Il complesso rapporto tra ASEAN e Cina

Mentre crescono le interazioni sul fronte economico, si intravede il rischio dell’egemonia commerciale cinese nella regione

Le politiche di buon vicinato sono diventate la priorità del governo cinese per gli anni a venire. Per aggirare l’isolamento diplomatico tentato da Washington, Xi Jinping si è concentrato sul rafforzamento dei legami economici con i Paesi del Sud-Est asiatico, oggi la più importante rampa di lancio per la proiezione globale della Cina. Ne è la conferma la recente visita del Ministro degli Esteri cinese, Wang Yi, in Myanmar, Indonesia, Brunei e Filippine. Durante questo mini tour dell’ASEAN, Wang Yi, ha ribadito più volte l’importanza di una cooperazione rafforzata nell’Indo-pacifico, rivolta al superamento dell’emergenza sanitaria ma soprattutto al coordinamento con la Belt and Road Initiative (BRI), l’imponente iniziativa cinese destinata a migliorare i collegamenti infrastrutturali con l’Eurasia.

Storicamente i rapporti tra Pechino e l’ASEAN non sono sempre stati idilliaci. Si può dire, però che dagli anni ’90 vi sia stato un progressivo avvicinamento economico e diplomatico tra le parti, culminato nell’accordo di libero scambio del 2002. Da allora la Cina non ha smesso di corteggiare l’ASEAN e gli altri Paesi dell’indopacifico per consolidare ulteriormente la cooperazione economica. Da ultimo, nel 2020, dopo otto anni di negoziati, è stata siglata la Regional Comprehensive Economic Partnership (RCEP), un accordo storico che ha dato vita al blocco commerciale più grande al mondo, capace di sovvertire gli equilibri economici del pianeta. I firmatari sono i 10 membri dell’ASEAN più Cina, Giappone, Corea del Sud, Australia e Nuova Zelanda, ma non gli Stati Uniti, la cui esclusione è un segnale evidente della loro perdita di peso strategico nella regione.

La tempistica dell’accordo non è casuale; ricalca le conseguenze della crisi sanitaria ed economica che ha colpito il mondo intero, eccezion fatta per la Cina, unico Paese del G20 in crescita nel 2020. Da tempo, infatti, Pechino spingeva per una più profonda interconnessione economica con i Paesi del Sud-Est asiatico. Questa tendenza alla cooperazione regionale privilegiata è stata confermata dalla crescita continua, nonostante l’emergenza sanitaria, dello scambio tra Pechino e i Paesi ASEAN, che sono diventati i maggiori partner commerciali della Cina, sorpassando di gran lunga l’Unione Europea. Se, infatti, il commercio è aumentato del 7% rispetto agli anni precedenti anche gli investimenti bilaterali hanno segnato un notevole incremento, attestandosi al +58% rispetto al 2019

Tuttavia c’è, per così dire, un rovescio della medaglia: la capacità di ripresa di Pechino dalla pandemia in anticipo rispetto al resto del mondo, con una prospettiva di crescita dell’8% nel 2021, in aggiunta alla maggiore influenza commerciale nel Sud-Est asiatico acquisita grazie alla RCEP, potrebbe rendere i Paesi dell’ASEAN sempre più dipendenti dalle esportazioni e dagli investimenti esteri dell’ingombrante vicino di casa. Specialmente dopo la decisione dell’India di abbandonare i negoziati, la Cina si configura come l’attore principale dell’accordo. Ciononostante, i vantaggi sono numerosi; sfruttando la complementarità dei diversi sistemi economici, i Paesi dell’ASEAN, con il supporto degli altri membri, riusciranno a sviluppare più agilmente le catene del valore regionali,  diventando una destinazione privilegiata per gli investimenti diretti esteri, soprattutto nipponici e sudcoreani, riequilibrando dunque l’influenza cinese. Ciò garantirà l’incremento della capacità industriale dei Paesi ASEAN e, nel lungo periodo, anche una probabile diminuzione del divario del reddito medio nella regione. 

In realtà, la propensione a riallocare gli investimenti verso i Paesi ASEAN non è  una novità; già da alcuni anni, infatti, si è registrata una crescita degli IDE provenienti da Giappone, Corea del Sud e Taiwan superiori alla quota indirizzata dagli stessi Paesi verso Pechino. Ciò è principalmente dovuto all’aumento del costo del lavoro in Cina, ma anche alla necessità di differenziare le catene di produzione in seguito allo scontro commerciale tra Washington e Pechino. È infatti in aumento la tendenza a riconsiderare la centralità economica dell’ASEAN; grazie anche all’efficace contenimento dell’emergenza sanitaria, quest’area non ha registrato importanti deficit economici e commerciali. Peculiare è il caso del Vietnam, che con un Pil del 2,6% maggiore rispetto al 2019 si conferma l’unica nazione asiatica, insieme alla Cina, ad aver presentato una crescita economica costante durante l’emergenza sanitaria. Ma non è tutto; nel 2021 è previsto l’incremento delle economie di tutta la regione, in particolare per l’Indonesia (+6,1%), la Cambogia (+6,8%), le Filippine (+7,4%) e la Malesia (+7,8%).

In conclusione, l’asse mondiale si sta spostando verso est. Pechino ne è consapevole e non esita a sfruttare la sua posizione privilegiata per ritagliarsi un ruolo di primo piano nel nuovo scenario, conducendo con sé i Paesi dell’ASEAN. Per il Sud-Est asiatico, l’obiettivo sarà cercare un delicato equilibro per garantirsi il suo spazio e attirare investimenti, senza accrescere troppo l’influenza cinese nella regione. 

A cura di Emilia Leban

La potenziale fusione Grab-Gojek: i nuovi giochi di potere tra i due colossi tech dell’ASEAN

Dalle trattative private alla smentita della possibile fusione, Grab e Gojek si contendono il settore ride-hailing e delivery in Indonesia. 

Secondo quanto appreso, negli ultimi mesi Grab e Gojek hanno compiuto sostanziali progressi nell’elaborazione di un accordo per unire le loro attività e realizzare la più grande fusione di aziende tech del Sud-Est asiatico. I due giganti tecnologici sembrerebbero ancora divisi sulla decisione relativa a chi spetterebbe controllare l’Indonesia, il più grande mercato della regione, nonché patria di Gojek. Varie parti dell’accordo sono ancora in fase di elaborazione tra i leader di ciascuna società e SoftBank Group Corporation, uno dei principali finanziatori di Grab. 

Negli ultimi anni Grab e Gojek sono stati al centro di un’accesa rivalità per il dominio del settore tech nella regione. Infatti, si parla da tempo di una loro potenziale fusione, soprattutto dopo la visita del CEO di SoftBank in Indonesia nel gennaio 2020. Un’unione di forze ampiamente sostenuta dai finanziatori di entrambe le parti affinché la dispendiosa contesa per le rispettive quote di mercato si concluda con la creazione di uno dei più potenti colossi economici della regione. 

Grab e Gojek, fondate rispettivamente a Singapore e Jakarta, rappresentano le due startup di ride-hailing, delivery, pagamenti finanziari e servizi assicurativi più importanti dell’Asia sud-orientale. Grab, già presente in ben otto Paesi della regione (Singapore, Malesia, Indonesia, Thailandia, Vietnam, Filippine, Myanmar, Cambogia) è stata ultimamente valutata a più di $15 miliardi. Gojek, del valore di $10 miliardi, è attiva invece cinque Stati ASEAN: Indonesia, Singapore, Filippine, Thailandia, Vietnam. Grab e Gojek si impongono come attori principali nella maggior parte dei mercati ASEAN. Inoltre, le stime confermano che l’internet economy della regione ha superato i 100 miliardi di dollari nel 2020. 

Anthony Tan, CEO e co-fondatore di Grab, in seguito alle voci relative ad una imminente fusione con Gojek, ha recentemente inviato una nota interna ai dipendenti per smentire le nuove speculazioni. “Il nostro business momentum è buono e siamo in posizione di fare acquisizioni”, ha dichiarato Tan, senza fare alcun riferimento all’eventuale fusione tra i due unicorni. Nonostante le enormi problematiche causate dalla pandemia di Covid-19, la prima crisi affrontata dalle giovani startup del Sud-Est asiatico, gli affari di Grab sono pienamente tornati ai livelli pre-pandemici. Tan ha inoltre aggiunto che Grab si è affermata, in termini di fatturato, come azienda dominante nel settore del food delivery in Indonesia, l’area di maggiore concorrenza con Gojek.

In risposta, gli amministratori delegati di Gojek hanno dichiarato che non ci sono motivi urgenti per realizzare la fusione con Grab; l’azienda è ben capitalizzata e ci sono numerose risorse per continuare a far crescere le attività nei prossimi anni, tra cui un’invidiabile lista di finanziatori, come Google, Tencent, Facebook, PayPal.

Le leadership di Grab, Gojek e SoftBank hanno preferito non commentare le voci diffuse dai media sulla possibilità di una fusione, che vedrebbe Grab in un ruolo dominante. Oltre ad avere un valore di mercato superiore rispetto a quello Gojek, l’unicorno Grab opera anche in più Paesi.

Inoltre, secondo la proposta di Grab, Tan diventerebbe “CEO a vita” della nuova società, con i dirigenti di Gojek chiamati a gestire l’Indonesia sotto il brand Gojek. Un’altra versione dell’accordo vedrebbe Gojek mantenere la sua partecipazione attiva nell’entità risultante dalla fusione, aggiungendo la creazione di un joint branding in Indonesia. 

Proprio la struttura azionaria della nuova società sarebbe il punto di rottura tra le due parti. Gojek avrebbe chiesto il 40% delle azioni, una quota che Grab ritiene troppo elevata, considerate le migliori condizioni finanziarie rispetto al rivale indonesiano, anche in termini di entrate.

Nonostante il supporto dei finanziatori, per ora le strade di Grab e Gojek restano separate e l’approvazione di un accordo definitivo sembra ancora molto lontano. A pesare sulla fusione sono anche le questioni antitrust. Il mercato cruciale è l’Indonesia, dove sia Grab che Gojek dominano entrambi i servizi di ride-hailing e delivery. Intanto, Gojek non perde tempo e ha già firmato un term-sheet con Tokopedia, il colosso indonesiano dell’e-commerce, in vista di una probabile fusione da 18 miliardi di dollari. I nuovi giochi di potere in atto nella regione potrebbero mischiare le carte e svelare nuove prospettive per il settore digitale. 

CAI: una svolta nelle relazioni economiche UE-CINA

UE e Cina hanno raggiunto un accordo di principio sugli investimenti che permetterà alle aziende europee di accedere al mercato cinese con maggiore libertà. 

Il raggiungimento dell’Accordo, sotto forma di intenti di principio, tra UE e Cina lo scorso 30 dicembre, sul Comprehensive Agreement on Investment (CAI), segna una tappa fondamentale nelle relazioni economiche tra i due grandi mercati mondiali. In base all’accordo, la Cina accetterà di aprire maggiormente la sua economia agli investimenti europei, anche e soprattutto in alcuni settori storicamente chiusi al mercato. Inoltre, si impegnerà affinché alle imprese europee sia garantito un trattamento equo così da poter competere in condizione di parità con le imprese cinesi. In ultimo, ha accettato di discutere di sviluppo sostenibile, di lavoro forzato e di ratificare le convenzioni fondamentali dell’ILO.

Sono diversi i settori economici nei quali la Cina garantirà maggiore apertura e competitività per le imprese europee. Si va dal settore manifatturiero (che riguarda la metà degli IDE europei in Cina) e dell’automotive, a quello dei servizi finanziari, dei trasporti aerei e marittimi, delle tecnologie di comunicazione e informatiche, della sanità, dell’ambiente e sostenibilità. In ciascuno dei suddetti settori non solo sarà appunto garantita maggiore apertura, ma la Cina assicurerà che il mercato sia governato da regole certe e viga la piena concorrenza tra impese europee e di Stato cinesi, soprattutto per ciò che concerne la trasparenza e i sussidi, oltre a vietare i trasferimenti forzati di tecnologia. In aggiunta, le imprese europee potranno beneficiare di iter semplificati nell’avere autorizzazioni e nel completare procedure amministrative e potranno avere accesso agli organismi di normalizzazione cinesi.

Sia l’UE che la Cina sono entrambi molto impegnati nel rispetto degli Accordi di Parigi sul clima e quindi hanno voluto ribadire la centralità del tema della sostenibilità nel recente Accordo. Infatti, le due parti contraenti hanno deciso di vincolarsi al rispetto dei valori espressi nei principi dello sviluppo sostenibile in merito agli investimenti e le questioni relative allo sviluppo sostenibile saranno soggette a un meccanismo di applicazione composto da un panel di esperti indipendenti, come avviene per tutti gli accordi commerciali dell’UE. Ciò significa una risoluzione trasparente dei disaccordi con il coinvolgimento della società civile. È da notare che questo è il primo caso in cui la Cina accetta vincoli tanto stringenti con un altro partner commerciale. Come conseguenza la Cina dovrà modificare la propria politica in materia ambientale e lavorativa in modo da innalzare gli standard di controllo rispetto al livello attuale, tenuti volontariamente bassi proprio per attrarre maggiori investimenti. In aggiunta, dovrà rispettare i propri obblighi internazionali e far si che le sue aziende attuino una condotta responsabile.  

Dal punto di vista europeo il CAI assicura che la Cina continui e non torni indietro sulla sua politica di liberalizzazione degli investimenti portata avanti negli ultimi 20 anni, dando maggiore sicurezza alle aziende europee. Permette all’UE di ricorrere al meccanismo di risoluzione in caso di violazione degli impegni e di giovarsi dell’eliminazione di varie restrizioni all’accesso al mercato come restrizioni quantitative, limiti di capitale o requisiti di joint venture. D’altra parte il CAI preserva settori sensibili come energia, agricoltura, pesca, audiovisivo, servizi pubblici.

Se si analizza il CAI anche alla luce del recente accordo RCEP, si può constatare come il gigante asiatico si sia chiaramente indirizzato verso una strada che porta a una maggiore apertura verso il mercato. È significativo notare come in un lasso di tempo davvero breve la Cina abbia sottoscritto due grandi accordi commerciali da una parte con 14 paesi dell’Asia-Pacifico e dall’altra con la più grande organizzazione sovranazionale, l’UE. Bisognerà vedere come gli USA sotto la nuova presidenza Biden risponderanno a questa offensiva market friendly cinese e soprattutto quali saranno le implicazioni per le relazioni transatlantiche. Infatti, la Cina potrebbe aver voluto concedere maggior spazio di manovra agli europei nel suo mercato con l’intento di ingraziarseli e con la conseguenza recondita di rompere l’asse USA-UE in funzione anticinese in tema di rispetto dei diritti umani.  Questa mossa europea scompagina certo l’asse occidentale nei confronti della Cina, ma è difesa a Bruxelles con la motivazione che l’UE deve avere una sua relazione con la Cina indipendente dalle posizioni di Washington. il tema vero su cui l’UE dovrebbe riflettere è che ad oggi manca una vera politica europea onnicomprensiva nei confronti della Cina. 

A cura di Niccolò Camponi

13° Bali Democracy Forum: il futuro della democrazia in Asia Sud-Orientale

Dalla tutela dei diritti civili alla necessità di un’economia inclusiva, l’Indonesia punta i riflettori sullo sviluppo della democrazia nella regione Asia-Pacifico.

Il 10 dicembre si è svolta, in modalità semi-virtuale, la tredicesima edizione del Bali Democracy Forum, intitolata Democracy and the Covid-19 Pandemic. Il discorso del Ministro degli Affari Esteri indonesiano Retno Marsudi, la prima donna a ricoprire questo ruolo nel Paese, ha dato il via alla cerimonia di apertura tenutasi a Nusa Dua, sede dell’evento. Al termine del suo intervento sono state trasmesse, tramite videoconferenza, le parole del Segretario Generale dell’ONU e del Direttore Generale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità.

Il 13° Bali Democracy Forum (BDF) ha affrontato l’impatto e le conseguenze della pandemia su democrazia e solidarietà tra Stati. La preoccupazione di molti, infatti, è che le misure restrittive adottate dai governi per contenere l’epidemia di Covid-19 stanno minacciando alcuni valori fondanti delle società democratiche. L’obiettivo del 13° BDF è stato quindi quello di fornire uno spazio per la condivisione di esperienze tra Stati e stakeholders, nonché identificare risposte sul futuro della democrazia in seguito alla crisi globale.

Questo forum intergovernativo annuale focalizza la sua attenzione sullo sviluppo della democrazia nella regione dell’Asia-Pacifico. Istituito dal governo nel 2008 per celebrare i primi dieci anni della democrazia indonesiana, il BDF ha lo scopo di incoraggiare la cooperazione regionale e internazionale sul tema della democrazia e della pace, attraverso un dialogo costruttivo tra tutti gli Stati partecipanti. La pluralità è per l’Indonesia uno dei suo principi fondanti, sanciti nel cosiddetto Pancasila, il pensiero filosofico su cui si fonda lo stato indonesiano. La promozione della democrazia è inoltre parte integrante della politica estera dell’Indonesia, in particolare nel continente asiatico. 

L’adesione ai principi di uguaglianza e rispetto reciproco è diventata il fondamento su cui si basa lo spirito stesso del Forum. Nel corso degli anni, il BDF ha reso la democrazia un punto chiave dell’agenda strategica nella regione Asia-Pacifico, diventando il principale meeting della regione su tale tematica. In linea con i tre pilastri fondanti della Carta delle Nazioni Unite, il BDF punta i riflettori sulla necessità di riuscire a creare un equilibrio duraturo tra lo sviluppo economico e politico, il mantenimento della pace e della sicurezza, e la tutela dei diritti umani e dei valori umanitari in Asia-Pacifico. 

Il 13° Bali Democracy Forum ha visto svolgere prima dell’evento il Road to BDF, tenutosi da settembre a novembre 2020. Questa nuova iniziativa è stata suddivisa in tre segmenti principali: Bali Civil Society and Media Forum (BCSMF), Bali Democracy Students Conference (BDSC), e il Panel of Inclusive Economy. Ogni segmento ha prodotto una serie di incontri e consultazioni preliminari sulla democrazia e la pandemia di Covid-19.

Il BCSMF mira a incoraggiare la partecipazione della società civile e dei media, in quanto attori centrali nel processo di elaborazione della politica pubblica. L’evento è un’occasione per far incontrare leader di comunità, attivisti di ONG, accademici, ricercatori, giornalisti e altri personaggi pubblici. Il BDSC coinvolge invece studenti provenienti da varie università, indonesiane ed estere, in un prezioso momento di confronto su diversi argomenti e ambiti di discussione scaturiti dalla tematica principale del Forum. Il Panel of Inclusive Economy infine è stato introdotto nell’edizione 2019 come fulcro del BDF: con esso viene evidenziata l’importanza di un’economia inclusiva, che sappia garantire la partecipazione di tutti gli attori economici, in particolare i settori privati. Infatti, la collaborazione tra il settore pubblico e privato consente il rafforzamento del sistema democratico e dello sviluppo economico. Il Panel agisce inoltre come piattaforma per approfondire gli argomenti in questione e proporre azioni concrete per affrontare le sfide economiche. Il rafforzamento delle micro, piccole e medie imprese (MSME) è stato un tema cruciale del BDF 2020. È stata enfatizzata la necessità di potenziare le MSME come parte fondamentale della ripresa economica, in quanto rappresentano uno dei settori più colpiti dalla pandemia. 

«Il nostro compito non è facile, dobbiamo fare in modo che la democrazia possa sostenere i nostri sforzi nell’era post-pandemica», ha dichiarato il Ministro degli Esteri Retno Marsudi. Con il BDF, l’Indonesia si pone al centro della regione Asia-Pacifico e afferma una prerogativa quanto mai essenziale nel momento storico che stiamo vivendo. Lo spirito di inclusione è il cardine di una democrazia di successo. Il sostegno e la tutela dei principi democratici devono diventare una forza positiva per superare le sfide e i problemi causati dalla pandemia attuale e lanciarci nella fase post-pandemica. 

Come le Nazioni Unite stanno trasformando l’agricoltura nei Paesi ASEAN

L’ONU ha da tempo avviato una fruttuosa collaborazione nel settore agricolo con l’ASEAN per lo sviluppo sostenibile delle popolazioni più vulnerabili 

L’agricoltura rappresenta una fetta sostanziale del PIL di quasi tutti i Paesi ASEAN, ed è una delle maggiori fonti di impiego, dirette o indirette, per le circa 300 milioni di persone che vivono nelle zone rurali. Benché gli stati della regione si differenzino per struttura economica e produttiva, il settore primario è una delle maggiori fonti di introiti in Indonesia, in Vietnam, in Myanmar e in Cambogia; tuttavia, nonostante alcuni di questi siano tra i principali produttori mondiali di determinate commodities (quali riso e caffè), la loro massima capacità produttiva è ancora lontana dall’essere raggiunta. Per contrastare i problemi legati ai bassi livelli di produttività, all’accesso limitato ai mercati internazionali, alla scarsa diffusione delle tecnologie, alla diminuzione della forza lavoro impegnata nel settore agricolo (conseguente allo sviluppo industriale) ed al cambiamento climatico, negli ultimi anni abbiamo assistito a sempre maggiori investimenti nel settore. A dare un contributo a questo processo, sono da annoverare le organizzazioni internazionali che operano nella regione e alle quali si può attribuire parte del merito della nuova primavera agricola nel Sud-Est asiatico.

Partner dell’ASEAN in questa sfida per rendere il settore agricolo sempre più sostenibile, sono le cosiddette Rome Based Agencies (RBAs) delle Nazioni Unite: la Food and Agriculture Organization (FAO), l’International Fund for Agricultural Development (IFAD) e il World Food Program (WFP). Esse offrono una vasta gamma di conoscenze ed esperienze nei settori finanziario e tecnologico, e sono riconosciuti a livello internazionale come le massime autorità nei campi della sicurezza alimentare, dell’agricoltura e della nutrizione.

Il WFP ha come missione primaria l’intervento in situazioni di emergenza per sostentare le popolazioni con aiuti alimentari che in prospettiva possano garantire uno sviluppo economico e sociale, ed è attualmente impegnato in progetti di assistenza in cinque Paesi dell’Associazione (Filippine, Myanmar, Laos, Indonesia e Cambogia). La FAO e l’IFAD, invece, lavorano per l’implementazione di progetti a lungo termine che possano creare sviluppo agricolo rispettivamente con l’obiettivo di sconfiggere la fame e la malnutrizione nel mondo, e di rendere le economie rurali più inclusive, produttive e sostenibili.

La FAO, della quale fanno parte tutti i membri dell’ASEAN, ha una fruttuosa storia di cooperazione bilaterale con l’Associazione stessa, alla quale fornisce consulenza su politiche, analisi e assistenza nel settore agricolo, in particolare collaborando con la ASEAN Economic Community (AEC). L’ASEAN e la FAO, attraverso un Memorandum of Understanding firmato nel 2013, si sono impegnate ad aumentare la cooperazione in campo agricolo con l’obiettivo di ridurre la fame nella regione, progredire nel campo della sicurezza alimentare, e prevenire e controllare le malattie animali transnazionali. 

L’IFAD, invece, è attualmente impegnata nella collaborazione col Segretariato per supportare due obiettivi: l’ASEAN Programme on Sustainable Management of Peatland Ecosystems per limitare l’impatto ambientale dello sfruttamento agricolo, e l’ASEAN Economic Blueprint 2025 che si concentra sullo sviluppo delle tecnologie digitali. In collaborazione con gli stati membri, l’IFAD sta facilitando la raccolta e l’analisi di dati relativi alla gestione delle terre, per monitorare e prevenire gli incendi e lo smog, oltre a rafforzare il coordinamento regionale per la prevenzione degli stessi. L’IFAD, inoltre, assiste anche i piccoli produttori nell’utilizzo di tecnologie digitali per la produzione agricola, facilitando nuove partnership tra il settore pubblico e privato, e fornendo gli strumenti necessari per l’implementazione di queste tecniche attraverso corsi di formazione mirati. 

Attraverso questi esempi di multilateralismo, l’ASEAN riceve dal sistema ONU un importante supporto nella sua corsa per rendere l’agricoltura un mezzo efficiente per il sostentamento della sua popolazione, e per uno sviluppo sostenibile come indicato dall’Agenda 2030 delle Nazioni Unite. La stretta cooperazione tra organizzazioni regionali e globali, in particolare su problematiche che riguardano il miglioramento delle condizioni di vita delle persone, si conferma il più efficace strumento di politica di sviluppo, rendendo possibile il trasferimento rapido di nuove tecnologie anche nelle aree rurali più povere e periferiche. 

A cura di Luca Menghini

Sfide e opportunità per la malese Top Glove nell’anno del Covid-19

Il più grande produttore mondiale di guanti in lattice ha collezionato profitti record quest’anno, ma ha anche chiuso 28 fabbriche a causa del virus 

Top Glove è un’azienda malese produttrice di guanti in gomma, specializzata anche in mascherine per il viso e altri prodotti. L’azienda possiede e gestisce 41 fabbriche in Malesia, Cina, Thailandia e Vietnam, e produce 220 milioni di guanti di gomma usa e getta al giorno, esportando in 195 Paesi con oltre 2.000 clienti in tutto il mondo. Due terzi dei guanti in lattice del pianeta sono realizzati in Malesia, con Top Glove che ne produce uno su cinque. I mercati più grandi dell’azienda sono il Nord America e l’Europa. 

“La richiesta urgente di materiale sanitario sembra diventata la normalità per Top Glove”, ha dichiarato ai giornalisti il Direttore esecutivo Lim Cheong Guan, aggiungendo inoltre che la domanda dovrebbe continuare a crescere. “Prevediamo che nei prossimi tre anni ci sarà ancora carenza di guanti”, ha aggiunto. “Il potenziale aumento della domanda è dovuto principalmente al fatto che le attuali scorte di guanti sono a livelli estremamente bassi nei magazzini dei nostri clienti”. L’azienda stima infatti che la domanda di guanti crescerà del 20% quest’anno, del 25% l’anno prossimo e del 15% dopo la pandemia.

A causa del forte aumento della domanda durante la pandemia, il valore dell’azienda si è moltiplicato di almeno sei volte quest’anno, alterando la composizione del mercato azionario della Malesia e diventando una delle società più quotate nel Paese. Nell’anno finanziario terminato il 31 agosto 2020, la domanda di guanti di gomma era così forte che l’azienda ha aumentando i guadagni dell’intero anno a oltre 1 miliardo di dollari, una cifra record che ha accresciuto in maniera significativa il valore delle azioni della società. Forte di questi risultati, nel novembre 2020, l’azienda ha anche donato un totale di $45 milioni al fondo governativo Covid-19 istituito per combattere la pandemia.

Tuttavia, nello stesso mese, un focolaio è emerso nello stabilimento di Meru, cittadina nel distretto di Klang a Selangor, lo stato più sviluppato della Malesia, costringendo la dirigenza ad optare per la chiusura temporanea di 28 stabilimenti nel Paese, facendo crollare del 10% il valore delle azioni della società. La settimana scorsa il valore delle azioni dell’azienda è diminuito ancora del 3,5%, ma è comunque aumentato del 337% dall’inizio dell’anno. Su 5.767 impiegati sottoposti ai controlli, ben 2.453 sono risultati positivi al virus, evidenziando la necessità di azioni drastiche per contenere i danni sul piano epidemiologico. La maggior parte dei casi positivi nel cluster sono operai, per lo più stranieri immigrati dal Nepal, che vivono spesso in condizioni igieniche precarie in grandi e affollati complessi abitativi.

Quest’anno infatti Top Glove è stata sotto i riflettori globali non solo per i suoi profitti da record, ma anche per le accuse di pratiche di sfruttamento del lavoro. A luglio, gli Stati Uniti hanno vietato l’importazione di guanti da due delle filiali dell’azienda a causa delle preoccupazioni sul lavoro forzato. Glorene Das, Direttrice esecutiva di Tenaganita, una ONG con sede a Kuala Lumpur, ha dichiarato alla BBC che “questi lavoratori sono vulnerabili perché vivono in appartamenti condivisi e affollati e svolgono un lavoro che non consente di praticare un rigoroso distanziamento sociale”.

Di fronte alle polemiche, il Ministro della Difesa malese Ismail Sabri Yaakob ha annunciato che le autorità inizieranno immediatamente a far rispettare le nuove regole sugli alloggi dei lavoratori e ad imporre multe di circa $12.300 per ogni dipendente che vive in alloggi non regolamentati. Inoltre, le autorità del Paese hanno testato tutti i lavoratori di Top Glove nelle fabbriche e nei dormitori interessati con l’obiettivo di circoscrivere al più presto il focolaio e limitare i danni. Secondo il Ministro del commercio internazionale e dell’industria Mohamed Azmin Ali infatti è necessario mettere l’azienda nelle condizioni di continuare la produzione, dal momento che Top Glove è una delle poche aziende in Malesia orientata alla produzione di materiale sanitario in plastica e una delle più importanti del mercato globale.

Malgrado questo ostacolo inaspettato, la presenza e l’attività di Top Glove continua ad avere grande importanza per la Malesia e per il resto del mondo che utilizza i suoi prodotti di qualità. L’azienda infatti ha messo da parte durante l’anno risorse sufficienti per espandere la capacità di produzione a 100 miliardi di pezzi nei prossimi cinque anni. La crisi globale di quest’anno ha messo a dura prova le decine di fabbriche produttrici di guanti in gomma sparse nel Sud-Est asiatico, ma allo stesso tempo le ha messe nelle condizioni di aumentare la produzione e svolgere un ruolo di primo piano nella battaglia al Covid-19. 

  A cura di Diego Mastromatteo           

Sicurezza comune tra UE e ASEAN

Europa e Sud-Est asiatico rafforzano il dialogo strategico nel campo della sicurezza, ampliando la loro cooperazione anche a tematiche non tradizionali

L’Unione Europea e l’ASEAN sono consapevoli che la stabilità di un Paese membro è strettamente interconnessa a quella degli altri; per questo hanno deciso che la creazione di un ecosistema di sicurezza comune dovesse essere uno dei principi fondamentali del loro partenariato. La cooperazione tra le due organizzazioni in questo campo ha solide tradizioni, ed è dimostrata, tra le altre cose, dal regolare coinvolgimento dell’Alto Rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza nelle riunioni ministeriali del Forum Regionale dell’ASEAN (ARF). Inoltre nel corso degli anni, i funzionari europei hanno sia dato un contributo alla realizzazione dei piani dell’ARF, sia hanno co-presieduto alcune iniziative di questo Forum regionale. Specularmente, l’ASEAN dal 2014 ha iniziato a prendere parte ad alcuni corsi di orientamento sulla difesa comune dell’Unione Europea, attraverso la presenza di suoi alti funzionari.

Negli ultimi anni, gli obiettivi di sicurezza condivisi si sono ampliati a questioni non tradizionali tra cui: la lotta al terrorismo, la lotta alla criminalità transnazionale, la gestione delle crisi sociali, la prevenzione dei conflitti, la sicurezza marittima e la gestione dei pericoli dati dai materiali chimici, biologici, radiologici e nucleari.  L’abitudine alla cooperazione congiunta è culminata con la stesura di un ASEAN-EU Plan of Action (2018-2022) in occasione della 22° Riunione Ministeriale UE-ASEAN, nella quale si è deciso di far evolvere la relazione tra le due organizzazioni in un Partenariato Strategico. La decisione è stata poi confermata il 1 dicembre 2020, quando le due organizzazioni sono ufficialmente diventate partner strategici.

Il tema forse più importante della cooperazione tra UE e ASEAN, tra quelli sopra elencati, è quello relativo alla sicurezza marittima. Nel 2020 quest’ultima è stata individuata tra le aree di intervento prioritarie, in quanto tutte le principali economie dell’ASEAN si affacciano sul Mar Cinese Meridionale, acque in cui passa buona parte del traffico globale di merci. Di conseguenza, ogni focolaio di instabilità che minaccia la navigabilità degli stretti si riflette immediatamente sull’economia dei Paesi coinvolti, e rappresenta una seria minaccia per lo sviluppo pacifico della regione. L’UE, uno dei più importanti partner commerciali dell’ASEAN, è ugualmente interessata alla risoluzione pacifica dei conflitti territoriali presenti nella zona. Sul lato pratico, la collaborazione sulla sicurezza marittima  ha dato vita ad un comitato permanente UE-ASEAN su temi come la pirateria, la sicurezza dei porti e la gestione comune delle risorse. L’obiettivo che si vuole raggiungere è quello di evitare conflitti per il dominio dei mari e soprattutto promuovere il rispetto del “diritto del mare”.

Il terrorismo rappresenta una delle principali sfide alla sicurezza nei Paesi europei e in quelli dell’ASEAN. Questi ultimi hanno conosciuto la sua brutalità per la prima volta nel 2002, all’indomani degli attenti di Bali e Denpasar compiuti dall’organizzazione terroristica Jemaah Islamiyah. La strage ha dato impulso al Segretariato dell’ASEAN per la stesura di una Joint Declaration on Cooperation to Combat Terrorism, una dichiarazione di intenti nella quale si sottolinea la convinzione che il terrorismo debba essere combattuto congiuntamente e a livello internazionale; a seguito di questa dichiarazione, la lotta al terrorismo è stata ribadita ad ogni meeting congiunto UE-ASEAN. Nell’ultimo ASEAN-EU Plan of Action sono stati previsti incontri fra esperti in controterrorismo di entrambe le delegazioni: inoltre, Indonesia, Filippine, Malesia e Thailandia stanno beneficiando dell’applicazione di misure ad hoc grazie al progetto UE per la Prevenzione e il Contrasto dell’estremismo violento.

Oggi l’Unione Europea e l’ASEAN non solo collaborano come organizzazioni, ma lo fanno anche a livello bilaterale tra singoli stati membri. Un altro traguardo importante in tema di sicurezza comune lo si trova in un accordo tra UE e Vietnam. Il Vietnam ha, infatti, firmato un memorandum d’intesa per prendere parte alle operazioni civili e militari, dispiegate dall’Oceano Indiano all’Africa Orientale, portate avanti dall’Unione Europea. L’accordo è di particolare importanza perché è il primo stipulato tra Bruxelles e un singolo Paese dell’ASEAN, inoltre dimostra la volontà del Vietnam e dell’Unione Europea di voler mantenere la pace e la sicurezza all’interno dei propri confini e in altre parti del mondo. 

A cura di Carola Frattini 

RCEP: sfide e opportunità per l’Indonesia

L’Indonesia cerca di trarre vantaggio dall’adesione alla RCEP mentre è alle prese con problemi di infrastrutture e investimenti

La firma della Regional Comprehensive Economic Partnership (RCEP) avvenuta il 15 novembre segna un’importante tappa nella storia recente dell’Indonesia. Dopo otto anni di negoziati, i dieci Stati membri dell’ASEAN insieme a Cina, Giappone, Corea del Sud, Australia e Nuova Zelanda, hanno finalmente firmato un accordo commerciale destinato a diventare il più grande della storia. Il trattato infatti creerà un mercato di circa 2,1 miliardi di consumatori, equivalente al 30% del PIL globale.

L’obiettivo della RCEP è quello di creare un partenariato economico reciprocamente vantaggioso per ciascuno dei Paesi partecipanti grazie all’abbassamento delle tariffe, alla semplificazione delle procedure doganali e alla stesura di regolamenti economici comuni. Per l’Indonesia, l’adesione alla RCEP non solo aprirà le porte a una vasta gamma di opportunità commerciali future, ma nell’immediato servirà al Paese per rimettere in sesto un’economia pesantemente colpita dalla pandemia di Covid-19. Molti economisti stanno tuttavia ancora cercando di prevedere tutte le possibili implicazioni che un accordo così ambizioso comporterà per il mercato indonesiano.

Uno degli obiettivi immediati della RCEP è consentire alle merci di circolare in modo più efficiente attraverso i 15 Paesi membri. Ciò comporterebbe un indubbio vantaggio per Jakarta, poiché le attività commerciali di queste nazioni hanno rappresentato il 57% delle esportazioni totali dell’Indonesia e il 67% delle sue importazioni totali nel 2019. Inoltre, il 66% degli investimenti diretti esteri proviene da diversi Paesi firmatari quali Singapore, Cina, Giappone, Malesia e Corea del Sud. Tuttavia, per sfruttare al meglio i vantaggi dell’accordo, l’Indonesia ha bisogno di adeguare il suo sistema infrastrutturale.

Anche prima della pandemia di Covid-19, la crescita economica del Paese è stata spesso rallentata da questo fattore. Nel 2017, la Banca Mondiale ha stimato che l’Indonesia dovrà investire circa 500 miliardi di dollari nei prossimi 5 anni per colmare il suo divario infrastrutturale. Secondo gli esperti, una delle possibili soluzioni è quella di sfruttare maggiormente le iniziative infrastrutturali lanciate dai governi dell’Asia-Pacifico. Questi includono la cinese Belt & Road Initiative, la Partnership for Quality Infrastructure del Giappone, e l’istituzione della Banca Asiatica di Investimento per le Infrastrutture sponsorizzata da Pechino. 

La partecipazione a queste iniziative multilaterali non è tuttavia esente da rischi, e il governo indonesiano deve tenere conto dei risvolti geopolitici. In quanto uno dei principali Paesi del Sud-Est asiatico, l’Indonesia ha un mercato interno che fa gola alle altre potenze del continente asiatico e del mondo. Un esempio è il progetto della ferrovia ad alta velocità Jakarta-Bandung, la cui gara per la costruzione ha causato frizioni tra il Giappone e la Cina, entrambe interessate all’appalto. A vincere alla fine è stata Pechino, che ha offerto tassi di prestito più bassi e una tempistica più breve il completamento dell’opera.

La partecipazione alla RCEP contribuirà senza dubbio ad aumentare degli investimenti esteri diretti verso l’Indonesia. In passato, le rigide leggi sul lavoro hanno indotto molte aziende straniere a ridurre i propri investimenti; per risolvere questo problema, il governo ha introdotto quest’anno una nuova riforma, la Legge Omnibus, che mira a facilitare le attività economiche nel Paese modificando ben 76 leggi esistenti. Sono incluse tra le varie norme la riduzione della burocrazia, l’allentamento delle restrizioni sugli investimenti stranieri e l’abrogazione di alcune leggi sul lavoro.

Nonostante gli sforzi del governo, il progetto ha ricevuto severe critiche da vari gruppi sociali, poiché il disegno di legge taglia alcune protezioni sociali e allenta le norme ambientali, aumentando il rischio deforestazione e inquinamento. Tuttavia, è ancora troppo presto per vedere l’impatto a lungo termine del disegno di legge, in quanto tutto dipende dalle modalità di attuazione. La Legge Omnibus potrebbe effettivamente portare a un clima migliore per gli investimenti in Indonesia e quindi creare più posti di lavoro, ma deve essere sostenuta da una solida esecuzione e da un ampio monitoraggio da parte del governo.

Sulla base di quanto descritto è chiaro che fare affidamento solo sulla RCEP non è sufficiente, né per la ripresa post-pandemia, né per lo sviluppo economico a lungo termine dell’Indonesia. Per trarre il massimo vantaggio da questo accordo, il Paese deve sostenerlo con una solida pianificazione infrastrutturale e un quadro normativo moderno, entrambe grandi priorità per l’attuale governo. Una volta raggiunti questi obiettivi, l’Indonesia otterrà significativi benefici economici, aumentando la propria competitività e integrandosi maggiormente nella regione Asia-Pacifico. 

A cura di Rizka Diandra 

Traduzione di Andrea Passannanti 

Dietro la macchina da presa

Sfide e opportunità per la cinematografia del Sud-Est asiatico

Manila in the Claws of Light è come un film neorealista italiano. Ma ambientato all’inferno.”

È questo il commento riguardo al più famoso film del regista e sceneggiatore filippino Lino Brocka. Già nel 1975, anno della sua uscita sul grande schermo, il lungometraggio aveva ricevuto il consenso della critica: quella dei FAMAS (Filipino Academy of Movie Arts and Sciences Awards), che gli aveva attributo il premio come miglior film, miglior regia, migliore sceneggiatura, miglior direttore della fotografia, miglior attore, e miglior attore non protagonista; ma anche di quella occidentale, che lo aveva inserito nella lista dei migliori film al mondo, vi aveva dedicato un articolo sul New York Times, e ne aveva proiettato una parte al Festival di Cannes nel 2013. Nella sua versione in Blu-Ray, il film è preceduto da un’introduzione di Martin Scorsese.

Se negli anni d’oro del grande cinema italiano era più raro sentir nominare attori e registi provenienti da Sud-Est, la ricezione di Brocka ed altri in Europa a partire dagli anni 2000 è il segno di un nuovo interesse verso la settima arte del continente asiatico. Il caso più eclatante è sicuramente Parasite, film del regista sudcoreano Bong Joon-ho che nel 2020 è stato il primo film al mondo a ricevere contemporaneamente l’Oscar come Miglior Film e come Miglior Film Internazionale. 

Rispetto a Corea o Giappone, ci sono ancora difficoltà per i Paesi ASEAN nel fare breccia nel mercato cinematografico occidentale. Tuttavia, nonostante gli ostacoli, negli ultimi anni alcuni di loro sono riusciti ad inserirsi nel circuito dei Festival internazionali del Cinema.

È il caso dell’Indonesia con il suo Gundala, un film di supereroi scaturito dalla vena creativa del regista Joko Anwar. Il protagonista principale è tratto da uno dei personaggi del fumettista indonesiano Harya “Hasmi” Suraminata, che per oltre 50 anni si è dedicato a creare vignette, tanto da guadagnarsi il soprannome di “Stan Lee indonesiano”. Gundala è forse il supereroe più amato in Indonesia, e Anwar ha ben deciso di prenderlo come soggetto per il suo film. Distribuito nei cinema nel 2019, in solo una settimana ha portato nelle sale più di un milione di spettatori, e ha avuto la sua premiere al Toronto International Film Festival. Non è raro trovarlo nei numerosi Far East Asia festival italiani durante l’anno assieme a Impetigore, capolavoro horror sempre del medesimo regista. Nel 2020 è stato anche doppiato in francese e distribuito in Blu-Ray da Condor Films, una compagnia nota per distribuire film premiati a Cannes o al Sundance Film Festival.

Il genere documentaristico invece è ben rappresentato da Midi-Z, il direttore cinematografico naturalizzato taiwanese, ma originariamente nato in Myanmar. Il suo Ice Poison del 2014 è stato scelto da Taiwan per concorrere ai Foreign Language Academy Awards. Una scelta sensata, visti il suo esordio al Festival di Berlino, e la sua vittoria come “Best International Feature Movie” al festival di Edimburgo. Midi Z stesso è stato nominato “Regista Taiwanese dell’anno” ai 53esimi Golden Horse Awards di Taipei. Nonostante sia naturalizzato taiwanese, il tema di Myanmar è una costante delle sue opere più celebri, da Return to Burma (2014) a Road to Mandalay (2016).

Nonostante la poliedricità e la varietà di temi del cinema del Sud-Est asiatico, non molto riesce ancora ad arrivare nelle sale europee al di là dei Festival d’autore. Oltre all’ancora scarsa domanda del mercato, soprattutto la mancanza di fondi e di maggiore supporto governativo per il cinema creativo giocano un ruolo importante. L’Italia, in questo senso, è privilegiata: esistono spazi importanti per il cinema asiatico in molte città italiane, primo tra tutti il Festival del Cinema di Venezia. Anche la Rai offre da alcuni decenni una delle vetrine di cinefilia televisiva più importante a livello globale, dove trovare prodotti allettanti e curiosità di nicchia. Un ruolo di rilievo del nostro Paese, che se sfruttato nel modo giusto potrebbe portare ancora più persone ad avere un assaggio del ricco repertorio cinematografico dei Paesi ASEAN.

Articolo di Valentina Beomonte Zobel

Il futuro della Cambogia a un bivio

Mentre Phnom Penh si avvicina progressivamente alla Cina, gli Stati Uniti temono gli sviluppi nella regione

Lo scorso 2 ottobre, l’Asia Maritime Transparency Initiative del CSIS ha pubblicato delle immagini satellitari di una struttura in via di demolizione, precedentemente costruita dagli Stati Uniti presso la base navale di Ream, in Cambogia. L’edificio è stato il quartier generale tattico del Comitato nazionale per la sicurezza marittima durante la Guerra civile, e venne utilizzato come centro per il comando, il controllo e il coordinamento delle operazioni militari. La sua demolizione ha sollevato domande circa l’accesso dei cinesi nell’area, e se ciò significa che la Cambogia garantirà in futuro alla Cina di stazionare a Ream.

La preoccupazione era nata da un rapporto pubblicato dal Wall Street Journal nel luglio 2019, in cui si affermava che la Cambogia e la Cina avevano firmato un accordo segreto che avrebbe consentito alle forze armate cinesi di utilizzare una base della marina cambogiana. La prima bozza dell’accordo – intercettata da funzionari statunitensi, secondo fonti anonime – avrebbe consentito alla Cina di utilizzare la base per 30 anni, con un rinnovo automatico ogni dieci anni. L’accordo consentirebbe anche all’Esercito popolare di liberazione di inviare personale militare, immagazzinare armi e attraccare le proprie navi da guerra.

Oltre la demolizione della base navale di Ream, le aree circostanti sono state affittate anche da diverse società cinesi per lo sviluppo di un resort da 16 miliardi di dollari, insieme alla costruzione di un aeroporto a Dara Sakor, che dovrebbe diventare il più grande della Cambogia. L’infrastruttura dell’aeroporto stesso ha sollevato altre domande. Le prove raccolte hanno dimostrato che la lunghezza della pista dell’aeroporto supera la necessità di un normale aereo di linea, suscitando l’ipotesi che potrebbe non essere utilizzato solo per scopi commerciali, ma anche militari.

Nonostante le numerose domande e commenti, il governo cambogiano ha negato queste accuse. Il Primo Ministro Hun Sen ha ripetutamente dichiarato che alla Cina non è stato concesso il diritto esclusivo di utilizzare la base navale di Ream, poiché la costituzione vieta la costruzione di basi militari straniere sul suolo cambogiano. Inoltre, ha sottolineato che le navi da guerra – se autorizzate – di tutte le nazioni, comprese quelle degli Stati Uniti, sono le benvenute. Tuttavia, la risposta dalla Cina è stata limitata. In un’intervista, il portavoce del Ministero degli Esteri cinese Geng Shuang ha dichiarato: «A quanto ho capito, la controparte cambogiana ha negato». Tuttavia, si è rifiutato di chiarire se la Cina, da parte sua, nega l’affermazione. Si è piuttosto concentrato sulla natura delle relazioni sino-cambogiane, che ha descritto come “aperte, trasparenti, reciprocamente vantaggiose e alla pari”.

Al di là delle dichiarazioni, le implicazioni strategiche a seguito di questa accordo mettono Washington sul filo del rasoio. Se davvero verrà costruita una base militare cinese in Cambogia, gli equilibri di potere nel Sud-Est asiatico potrebbero cambiare notevolmente. A causa della sua posizione strategica, l’installazione consentirà alla Cina di estendere la sua influenza sullo Stretto di Malacca, una delle rotte di navigazione più trafficate del mondo. Allo stesso tempo, la Cina ha in mente progetti altrettanto ambizioni in altri Paesi: un’installazione analoga a Gibuti, la costruzione di un porto in acque profonde in Myanmar, e un massiccio piano infrastrutturale in Sri Lanka come parte della Belt and Road Initiative. Secondo gli esperti, Pechino sta cercando di creare un anello di infrastrutture che dal Mar Cinese Meridionale si estende fino all’Oceano Indiano e all’Africa orientale, in modo da rafforzare la sua posizione tra le potenze globali.


Inoltre, fra i dieci Stati membri dell’ASEAN, il governo cambogiano è stato il più accogliente nei confronti della Cina. Allo stesso tempo, quest’ultima è di gran lunga il principale partner commerciale della Cambogia e la maggiore fonte di investimenti esteri diretti – con il volume di scambi bilaterali che ha raggiunto i 7 miliardi di dollari lo scorso anno. Entrambi i Paesi hanno recentemente firmato un accordo di libero scambio, il primo nel suo genere stipulato da Phnom Penh. Al contrario, i rapporti della Cambogia con gli Stati Uniti sembrano essere diventati più tesi, a causa dell’approccio critico di Washington verso gli affari interni della Cambogia. Tuttavia, gli Stati Uniti sembrano aver riadattato la loro strategia a partire da quest’anno. Piuttosto che condurre interventi diretti, sotto la guida dell’ambasciatore statunitense in Cambogia Patrick Murphy, il loro approccio sembra essere più diplomatico, flessibile e amichevole.

Sebbene sia troppo presto per vedere cosa c’è in serbo per i tre Paesi, sappiamo che sia gli Stati Uniti che la Cina stanno cercando di avere un rapporto privilegiato con la Cambogia. Attualmente, la Cina sembra esserci riuscita meglio, poiché i legami tra le due nazioni continuano a prosperare. Tuttavia, il futuro sembra promettente anche per gli Stati Uniti mentre procedono con la loro nuova strategia diplomatica, lavorando duramente per ripristinare le relazioni bilaterali. Indubbiamente, si assisterà a un nuovo sviluppo delle relazioni USA-Cina-Cambogia nei prossimi mesi – nella speranza che si riveli reciprocamente vantaggioso per tutte le parti.

A cura di Rizka Diandra 

Traduzione di Andrea Passannanti

UE – ASEAN, sempre più forte la cooperazione internazionale

Unione Europea e ASEAN consolidano i loro rapporti in materia di economia, sicurezza, sostenibilità ambientale, e connettività

Dopo sei anni di colloqui, nella riunione di martedì primo dicembre, l’Unione Europea e i dieci Paesi del gruppo ASEAN hanno aggiornato lo status delle rispettive relazioni, passando dal “Partenariato di Dialogo” al ben più consistente “Partenariato Strategico”.

Le interazioni tra Unione Europea e ASEAN hanno una lunga storia alle spalle, costellata da scambi commerciali, investimenti diretti esteri e accordi bilaterali tra l’UE e i singoli membri dell’Associazione. Tuttavia, il desiderio da parte della Commissione Europea di rafforzare i rapporti tramite una partnership più avanzata è emerso in via ufficiale solo nel 2015 e due anni dopo, nel 2019, i Ministri degli Esteri dell’ASEAN e dell’UE hanno concordato i principi per l’elaborazione del Partenariato Strategico. 

Il meeting del primo dicembre scorso ha sancito l’impegno delle parti nell’organizzazione di vertici a cadenza regolare e nel rafforzamento della cooperazione in quattro aree strategiche: economia, sicurezza, sostenibilità ambientale e connettività. I copresidenti della riunione ministeriale, l’Alto Rappresentante dell’Unione per gli Affari Esteri Josep Borrell e il Ministro degli Esteri singaporiano Vivian Balakrishman, hanno entrambi accolto con favore l’iniziativa, sottolineando l’importanza di questo “evento storico”.

L’esito della trattativa è stato a lungo incerto a causa delle controversie sull’olio di palma, un prodotto ancora essenziale per le economie di Malesia e Indonesia ma avverso all’UE per le ripercussioni ambientali della sua produzione. Nell’ottica dello sforzo comune, però, entrambe le parti hanno convenuto sull’istituzione di un comitato congiunto, interamente dedicato alla riformulazione in chiave sostenibile dell’industria degli oli vegetali. Nell’approccio allo sviluppo sostenibile, inoltre, i leader UE e ASEAN hanno fatto riferimento agli obiettivi individuati da alcuni precedenti accordi internazionali, come l’Accordo di Parigi sui cambiamenti climatici e la Convenzione Quadro di Sendai per la riduzione del rischio di catastrofi ambientali. L’idea è quella di instaurare un dialogo completo che includa argomenti quali il cambiamento climatico, la preservazione degli oceani e della biodiversità, l’incremento dell’energia rinnovabile e il rispetto dei diritti umani. L’ASEAN ha poi accolto favorevolmente l’impegno comunitario per la promozione di città più “verdi”, attraverso l’implementazione del programma “ASEAN Smart Green Cities”.

La pandemia di Covid-19 è stata il secondo punto all’ordine del giorno. Riconoscendone l’impatto senza precedenti, i leader hanno incoraggiato una maggiore cooperazione per incrementare le rispettive capacità di risposta alla crisi, coniugando salute pubblica e sviluppo sostenibile. L’UE ha già offerto all’ASEAN 800 milioni di euro per affrontare l’emergenza sanitaria e si è impegnata nell’elargizione di altri 20 milioni e nel sostegno del progetto “South East Asia Health”. Entrambe le parti hanno, inoltre, concordato un approccio congiunto per garantire l’accessibilità equa e collettiva ai vaccini, definiti come “beni pubblici globali”. In tale contesto, l’Unione Europea fornirà un contributo di 500 milioni di euro in sovvenzioni e prestiti garantiti per sostenere il COVAX, la struttura multilaterale destinata ad accelerare lo sviluppo, la produzione e la diffusione globale di vaccini.

I leader hanno poi riconosciuto l’importanza di una sempre più solida cooperazione economica, soprattutto indirizzata alla ripresa dell’economia mondiale post-Covid-19. Nel concreto, l’impegno assunto dalle parti sarà quello di compiere ulteriori sforzi verso la negoziazione di un ambizioso accordo di libero scambio tra UE e ASEAN, incentrato su maggiore integrazione economica e liberalizzazione del commercio.

Nel richiamare la dichiarazione UE-ASEAN sulla cooperazione in materia di cybersecurity, adottata nel 2019, le parti hanno inoltre sottolineato l’importanza di rafforzare la cooperazione in tale ambito, per promuovere l’informazione aperta, sicura, accessibile e pacifica. Il tema della sicurezza viene ulteriormente ripreso dall’intento di consolidare gli sforzi congiunti per contrastare il terrorismo e i crimini transnazionali oltre che per assicurare la pace e la stabilità duratura nella regione.

Infine, in una dichiarazione separata i Ministri si sono impegnati a promuovere la connettività tra l’UE e l’ASEAN, necessaria per supportare la ripresa socioeconomica post-pandemia, in modo più sostenibile e inclusivo. Si pensa dunque a semplificare e diversificare le reti di trasporto, incoraggiare l’utilizzo di energie pulite e rinnovabili, garantire maggiore sicurezza alimentare, energetica e sanitaria e favorire lo scambio politico nei campi dell’istruzione, della ricerca, del turismo e della tecnologia.

Alla fine delle trattative è emerso ancora una volta l’approccio pragmatico di Unione Europea e ASEAN. La pandemia non ha risparmiato nessuno e il Partenariato Strategico sottolinea l’urgenza di avvicinare due fra i maggiori blocchi economici esistenti, che valgono quasi il 30% del PIL mondiale e che insieme possono essere determinanti per la ripresa economica del mondo intero. Come ha ricordato Gunnar Wiegand, Direttore degli Affari Esteri per l’Asia e il Pacifico dell’UE, si è tratta di un accordo storico “tra due ancore di stabilità in un mondo di crescenti incertezze”.

A cura di Emilia Leban

L’Indonesia punta sul settore elettrico

Il Paese, maggiore produttore mondiale di nichel, vuole costruire un’industria che includerà la realizzazione di veicoli elettrici 

In Indonesia il settore dei trasporti ha contribuito per quasi un terzo alle emissioni di gas serra nel 2018, principalmente a causa della mobilità stradale. Il governo indonesiano si è impegnato dunque a ridurre le proprie emissioni di CO2 per raggiungere l’obiettivo dell’accordo di Parigi di mantenere la temperatura globale al di sotto dei 2 °C. A tal proposito, la diffusione dei veicoli elettrici (EV) è vista da molti osservatori come la principale strategia futura per ridurre le emissioni inquinanti. 

Al fine di fare chiarezza sulla materia, il Ministero dei Trasporti indonesiano ha già stilato una bozza di regolamento sui test che i veicoli elettrici dovranno affrontare prima di poter essere venduti nel Paese. L’adozione di linee guida avvenuta in tempi così rapidi è una buona notizia per i produttori di veicoli elettrici, sia domestici che stranieri, in quanto da tempo puntavano a questo mercato di oltre 200 milioni di potenziali consumatori. La spinta è arrivata dal Presidente Joko Widodo in persona, il quale sta puntando sull’accelerazione del programma EV per la mobilità.

Il regolamento delinea inoltre le varie iniziative che il governo prenderà per rafforzare l’industria domestica dei veicoli elettrici, tra cui l’obbligo per i prodotti finiti di avere componenti realizzati localmente. La realizzazione di 2.200 unità di veicoli elettrici, 711.000 unità ibride e 2,1 milioni di motociclette elettriche entro il 2025, renderà l’Indonesia meno dipendente dal petrolio, il cui import grava pesantemente sul bilancio pubblico. Tuttavia, Il colosso statale dell’elettricità Perusahan Listrik Negara stima che l’Indonesia necessiti di oltre 31.000 nuove stazioni di ricarica per veicoli elettrici entro il 2030 per raggiungere gli obiettivi prefissati, con un costo pari a 3,7 miliardi di dollari. L’Istituto per la Riforma dei Servizi Essenziali ha identificato la mancanza di stazioni di ricarica come uno dei fattori chiave che inibiscono la crescita delle auto elettriche in Indonesia. A questo si aggiungono gli insufficienti incentivi fiscali e gli alti costi di supporto dell’infrastruttura EV.

In compenso l’Indonesia è uno dei maggiori produttori mondiali di nichel, di cui il governo ha recentemente vietato l’esportazione: l’obiettivo è quello di incentivare le aziende straniere a investire nella produzione di prodotti finiti direttamente nel Paese, utilizzando il nichel indonesiano. Il CEO di Tesla Elon Musk, pur non essendo questa ancora presente nel mercato indonesiano, ha chiesto alle compagnie minerarie di aumentarne la produzione. La materia prima è indispensabile all’azienda californiana per raggiungere la produzione delle proprie celle della batteria a 200 GWh di capacità di produzione annuale nel 2023 e 3 TWh nel 2030.

Il Ministro dell’Industria indonesiano Agus Gumiwang ha mostrato interesse verso la proposta di Tesla, che ha già in programma la costruzione di una fabbrica di batterie in loco, più precisamente a Batang. È attualmente in corso una trattativa tra l’azienda californiana e il governo indonesiano per costruire una nuova impresa di estrazione e lavorazione di nichel nel Paese. Anche il Ministro Coordinatore per gli Affari Marittimi e gli Investimenti, Luhut Binsar Pandjaitan, ha confermato la disponibilità del governo indonesiano a concedere l’utilizzo delle riserve di nichel del Paese qualora l’azienda di Elon Musk dovesse decidere di investire nella costruzione di una fabbrica di batterie nel Paese.

Ormai consapevole della crescente importanza del nichel nello sviluppo di questo settore, l’Indonesia vuole dare vita anche a un’industria di batterie per veicoli elettrici, con l’obiettivo di mettere sul mercato le prime celle entro il 2023. A progettarle e costruirle sarà la “Indonesia Battery Holding”, una nuova azienda formata dalla compagnia petrolifera statale Pertamina, dalla società di distribuzione dell’energia Perusahan Listrik Negara e dalla compagnia mineraria Aneka Tambang. La fondazione di questa nuova società a forte partecipazione statale, metterà l’Indonesia in una posizione di forza nel mercato mondiale delle batterie.

Ad oggi, il punto debole di questa strategia è il difficile accesso alle tecnologie necessarie per la produzione su scala industriale. Per rimediare a ciò, il governo sta portando avanti una trattativa con l’azienda cinese CATL e la coreana LG Chem, due tra i più grandi produttori al mondo di batterie per veicoli elettrici. L’ingresso di questi player nel mercato indonesiano, porterà investimenti per ulteriori 20 miliardi di dollari da destinare allo sviluppo delle tecnologie mancanti. Le batterie per i veicoli elettrici prodotte in Indonesia, inoltre, non saranno destinate soltanto al settore dei trasporti, ma anche a quello dello stoccaggio di energia: gli esperti prevedono che la domanda aumenterà per entrambi gli utilizzi.

In conclusione, dato il mercato attuale dell’Indonesia, le normative esistenti e le deboli infrastrutture industriali, i veicoli elettrici dovranno affrontare sfide molto ardue per penetrare nel commercio automobilistico. Per raggiungere un’elevata quota di mercato e una significativa riduzione delle emissioni, sono necessari strumenti politici di supporto. Le nuove misure dovranno mirare a fornire incentivi per i veicoli elettrici e disincentivi per gli ICEV (internal combustion engine vehicle). Gli strumenti dovrebbero includere incentivi fiscali, sia iniziali che ricorrenti, incentivi non finanziari, incentivi normativi e la disponibilità di infrastrutture di ricarica pubbliche, strumenti indispensabili già adottati in altri paesi con un’elevata diffusione di veicoli elettrici.

A cura di Diego Mastromatteo

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