Viaggiare nel Sud-Est asiatico è sempre una buona idea

Estate è tempo di viaggi. Scegliere una meta tra i Paesi dell’ASEAN offre la possibilità di entrare in contatto con città e regioni piene di storia, vita e cultura. Una panoramica

Di Tommaso Magrini

Il Sud-Est asiatico rappresenta una delle aree geografiche più affascinanti del pianeta per chi desidera una vacanza ricca di esperienze autentiche, bellezze naturali e un ottimo rapporto qualità-prezzo. Viaggiare tra i Paesi dell’ASEAN significa immergersi in culture millenarie, assaporare una cucina vibrante e scoprire una varietà di paesaggi che spazia da metropoli ipermoderne a villaggi remoti immersi nella giungla. È una destinazione adatta tanto ai viaggiatori zaino in spalla quanto a chi cerca resort di lusso, con un clima tropicale che la rende godibile quasi tutto l’anno. Ma il vero valore aggiunto è la varietà: ogni nazione, ogni città e isola ha un carattere proprio e irripetibile. Ecco alcune destinazioni imperdibili nel cuore del Sud-Est asiatico.

Bangkok, in Thailandia, è una città che non smette mai di stupire. È un caleidoscopio di contrasti dove antichi templi convivono con grattacieli scintillanti, mercati galleggianti con centri commerciali futuristici. Il Wat Arun e il Palazzo Reale sono solo alcune delle meraviglie architettoniche che si possono esplorare, ma il vero fascino di Bangkok è dato dalla sua energia inarrestabile, dalla street food culture che trasforma ogni angolo di strada in un’esperienza gastronomica, e dall’ospitalità calda dei thailandesi, sempre pronti a un sorriso e a un gesto gentile.

Passando in Vietnam, Hoi An è una perla incastonata lungo la costa centrale, sospesa tra passato e presente. Questa cittadina patrimonio dell’UNESCO è celebre per il suo centro storico ben conservato, illuminato la sera da lanterne colorate che creano un’atmosfera quasi irreale. Qui si cammina tra edifici coloniali francesi, templi cinesi e antichi magazzini trasformati in boutique artigianali. La vita scorre lenta, il fiume Thu Bon accompagna le giornate con la sua calma e le spiagge vicine offrono momenti di totale relax.

In Indonesia, Ubud rappresenta il cuore spirituale e culturale di Bali. Circondata da risaie, foreste e templi nascosti, Ubud è il luogo ideale per chi cerca un contatto profondo con la natura e con sé stesso. È facile perdersi tra le botteghe di artigianato, assistere a una danza balinese al crepuscolo o partecipare a una sessione di yoga in un centro immerso nella vegetazione. Ma oltre all’estetica, è la sensazione di equilibrio che si respira a rendere Ubud così speciale.

Luang Prabang, in Laos, è un altro luogo che sembra vivere in un tempo tutto suo. Situata alla confluenza di due fiumi e circondata da montagne, la città incanta con i suoi templi buddisti dorati, i monasteri tranquilli e i mercati serali pieni di colori. Una delle esperienze più toccanti è quella dell’elemosina mattutina dei monaci, un rituale silenzioso e carico di spiritualità che testimonia la profonda devozione della popolazione locale. Luang Prabang è perfetta per chi cerca una bellezza discreta e autentica.

Nella moderna metropoli di Singapore, l’efficienza urbana incontra la multiculturalità in un connubio sorprendentemente armonioso. Questa città-stato è un crocevia di influenze cinesi, malesi, indiane e occidentali che si riflettono tanto nella sua cucina quanto nella sua architettura. Dalla futuristica Marina Bay Sands agli splendidi Gardens by the Bay, Singapore è un laboratorio urbano che mostra come si possa coniugare sviluppo tecnologico e sostenibilità. È il luogo ideale per iniziare o concludere un viaggio nel Sud-est asiatico.

Chi sceglie la Cambogia, non può non lasciarsi incantare da Siem Reap e dall’immenso complesso di Angkor Wat. Più che un sito archeologico, Angkor è una città sacra che racconta la grandezza dell’Impero Khmer. Visitare le sue rovine, invase da radici di alberi secolari, è un’esperienza quasi mistica. Siem Reap, la cittadina che funge da base per l’esplorazione dei templi, ha saputo crescere senza perdere il suo fascino, offrendo un mix equilibrato tra tradizione e modernità.

Brunei, spesso trascurato nelle rotte turistiche, offre una sorpresa inaspettata con la sua capitale Bandar Seri Begawan. Questo piccolo sultanato, tra i più ricchi al mondo, è caratterizzato da un’architettura islamica monumentale, come la moschea di Omar Ali Saifuddien, e da un livello di pulizia, ordine e sicurezza notevole. A pochi minuti dal centro, però, ci si può imbarcare su una barca e scoprire il villaggio galleggiante di Kampong Ayer, dove la vita scorre ancora come secoli fa. Brunei è il luogo dove spiritualità, lusso e tradizione convivono senza sforzo apparente.

Nella meravigliosa Malesia, George Town, sull’isola di Penang, è un trionfo di colori, sapori e culture. Questa città, anch’essa patrimonio dell’UNESCO, è un museo a cielo aperto, dove i murales di street art raccontano storie di vita quotidiana e i templi indù sorgono accanto a moschee e chiese coloniali. La vera anima di George Town, però, sta nel suo cibo: dalla laksa alle roti, ogni piatto racconta un intreccio di influenze che solo la Malaysia sa offrire con tanta autenticità.Infine, nelle Filippine, El Nido rappresenta la quintessenza della fuga tropicale. Situata sull’isola di Palawan, El Nido offre paesaggi mozzafiato fatti di lagune nascoste, spiagge deserte, scogliere calcaree e acque turchesi. Qui la natura è ancora sovrana e l’uomo vi si muove con rispetto. Esplorare l’arcipelago di Bacuit in barca è un’esperienza di pura meraviglia, tra snorkeling tra pesci colorati e tramonti che sembrano dipinti.

Blue foods: alleanza a Sud-Est tra oceano e innovazione

Il ruolo di questa galassia di alimenti provenienti da ambienti acquatici è sempre più cruciale nello sviluppo sostenibile dell’area ASEAN

Di Tommaso Magrini

Nel cuore del Sud‑Est asiatico, dove il mare non è solo orizzonte ma fonte quotidiana di cibo, lavoro e identità, si sta facendo strada una nuova visione per uno sviluppo più giusto e sostenibile: quella delle blue foods. Questo termine, ancora poco noto al grande pubblico, racchiude una galassia di alimenti provenienti da ambienti acquatici — mari, fiumi, lagune — che spaziano dal pesce ai molluschi, dalle alghe commestibili fino a organismi minori che però hanno un impatto enorme, sia nutrizionale che economico. E oggi, più che mai, queste risorse stanno rivelandosi un punto chiave per affrontare le sfide interconnesse di malnutrizione, disoccupazione e degrado ambientale in tutta la regione ASEAN.

Il potenziale nutrizionale delle blue foods è straordinario: ricche di proteine facilmente assimilabili, di acidi grassi omega-3 e di micronutrienti fondamentali come il ferro e la vitamina B12, queste risorse costituiscono una vera ancora di salvezza in contesti dove la malnutrizione infantile e la carenza di proteine animali restano diffuse. In Indonesia, ad esempio, più della metà dell’apporto di proteine animali deriva proprio dal pesce e da altri prodotti marini, rendendo queste risorse cruciali per la sicurezza alimentare di oltre 280 milioni di persone. Ma il valore delle blue foods non si limita all’aspetto nutrizionale. Esse rappresentano anche un pilastro economico e culturale per centinaia di milioni di persone che vivono nelle comunità costiere: famiglie che da generazioni praticano la pesca artigianale o l’allevamento ittico, spesso in condizioni di forte vulnerabilità.

Tuttavia, proprio queste risorse così vitali sono messe sempre più sotto pressione da un sistema economico che, fino a poco tempo fa, ha privilegiato quantità a scapito della sostenibilità. La sovrapesca, l’inquinamento marino, la distruzione delle mangrovie e il cambiamento climatico stanno minacciando l’equilibrio di interi ecosistemi, compromettendo anche la sopravvivenza di chi da essi dipende. A ciò si aggiunge un’acquacoltura intensiva, spesso mal regolamentata, che ha prodotto impatti negativi sia ambientali che sociali: foreste di mangrovie convertite in vasche per i gamberi, contaminazione delle acque, perdita di biodiversità.

Eppure, in questo scenario complesso, stanno emergendo segnali incoraggianti che ci parlano di un cambiamento possibile — e in larga parte già in atto. Uno dei protagonisti più promettenti di questa trasformazione è rappresentato dalle startup locali attive nel mondo delle blue foods. Giovani imprese, spesso fondate da innovatori, scienziati o membri delle stesse comunità costiere, stanno reinventando il rapporto tra uomo e oceano con soluzioni che uniscono tecnologia, sostenibilità e inclusione.

In Indonesia, Cambogia, Vietnam e Filippine, molte startup stanno sviluppando modelli di acquacoltura rigenerativa, come l’integrazione tra allevamenti di pesce, alghe e molluschi (noto come Integrated Multi-Trophic Aquaculture) oppure la riforestazione delle mangrovie accanto alla coltivazione di gamberi, in un modello sostenibile noto come silvoacquacoltura. Non solo queste pratiche aiutano a rigenerare gli ecosistemi locali, ma spesso migliorano anche la resilienza economica delle famiglie coinvolte.

Altre realtà, come Collabit in Indonesia, stanno dimostrando che anche gli scarti della pesca possono diventare risorse preziose: utilizzando ciò che normalmente verrebbe buttato via — come le parti non commestibili del tonno — per produrre mangimi sostenibili o biofertilizzanti. Sono esempi concreti di economia circolare applicata al mare, capaci di coniugare riduzione degli sprechi e creazione di valore.

Questo fermento innovativo non è casuale, ma alimentato da iniziative regionali come l’ASEAN Blue Economy Innovation Challenge, promossa con il supporto delle Nazioni Unite e della Banca Asiatica di Sviluppo. Il programma finanzia decine di startup che propongono tecnologie e modelli di business capaci di rigenerare gli ecosistemi marini e al tempo stesso migliorare le condizioni di vita dei pescatori. A queste si affianca la Blue SEA Finance Hub, che mira a mobilitare capitali pubblici e privati verso l’economia blu, con un occhio di riguardo alle piccole e medie imprese del settore.

Un aspetto importante di questa trasformazione riguarda la governance e l’inclusività. Troppe volte, in passato, le politiche del mare sono state decise senza ascoltare chi il mare lo vive ogni giorno. Ora invece si sta facendo strada un approccio più partecipativo, che valorizza il ruolo dei piccoli pescatori e soprattutto delle donne, spesso invisibili nelle catene del valore ma fondamentali per la lavorazione, il commercio e la trasmissione dei saperi locali. Esperienze in Indonesia, dove donne imprenditrici guidano cooperative legate alla pesca del granchio blu, mostrano come una blue economy davvero sostenibile debba essere anche equa e inclusiva.

Guardando al futuro, appare sempre più evidente che le blue foods non sono una nicchia, ma una componente chiave delle strategie nazionali di sviluppo. L’Indonesia, con le sue oltre 17.000 isole e una delle coste più lunghe del mondo, ha già avviato collaborazioni con università internazionali per integrare le risorse blu nelle politiche alimentari, sanitarie ed economiche del Paese. Ed è una direzione che anche altri Paesi ASEAN sembrano pronti a intraprendere.

Il valore potenziale della blue economy a livello globale è immenso: si parla di oltre 15 trilioni di dollari in prospettiva futura e della possibilità di mitigare fino al 40% delle emissioni climalteranti grazie a pratiche rigenerative nei mari e nelle coste. Ma per sbloccare questo potenziale servono visione politica, investimenti mirati e, soprattutto, il coraggio di dare fiducia a chi sta già innovando dal basso.

Le startup del Sud‑Est asiatico ci dimostrano ogni giorno che un’altra economia blu è possibile: non quella dello sfruttamento cieco, ma quella della rigenerazione, della dignità, della resilienza. E forse proprio dal mare, che spesso è stato trattato come risorsa da saccheggiare, può nascere una nuova idea di sviluppo. Più giusta, più profonda, più umana.

Effetto Trump sui rapporti USA-ASEAN

I dazi minacciati da Trump rischiano di mettere in grave difficoltà diverse economie del Sud-Est asiatico, ma non sono l’unico motivo di frizione tra i paesi ASEAN e gli Stati Uniti. La nuova amministrazione americana non sembra avere le idee chiare su come rapportarsi con la regione, mentre la sua imprevedibilità sta spingendo gli Stati ASEAN ad accelerare la diversificazione dei propri partner economici e diplomatici

di Francesco Mattogno

Quando la senatrice Tammy Duckworth gli ha chiesto di citare almeno uno degli Stati membri dell’Associazione delle Nazioni del Sud-Est asiatico (ASEAN), durante l’udienza di conferma della sua nomina a segretario alla Difesa degli Stati Uniti, Pete Hegseth ha fatto scena muta. Era il 14 gennaio, Donald Trump si era insediato solo da qualche giorno alla presidenza degli Stati Uniti. Alla domanda su quanti fossero i paesi ASEAN, Hegseth aveva poi iniziato a parlare di Giappone, Corea del Sud e Australia, in evidente imbarazzo. 

Di fatto, l’attuale capo della Difesa statunitense non solo non aveva idee o proposte su come portare avanti la strategia americana in quello che Washington chiama “Indo-Pacifico”: non aveva proprio idea di cosa fosse, l’Indo-Pacifico.

Sei mesi dopo, il segretario di Stato americano Marco Rubio è volato a Kuala Lumpur per il suo primo viaggio in Asia da responsabile della politica estera dell’amministrazione Trump. In Malaysia, nel cuore del Sud-Est asiatico, Rubio ha dichiarato che «l’Indo-Pacifico rimane un punto focale della politica estera degli Stati Uniti» e che Washington non si farà distrarre da ciò che accade nel resto del mondo, perché «la storia dei prossimi 50 anni sarà in gran parte scritta in questa regione».

Il segretario di Stato americano era in Malaysia per partecipare ad alcuni dei vari incontri che tradizionalmente accompagnano la ministeriale degli Esteri dei paesi ASEAN. Al di là delle belle parole sulla partnership tra Washington e il blocco, definita «non solo resiliente, ma cruciale», il viaggio di Rubio è stato fugace e aveva principalmente uno scopo: indorare la pillola dei dazi minacciati da Trump agli Stati regionali, bersagliati come poche altre aree del mondo.

Dazi, trattative, accordi

Nei giorni che hanno preceduto la ministeriale ASEAN (8-11 luglio) il presidente americano aveva infatti aggiornato le tariffe sulle importazioni promesse a vari paesi del Sud-Est asiatico, posticipando la loro ufficiale entrata in vigore dal 9 luglio al 1° agosto. Con una serie di lettere, tutte uguali, Trump si è rivolto ai leader regionali reiterando le minacce del “Liberation Day” dello scorso 2 aprile, seppur con qualche correzione. 

Alcuni dazi sono stati rivisti al ribasso (la Cambogia per esempio è passata dal 49% al 36%, Laos e Myanmar entrambe al 40% rispettivamente dal 48% e 44% iniziale), con le notevoli eccezioni di Filippine (dal 17% al 20%) e Malaysia (dal 24% al 25%). Così come per i calcoli economicamente discutibili del Liberation Day, la logica alla base di tali aggiornamenti non è chiara nemmeno ai diretti interessati.

Quello che è certo è che da mesi sono in corso delle trattative tra le delegazioni dei singoli Stati ASEAN e la Casa Bianca per trovare un accordo che possa ridurre l’ammontare delle tariffe e dunque gli impatti sulle economie regionali, come quello che gli Stati Uniti hanno firmato con il Vietnam. Stando agli annunci di inizio luglio, Hanoi sarebbe riuscita a fissare i dazi sull’export negli Stati Uniti al 20%, dal 46% di partenza. Il verbo è al condizionale perché sembrano esserci ancora alcune questioni da chiarire, secondo Politico.

Se il contenuto dell’accordo dovesse essere confermato, in cambio il Vietnam aprirebbe completamente il suo mercato ai prodotti americani, cancellando le tasse doganali in entrata, e si impegnerebbe a comprare dagli Stati Uniti prodotti agricoli, combustibile, Boeing e armamenti. Quasi tutti i paesi regionali si stanno muovendo su questa linea, aprendo alla possibilità di fare numerose concessioni a Washington per cercare di compiacere la Casa Bianca. Per esempio la Thailandia, che ha bisogno di un accordo anche per placare una grave crisi politica interna, le sta provando tutte, mentre l’Indonesia ha appena nominato un ambasciatore negli Stati Uniti, dopo due anni trascorsi con il ruolo vacante. E alla fine Giacarta è riuscita a raggiungere un’intesa per ridurre i dazi dal 32% al 19%.

L’aspetto più interessante dell’accordo siglato tra Washington e Hanoi è però quello che riguarda le cosiddette “merci trasbordate”, che verranno tassate al 40%. Il termine dovrebbe fare principalmente riferimento a quei beni prodotti in paesi terzi e fatti passare per il Vietnam prima della loro esportazione finale negli Stati Uniti. Si tratta di una chiara allusione alla Cina, accusata di usare i paesi del Sud-Est asiatico come tappa intermedia delle proprie merci, così da venderle negli Stati Uniti aggirando i dazi imposti da Washington alla Repubblica popolare.

Il tema è al centro di tutte le trattative tra la Casa Bianca e gli Stati ASEAN, e preoccupa anche per la sua vaghezza: c’è chi teme che per merci trasbordate si possano intendere anche quei beni assemblati in un paese ASEAN con tecnologia o materiali cinesi, un’interpretazione che rischierebbe di mettere in ginocchio le industrie di mezzo Sud-Est asiatico. Andrebbero poi valutate le potenziali conseguenze nelle relazioni tra la regione e la Cina, che ha già dichiarato di non aver preso bene la clausola inserita nell’accordo siglato dal Vietnam.

Non-allineamento e diversificazione

Contrastare l’influenza di Pechino nel Sud-Est asiatico è uno degli obiettivi conclamati dell’amministrazione Trump, che nelle intenzioni non si discosta da quelle che l’hanno preceduta. A cambiare sono atteggiamento e modalità di manovra. Minacciare di colpire le economie della regione, così da ottenere concessioni e deferenza, rischia però di rivelarsi una strategia controproducente per Washington, almeno sul lungo periodo. Soprattutto se nemmeno gli “amici” godono del privilegio di essere risparmiati.

Se già il Liberation Day aveva fatto irritare Singapore, Manila ha accolto con un certo stupore la decisione di Trump di aumentare il livello dei dazi minacciati contro le Filippine, che dall’insediamento del presidente Ferdinand Marcos Jr. nel 2022 sono tornate a essere uno dei principali alleati degli americani nella regione. Un po’ come per quanto accade a Tokyo e Seul, in Asia nord-orientale, la sensazione è che gli Stati Uniti di Trump si stiano rivelando sempre di più come un partner inaffidabile. 

Anche i rapporti con un paese da decenni considerato vicino alla Cina come la Cambogia, parzialmente recuperati negli ultimi mesi, potrebbero tornare a deteriorarsi a causa dell’impatto delle tariffe: nel 2024 le esportazioni verso gli Stati Uniti hanno rappresentato il 24,8% del PIL cambogiano, una quota enorme, messa a repentaglio dai dazi insieme a decine di migliaia di posti di lavoro nel tessile (un disastro economico simile potrebbe toccare anche al Bangladesh).

Nel suo discorso di apertura della ministeriale ASEAN di luglio, il premier malaysiano Anwar Ibrahim ha denunciato l’uso dei dazi come «strumento geopolitico». La Malaysia è forse il paese che più di altri nella regione si sta sottraendo alle intimidazioni americane. Tengku Zafrul Aziz, il ministro malaysiano dell’Industria, della Tecnologia e del Commercio, ha detto che se un eventuale accordo dovesse violare gli interessi nazionali del paese, allora «non si farà nessun accordo». 

Ma le frizioni con Washington non si fermano ai dazi. Da tempo Kuala Lumpur sta criticando gli Stati Uniti – e più in generale i paesi occidentali – per il supporto a Israele nel massacro dei palestinesi. Nei due grandi paesi ASEAN a maggioranza musulmana, Malaysia e Indonesia, il sentimento anti-occidentale è in aumento, ma la popolarità di Washington sta calando un po’ in tutta la regione (anche per la decisione di Trump di tagliare drasticamente i fondi da destinare agli aiuti umanitari internazionali chiudendo USAID, che ha provocato serie conseguenze in buona parte del Sud-Est asiatico).

Proseguendo con il proprio tradizionale equilibrismo diplomatico («amici di tutti, nemici di nessuno») e spinti dall’inaffidabilità dell’amministrazione americana, i paesi ASEAN stanno quindi accelerando la diversificazione dei propri partner diplomatici ed economici. Gran parte del blocco non ha mai smesso di avere buone relazioni con la Russia, nonostante la guerra in Ucraina, mentre le controversie nel mar Cinese meridionale non sembrano rappresentare un ostacolo al rafforzamento delle relazioni con la Cina (con cui a maggio è stato ultimato un accordo di libero scambio regionale). 

Minacciando dazi aggiuntivi del 10% ai membri dei BRICS, in nome del contrasto «alle politiche anti-americane» del gruppo, Trump sta inoltre bersagliando di nuovo anche il Sud-Est asiatico: nell’ultimo anno l’Indonesia è diventata un membro a tutti gli effetti dei BRICS, mentre Malaysia, Thailandia e Vietnam sono entrate a far parte dei paesi partner. Eppure, dopo anni di isolamento diplomatico, il presidente americano ha inviato la sua lettera copia-incolla con tutti gli onori («Sua eccellenza») anche al generale a capo della giunta militare birmana, Min Aung Hlaing. 

A oltre quattro anni dal golpe del 1° febbraio 2021, e dalla ripresa di una guerra civile che ha causato decine di migliaia di vittime civili e milioni di sfollati, il regime militare birmano non aveva mai ricevuto una legittimazione internazionale di questo tipo. Quando si tratta di Sud-Est asiatico, la sensazione è che i membri dell’amministrazione Trump debbano studiare un po’ meglio il (cruciale) oggetto del loro discorso.

Thailandia-Cambogia, subito una soluzione diplomatica

Dopo gli scontri al confine, serve immediatamente il dialogo tra i due Paesi sotto l’egida dell’ASEAN

L’Associazione Italia-ASEAN esprime profonda preoccupazione per gli scontri armati al confine tra Thailandia e Cambogia, che negli ultimi giorni hanno causato vittime e accresciuto le tensioni nella regione. Sebbene i due Paesi abbiano una lunga storia di rapporti complessi, tali eventi rischiano oggi di destabilizzare l’intero Sud-Est asiatico, minando lo spirito di cooperazione che da sempre caratterizza l’ASEAN.

«Avendo vissuto da vicino la realtà della Thailandia, credo sia essenziale che Bangkok e Phnom Penh trovino subito la via del dialogo, ponendo fine a ogni forma di violenza», ha dichiarato Michelangelo Pipan, presidente dell’Associazione ed ex ambasciatore in Thailandia. «L’ASEAN dovrebbe assumere un ruolo più attivo nella mediazione, superando la consueta politica di non interferenza, per garantire stabilità e unità nell’area».

La contesa territoriale tra Bangkok e Phnom Penh affonda le sue radici nel periodo coloniale, quando la Cambogia era un protettorato francese e Parigi ridisegnò i confini con l’allora Siam. 

In queste ore è intervenuto Anwar Ibrahim, premier della Malesia che detiene la presidenza di turno ASEAN per il 2025. «Ho fatto appello a entrambi i leader affinché attuino immediatamente il cessate il fuoco per evitare il peggioramento dei conflitti e aprano uno spazio per il dialogo pacifico e le soluzioni diplomatiche», ha dichiarato il premier malese, accogliendo con favore quelli che ha definito «gesti positivi e disponibilità dimostrati dai due Paesi».

L’Associazione Italia-ASEAN rinnova quindi l’appello a un cessate il fuoco immediato e alla convocazione di un tavolo di negoziato con la mediazione dell’ASEAN e dei partner internazionali.

L’ascesa dei marchi cinesi nel Sud-Est asiatico

Dai bubble tea ai veicoli elettrici, i brand cinesi ridefiniscono il consumo in ASEAN con velocità, innovazione digitale e strategie locali vincenti

Di Tommaso Magrini

Di recente, i brand cinesi di consumo stanno promuovendo inesorabili trasformazioni nella regione ASEAN, guadagnando terreno nei confronti di giganti occidentali e consolidati locali. Partiti da segmenti low-cost, hanno saputo evolversi in concorrenti sofisticati e innovativi grazie a una strategia digitale, rapida espansione e forte localizzazione. Il Sud-Est è diventato la prima destinazione delle esportazioni cinesi, con 587 miliardi di dollari importati nel 2024, +12% rispetto all’anno precedente. La regione offre mercati dinamici: oltre 650 milioni di abitanti, età mediana di 31 anni, 63% sotto i 40 anni, crescente connettività digitale e limitata fedeltà a specifici marchi. Questo mix rende l’ASEAN il terreno ideale per l’espansione di brand cinesi, anche e soprattutto in una fase di incognite commerciali visti i dazi degli Stati Uniti.

Nel campo degli smartphone, marchi come Xiaomi, Oppo, Vivo, Realme e Transsion dominano oltre il 60% del mercato locali. In ambito EV, BYD e SAIC/Wuling contano per oltre il 75% delle vendite in ASEAN. Grazie a prezzi competitivi e soluzioni innovative (come leasing batterie o cambio rapido), questi marchi sfidano anche i leader occidentali. 

Nel F&B, catene come Mixue, Luckin Coffee e Chagee hanno conquistato il pubblico con offerte locali, marketing digitale virale e franchising economico. Mixue, con oltre 2.600 punti vendita solo in Indonesia e 45.000 a livello globale, ha superato Starbucks e McDonald’s per numero di locali in ASEAN. Chagee ha poi esteso oltre 4.000 negozi nel mondo, espandendosi in Thailandia, Malaysia e Singapore come brand tea‑house trendy .

I brand cinesi hanno affinato modelli di business D2C (direct-to-consumer) abilitati da ecommerce, livestreaming e marketing su TikTok/Douyin. Florasis, Perfect Diary, YOU Beauty e Judydoll lanciano centinaia di prodotti ogni anno, calibrando packaging, ingredienti tradizionali e storytelling culturale per conquistare gemerazioni giovani sensibili ai trend . In ASEAN questo approccio crea engagement istantaneo, fedeltà e dati preziosi per l’innovazione di prodotto.

Questa ondata di brand cinesi mette pressione ai concorrenti occidentali e regionali che storicamente si affidavano a reputazione e distribuzione tradizionale. Ma consente anche ai consumatori ASEAN di scegliere tra una gamma molto più ampia— tra prodotti tecnologici e lifestyle accessibili e di qualità elevata. Marchi come Haidilao (hotpot), Hey Tea, Pop Mart, Miniso stanno ridefinendo l’offerta retail e food con design, eventi e packaging che parlano alla cultura locale e globale allo stesso tempo.

La crescita dei brand cinesi nel Sud‑Est asiatico non è una moda passeggera, ma una trasformazione strutturale. Grazie a logiche digitali, produzione snella, storytelling culturale e pricing strategico, questi marchi stanno ridefinendo il concetto di “Made in China”, da merce economica a simbolo di efficienza, valore e innovazione. In un’ASEAN che si digitalizza e apre al commercio globale, i consumatori ritrovano centralità, e i brand cinesi emergono come protagonisti capaci non solo di competere, ma di guidare l’evoluzione del consumo. Una rivoluzione silenziosa, che espande le opportunità per tutti, dall’acquisto quotidiano ai segmenti lifestyle più sofisticati.

Il ruolo della Malesia nel Mar Cinese Meridionale

La strategia malese, pur operando lontano dai riflettori internazionali, incarna quindi un modello di equilibrio e pragmatismo in un contesto regionale segnato da forti tensioni

Di Emanuele Ballestracci

Situato nel cuore delle rotte commerciali del Sud-Est asiatico, con oltre 3 trilioni di dollari di merci che transitano ogni anno nelle sue acque, il Mar Cinese Meridionale (MCM) è una delle regioni marittime più strategiche al mondo. Ricco di idrocarburi e risorse ittiche, rappresenta un corridoio cruciale che collega l’Oceano Indiano e quello Pacifico. Vi si affacciano Cina, Vietnam, Filippine, Malesia, Brunei e Taiwan: tutti con rivendicazioni territoriali sovrapposte. Il MCM è così diventato una delle aree più contese, soprattutto a seguito della scoperta negli ultimi decenni di nuovi ricchi giacimenti di idrocarburi.

Le rivendicazioni di Pechino sono le più estensive e si basano su una narrazione basata sui propri presunti “diritti storici”. Queste sono state codificate nella cosiddetta “linea dei dieci tratti”, che si sovrappone alle Zone Economiche Esclusive (ZEE) degli altri Stati contestanti. Tali rivendicazioni sono state respinte nel 2016 dalla Corte Permanente di Arbitrato nel caso “Filippine contro Cina”, che ha affermato la supremazia della Convenzione delle Nazioni Unite sul Diritto del Mare (UNCLOS). Nonostante ciò, le manovre di Pechino si sono intensificate nel tempo, con le tensioni aumentate soprattutto con Manila.

In questo contesto, la Malesia ha da sempre adottato un approccio equilibrato, in cui ambiguità strategica e attivismo diplomatico – anche informale – sono stati generalmente preferiti a contestazioni esplicite. Tale modus operandi è considerato un esempio di successo nella gestione delle dispute nel MCM.  Putrajaya è infatti riuscita a mantenere il controllo sui propri possedimenti, nonostante le limitate risorse operative, e a garantire la stabilità delle relazioni con gli altri reclamanti. Tale approccio si contrappone parzialmente a quello delle altre medie potenze impegnate nelle dispute territoriali. Le Filippine hanno infatti più volte utilizzato lo strumento del contenzioso internazionale, mentre l’azione del Vietnam si è fatta progressivamente più assertiva, tra l’altro intensificando le provocazioni navali. 

Essendo una nazione marittima la cui identità e sviluppo economico sono profondamente legati ai mari che la circondano, gli interessi della Malesia nel Mar Cinese Meridionale hanno carattere esistenziale. Il MCM collega, infatti, la Malesia Peninsulare agli Stati di Sabah e Sarawak nel Borneo, facendo del controllo su isole e atolli nell’area – sette sui dieci reclamati – e della stabilità nella regione due delle priorità di politica estera di Putrajaya. La strategia malaysiana deve però fare i conti con diversi limiti strutturali: capacità militari e budget ridotti; bilanciare le proprie relazioni con Cina e Stati Uniti; mantenere buoni rapporti con Beijing, considerati gli stretti legami economici. Putrajaya ha quindi fondato la propria azione su una coerenza legale basata sull’UNCLOS (Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare), che legittima le rivendicazioni malesi; una diplomazia attiva, sia bilaterale sia multilaterale; e il sostegno alla centralità dell’ASEAN nella gestione delle dispute. Sul fronte della difesa, la Malesia adotta un approccio pragmatico, basato sul non-allineamento militare e su un’efficace presenza sul campo, seppur ridotta rispetto alle controparti considerate per via delle scarse risorse.

Nonostante l’efficacia dell’approccio malaysiano, la sua sostenibilità futura appare sempre più incerta, soprattutto considerato l’intensificarsi delle tensioni sino-americane che potrebbe portare ad un’escalation nel MCM. Tuttalpiù, negli ultimi dieci anni, la presenza cinese nelle aree rivendicate da Putrajaya è aumentata, in particolare attorno alle secche di Luconia e alle coste della regione malaysiana di Sabah. Navi della guardia costiera cinese hanno ripetutamente ostacolato le operazioni di Petronas, il campione nazionale nel settore energetico, mentre aerei militari cinesi sono penetrati più volte nello spazio aereo malese. Questi episodi sono stati gestiti con riservatezza per evitare un’escalation, ma riflettono una crescente pressione strategica sulla Malesia. La forte dipendenza economica dalla Cina, primo partner commerciale con un interscambio che nel 2022 ha superato i 190 miliardi di dollari, limita ulteriormente le opzioni di Putrajaya, che deve bilanciare queste relazioni con la crescente assertività di Pechino. Nel contempo, i meccanismi regionali e multilaterali non sono riusciti a bilanciare efficacemente questa situazione: l’ASEAN resta divisa e i negoziati per stabilizzare le contese tramite il Codice di Condotta con la Cina sono in stallo. L’affidarsi solo agli strumenti legali e diplomatici potrebbe quindi non bastare a garantire capacità di deterrenza, soprattutto di fronte al declino del ruolo delle organizzazioni internazionali. 

La strategia malese, pur operando lontano dai riflettori internazionali, incarna quindi un modello di equilibrio e pragmatismo in un contesto regionale segnato da forti tensioni. Putrajaya dimostra che è possibile difendere la sovranità nazionale e tutelare interessi strategici senza ricorrere a confronti diretti con le potenze dominanti, mantenendo al contempo la stabilità indispensabile per lo sviluppo economico e politico. Tuttavia, il successo del modello malaysiano potrebbe essere messo in discussione dalle crescenti tensioni sino-americane e dell’assertività cinese.  L’efficace perseguimento dei propri obiettivi dipenderà quindi dalla sua capacità di trovare un nuovo equilibrio tra l’affermazione della propria sovranità e flessibilità diplomatica.

ITALIA E MALESIA: UNA VISITA STORICA RILANCIA IL PARTENARIATO STRATEGICO

Articolo a cura di Massimo Rustico, Ambasciatore d’Italia in Malesia (2021-2025)

Dopo 37 anni, la visita ufficiale in Italia il 2-3 luglio u.s. del Primo Ministro malese YAB Dato’ Seri Anwar Ibrahim, accompagnato da cinque Ministri, ha segnato un punto di svolta nei rapporti bilaterali. L’incontro si è svolto durante la presidenza malese dell’ASEAN, rafforzando il dialogo e la cooperazione tra l’Unione Europea e i paesi del Sud-Est asiatico.

Il Primo Ministro Anwar Ibrahim ha incontrato il Presidente del Consiglio, On. Giorgia Meloni, e il Vice Presidente del Consiglio e Ministro degli Affari Esteri, On. Antonio Tajani. Durante la bilaterale tra i due Premier, alla presenza dei Ministri della Difesa e degli Esteri, sono state affrontate le principali tematiche di politica estera e sicurezza internazionale. Il Presidente del Consiglio ha accolto l’invito del Primo Ministro a effettuare una visita ufficiale a Kuala Lumpur. Significativi anche i colloqui dei Ministri della Difesa e del MIMIT con i loro omologhi malesi.

La Malesia si conferma per l’Italia un partner chiave nel Sud-Est asiatico, per stabilità e apertura economica. Gli incontri hanno evidenziato ampie convergenze su priorità condivise, che le due parti intendono rafforzare in modo strutturato, in particolare: energia, transizione verde e digitale, difesa, microelettronica, supply chain e industria avanzata.

Particolarmente significativa è stata la Tavola Rotonda Economica Italia-Malesia, inaugurata dal Vice Presidente del Consiglio e Ministro degli Esteri, On. Antonio Tajani, alla presenza del Primo Ministro e dei Ministri malesi. L’incontro ha riunito i vertici di decine di grandi aziende italiane e malesi, attive in settori strategici, insieme ai rappresentanti del sistema Italia (CDP, SACE, SIMEST, ICE).

Sono emerse forti complementarietà, soprattutto nei settori ad alta tecnologia, che confermano una chiara convergenza di visioni tra i due Paesi. Nel settore della difesa, la Malesia si conferma un partner affidabile e strategico per le principali aziende italiane, mentre nel settore energetico si aprono nuove opportunità grazie alla partnership tra Eni e Petronas, destinata a trasformare il panorama energetico regionale. L’attenzione si estende anche alle infrastrutture di rete, energetiche e digitali, fondamentali per sostenere la crescita e la competitività globale, così come alle tecnologie per la transizione energetica. Le imprese italiane e malesi, supportate dal sistema Italia e da una rinnovata collaborazione con le maggiori istituzioni finanziarie locali, dispongono così di una piattaforma efficace per consolidare rapporti industriali, tecnologici e finanziari, rafforzando la strategia di internazionalizzazione italiana in un Paese chiave dell’ASEAN. L’attrazione di investimenti finanziari malesi è stata anche oggetto di incontri bilaterali a margine.

La Tavola Rotonda ha aperto nuove prospettive, ponendo le basi per il rafforzamento della cooperazione economica in una regione sempre più strategica per gli equilibri globali futuri. Con il ruolo crescente di quest’area, l’Italia conferma il proprio impegno a mantenere un ruolo attivo, consolidando legami e promuovendo investimenti in progetti condivisi volti a sicurezza, innovazione e sviluppo sostenibile. L’incontro ha inoltre sottolineato le ampie opportunità offerte dai rapporti bilaterali, il cui rilancio si inserisce nel più ampio quadro della cooperazione Italia-ASEAN, evolvendosi parallelamente al riavvio dei negoziati sul Free Trade Agreement tra la Malesia e l’Unione Europea, fattore chiave nelle relazioni UE-ASEAN.

La visita ha evidenziato come la Malesia, insieme all’Asia del Sud-Est, rappresenti non solo un mercato, ma un orizzonte politico sempre più rilevante per l’Italia e la sua strategia nell’Indo-Pacifico, in sintonia con l’Europa. Oggi Kuala Lumpur e Roma non si limitano più a dialogare come capitali amiche, ma si riconoscono come partner, legati da una visione condivisa e interessi convergenti, in particolare nel rispetto del diritto internazionale e nella salvaguardia della libertà di navigazione.

Nel contesto di un rafforzato rapporto bilaterale, si inserisce la realizzazione della nuova sede demaniale dell’Ambasciata d’Italia a Kuala Lumpur, la più moderna del Sud-Est asiatico, inaugurata il 6 giugno u.s., a testimonianza dell’impegno italiano a consolidare senza sosta la propria presenza in una delle aree più dinamiche a livello internazionale.

Massimo Rustico
Ambasciatore d’Italia in Malesia
(18 ottobre 2021 – 8 giugno 2025)

Il senso del viaggio di Prabowo a Mosca

Il presidente indonesiano è stato di recente in Russia per incontrare Vladimir Putin. Ma non è una scelta di campo, Giacarta continua e anzi rafforza la politica di non allineamento

Di Francesco Mattogno

Dal 18 al 20 giugno il presidente indonesiano, Prabowo Subianto, è stato ospite del presidente russo Vladimir Putin a San Pietroburgo, dove era contestualmente in corso l’annuale Forum economico internazionale (SPIEF) con sede nella città russa. Prabowo era proprio uno degli invitati di punta dello SPIEF, che ogni anno porta in Russia decine di migliaia di politici e rappresentanti di grandi aziende internazionali per parlare di business, investimenti, politica economica e via dicendo. Di fatto lo SPIEF serve a fare affari con Mosca, e anche la visita del presidente indonesiano va fatta rientrare in questa categoria di interessi. Nonostante questo fosse il primo viaggio di Prabowo in Russia dall’inizio del suo mandato presidenziale, cioè dallo scorso ottobre, l’ex generale ha visitato il Paese e incontrato Putin già varie volte durante il suo incarico da ministro della Difesa, nella scorsa legislatura. L’ultima sua trasferta russa risaliva a luglio del 2024, quando era presidente eletto, e nei mesi successivi i rapporti tra Giacarta e Mosca non hanno fatto altro che migliorare.

A novembre le marine militari di Indonesia e Russia hanno svolto le proprie prime esercitazioni navali congiunte, nel mar di Giava, e a gennaio Giacarta è entrata nei BRICS con grande giubilo dello stesso Putin. A febbraio Prabowo ha poi accolto il segretario del Consiglio di Sicurezza russo (ed ex ministro della Difesa) Sergei Shoigu per rafforzare ulteriormente i legami di difesa e di sicurezza tra i due paesi, di cui si è discusso anche in questi giorni a San Pietroburgo. E il 16 giugno c’è stato anche un incontro tra i ministri degli Esteri indonesiano (Sugiono) e russo (Sergei Lavrov) proprio in preparazione della visita di Prabowo in Russia, dove le parti si sono «impegnate a rafforzare le relazioni e il partenariato per la prosperità reciproca dei nostri popoli», ha dichiarato Sugiono.

Insomma, le cose tra Indonesia e Russia vanno molto bene e il viaggio del presidente indonesiano a San Pietroburgo rientra in un contesto già ben oliato, poco sorprendente. Eppure è stata una visita che ha fatto discutere più del solito.

Pur di andare in Russia, infatti, Prabowo ha rifiutato l’invito dei paesi del G7 a partecipare al summit di Kananaskis (Canada) che si teneva dal 15 al 17 giugno. Qualcuno si è indispettito, mentre altri hanno provato interpretare la decisione come il segno di un riposizionamento strategico dell’Indonesia. Giacarta si è affrettata a smentire questo tipo di letture geopolitiche, spiegando di aver semplicemente voluto rispettare gli impegni pregressi presi con Singapore (dove Prabowo è stato il 15 e 16 giugno) e con Mosca.

Durante il suo discorso allo SPIEF, Prabowo ha rifiutato di dividere il mondo in «blocchi di potere» e ha ribadito l’assunto fondamentale della politica estera di Giacarta: «L’Indonesia è sempre stata non allineata. Rispettiamo tutte le nazioni. La nostra politica estera è semplice: mille amici sono troppo pochi, un solo nemico è troppo». Prabowo e Putin hanno firmato una serie di Memorandum d’intesa per rafforzare la cooperazione in diversi settori, con grande attenzione alle questioni economiche e commerciali, ma dando spazio anche alla collaborazione militare e nello spazio.

Gli accordi più concreti vanno toccano i settori dell’istruzione, delle infrastrutture e dei trasporti, passando per il nucleare civile (l’Indonesia vorrebbe usare tecnologia russa per costruire il suo primo reattore nucleare entro il 2032) e per la collaborazione nel campo di internet e dell’informazione. Le parti si sono anche impegnate a riprendere i discorsi relativi allo sviluppo di una raffineria a Tuban (Giava Orientale), in stallo da anni, ma soprattutto hanno annunciato l’intenzione di istituire una piattaforma per gli investimenti congiunti – da 2 miliardi di euro – tra i rispettivi fondi sovrani. Sono ancora in corso invece delle trattative per un accordo commerciale tra i due paesi, anche se nel frattempo Putin ha detto di essere ben felice di vendere gas e petrolio russi all’Indonesia per aiutarla a soddisfare la sua domanda energetica interna.

La volontà di Stati come l’Indonesia o la Malaysia di rafforzare i legami con Mosca non significa che stiano facendo una scelta di campo, tutt’altro. Il non allineamento di Giacarta – e in generale dei paesi del Sud-Est asiatico – può essere spiegato come una politica volta a stringere buoni rapporti con i paesi di qualunque schieramento, così da ridurre la dipendenza da ognuno di loro. La diversificazione dei partner commerciali e di sicurezza è dunque funzionale sia a livello interno che diplomatico: negli ultimi mesi l’Indonesia ha rafforzato le relazioni bilaterali e di difesa anche con Stati Uniti, Australia, Giappone, Turchia e Stati del Golfo Persico, tra gli altri.

Spesso c’entra anche poco la geopolitica. Prabowo ha messo grande mano al budget per finanziare una serie di progetti populisti e molto dispendiosi, che deve coniugare con i suoi ambiziosi obiettivi di crescita del PIL (+8% entro il 2029). Per tenere fede alle sue promesse ha bisogno anche degli investimenti, del combustibile e della tecnologia russa.

ASEAN-USA: si avvicina la fine della tregua commerciale

I dazi trumpiani hanno preso di mira anche il Sud-Est asiatico, spingendo i Paesi della regione a correre ai ripari cercando accordi con Washington

Di Anna Affranio

Con la scadenza della tregua commerciale fissata simbolicamente per l’8 luglio, Stati Uniti e ASEAN si trovano in un momento cruciale. L’annuncio dello scorso 2 aprile, definito “Liberation Day” dalla retorica dell’amministrazione Trump, ha riacceso nuove tensioni: Washington ha infatti comunicato l’intenzione di introdurre dazi su un’ampia gamma di prodotti provenienti dai Paesi, tra gli altri, del Sud-est asiatico. 

Nel dettaglio, i dazi riguarderebbero la Cambogia, Paese più colpito (con dazi fino al 49%), il Laos (48%), il Vietnam (46%), il Myanmar (44%), la Thailandia (36%) e l’Indonesia (32%). Malaysia, Brunei, Filippine e Singapore sarebbero invece soggetti a tariffe più contenute, tra il 10% e il 24% (secondo una fonte ufficiale). Le misure, per lo meno secondo Washington, servono a correggere squilibri commerciali e proteggere l’industria nazionale, in particolare nei settori dell’elettronica, dell’agroalimentare e dell’automotive.

Per molti Paesi ASEAN però, dazi di tale entità rappresentano un rischio concreto per il loro modello economico, largamente basato sulle esportazioni. Per molti di questi Paesi infatti, gli Stati Uniti sono il principale mercato di esportazione. Inoltre, negli ultimi anni, a causa delle tensioni commerciali tra Pechino e Washington, la regione ha attratto massicci investimenti da parte di multinazionali interessate a ridurre la propria dipendenza dalla Cina, posizione strategica che ora è minacciata dalla recente introduzione dei dazi. 

Per cercare di ridurre i danni in vista della scadenza, sono in corso negoziati sia multilaterali sia bilaterali. Si è lavorato a un vertice multilaterale tra gli Stati Uniti e l’intero blocco ASEAN, con Singapore, Indonesia e Vietnam che stanno spingendo per una proroga della tregua tariffaria, almeno nei settori tecnologici più sensibili. Parallelamente, la Malaysia, che detiene la presidenza di turno dell’ASEAN, ha proposto un summit straordinario con Donald Trump, con l’obiettivo di trovare un’intesa politica di alto livello.

Sul fronte bilaterale, invece, Stati Uniti e singoli Paesi come Cambogia, Vietnam e Thailandia stanno conducendo negoziati separati per gestire i dazi in modo più mirato e flessibile.  Per quanto riguarda il Vietnam, si sono svolti già molteplici round negoziali che hanno toccato i temi delle esportazioni tessili e dell’elettronica. Hanoi ha promesso maggiori controlli contro il transshipment illegale di merci cinesi e ha mostrato apertura verso l’aumento delle importazioni di prodotti statunitensi. Il leader del Partito comunista vietnamita To Lam è stato tra i primi leader stranieri a parlare con la Casa Bianca dopo il “LIberation Day” ed è coinvolto direttamente nei negoziati. Anche la Thailandia si è attivata. Il governo è stato tra i primi a mettere in campo un team tecnico per trattare la riduzione dei dazi, attualmente fissati al 36%. Bangkok ha presentato una proposta che include l’ampliamento dell’accesso al mercato per i prodotti americani ma anche investimenti thailandesi negli USA, offrendo dunque la possibilità di creare a loro volta opportunità lavorative per gli statunitensi. Secondo visione ottimistica del Ministro del Commercio thailandese, i negoziati potrebbero riuscire a ridurre l’importo della tariffa fino al 10%. Tuttavia, al momento non sono stati firmati accordi ufficiali. Molto simile la reazione della Cambogia, la principale vittima dei dazi nella regione, con esportazioni verso gli Stati Uniti che rappresentano circa il 38% dell’export totale, principalmente costituito da abbigliamento e calzature. Il Governo punterà probabilmente a un alleggerimento graduale, ma temendo gravi conseguenze economiche e sociali ha già avviato due round di colloqui virtuali con Washington e mira a negoziati diretti a breve. In cambio, Phnom Penh come segnale di buona volontà ha tagliato a sua volta le tariffe d’importazione su 19 categorie di prodotti statunitensi, riducendole dal massimo 35 % fino al 5 % circa e rafforzato i controlli interni per evitare potenziali pratiche di esportazioni fraudolente.

Nel frattempo, la Cina osserva e si muove. Pechino ha recentemente aggiornato il suo accordo di libero scambio con l’intero blocco ASEAN, e continua a rafforzare la cooperazione con la regione su infrastrutture, logistica ed energia. L’obiettivo è chiaro: proporsi come partner stabile e prevedibile, in contrasto con l’approccio americano più umorale e aggressivo sul piano commerciale.

Tre gli scenari più probabili: una proroga tecnica della tregua per alcuni mesi, un ritorno immediato alle tariffe, oppure una soluzione intermedia con esenzioni settoriali e monitoraggio trimestrale. In ogni caso, il rischio è che l’ASEAN esca da questa fase più frammentato, per la possibilità che ogni singolo Paese intavoli negoziati separati e autonomi con gli USA. con ricadute, in quest’ultimo scenario, assai ampie per ciò che riguarda catene di fornitura, investimenti esteri ma anche sullo stesso posizionamento geopolitico della regione.

Le scelte che verranno prese nelle prossime settimane avranno effetti nel lungo termine non solo per l’economia dell’ASEAN, ma per l’intera architettura commerciale della regione dell’ Asia-Pacifico.

Il boom dell’innovazione agricola in ASEAN

Nel Sud-Est asiatico è in corso una rivoluzione agro‑digitale: frutto di investimenti pubblici, partenariati internazionali e startup locali

Di Tommaso Magrini

Negli ultimi anni la Malesia ha intrapreso una trasformazione profonda nel settore agricolo, puntando su tecnologie avanzate per rafforzare la sicurezza alimentare e ridurre la dipendenza dalle importazioni. Nel pieno della “12ª Malaysia Plan”, il governo ha introdotto una serie di misure volte a spingere l’agricoltura verso modelli più efficienti, digitalizzati e sostenibili. Al centro di questa strategia ci sono le smart farm, ovvero aziende agricole altamente automatizzate che adottano strumenti come IoT, droni, robot e analisi di big data. Queste tecnologie permettono di monitorare in tempo reale variabili come pH, temperatura e umidità del suolo, ottimizzando l’irrigazione e la fertilizzazione con precisione, riducendo sprechi e aumentando le rese. Alcuni esempi pilota in stati come Perak e Johor includono sistemi di agricoltura integrata acqua‑pesce (aquaponica) e serre dotate di sensori controllati da remoto via smartphone. L’obiettivo è di poter controllare l’intera coltivazione anche a distanza, migliorando al contempo la qualità del cibo prodotto. Le smart farm non intendono soppiantare l’agricoltura tradizionale, ma affiancarla con modalità più redditizie e adatte ai mercati urbani. Il governo intende favorire la diffusione di queste tecnologie anche attraverso un fondo dedicato, formazione per agricoltori e cooperazione con piattaforme e‑commerce, per favorire la diffusione e profitto delle produzioni locali. Un altro esempio emblematico è il progetto Sunway FutureX, un laboratorio urbano che fa leva su coltivazioni verticali in ambienti controllati, sensori e algoritmi per ottimizzare la crescita e prevedere le esigenze delle colture. Questa innovazione tecnologica si inserisce in una visione più ampia: rafforzare la resilienza nazionale, rendere le produzioni più sostenibili e coinvolgere le nuove generazioni di giovani agripreneurs. Un approccio multidisciplinare che segna una svolta nella mappa alimentare della Malesia, spostando il focus da quantità a qualità, da importazioni a sovranità alimentare.

Più in generale, in tutta l’ASEAN è in corso una rivoluzione agro‑digitale: frutto di investimenti pubblici, partenariati internazionali e startup locali. In Thailandia, il progetto “Smart Farmer” di dtac ha formato oltre 20.000 agricoltori 4.0 in 7 province, incrementando introiti del 25% grazie al marketing online e all’adozione di strumenti come il sistema Farm Man Yum, che ha aumentato i raccolti di mais e manioca di 400 kg/rai, riducendo i danni del 44% e aumentando profitti di circa 2.500 baht/rai. Il programma “1 Tambon 1 Digital” ha inoltre promosso centri locali per droni agricoli in 500 comunità, generando almeno 350 milioni di baht di valore economico. In Vietnam, startup come MimosaTEK hanno introdotto sistemi IoT e smart irrigation nel delta del Mekong: grazie a sensori collegati al cloud, gli agricoltori possono ottimizzare l’irrigazione via smartphone, con applicazioni pilota nella provincia di Cần Thơ. Alcuni programmi universitari come il progetto IoT ed edge computing a Đà Lạt (Vietnam) hanno dimostrato come droni intelligenti possono monitorare malattie e nutrimento, mentre impianti intelligenti di fertirrigazione hanno migliorato l’efficienza idrica. L’ASEAN sta sperimentando un vero salto digitale: dai droni in Thailandia ai sensori in Malesia e Vietnam, fino all’agrivoltaico e all’agricoltura urbana a Singapore. Notevoli i progressi in resa e sostenibilità, ma permangono sfide: alfabetizzazione digitale, finanziamenti e scala rimangono fattori critici. Le storie di successo però confermano una tendenza chiara: la smart agriculture è ormai la prossima frontiera nel cuore verde dell’Asia.

Boun Bang Fai, la tradizione che unisce il Laos

Il Festival dei Razzi, risalente a tempi pre-buddhisti, è una manifestazione vivente della ricca eredità culturale del Paese

Di Tommaso Magrini

Il Boun Bang Fai, noto anche come Festival dei Razzi, è una delle celebrazioni più spettacolari e significative del Laos. Radicato in antiche tradizioni agricole e spirituali, questo festival si tiene ogni anno tra maggio e giugno, segnando l’inizio della stagione delle piogge. Nel 2025, le celebrazioni promettono di essere particolarmente vivaci, attirando sia le comunità locali che i visitatori internazionali.

Le origini del Boun Bang Fai risalgono a tempi pre-buddhisti, quando le comunità agricole del Laos lanciavano razzi artigianali nel cielo per invocare la pioggia, essenziale per la coltivazione del riso. Secondo la leggenda, il dio della pioggia, Phaya Thaen, era stato offeso da un serpente mitico, il nāga, causando una grave siccità. Per placare il dio e riportare la pioggia, gli abitanti iniziarono a lanciare razzi verso il cielo come offerta. Questa pratica si è evoluta nel tempo, combinando elementi spirituali con celebrazioni comunitarie.

Il festival si svolge tipicamente in due giorni. Il primo giorno è dedicato a rituali religiosi, con offerte ai monaci e processioni nei templi. Il secondo giorno è caratterizzato da sfilate colorate, musica tradizionale, danze e, naturalmente, il lancio dei razzi. Le comunità competono per costruire i razzi più grandi e spettacolari, spesso decorati con motivi elaborati. I razzi, realizzati in bambù o materiali moderni, possono raggiungere lunghezze di oltre sei metri e pesare più di 100 chilogrammi.

Nel 2025, il Boun Bang Fai ha continuato a essere celebrato in tutto il Laos, con eventi particolarmente significativi nelle province di Vientiane e Savannakhet. Le autorità locali hanno lavorato per garantire la sicurezza durante le celebrazioni, promuovendo al contempo il festival come attrazione turistica. In larga parte si è festeggiato il 9 e 10 maggio, ma le date esatte variano a seconda delle comunità.

Oltre al suo significato spirituale, il Boun Bang Fai svolge un ruolo cruciale nella coesione sociale delle comunità laotiane. Il festival offre un’opportunità per rafforzare i legami comunitari, trasmettere tradizioni alle nuove generazioni e celebrare l’identità culturale. Inoltre, l’evento ha un impatto economico positivo, stimolando il turismo e le attività locali.

Insomma, il Boun Bang Fai è molto più di un semplice festival; è una manifestazione vivente della ricca eredità culturale del Laos. Attraverso il lancio dei razzi, le comunità esprimono speranze, gratitudine e un profondo legame con la natura. Nel 2025, il festival continua a unire tradizione e modernità, celebrando la resilienza e la vitalità del popolo laotiano.

Cosa significa il vertice ASEAN-GCC a Kuala Lumpur

Il riallineamento economico e geopolitico al centro dell’incontro svoltosi in Malesia, a margine del vertice ASEAN

Di Luca Menghini

Il Vertice ASEAN–GCC tenutosi a Kuala Lumpur il 27 e 28 maggio 2025 ha rappresentato un punto di svolta nella diplomazia interregionale tra due delle aree più dinamiche e strategicamente rilevanti del mondo: l’Associazione delle Nazioni del Sud-Est Asiatico (ASEAN) e il Consiglio di Cooperazione del Golfo (GCC). Svoltosi in parallelo con il primo vertice ASEAN–GCC–Cina e con il 46° Vertice ASEAN, l’evento ha sottolineato l’importanza crescente della cooperazione tra regioni in un contesto globale caratterizzato da incertezza economica, frammentazione strategica e indebolimento delle alleanze storiche. Il vertice ha proposto una visione ampia per rafforzare i legami politici, economici e strategici tra il Golfo e il Sud-Est Asiatico, mettendo in luce anche il ruolo crescente degli attori regionali nel plasmare gli equilibri globali.

Il vertice si è basato sullo slancio creato dal primo incontro ASEAN–GCC svoltosi a Riad nell’ottobre 2023, durante il quale i leader hanno gettato le basi per un partenariato strutturato approvando il Quadro di Cooperazione ASEAN–GCC 2024–2028. Tale quadro aveva già individuato numerose aree prioritarie di cooperazione, dall’energia alla trasformazione digitale, dalla finanza islamica all’istruzione e agli scambi tra le popolazioni. L’incontro di Kuala Lumpur ha rafforzato queste ambizioni fornendo nuovo slancio politico, meccanismi istituzionali più solidi e un allineamento più chiaro degli interessi strategici.

Al centro del vertice vi era il riconoscimento condiviso che ASEAN e GCC si trovano in un momento cruciale. Per l’ASEAN, le recenti tensioni commerciali globali, in particolare l’aumento dei dazi da parte degli Stati Uniti in linea con la rinnovata agenda protezionistica americana, hanno reso urgente la diversificazione dei partenariati economici. I nuovi dazi, introdotti nell’aprile 2025, hanno colpito un’ampia gamma di esportazioni ASEAN, mettendo sotto pressione hub manifatturieri regionali come Vietnam, Thailandia e Malesia. Questo ha accelerato la spinta dell’ASEAN verso mercati emergenti e partner che offrano relazioni commerciali più stabili e reciproche.

Parallelamente, i paesi del GCC stanno portando avanti una trasformazione profonda. A lungo dipendenti dagli idrocarburi, gli Stati del Golfo stanno promuovendo strategie aggressive di diversificazione economica nell’ambito di piani nazionali come la Vision 2030 dell’Arabia Saudita, il Centennial 2071 degli Emirati Arabi Uniti e iniziative analoghe in Bahrein, Oman e Qatar. Questi piani puntano allo sviluppo di settori non petroliferi come tecnologia, finanza, logistica, turismo ed energie rinnovabili. L’ASEAN, con la sua giovane popolazione, mercati in rapida crescita, ecosistemi digitali innovativi e crescente domanda di investimenti, si presenta come un partner ideale per tale trasformazione.

In questo contesto, le discussioni del vertice sono state ampie e orientate al futuro. Uno degli annunci chiave è stata l’intenzione di avviare un accordo di libero scambio tra ASEAN e GCC. Sebbene gli scambi tra i due blocchi abbiano già superato i 130 miliardi di dollari nel 2024, i leader hanno espresso l’obiettivo di portare questo valore a 180 miliardi entro il 2032. L’accordo proposto non si limiterebbe a ridurre i dazi, ma affronterebbe anche l’allineamento normativo, la facilitazione logistica e la protezione degli investimenti, elementi fondamentali per incoraggiare un impegno duraturo del settore privato e l’integrazione delle catene del valore.

Oltre al commercio, la cooperazione energetica è emersa come tema centrale. Le due regioni hanno discusso dell’ampliamento della collaborazione sulla sicurezza energetica e sulla transizione verde, incluso lo sviluppo congiunto dell’idrogeno pulito, la definizione di accordi di fornitura LNG a lungo termine e l’investimento in progetti di interconnessione elettrica. I paesi del Golfo, ricchi di capitale e sempre più impegnati verso la neutralità carbonica, intendono collaborare con i paesi ASEAN che perseguono obiettivi ambiziosi di decarbonizzazione. Questa collaborazione potrebbe comprendere il finanziamento di impianti solari ed eolici, lo scambio di buone pratiche regolatorie e co-investimenti in infrastrutture energetiche regionali.

La trasformazione digitale ha rappresentato un altro pilastro strategico del vertice. I leader hanno sottolineato il potenziale di un’agenda economica digitale condivisa, che includa città intelligenti, regolamentazione dell’e-commerce, governance dei dati, cybersicurezza e intelligenza artificiale. Lo sviluppo congiunto di infrastrutture digitali, come cavi sottomarini in fibra ottica, centri cloud e sistemi di pagamento digitale transfrontalieri, è stato individuato come un’area ad alto potenziale. Questa cooperazione digitale potrebbe rafforzare la resilienza economica, migliorare la produttività e ampliare l’accesso alla tecnologia in entrambe le regioni.

La sicurezza alimentare e il commercio agricolo sono stati altri temi rilevanti. I paesi del GCC, che affrontano limiti strutturali alla produzione agricola a causa del clima arido, stanno aumentando gli investimenti in importazioni alimentari e innovazioni agritech. L’ASEAN, grande produttore agricolo, offre stabilità di fornitura e opportunità per investimenti in trasformazione alimentare a valore aggiunto. Sono stati discussi progetti congiunti di ricerca, ammodernamento delle catene di approvvigionamento e promozione dei prodotti Halal.

Anche la connettività fisica e istituzionale ha ricevuto particolare attenzione. Il vertice ha ribadito la necessità di migliorare i collegamenti aerei, marittimi e terrestri tra porti e città delle due regioni. I leader hanno sostenuto l’armonizzazione delle procedure doganali, la cooperazione marittima e l’esplorazione di investimenti congiunti in infrastrutture portuali e corridoi di trasporto. Sul piano istituzionale, è stato confermato l’impegno a rafforzare i meccanismi di coordinamento tra ASEAN e GCC, attraverso consultazioni diplomatiche più frequenti, dialoghi politici annuali e scambi ad alto livello tra segretariati, ministeri e centri di ricerca.

Anche la cooperazione culturale e gli scambi tra persone sono stati identificati come elementi chiave del partenariato. Le due regioni hanno promesso di ampliare programmi di mobilità accademica, partenariati universitari, campagne per la promozione turistica e iniziative per il dialogo interculturale e interreligioso. Lo sviluppo di borse di studio ASEAN–GCC, festival culturali e programmi di scambio giovanile è stato proposto come mezzo per rafforzare la comprensione reciproca e i legami duraturi tra le società.

Un aspetto rilevante è stato la partecipazione della Cina al vertice trilaterale ASEAN–GCC–Cina. Pur mantenendo una forte enfasi sulla cooperazione bilaterale, la presenza di Pechino ha aggiunto una dimensione geopolitica ulteriore. La Cina è il primo partner commerciale dell’ASEAN e un importante acquirente di energia per il GCC. I leader hanno accolto con favore un dialogo trilaterale più profondo, sottolineando l’importanza di una cooperazione multipolare che non escluda i partner tradizionali ma favorisca nuove alleanze complementari.

Il messaggio generale emerso dal vertice è chiaro: l’ASEAN e il GCC vogliono assumere un ruolo più centrale nella definizione del proprio destino economico. Di fronte all’instabilità globale, all’imprevedibilità delle politiche commerciali statunitensi e alle crescenti tensioni geopolitiche in Europa e nell’Indo-Pacifico, entrambe le regioni stanno avanzando verso una forma più strategica di regionalismo. Piuttosto che affidarsi a istituzioni o alleanze tradizionali, cercano partenariati pragmatici e settoriali che offrano benefici concreti alle rispettive popolazioni e riducano le dipendenze strategiche.

Il vertice ha inoltre riflesso la crescente fiducia e capacità di organizzazioni regionali come l’ASEAN e il GCC di fungere da piattaforme per l’innovazione diplomatica e il coordinamento economico. La loro capacità di convocare non solo gli Stati membri, ma anche potenze globali come la Cina, testimonia una nuova realtà degli affari internazionali: il baricentro del commercio, della finanza e dell’impegno strategico si sta spostando sempre più verso l’Asia e le sue regioni adiacenti.

In sintesi, il Vertice ASEAN–GCC del 2025 a Kuala Lumpur è stato molto più di un evento cerimoniale. È stato una convergenza strategica, fondata su interessi comuni e modellata da un ambiente globale in evoluzione. Se le due regioni sapranno attuare efficacemente le decisioni e i quadri concordati durante l’incontro, la loro cooperazione potrà diventare un modello di riferimento per come i blocchi regionali e le potenze intermedie possono contribuire alla costruzione di un ordine globale più stabile, prospero e multipolare.

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