondo, l’ASEAN conoscerà infatti un nuovo impulso economico. 

Spesso, un modello inadeguato si traduce in giudizi negativi sull’impatto degli accordi commerciali. Elms osserva che è molto complicato ottenere stime valide relative all’impatto di qualsiasi accordo commerciale. L’elemento più semplice da valutare in un ALS è la riduzione delle aliquote tariffarie. Tutti gli ALS mirano infatti ad abbassare le aliquote tariffarie alla frontiera in modo da fornire vantaggi agli Stati membri e ridurre i costi. Una riduzione delle tariffe dovrebbe stimolare maggiori flussi commerciali. Tuttavia, non tutti i beni risultano idonei ai tagli tariffari, che devono essere elaborati in modo da soddisfare i criteri di ogni accordo commerciale e includere un sufficiente contenuto proveniente dai Paesi partecipanti. Anche se un prodotto è idoneo, le aziende devono richiedere aliquote tariffarie inferiori poiché le preferenze dell’ALS non vengono concesse automaticamente. Di conseguenza, nessun ALS ha mai raggiunto la completa liberalizzazione tariffaria, in cui sono concesse tariffe gratuite o scontate a tutte le merci che entrano nel Paese.

I modelli economici sono normalmente basati anche sui profili commerciali esistenti. Quindi, per analizzare l’impatto economico della riduzione e dell’eliminazione delle tariffe, un modello parte dalle informazioni commerciali esistenti. Tuttavia, un punto chiave di un ALS è fornire nuove opportunità per il commercio e migliorare gli accordi o i contesti commerciali vigenti. Pertanto, i nuovi flussi commerciali generati dalla RCEP non si vedranno nei modelli economici degli ALS esistenti, come riportato nel report dell’UNCTAD, poiché sono novità che incideranno solo in seguito.

Determinare l’impatto economico della RCEP, come di qualsiasi ALS, continua Elms, dipende anche da altre condizioni esistenti. I governi asiatici, compresi i membri dell’ASEAN, hanno partecipato con entusiasmo agli accordi di libero scambio. La stessa RCEP è stata costruita sulla base di cinque accordi commerciali ASEAN+1 preesistenti. La regione aderisce infatti a numerosi accordi di diverso tipo, dagli impegni bilaterali ai grandi accordi regionali. I vantaggi della RCEP, anche limitandosi alla sola valutazione delle riduzioni tariffarie, dipendono quindi dal confronto della RCEP con gli altri accordi commerciali vigenti. Le aziende potrebbero già beneficiare di un’esenzione dei dazi per i loro prodotti nell’ambito di altri ALS, come quello tra ASEAN e Cina. I modelli economici che guardano alla RCEP isolandola dagli altri processi, come ha fatto lo studio UNCTAD, faticano quindi a cogliere questo livello di complessità.

Inoltre, tutti gli accordi di libero scambio includono impegni graduali. I tagli tariffari non vengono concessi immediatamente a tutte le categorie di prodotti, ma adattati nel tempo. Elms sottolinea che il confronto tra i vantaggi dell’ALS e gli impegni della RCEP richiedono un’attenta valutazione delle tempistiche. Il primo giorno in cui entrerà in vigore, la RCEP potrebbe non essere paragonabile ai vantaggi degli ALS già esistenti, ma dopo che le tariffe saranno pienamente applicate le differenze potrebbero essere notevoli. 

Inoltre, la RCEP, come anche altri ALS globali, include molto più di semplici riduzioni tariffarie. I cambiamenti nelle procedure doganali potranno avere un impatto ancora più forte sulle aziende, in quanto il costo dei ritardi alla frontiera può essere piuttosto elevato e incidere sui rendimenti molto più della modifica di un’aliquota tariffaria. L’impegno a trasferire online la documentazione commerciale o a sdoganare il carico entro sei ore potrebbe rivelarsi il punto più importante della RCEP per molte aziende. I servizi e, soprattutto, gli impegni di investimento inclusi nella RCEP sono considerevoli, ma difficili da mostrare tramite modelli economici.

Secondo Elms la contrazione delle tariffe sui beni, a vantaggio della Cina, è spesso sopravvalutata, mentre la riduzione delle barriere che incidono sui servizi, a favore dell’ASEAN, viene liquidata troppo velocemente. Escludere l’analisi di tali aspetti dell’accordo non consente di ottenere una visione completa dei vantaggi complessivi forniti dalla RCEP. Sembra chiaro, conclude Elms, che la RCEP offrirà significativi benefici economici agli Stati membri, che saranno ancor più apprezzati dalle aziende.

Carlo Urbani, il nuovo eroe dei due mondi

Il medico marchigiano, scopritore del virus della Sars, operò in Cambogia, Laos e Vietnam

È il 29 marzo 2003 quando l’Italia viene a sapere che un suo cittadino, il Dottor Carlo Urbani, è morto presso l’ospedale di Bangkok a causa della Sars (Sindrome respiratoria grave), una forma atipica di polmonite comparsa nel Sud-Est asiatico nell’inverno di quello stesso anno. 

Solo allora, si viene a conoscenza dello straordinario lavoro svolto dal medico marchigiano, il primo ad aver isolato il virus e uno dei primi a rimanerne vittima. Come dichiara l’Istituto Superiore di Sanità, “la sua segnalazione precoce della Sars ha messo in allarme il sistema di sorveglianza globale ed è stato possibile identificare molti nuovi casi e isolarli prima che il personale sanitario ospedaliero venisse contagiato. Grazie all’isolamento del virus si è potuto in poco tempo sviluppare un vaccino e delle cure efficaci che ne hanno controllato la diffusione”. 

Urbani, spostato e padre di 3 figli, dopo la sua specializzazione in malattie infettive all’Università di Ancona, viene subito attratto dalla sfida che la salute internazionale lancia all’umanità, dapprima in Mauritania con l’Oms e successivamente nel in Cambogia con Medici senza Frontiere (MSF). Nell’aprile 1999 viene eletto presidente di Msf Italia e partecipa alla delegazione che ritira il premio Nobel per la pace assegnato all’organizzazione. Dopo la Cambogia, il suo impegno lo porta nel Laos e quindi, nell’aprile del 2001, Urbani si trasferisce con la sua famiglia ad Hanoi come coordinatore delle politiche sanitarie dell’Oms in Vietnam, Cambogia, Laos, Thailandia, Cina e Filippine. 

Nonostante le responsabilità organizzative, però, combattere le malattie dimenticate e salvare le vite umane resta sempre la missione principale di Urbani. Cosa che avviene anche in quel 28 febbraio 2003, quando il medico viene chiamato presso un ospedale privato francese di Hanoi, per occuparsi di un caso di polmonite atipica che aveva colpito un uomo di affari americano. Dai sintomi accertati, capisce subito di trovarsi davanti ad un nuovo virus molto contagioso.

Il sospetto principale cade su un focolaio epidemiologico già da tempo diffuso nel Guangdong, la regione della Cina meridionale in cui il virus della Sars si era diffuso ormai da mesi, tenuto nascosto dalle autorità di Pechino alla comunità mondiale. Un ritardo che si rivela fatale e che contribuisce alla diffusione incontrollata del virus. 

Urbani intuisce di trovarsi di fronte ad un virus del tutto sconosciuto all’organismo umano, senza protocollo terapeutico né vaccino, e per questo capace di evolvere in brevissimo tempo in una grave polmonite bilaterale, potenzialmente letale. Così il medico italiano, nel lanciare l’allarme al Governo e all’Oms, convince le autorità locali ad adottare misure di isolamento e quarantena preventiva per circoscriverne la diffusione.

Purtroppo non immaginava di essere già stato contagiato. Lo capisce l’11 marzo, durante il volo che da Hanoi lo porta a Bangkok, in Thailandia. Chiede di essere ricoverato in isolamento, ma 18 giorni dopo muore, lasciando disposizione che in seguito al decesso gli venga prelevato un campione dai polmoni per analizzarlo e sperimentare un vaccino contro la Sars.

Le ricerche di Urbani sono tutt’oggi importanti, e, in questi mesi di emergenza sanitaria, acquisiscono un peso ancora maggiore. Le indicazioni fornite dal medico sulle modalità di contenimento del contagio – tra cui la misura della quarantena – sono alla base del protocollo dell’OMS contro le pandemie.

Il suo impegno e abnegazione al lavoro sono stati riconosciuti dallo stesso Kofi Annan, l’allora Segretario Generale della Nazioni Unite, che dopo la sua scomparsa ha così testimoniato: “Non sapremo mai quanti milioni di morti avrebbe provocato la Sars perché il dottor Urbani ha fatto in modo di evitarlo. Egli lascia un esempio illuminante nella comunità e lo ricorderemo come un eroe nel senso più elevato e vero del termine”.

Il Regno Unito post-Brexit guarda a Est

Nel ricostruire le sue relazioni politiche e commerciali dopo la Brexit, Londra guarda all’Indo-Pacifico, e in particolare alle economie emergenti del Sud-Est asiatico

Lo scorso marzo il Primo Ministro Boris Johnson ha presentato al Parlamento inglese il documento Global Britain in a competitive age 2021. Dal rapporto sulla politica estera inglese, emerge l’intenzione di Londra di ricostruire relazioni politico-commerciali autonome all’indomani della Brexit, in particolare con i Paesi della regione dell’Indo-Pacifico. L’idea di un Regno Unito che svolge il ruolo di mediatore tra l’Unione Europea e gli Stati Uniti è infatti storia passata. Oggi il Paese guarda all’Asia Orientale, e in particolare alle economie emergenti del Sud-Est asiatico, per celebrare la sua rinnovata autonomia internazionale. In realtà, nonostante i toni declaratori del Global Britain 2021, il Paese non è altro che una media potenza in un mondo multipolare, ma sembra aver compreso che il baricentro del nuovo ordine globale si trova proprio in Asia. 

Già durante gli ultimi mesi del 2020 il Primo Ministro Johnson ha iniziato a tessere le fila di nuove intese commerciali con Giappone e Australia, ma anche Singapore e Vietnam. Il Paese si è infatti affrettato a regolamentare nuovamente i legami commerciali con due delle economie ASEAN più floride e ricche di opportunità. L’accordo con Singapore, siglato nel dicembre scorso, ha sostanzialmente replicato quello dell’Unione che lo precedeva. Il Paese è un hub finanziario e commerciale fondamentale per molte multinazionali che operano nella regione, e il Regno Unito è la principale destinazione di IDE singaporiani. Anche in Vietnam l’accordo di libero scambio con l’UE è stato sostituito da un nuovo accordo bilaterale che assicura al Regno Unito l’accesso a tariffe preferenziali. Istruzione, energia, infrastrutture e sanità sono i settori che offrono più opportunità per gli esportatori inglesi, ma la gran parte del commercio tra i due Paesi si svolge in termini di importazioni di indumenti, calzature, riso, frutti di mare e mobili in legno dal Vietnam.

Inoltre, il Segretario di Stato per gli Affari Esteri Dominic Raab si è recato più volte in visita nel Sud-Est asiatico, presso Singapore, Malesia, e più recentemente in Indonesia. L’obiettivo era quello di rinsaldare le relazioni economiche con le economie emergenti, ma anche ribadire che il Regno Unito si rende disponibile come alleato per la sicurezza regionale. Infine, la Segretaria per il Commercio Internazionale Liz Truss ha dichiarato che le negoziazioni per l’adesione della Gran Bretagna alla Comprehensive and Progressive Trans-Pacific Partnership (CPTPP) avranno luogo quest’anno. La partecipazione inglese all’accordo che sancisce una delle aree di libero scambio più estese al mondo andrebbe a tutto beneficio delle relazioni con i Paesi ASEAN. 

Dunque, a differenza di Francia, Germania e Paesi Bassi, il Regno Unito non ha ancora una strategia ufficiale per l’Indo-Pacifico, ma ci sta lavorando. Una serie di segnali lasciano intravedere la postura del Paese, particolarmente interessato alle economie emergenti del Sud-Est asiatico, e con l’adesione al CPTPP la Gran Bretagna potrebbe infine innestare il futuro delle sue relazioni commerciali in questa regione. La politica estera inglese del 2021 è quindi cartina di tornasole di un ordine economico che si gioca ormai principalmente in Asia Orientale.

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