Asean

5 anni in 1: Il nuovo e-commerce in ASEAN

Non solo Cina: il fenomeno e-commerce ora abbraccia anche l’ASEAN con un’enfasi particolare sui consumi di tutti i giorni

Negli ultimi mesi abbiamo tutti assistito alla graduale scomparsa di interi settori delle economie tradizionali, mentre altri invece sono cresciuti in modo esponenziale conquistando una posizione di rilievo nei mercati di riferimento. È questo il caso dell’e-commerce e nello specifico dell’e-commerce in Asia.

McKinsey stima che le aziende europee di maggior successo nel 2020 in termini di fatturato sono accomunati da due singoli fattori: focus sull’Asia (+9%) e massicci investimenti sulla costruzione di canali digitali dedicati (+76%).

La Cina è sicuramente il caso-studio più noto. Nel 2020, il Paese del Dragone ha registrato un record assoluto di vendite online: $2.090 trilioni, registrando un incremento del 26% rispetto all’anno precedente. In totale il numero di consumatori attivi ha superato i 900 milioni, su una popolazione totale di poco inferiore a 1,4 miliardi. Negli ultimi mesi l’e-commerce cinese ha però subito profondi cambiamenti riconducibili a due fenomeni distinti.


Il primo è la chiusura dei confini e delle tratte internazionali, che ha portato la popolazione cinese a spendere online entro i confini domestici, ponendo così fine al trend dello ‘shopping tourism’. Questo ha portato ad un sostanziale incremento della spesa online in madrepatria, quota che si attesta ora al 73% contro il 35% del 2019, e il trend si stabilizzerà al 50% per il 2025. Il secondo fattore riguarda l’aumento della spesa da parte delle giovani generazioni, e, in particolare, della Generation Z, nata dopo il 1995, che esercita il proprio accresciuto potere di spesa anche al di fuori dei centri urbani di prima fascia. 

I Gen Z e i Millennnials rappresentano circa 300 milioni di consumatori, non solo oggetto di corteggiamento e contesa da parte delle aziende, ma fautori di una vera e propria rivoluzione nel mondo dell’e-commerce all’insegna della customization e dell’omnicanalità.

La crescita dell’e-commerce nel Sud-Est asiatico, forse meno discussa ma certo altrettanto eclatante, condivide alcune caratteristiche del caso cinese ma presenta anche delle peculiarità. Si stima che la e-conomy in ASEAN sia cresciuta cinque volte più nel 2020 che in un normale anno pre-Covid.

Lo scorso anno la regione, che conta circa 650 milioni di abitanti, ha infatti visto crescere i propri utenti attivi da 360 a 400 milioni. Un consumatore su tre ha acquistato per la prima volta online proprio nel 2020 e se la crescita continuerà a questo ritmo il mercato digitale varrà circa $300 miliardi nel 2025. 

Nel complesso, i Paesi dell’ASEAN e la loro crescita economica travolgente hanno radici profonde nei precedenti investimenti in digitalizzazione e in innovazione dei modelli di business tradizionali: le politiche in questo senso sono riuscite a costruire dei forti pilastri su cui far crescere l’industria digitale nel lungo termine. L’investimento nelle infrastrutture telecomunicative e nell’educazione digitale, in particolare, è stato cruciale per reggere lo shock del Covid-19 e del lockdown. Inoltre, lo sviluppo dei sistemi di pagamento digitali, insieme a piattaforme social conglomerate, hanno permesso anche ai numerosi negozi al dettaglio di accedere alle piattaforme di e-commerce e interfacciarsi con nuovi mercati. Così come accaduto in Cina, molti dei nuovi consumatori digitali provengono dalle zone rurali o poco urbanizzate, e simile è anche la dinamica di attitudine all’unicità, desiderio di confronto con gli altri sui social e forte propensione all’ esperienza di acquisto omnicanale, soprattutto per le giovani generazioni. Il 94% degli internet users del Sud-Est asiatico infine preferiranno comprare online anche dopo la fine della pandemia, una quota impressionante anche rispetto alla Cina (circa il 40%). 

Tra molte somiglianze, c’è però una differenza che rende l’e-commerce ASEAN unico nel suo genere.

Prima del 2020 infatti la maggior parte delle vendite retail avvenivano offline: le economie in via di sviluppo dell’ASEAN sono tradizionalmente ‘comunitarie’, e la componente di contatto fisico giornaliero gioca un ruolo fondamentale e di coesione sociale. In questo senso, il Sud-Est asiatico ha creato un nuovo metodo di fare e-commerce con un’enfasi particolare sul commercio dei cosiddetti beni di prima necessità e tutto quello che ruota attorno ad essi. La spesa online e l’acquisto di cibo a domicilio ad esempio sono cresciuti del 35% fino a toccare i $6 miliardi, il tasso più alto, anche spinto dal desiderio dei consumatori di elevare la qualità dei beni quotidiani acquistati. La chiave, qui, è che gli asiatici sono ora pronti ad acquistare beni di prima necessità online, ma soprattutto e anche beni di alta qualità.

Questi numeri rappresentano un’opportunità irripetibile per l’Italia e il Made in Italy, che, storicamente, ha saputo declinare parole chiave come qualità, ma anche unicità e personalità nella vita di tutti i giorni, attraverso prodotti alimentari o capi di abbigliamento. 

L’e-commerce asiatico è stato la chiave di crescita per le aziende nel 2020, ma il trend sembrerebbe tutt’altro che in declino: sta all’Italia e alle sue aziende sfruttare questo momento, promuovendo un nuovo sistema di export che non solo faciliti un cambiamento degli schemi commerciali tradizionali, ma anche e soprattutto promuova una leadership del Paese nel lungo termine.

ENRICO LETTA LASCIA IL TESTIMONE A ROMANO PRODI: cambio di Presidenza all’Associazione Italia-ASEAN

COMUNICATO STAMPA

Il Prof. Romano Prodi sostituisce Enrico Letta alla presidenza dell’Associazione Italia-ASEAN. L’ex Presidente della Commissione europea ha accettato l’invito del neosegretario del Partito Democratico a guidare l’associazione da lui fondata nel 2015 per favorire e stimolare le relazioni tra l’Italia e i 10 paesi del Sudest asiatico, nel quadro delle relazioni tra Unione Europea e ASEAN.

Nel suo commiato, il presidente uscente Enrico Letta ha sottolineato che “in questi sei anni di attività, il livello di relazioni politiche ed economiche è cresciuto grazie al lavoro dell’associazione, che si è sviluppato dalle intuizioni di Francesco Merloni – alla guida di uno dei primi gruppi industriali italiani a guardare all’Asia sudorientale – e del Presidente della Repubblica Mattarella, primo capo di stato europeo a visitare il Segretario Generale dell’ASEAN”.

Enrico Letta nel motivare la scelta di Romano Prodi – con esperienze di governo italiane ed europee – ha ringraziato i vice presidenti Romeo Orlandi e Michelangelo Pipan, il tesoriere Oliver Galea, il direttore Valerio Bordonaro e la Segretario Generale Alessia Mosca, che assumerà la carica di Vice Presidente esecutivo.

Il professor Prodi ha accettato con entusiasmo spingendo sulla necessità dell’Italia di rafforzare quelle strutture che si occupano di creare relazioni internazionali economiche e politiche che siano di sistema, informali e profonde.

Donne e sostenibilità: un binomio vincente per lo sviluppo

Donne e sostenibilità sono elementi correlati: osservare lo sviluppo del Sud-Est asiatico adottando una prospettiva di genere favorirà la ripresa economica post-pandemica 

L’uguaglianza di genere e il cambiamento climatico sono problematiche endemiche nel Sud-Est asiatico e la pandemia di Covid-19 le ha rese ancor più urgenti. La buona notizia è che l’ASEAN non è sola: l’impegno internazionale sancito dall’Agenda ONU 2030 sistematizza infatti le sfide globali che ci attendono. Tuttavia, le specificità locali giocano un ruolo fondamentale, il Sud-Est asiatico è una delle regioni più colpite dal cambiamento climatico e questo incide sulla marginalizzazione di alcuni gruppi sociali quali persone indigenti e donne – categorie che spesso coincidono

L’ASEAN Gender Outlook pubblicato lo scorso febbraio, encomia gli sforzi compiuti sinora in tema di gender equality, ma sottolinea anche come le conseguenze economiche del Covid-19 possano compromettere questi risultati. Le donne e le ragazze del Sud-Est asiatico sono infatti le categorie le più colpite dalla crisi dovuta alla pandemia. Le discriminazioni sistemiche, storicamente radicate in alcune pratiche culturali e aggravate da altri fattori – come imperativi di crescita economica insostenibili – sono molto influenti sulla condizione femminile di questi Paesi. La diseguaglianza è infatti una questione multidimensionale, per questo è necessario che i governi adottino uno sguardo d’insieme in grado di coglierne la complessità. 

Date le specificità della regione, donne e sostenibilità sono concetti chiave per lo sviluppo. Secondo il rapporto FAO Rural women and girls 25 years after Beijing, il 39% delle donne che vivono in zone rurali è impegnato nel settore agricolo. Come abbiamo già osservato in un precedente articolo il cambiamento climatico colpisce con particolare veemenza i Paesi del Sud-Est asiatico, infierendo duramente sull’agricoltura – settore di punta delle economie regionali. A ciò si aggiunge una progressiva urbanizzazione guidata dalle nuove opportunità di lavoro offerte dallo sviluppo industriale degli ultimi decenni, che ha comportato lo spostamento di gran parte della forza lavoro maschile verso le città, e dunque una conseguente ‘femminilizzazione’ del lavoro agricolo nelle aree rurali. 

Questo scenario descrive plasticamente come le donne impegnate nel settore siano anche i soggetti più esposti agli effetti nefasti del cambiamento climatico. Il quadro si aggrava se consideriamo che a questa crescente presenza delle donne in agricoltura non corrisponde un’analoga ‘femminilizzazione’ della terra e del decision-making. L’85% dei diritti di proprietà sui terreni agricoli appartiene a uomini, ai quali effettivamente spetta l’ultima parola. L’ASEAN Gender Outlook stima che il 24% dei terreni nei Paesi ASEAN siano oggi meno fertili che in passato, e che le donne siano costrette a subire il degrado ambientale senza poter fare nulla, dal momento che non gli è concesso di prendere decisioni circa l’abuso di pesticidi e l’impiego di monocolture.

Adottare una prospettiva di genere nel Sud-Est asiatico significa pertanto includere istanze marginalizzate di vario tipo: dall’attenzione al degrado ambientale allo sviluppo agricolo, dalla crescita economica alla giustizia sociale. In conclusione, tenere conto del binomio donne-sostenibilità può favorire lo sviluppo dell’ASEAN nella fase post-pandemica.

Multilateralismo, digitalizzazione e sostenibilità

L’agenda della nuova strategia UE per il commercio internazionale

Il 18 Febbraio 2021 la Commissione Europea ha pubblicato le linee guida della sua nuova “Strategia per il commercio internazionale”, che determinerà l’approccio dell’Unione verso il commercio con i Paesi terzi negli anni a venire.

Dal documento appare chiaro che la parola d’ordine sarà “autonomia strategica e aperta”. Aperta ad una ripresa economica dalla pandemia di COVID-19, che sia guidata dalla trasformazione green e digitale. Ma aperta anche ad un rinnovato multilateralismo, e soprattutto ad una sostanziale riforma dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC).

La transizione verso un’economia più ecosostenibile è probabilmente la sfida principale. Gli obiettivi posti dal Green Deal europeo, l’insieme di iniziative politiche proposte dalla Commissione per raggiungere la neutralità climatica in Europa entro il 2050, sono ambiziosi, numerosi, e urgenti. Per questo motivo, uno dei primi traguardi da raggiungere attraverso la nuova Strategia sarà quello di rafforzare le clausole di salvaguardia dell’ambiente, già presenti negli accordi di libero scambio che l’UE stringe con i Paesi terzi. Il rispetto di queste clausole sarà monitorato con estrema attenzione, e verrà inasprita la lotta contro il commercio illegale per garantire la protezione dei cittadini, dei lavoratori, e dei coltivatori.

La seconda sfida è quella della rivoluzione digitale. L’UE si è posta come obiettivo l’attuazione di nuove linee guida per il commercio digitale, ovvero quella tipologia di commercio in beni e servizi che viene realizzato ogni giorno attraverso mezzi elettronici. Secondo stime della Commissione Europea, nel 2018 più del 60% del PIL mondiale era rappresentato dalle transazioni digitali, cifre che sono cresciute in maniera esponenziale durante l’epidemia di COVID-19. Tuttavia, la Commissione intende mostrarsi fortemente contraria a quei Paesi che impongono misure sempre più discriminatorie per promuovere la propria competitività digitale a discapito degli altri. Nella nuova Strategia, l’UE spinge verso un maggiore flusso di informazioni digitali tra Paesi, ma nel rispetto delle regole comunitarie sulla protezione dei dati personali. Una delle finalità più ambiziose è quella di vietare la richiesta della localizzazione da app e siti web quando queste non siano strettamente necessarie, in linea con il quadro giuridico dell’UE sulla protezione dei dati personali.

La riforma dell’OMC è indispensabile per raggiungere questi obiettivi. La Strategia della Commissione, infatti, sottolinea il bisogno di inserire delle clausole sulla salvaguardia dell’ambiente non solo nei suoi accordi di libero scambio, ma anche nelle regole generali per tutti i Paesi che vogliano continuare a scambiare merci, beni e servizi in tutto il mondo.

L’OMC, con la nomina della nuova Direttrice Generale Ngozi Okonjo-Iweala lo scorso 1° marzo, ha superato una difficile situazione di stallo riguardante le nomine per l’organo di appello che durava da oltre tre anni, a causa del blocco alle nomine voluto dall’Amministrazione Trump. L’economista nigeriana, prima donna e prima rappresentante africana a ricoprire l’incarico di Direttore Generale, ha ricevuto rinnovato sostegno sia dell’UE sia della Casa Bianca con la nuova Amministrazione Biden. In molti sperano che lei sia la “donna giusta al momento giusto” per porre fine alla disputa commerciale e al crescente protezionismo tra l’Unione e gli Stati Uniti. Ma anche per risolvere la guerra commerciale in atto tra Cina e USA, da quando questi ultimi hanno imposto tariffe “incompatibili” con le norme internazionali ai prodotti cinesi nel 2018. Coadiuvata dalla nuova amministrazione, l’UE si augura di esportare il suo modello di transizione green e digitale anche nell’OMC.

L’obiettivo di porre la propria autonomia strategica al centro, verso un’Unione che da sola è in grado di raggiungere i suoi obiettivi e perseguire la sua agenda globale su multilateralismo, digitalizzazione e cambiamento climatico, è senza dubbio lodevole. È impossibile non notare, tuttavia, la mancanza di una strategia per il giusto rilancio dei rapporti con l’area ASEAN e dell’Asia Pacifico. In modo particolare, le Tigri asiatiche brillano da tempo per i successi raggiunti nello sviluppo digitale e fanno parte di quei Paesi più interessati alla lotta contro il cambiamento climatico, data la loro posizione geografica particolarmente soggetta ai disastri ambientali. L’Europa sta già iniziando a dare maggiore centralità all’Indo Pacifico, ne sono un esempio i vari trattati di libero scambio con Giappone, Vietnam, Singapore e le trattative con Australia, Indonesia e Malesia, oltre alla “Strategia per l’Indopacifico” in corso di sviluppo da parte della Commissione Europea. Tuttavia, un maggiore focus verso quest’area del mondo dal punto di vista commerciale resta cruciale per dare una svolta importante alla nuova strategia europea e rafforzare la posizione dell’UE nell’arena globale.   

La cooperazione ASEAN-UE in tema di climate action

L’impatto del cambiamento climatico sui paesi del Sud-Est asiatico è già realtà. Per questo, la cooperazione inter-regionale con l’UE rappresenta una vera opportunità per la realizzazione di un futuro sostenibile

Il cambiamento climatico è ormai una forza inarrestabile. Indonesia, Thailandia, Vietnam, Myanmar e Filippine sono tra i Paesi ASEAN più colpiti dagli effetti di questo fenomeno, e anche se nessuna area del globo è immune alla sua inclemenza, la regione del Sud-Est asiatico è particolarmente vulnerabile. A questo proposito, la cooperazione inter-regionale tra Unione Europea e ASEAN può rappresentare davvero un’opportunità per promuovere buone pratiche di produzione e consumo sostenibili. 

Le responsabilità legate al deterioramento ambientale e al mutamento climatico sono difficili da individuare: i Paesi in via di sviluppo biasimano quelli più sviluppati per aver fatto profitti depredando risorse ambientali preziose; viceversa, i secondi vantano oggi un mercato dei consumatori molto più informato e sensibile a tematiche ecologiste, perciò accusano i Paesi con normative ambientali più blande di inquinare irrimediabilmente il pianeta – evitando di menzionare il fatto che gli imperativi di crescita economica nel mondo globalizzato passano anche attraverso regolamentazioni nazionali finalizzate ad attrarre investimenti stranieri. Dunque, distinguere retoriche interessate da evidenze storiche e scientifiche è un lavoro complesso, che rischia di bistrattare un dato terribilmente urgente: il cambiamento climatico è già qui. 

Due certezze guidano perciò il dibattito contemporaneo in proposito. Innanzitutto, la frequenza inedita di nubifragi, siccità, e fenomeni meteorologici e ambientali straordinari sono tra gli effetti direttamente conseguenti l’attività umana. A questo proposito, il premio Nobel per la chimica Paul Crutzen è noto per aver introdotto il termine antropocene per indicare l’era geologica attuale, un’era in cui l’essere umano ha compromesso la sopravvivenza del pianeta attraverso attività inquinanti, determinate spesso da ritmi produttivi insostenibili. La seconda certezza è che le popolazioni povere dei Paesi in via di sviluppo sono le più vulnerabili, e quelle meno resilienti alla dirompenza dei disastri ambientali. Risorse economiche insufficienti e istituzioni pubbliche instabili, fanno sì che inondazioni, cicloni e siccità si trasformino da disastri ambientali a disastri sociali, compromettendo così a lungo termine la tenuta del tessuto socio-economico e la sopravvivenza stessa delle popolazioni locali. 

Questi temi, insieme a quello della food security, sono particolarmente sentiti tra i Paesi del Sud-Est asiatico, per due principali ordini di ragioni. Innanzitutto, la gran parte della popolazione che abita la regione è concentrata nelle aree costiere. Ad esempio, Giacarta è un caso emblematico della varietà di rischi legati al cambiamento climatico. Si stima che i residenti urbani dell’Indonesia rappresenteranno nel 2025 il 65% della sua popolazione totale. Per quella data la capitale indonesiana sarà probabilmente sommersa per il 95% dal Mar di Giava. Il Paese più popoloso del Sud-Est asiatico non è nuovo a questo tipo di fenomeni ambientali, che dagli anni Sessanta si sono fatti però sempre più ricorrenti e aggressivi. Anche la Thailandia è avvezza a inondazioni e nubifragi, che un tempo però la colpivano con meno frequenza e causando danni più contenuti: Bangkok, sprofonda di 1-2 centimetri circa ogni anno, e di questo passo nel 2030 si troverà sotto il livello del mare. Allo stesso modo lo sviluppo della città di Da Nang in Vietnam, che grazie alla centralità della sua posizione geografica è considerata uno snodo importante per i settori dei trasporti e dei servizi vietnamiti, è rallentato da continui allagamenti. Infine, secondo il Global Climate Risk Index, Myanmar e Filippine sono regolarmente esposte a gravi cicloni tropicali e difficilmente riescono a riprendersi in tempo dai disastri degli anni precedenti, con il risultato che i danni si sommano tra loro pesando sulla popolazione locale. 

In secondo luogo, l’agricoltura è uno degli ambiti su cui il cambiamento climatico impatta con più severità. Principale fonte di sussistenza delle popolazioni residenti e maggior settore di esportazioni, quello agricolo è anche il settore di punta di gran parte dei Paesi ASEAN. In particolare, i raccolti di grano, riso e mais sono estremamente suscettibili a condizioni meteorologiche avverse. Oltre ad essere compromesse dall’imprevedibilità di questi fenomeni climatici, le attività agricole causano anche la più ampia quota di emissioni di cui sono tacciate le economie del Sud-Est asiatico, colpevoli dell’intenso consumo di energia e di combustibili fossili.

Lo scenario appena descritto rende tanto più necessaria la promozione della cooperazione internazionale. Oltre ad essere parte dell’Accordo di Parigi, nel 2009 l’ASEAN ha fondato un proprio gruppo di lavoro, l’ASEAN Working Group on Climate Change. Si tratta di una piattaforma consultiva atta a promuovere anche la cooperazione regionale e la climate action con partner internazionali, oltre che con le comunità locali. Anche L’ASEAN Senior Officials on the Environment realizza un’azione coordinata tra i Paesi membri e i vari partner di dialogo e di sviluppo; inoltre, l’ASEAN Climate Resilience Network è dedicato alla condivisione di informazioni esperienze e competenze relative alla climate smart agriculture

L’ASEAN mette quindi le proprie piattaforme istituzionali a servizio della lotta al cambiamento climatico. A questo proposito, la cooperazione con l’Unione Europea è particolarmente rilevante. Oltre al contributo delle istituzioni multilaterali, nel novembre scorso l’ASEAN ha tenuto un ampio dialogo sul tema dei cambiamenti climatici e delle responsabilità internazionali, in cui si sono stati ribaditi i rispettivi impegni assunti. Nel solco del Green Deal Europeo, il Sud-Est asiatico può attingere alla longeva esperienza dell’Unione sul tema delle normative contro l’abuso della plastica, e per la promozione della biodiversità e dell’economia circolare. La cooperazione tra le due realtà regionali è supportata anche dall’Enhanced Regional EU-ASEAN Dialogue Instrument, nell’ambito del quale viene promosso il dialogo tra i Paesi in diverse aree d’interesse, tra cui sostenibilità, ambiente e cambiamento climatico. Come sostiene Vandana Shiva, esperta di ecologia sociale e attivista ambientalista, per poter immaginare un futuro sostenibile per il nostro pianeta è fondamentale un cambio di paradigma, fondato non più sulla predazione di risorse ambientali o sulla competizione sregolata, bensì sulla condivisione di informazioni, pratiche e responsabilità. La cooperazione inter-regionale ASEAN-UE rappresenta in questo senso una vera opportunità per riuscire ad immaginare modelli alternativi di sviluppo socio-economico, all’insegna del rispetto ambientale.

A cura di Agnese Ranaldi

Sfide e opportunità per la Presidenza italiana del G-20

Per la prima volta l’Italia presiederà il G-20 e dovrà essere in grado di mediare tra USA e Cina. La “staffetta” con l’Indonesia può contribuire a mettere al centro i temi asiatici.

Per la prima volta dalla sua costituzione, il G-20 verrà presieduto dall’Italia. La Presidenza italiana è iniziata nel dicembre del 2020 e si concluderà il 30-31 ottobre 2021 con una grande conferenza di tutti i capi di stato e di governo dei Paesi membri a Roma. Prima del Summit romano, si svolgeranno incontri a livello ministeriale sulle diverse tematiche in varie città italiane nel periodo compreso tra maggio e ottobre. Per l’Italia si profila una grande occasione per essere protagonista indiscussa nel palcoscenico della politica internazionale. 

I temi centrali sui quali la Presidenza italiana ha deciso di impostare il lavoro del G-20 sono tre: People, Planet e Prosperity, esemplificati nella sigla 3P. Si tratta di tre concetti alla base dell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite per la sostenibilità e infatti si può parlare di sostenibilità sociale in favore delle Persone, ambientale in relazione al Pianeta e anche economica con riguardo alla Prosperità. Il fatto di mettere al centro del forum proprio il tema della sostenibilità fa pensare che il nostro Paese sia intenzionato a giocare un ruolo di primo piano per la costruzione di un’economia internazionale nuova basata sul rispetto del pianeta e sulla tutela delle persone. Accanto a quello della sostenibilità sarà centrale anche il tema della salute, visto che l’Italia presiederà insieme alla Commissione Europea anche il Global Health Summit e quindi possiamo aspettarci un impegno forte della Presidenza italiana sul problema attuale della pandemia e di come contrastarla con misure globali. 

Una sfida che attende il nostro Paese, sotto la guida del nuovo esecutivo Draghi, sarà quella di svolgere un ruolo di mediazione tra USA e Cina. In quest’ottica, il summit di Roma sarà anche il primo evento internazionale di peso in cui il neo-Presidente Joe Biden si incontrerà col Presidente cinese Xi Jinping. Come già dimostrato dalle parole di Biden al recente G-7, gli USA hanno deciso di lasciarsi alle spalle la stagione isolazionista trumpiana e di tornare protagonisti nella politica internazionale. Sicuramente il nuovo Presidente porrà sul tavolo il tema del maggiore impegno degli USA per la sostenibilità e per il rispetto degli Accordi di Parigi sul clima, come anche il sostegno alla battaglia contro il virus e la fine della “guerra dei dazi” con la Cina, ma nei confronti di questa farà sentire la sua voce relativamente ad Hong Kong, agli Uiguri e al delicato conflitto nel Mar Cinese Meridionale. L’Italia dovrà trovarsi pronta a facilitare il dialogo tra i due giganti e forse troverà un valido alleato per questo compito proprio nel Paese che succederà al nostro alla Presidenza del G-20.

Infatti, nel 2022 toccherà all’Indonesia coordinare i lavori del forum internazionale. L’Indonesia non solo è il Paese musulmano più popoloso al mondo e il terzo più popoloso dell’Asia, ma è anche un membro dell’ASEAN (l’unico di questi nel G-20) e sicuramente tra tutti, quello che di più si è speso per una maggiore integrazione e democratizzazione tra i Paesi del Sud-Est asiatico, come dimostrato dal recente caso del golpe in Myanmar. Per lo “stato arcipelago” la presidenza del G-20 sarà l’occasione tanto attesa per dimostrare al mondo che democrazia e Islam possono coesistere, che il Paese è avviato verso lo sviluppo e condivide la battaglia per la sostenibilità e che è un valido attore nella politica internazionale. Infatti, cercherà di sfruttare la sua posizione per far integrare meglio l’ASEAN con il G-20 e sicuramente svolgerà un ruolo di mediazione tra USA e Cina, anche per non finire intrappolata nella loro contesa. 

L’Italia dovrà fare squadra con l’Indonesia per facilitare il dialogo tra USA e Cina, per ammorbidire le relazioni tra Cina e India e per rafforzare i rapporti UE-ASEAN. È bene ricordare che l’Italia (insieme a Germania e Francia) è diventata da pochi mesi Development Partner dell’ASEAN e questo costituisce di certo un punto di osservazione privilegiato per lo scenario asiatico che il nostro Paese dovrà essere in grado di sfruttare al meglio soprattutto in vista del passaggio di consegne con l’Indonesia. Infine, non va dimenticato che UE e Indonesia stanno negoziando da diversi anni un accordo commerciale, ma le divergenze di vedute sull’olio di palma lo stanno di fatto bloccando. L’auspicio è che la Presidenza italiana riesca a sbloccare questo dossier commerciale, come anche quelli con gli altri Paesi ASEAN. Una più stretta relazione tra UE e ASEAN per mezzo di Italia e Indonesia non potrà che migliorare il dialogo tra Europa ed Asia ed evitare che le due aree geografiche siano intrappolate nella contesa tra USA e Cina. 

A cura di Niccolò Camponi

La nuova strategia giapponese

L’annuncio a sorpresa di Mitsubishi: dopo l’uscita dall’Europa punterà tutto sull’ASEAN. La scelta della multinazionale giapponese è un caso di studio per il mondo che cambia.

Gli standard stringenti sulle emissioni inquinanti e normative tecniche sempre più rigorose hanno reso l’Europa un luogo difficile per fare affari per una grande multinazionale dell’automotive. Oltretutto, mentre l’UE sta diventando sempre più un mercato di nicchia, i nuovi consumatori sono altrove. Guidata da simili considerazioni, Mitsubishi Motors Corporation (MMC) ha recentemente annunciato l’intenzione di sospendere le operazioni in Europa una volta terminata l’attuale linea di produzione. Così facendo, MMC, a qualche anno di distanza dalla ‘connazionale’ Daihatsu, ha deciso di abbandonare l’Europa, dove era presente dal 1975, per concentrarsi sui mercati emergenti e sempre più redditizi del Sud-Est asiatico.

Secondo Sammu Chan, analista senior di LMC automotive, le case automobilistiche giapponesi hanno un problema con l’Europa: “Dalle normative sulle emissioni e le difficili condizioni di mercato, alla pressione del segmento premium e ai prezzi della concorrenza interna, si trovano ad affrontare uno scenario da incubo quando si tratta della questione della redditività sostenibile in Europa”. La questione che preoccupa di più sembra essere quella delle emissioni, soprattutto se si considerano le multe minacciate dall’Unione Europea al Regno Unito nel quadro delle normative sulle emissioni di carbone. “Con obiettivi di CO2 così severi in Europa” – secondo Chan – “è necessaria una chiara strategia EV per prosperare nel prossimo decennio”, che non tutti sembrano potersi permettere.

In un mercato consolidato come quello europeo le imprese dell’auto affrontano la sfida della smart technology strette tra la pressione della concorrenza e l’urgenza degli investimenti. La nuova recessione economica innescata dalla pandemia di Covid-19 non ha certo aiutato un settore già messo alla prova da un rallentamento delle vendite per certi versi fisiologico. Pertanto, il produttore giapponese sta concentrando il nuovo piano di sviluppo sulla “razionalizzazione dei costi e il miglioramento della redditività”, che confida possa riportare il marchio su una traiettoria di crescita sostenibile nei prossimi tre anni. Il progetto a medio termine, soprannominato “Small but Beautiful”, prevede la riallocazione delle risorse di gestione nei nuovi mercati emergenti e un rafforzamento delle tecnologie primarie: le operazioni europee non saranno più una priorità.

L’attenzione di Mitsubishi si concentrerà invece sui Paesi ASEAN, che generano ad oggi circa un quarto delle vendite totali dell’azienda, e dove l’azienda punta a raggiungere una quota di mercato dell’11%, prima di riprendere la propria espansione globale. Nell’ambito della sua ristrutturazione globale, le fabbriche del Sud-Est asiatico sono destinate a svolgere un ruolo chiave nella fornitura di nuovi prodotti ad altri mercati emergenti in tutto il mondo come appunto quelli dell’America Latina e dell’Africa. La strategia prevede anche un’innovazione della gamma Mitsubishi attraverso l’introduzione dell’ibrido plug-in e dei veicoli elettrici, che saranno destinati inizialmente al solo mercato ASEAN. I nuovi modelli beneficeranno della tecnologia sviluppata nell’ambito della sua alleanza con Renault e Nissan

“Integrando queste tecnologie – ha sottolineato l’azienda – Mitsubishi lancerà modelli ecologici che contribuiranno allo sviluppo di una società in cui le persone, le automobili e la natura possono coesistere in armonia”. Scegliendo di concentrarsi sull’ASEAN anziché disperdersi in giro per il mondo,la casa automobilistica ha deciso di investire nella straordinaria storia di sviluppo della regione. Attualmente la Mitsubishi ha già una base di produzione in Vietnam, così come in Thailandia, Indonesia e Filippine. Il piano è di aggiungere il Myanmar alla lista, anche se il recente colpo di stato potrebbe portare l’azienda a riconsiderare questo obiettivo.

In un momento di grande difficoltà, la Mitsubishi ha deciso di ripartire dall’ASEAN. Nel Sud-Est asiatico, l’azienda si troverà ad affrontare un mercato molto diverso da quello europeo, meno rigido per quanto riguarda le emissioni e più favorevole all’acquisto di prodotti non necessariamente in linea con le ultime tecnologie. La scelta della regione come sede di produzione di componenti e veicoli destinati ai nuovi mercati emergenti avrà inoltre un impatto molto significativo sul lavoro e sulla produzione e immissione dei veicoli elettrici nel Paesi dell’ASEAN.

Un nuovo inizio per le relazioni Giappone-ASEAN

Il Giappone guarda al Sud-Est asiatico per diversificare la produzione e contenere la crescita cinese 

Vietnam e Indonesia sono state le mete della prima visita all’estero del capo di governo giapponese Yoshihide Suga a ottobre. Un segnale importante, che ha confermato il crescente interesse del Giappone verso il Sud-Est asiatico. Il 2021 segna il decimo anniversario dell’istituzione della Missione diplomatica del Giappone in ASEAN, istituita a Jakarta nel 2011, ulteriore riscontro dell’intenso e duraturo rapporto di alleanza.

Lo scorso ottobre, un mese dopo il suo insediamento governativo, Suga ha scelto due Stati chiave della regione per dare il suo primo contributo al progresso delle relazioni Giappone-ASEAN, fortemente voluto dal suo predecessore Shinzo Abe. “Anch’io vorrei continuare ad approfondire l’amicizia e la cooperazione con i popoli dell’ASEAN. Giappone e ASEAN sono partner e amici alla pari. Ci supportiamo lavorando fianco a fianco, imparando l’uno dall’altro e cooperando nel perseguimento della crescita”, ha dichiarato Suga nel suo discorso agli studenti della Vietnam-Japan University. In questa occasione il Primo Ministro giapponese ha affrontato tematiche fondamentali per il consolidamento della partnership. Apprezzando l’invio dei reciproci aiuti per affrontare la crisi sanitaria e l’impegno del Giappone a supporto dell’ASEAN Centre for Public Health Emergencies and Emerging Diseases, Suga ha assicurato che l’implementazione del COVID-19 Crisis Response Emergency Support Loan del Giappone rivolgerà un’attenzione particolare all’Indo-Pacifico, inclusi i Paesi ASEAN.

Il forte legame tra il Giappone e il Sud-Est asiatico è basato sulla necessità comune di affermarsi nel contesto regionale e di investire sulla pace e la stabilità nella regione indopacifica per prosperare. Il premier Suga ha espresso forte sostegno all’ASEAN Outlook on the Indo-Pacific (AOIP), poiché condivide gli stessi valori che caratterizzano anche la strategia di politica estera giapponese “Free and Open Indo-Pacific”, delineata dall’amministrazione Abe. L’approccio dell’ASEAN nell’AOIP enfatizza la centralità delle norme internazionali per sedare le dispute e l’importanza della trasparenza nelle relazioni regionali, stabilendo una linea d’azione condivisa con il Giappone e quindi una comunanza di intenti preziosa per lo sviluppo di un futuro prospero e pacifico in Asia Orientale. 

La questione del Mar Cinese Meridionale rappresenta un punto chiave delle relazione tra Tokyo e i Paesi ASEAN. Dichiarando la piena opposizione del Giappone a ogni tipo di aggressione nella regione, il capo di governo giapponese ha favorito iniziative di collaborazione con l’ASEAN per stabilire il rispetto delle norme internazionali nei mari e gli oceani. Il Giappone ha fornito navi da pattuglia e attrezzature per la sicurezza marittima a Vietnam e Filippine. Ha inoltre promosso la formazione del personale militare e l’invio di esperti alle nazioni costiere lungo le rotte marittime principali della regione, tra cui Indonesia e Malesia, per contribuire a rafforzare le loro capacità operative. Nell’incontro tra Suga eil Presidente indonesiano Joko Widodo a ottobre, entrambi i leader hanno rimarcato l’intenzione di continuare a lavorare a stretto contatto sulle sfide regionali, in particolare la questione del Mar Cinese Meridionale e la Corea del Nord. 
Tutte le tematiche affrontate nel corso delle visite ufficiali sono state poi confermate da Suga durante il 23° Japan-ASEAN Summit Meeting, tenutosi a novembre 2020. 

Segnali interessanti arrivano anche dal lancio della Supply Chain Resilience Initiative.  La strategia ideata dal Giappone, insieme a India e Australia nel ruolo di partner principali, proverà ad aumentare la resilienza delle catena di approvvigionamento dei tre Paesi diversificando la produzione verso l’ASEAN con l’obiettivo di ridurre la dipendenza dal sistema produttivo cinese. Grazie alla collaborazione con Paesi partner come i membri dell’ASEAN, il Giappone intende accelerare l’evoluzione economica della regione indopacifica per contenere la forte crescita della Cina. 
Pertanto, nell’implementazione della  Regional Comprehensive Economic Partnership (RCEP), che ha unito di nuovo ASEAN e Giappone nella più grande area commerciale del mondo, Tokyo punterà a rafforzare la partnership strategica con l’ASEAN per bilanciare il peso di Pechino nell’accordo. 

Sforzi congiunti sono stati orientati di recente anche verso il settore delle energie rinnovabili. L’Asian Development Bank e il Ministero giapponese dell’Economia, del Commercio e dell’Industria hanno firmato un memorandum di cooperazione per rafforzare il loro impegno nello sviluppo dell’energia pulita nel Sud-Est Asiatico. Con l’avanzare dell’agenda globale verso i temi della transizione ecologica e la sempre più impellente necessità di accompagnare questo processo, Tokyo punta con forza sui Paesi ASEAN per lavorare insieme su questi delicati e prioritari dossier d’interesse comune. 

Il Giappone dunque continua a guardare con grande interesse verso il Sud-Est asiatico anche con l’avvento della leadership di Suga. Le preziose iniziative commerciali e le dinamiche geopolitiche in gioco daranno un nuovo impulso alla partnership strategica Giappone-ASEAN. I presupposti per “costruire insieme il futuro dell’Indo-Pacifico” ci sono tutti.

 

Indo-Pacifico, le nuove sfide per l’Europa

Tra accordi commerciali e consolidamento militare, i Paesi europei ridefiniscono la loro strategia nel Sud-Est asiatico

L’Europa si è accorta del potenziale dell’Indo-Pacifico e ridefinisce le priorità strategiche in tal senso. La prima potenza europea a riconoscere l’importanza della regione è stata la Francia di Emmanuel Macron, che nel 2017 ha pubblicato i piani per una maggiore partecipazione regionale, immediatamente seguita da Germania e Paesi Bassi. Insieme, i tre Paesi stanno spingendo per delineare la strategia europea per l’Indo-Pacifico, la cui pubblicazione è attesa nel 2021.

L’interesse dell’Unione Europea verso il Sud-Est asiatico non è certo una novità. Nel 2017 lo stock di investimenti diretti esteri indirizzati ai Paesi ASEAN ha raggiunto il valore di 337 miliardi di euro, superando di gran lunga l’impegno di qualsiasi altro investitore estero e, solo nel 2020, il commercio tra Cina e UE ha raggiunto la cifra di 480 miliardi di euro. Senza contare che circa il 12% del flusso commerciale annuo di alcuni Paesi europei, tra cui Francia e Germania, passa attraverso il Mar Cinese Meridionale.

In tale ottica, le linee guida per la strategia regionale adottate dal governo tedesco lo scorso settembre, stabiliscono il principio della libertà di navigazione e chiedono una più profonda cooperazione. L’Australia ha accolto con favore la presenza tedesca e dell’Unione Europea nella regione, inviando diplomatici in tutte le capitali europee per manifestare il proprio sostegno all’iniziativa. Anche la Francia è stata bene accolta dall’India, che ne ha sostenuto l’ingresso nell’Indian Ocean Rim Association – un’associazione che riunisce Paesi che si affacciano sull’Oceano Indiano con obiettivi di cooperazione regionale e sviluppo sostenibile – rendendo Parigi il primo membro non regionale dell’Associazione. 

La componente più visibile del rinnovato interesse europeo per l’Indo-Pacifico è il cospicuo dispiegamento di risorse militari; Parigi ha recentemente stipulato un accordo con l’India per l’uso reciproco delle basi navali, che stabilisce anche lo stanziamento di unità militari e navi nelle “aree di responsabilità” francese della Nuova Caledonia e della Polinesia. Anche Il Regno Unito, seppur non più parte dell’Unione Europea, invierà un gruppo di portaerei nella regione entro la fine dell’anno ed è membro attivo dell’alleanza militare Five Powers, che comprende anche le ex colonie britanniche di Australia, Nuova Zelanda, Malesia e Singapore. 

La presenza militare, tuttavia, è secondaria all’influenza economica. Negli ultimi tre anni, l’Unione Europea ha intessuto un mosaico di accordi di libero scambio, concludendone due con Vietnam e Singapore e aprendo le negoziazioni con l’Australia. L’UE ha inoltre concordato un Partenariato Strategico con l’ASEAN in vista di un futuro accordo commerciale. 

Questi scenari di riferimento, apparentemente lontani dal contesto geografico italiano, pongono in evidenza alcuni spunti di riflessione per la politica estera del nostro Paese. La forte apertura dell’area dell’Indo-Pacifico verso l’Europa dovrebbe essere maggiormente sfruttata dall’Italia che ha enormi potenzialità di incremento della cooperazione bilaterale in pressoché tutti i settori. L’ASEAN, da solo, rappresenta la quinta economia globale e la quarta potenza commerciale al mondo e, negli ultimi anni, la regione si è progressivamente aperta al commercio e agli investimenti. Di conseguenza, i Paesi ASEAN nutrono per l’Italia e l’Europa un profondo interesse. Per fare un altro esempio, l’interscambio commerciale fra Italia e India, oggi attestato a circa 9 miliardi di euro, è ampiamente al di sotto delle potenzialità che i due Paesi potrebbero esprimere. Se da un lato sono aumentati gli investimenti italiani in diversi settori (manifattura avanzata; automotive; transizione energetica; infrastrutture; agroalimentare e IT), l’Italia è soltanto il 5° Paese della UE per interscambio commerciale con l’India.

Con l’avvio della presidenza Biden c’è, inoltre, da chiedersi se la strategia europea nell’Indo-Pacifico subirà delle modifiche, dal momento che l’interesse europeo per la regione è coinciso con la ritirata degli Stati Uniti dallo scenario internazionale. Ebbene, i vertici dell’UE nel rassicurare i loro cittadini e i Paesi dell’Indo-pacifico, hanno dichiarato che l’Unione Europea non è intenzionata a farsi da parte e che non rinuncerà alla sua autonomia strategica solo perché gli Stati Uniti hanno fatto ritorno. Se, infatti, corrisponde al vero che l’area Indopacifica costituirà una delle maggiori economie planetarie entro i prossimi anni, essa rappresenta un’opportunità irrinunciabile per l’Italia e l’Europa, non solo per le prospettive offerte da una sempre maggiore integrazione delle rispettive economie, ma soprattutto per costruire una solida partnership economica, politica e militare fondata su interessi e valori comuni.

The ASEAN way: il ruolo degli FTAs nell’integrazione regionale dell’Indo-Pacifico

Il delicato processo di integrazione commerciale dell’Asia Orientale ha individuato il suo polo propulsore nell’ASEAN. L’Associazione delle Nazioni del Sud-Est asiatico è infatti l’epicentro di una fitta rete di accordi di liberalizzazione, che ha creato le basi politiche e diplomatiche per promuovere relazioni mutuamente vantaggiose tra le economie asiatiche. Pur essendo stata definita una noodle bowl per via della confusione di aree di libero scambio non coordinate a livello regionale, la proliferazione di questi accordi ha contribuito notevolmente a fabbricare la fiducia reciproca tra i Paesi dell’area. Attraverso l’individuazione di misure di compromesso, sono state tutelate anche le economie più deboli – come ad esempio il Myanmar, da decenni impegnato in una complessa transizione democratica, recentemente frenata dal colpo di stato dei militari.

Il ricorso alla formula dei free trade agreements (FTAs) ben si concilia infatti con la preferenza di negoziazioni su base bilaterale, cui da sempre tendono le economie asiatiche, specie quelle in via di sviluppo. La conclusione di ben sette accordi di libero scambio nella regione – il primo tra i Paesi membri dell’ASEAN, gli altri tra l’Associazione e i suoi “partner di dialogo” – ha gettato le basi per la promozione della Regional Comprehensive Economic Partnership (RCEP). Grazie agli encomiabili sforzi dei suoi fautori, la cosiddetta ASEAN way ha di fatto realizzato le condizioni necessarie affinché i 15 Paesi firmatari della RCEP potessero dar vita a questo mega accordo commerciale nel novembre 2020.

Ma andiamo con ordine. All’indomani della creazione dell’area di libero scambio tra i Paesi membri dell’ASEAN nel 1993, sono stati promossi sei accordi con una serie di altre economie dell’Asia-Pacifico: Cina e Hong Kong, Giappone, Corea del Sud, Australia, Nuova Zelanda, e India.

Quello con la Cina è stato il primo accordo commerciale con uno dei dialogue partners dell’ASEAN. Le relazioni tra Pechino e i Paesi del Sud-Est asiatico sono andata via via migliorando dopo un lungo periodo di diffidenza, a partire dagli anni Settanta e poi con rinnovato vigore dagli anni Novanta. Infatti, nel 2002 è stato promosso il Framework Agreement on Comprehensive Economic Co-operation, cui ha fatto seguito un accordo di libero scambio sui beni che prevede la progressiva liberalizzazione economica tra le parti. Data l’imponenza dell’economia cinese rispetto ai Paesi membri dell’ASEAN alcuni membri dell’Associazione godono di un trattamento speciale e differenziato, con finestre temporali per la liberalizzazione più rilassate. Secondo i dati raccolti dall’Associazione, il valore del volume totale degli scambi tra ASEAN e Cina tra il 2003 e il 2019 ha conosciuto una crescita esponenziale dall’inizio del millennio: la crescita dell’interscambio di beni è pari a +692%, essendo incrementata da circa $64 miliardi a $507 miliardi. Ma è il tasso di crescita medio annuo a lasciare di stucco: il suo valore percentuale è pari al 13%, mentre il valore del volume totale degli scambi con il resto del mondo cresceva in media del 7% annuo (da circa $871 miliardi a $2.816 miliardi tra il 2003 e il 2019). All’accordo ASEAN-Cina ha fatto seguito quello con la regione amministrativa speciale di Hong Kong, siglato nel 2017, di cui l’ASEAN è il secondo partner commerciale. Nonostante il rapporto tra ASEAN e Cina sia complesso, entrambi desiderano mantenere la stabilità regionale, sfruttando rapporti commerciali mutualmente vantaggiosi.

Quella con il Giappone è considerata una delle relazioni più rilevanti tra l’ASEAN e una delle massime economie mondiali. Per resistenza e longevità, nonostante gli alti e i bassi, il legame economico-commerciale è sempre stato molto proficuo. Il volume totale del commercio di beni era già nell’ordine dei 119 miliardi di dollari nel 2003, ed è passato a $153 miliardi nel 2005, in seguito alla stipula dell’accordo, mentre nel 2019 invece ammontava a $226 miliardi. A questo ha fatto poi seguito la Joint Declaration con la Corea del Sud del 2004, che ha lanciato una Comprehensive Cooperation Partnership, poi seguita da un accordo sul libero scambio di beni (2006), di servizi (2007) e sulla mobilità degli investimenti (2009). 

Seguono infine gli ultimi due accordi: uno con Australia e Nuova Zelanda, e l’altro con l’India. Il primo riguarda un esteso orizzonte di settori. Infatti, oltre a promuovere una moderata liberalizzazione attraverso il progressivo abbattimento delle barriere commerciali, include disposizioni su una serie di altri ambiti che vanno dalle regolamentazioni sulla proprietà intellettuale e sulla competizione, alla promozione della cooperazione. Il secondo accordo è quello con l’India, che ha dato vita ad un mercato enorme che nel 2019 contava quasi due miliardi di persone, secondo la Banca Mondiale. A partire dal Framework Agreement siglato nel 2003, nel 2010 è entrato in vigore l’accordo sul libero scambio di beni, poi seguito da quello sulla liberalizzazione dei servizi. All’indomani della stipula dell’accordo, il volume totale dell’interscambio tra paesi ASEAN e India è quasi raddoppiato (+89%), passando in tre anni da circa $39 miliardi (2009) a circa $74 miliardi (2011).

Gettando le basi commerciali necessarie per creare spazi di prossimità politica, l’ASEAN ha giocato quindi un ruolo cruciale nel processo di fabbricazione dell’identità regionale dell’Asia Orientale – nonostante i suoi sviluppi siano ancora in divenire. La RCEP ne è l’epilogo positivo, anche se più che rappresentare un traguardo è l’unità elementare per costruire relazioni politico-economiche più salde e inclusive in futuro. Tali accordi di liberalizzazione nel complesso hanno dato vita ad un circolo virtuoso di interscambi anche sociali e politici all’insegna dell’ASEAN way che si innestano in un contesto di crescita positivo, nonostante la pandemia. Inoltre, seppur i recenti sviluppi in Myanmar rappresentano uno scenario imprevedibile, l’ASEAN saprà progredire nell’integrazione commerciale regionale sfruttando l’approccio inter-governativo, che le consentirà di superare le criticità attraverso la promozione del dialogo tra i Paesi.

A cura di Agnese Ranaldi

Domare il Cigno Nero

Diplomazia multilaterale, uno strumento per lo sviluppo sostenibile nell’era del cambiamento

Articolo di Don Pramudwinai, Vice Primo Ministro e Ministro degli Esteri della Tailandia

Il 2020 è davvero stato un anno di profondi cambiamenti nella storia globale. La pandemia di COVID-19 e la velocità con la quale essa si è diffusa sono riusciti a bloccare persino la globalizzazione e a costringere i governi ad andare in lockdown. Le attività sono state costrette a chiudere, portando al congedo o al licenziamento dei lavoratori in alcuni casi, ed accentuando ancora di più le disuguaglianze sociali già esistenti. Tutti sono giunti alla consapevolezza che il lavoro non sarà mai più lo stesso, e bisognerà adeguarsi ad una “nuova normalità”. 

La pandemia è un promemoria crudele di quanto la nostra vita sia piena di incertezze e parametri sconosciuti. Nei casi peggiori, non sappiamo nemmeno ciò che non sappiamo, e questo ci coglie completamente alla sprovvista quando eventi al di fuori del nostro controllo accadono. Il danno causato da queste “incognite” o “Cigni Neri”, come li chiamano alcuni teorici, si fa più preoccupante a mano a mano che il mondo diventa più piccolo e interconnesso. In queste condizioni, per una nazione di medie dimensioni come la Thailandia, abbiamo sempre compreso quanto il multilateralismo, come strumento di sviluppo sostenibile, sia il miglior rimedio contro questi Cigni Neri. L’idea è che le sfide che ci colpiscono maggiormente siano di solito quelle che compromettono la sicurezza dell’uomo. Per tale motivo, bisogna che i Paesi operino in sinergia. Altrimenti i problemi rimarranno, spostandosi continuamente da una parte all’altra. Questo ci conduce al nostro sostegno per lo sviluppo sostenibile in tutte le istituzioni multilaterali che abbiamo fondato o alle quali ci siamo uniti, dalla Società delle Nazioni alle Nazioni Unite, e nella regione, dall’ASEAN all’ACMECS all’ACD, per nominarne alcuni.

Il motivo è evidente e i benefici prevedibili. Le potenze minori devono combinare le loro capacità per aumentare il loro peso politico o per conseguire obiettivi comuni che da sole non riuscirebbero mai a raggiungere, come il cambiamento climatico, lo sviluppo sostenibile e, ovviamente, la gestione dell’epidemia. Il COVID-19 ha dimostrato che le “grandi potenze” convenzionali non hanno potere contro tali sconvolgimenti, e hanno bisogno di collaborare e allargare la propria rete per sconfiggere il nemico comune. Riconoscere che “nessuno è al sicuro finché tutti non sono al sicuro” sottolinea oggi più che mai l’importanza della cooperazione multilaterale.

Quando la Guerra Fredda si concluse negli anni Novanta, la cooperazione economica divenne il primo punto all’ordine del giorno, portando alla formazione di gruppi regionali ai quali la Thailandia si unì, oppure contribuì in maniera significativa a creare. Tra essi vi sono l’APEC, il BIMSTEC, l’ACMECS e l’ACD. Assieme all’ASEAN, queste strutture hanno sostenuto la nozione di “portare prosperità al prossimo” della politica estera thailandese e hanno favorito la nascita di molti accordi concreti, che hanno rafforzato la nostra determinazione e solidarietà ogni volta che la regione si è trovata dinanzi a “Cigni Neri” in passato. La crisi finanziaria in Asia nel 1997 e la SARS nel 2003 ci hanno offerto lezioni preziose.

La comparsa del COVID-19 e il modo in cui le nazioni coordineranno la loro reazione seguirà presumibilmente uno schema simile in termini di cooperazione regionale. Per esempio, la Thailandia ha offerto pieno supporto al Vietnam, di turno alla Presidenza dell’ASEAN, per organizzare in via straordinaria l’ASEAN Summit e l’ASEAN+3 Summit sul COVID-19 ad aprile 2020. Ha anche proposto l’istituzione di un Fondo ASEAN di Risposta al COVID-19. Questo approccio rimanda alla strategia thailandese contro la SARS nel 2003, quando vennero subito organizzati un Meeting straordinario tra i leader ASEAN e ASEAN-Cina e un Meeting dei Ministri della Salute APEC, ospitati dalla Thailandia. In quell’occasione, vennero opportunamente dimostrati la necessità e i vantaggi di una sinergia comune nel fronteggiare una minaccia condivisa e di prepararsi alle sfide future.

Nel corso degli anni, la Thailandia ha perseguito in maniera consistente un tema comune attraverso tutte le strutture regionali: il bisogno di incoraggiare maggiormente uno sviluppo sostenibile che sia equilibrato e rimanga fondato sui diritti e bisogni basilari dell’uomo. Una volontà comune da parte della comunità internazionale è quella di non sfruttare fino all’esaurimento le risorse che permetteranno alle future generazioni di godere di un ambiente pulito, dignitoso, ed ecologico. 

Il mondo post-COVID necessita di un ripensamento – un cambiamento di paradigma – di come perseguiamo la crescita economica. Il nostro approccio attuale ha portato l’attività umana in conflitto diretto con la natura, generando uno squilibrio manifestatosi sotto forme quali il cambiamento climatico, la pandemia, e persino i conflitti sociali. Il governo thailandese di recente ha messo al primo posto nel suo programma nazionale l’Economia Bio-Circolare-Verde, o Modello BCG. Essa diventerà la nostra principale strategia per il rilancio e lo sviluppo dell’economia dopo la pandemia e oltre. Attraverso l’uso di strategie di crescita innovative e sostenibili che rispettano in maniera adeguata i bisogni dell’essere umano, aiutando milioni di persone ad uscire dalla povertà e rispettando allo stesso tempo il pianeta, speriamo di raggiungere un equilibrio che armonizzi la produzione e il consumo con la tutela ambientale. Dal momento che altri Paesi condividono la stessa intenzione, la Thailandia sarà lieta di lavorare con altri partner per trasformare questi concetti in azioni concrete al servizio delle persone in tutto il mondo.

Dal momento che l’economia globale è attualmente in difficoltà e il motore principale della crescita thailandese mostra segni di rallentamento, la collaborazione multilaterale dovrebbe essere parte del piano di ripresa della Thailandia. Per esempio, per posizionare la Thailandia al meglio nella catena di approvvigionamento globale è fondamentale un continuo impegno regionale sullo sviluppo della rete dei trasporti e sull’armonizzazione delle regolamentazioni. Al contempo, la pandemia ha stimolato un’incredibile digitalizzazione in vari settori, quali il business, la telemedicina, e la didattica a distanza. Dovremmo cogliere questa opportunità per accelerare la cooperazione nel connettere e potenziare l’e-commerce e la nostra infrastruttura digitale.

Queste dinamiche si allineano alla strategia Thailandia 4.0 per trasformare l’economia del Paese con la tecnologia e l’innovazione, puntando su industrie dal valore aggiunto. L’Eastern Economic Corridor (EEC) è il punto nevralgico di questa strategia e promuove gli investimenti in dieci comparti industriali mirati, quali le automobili di nuova generazione, l’elettronica intelligente, e l’alimentazione per il futuro. Tutti questi settori sembrano promettenti per la creazione di posti di lavoro e il dinamismo economico in Thailandia e nella regione, dal momento che l’EEC è divenuto un magnete notevole per gli investitori stranieri, grazie alle ottime strutture logistiche e la posizione strategica.

La politica regionale thailandese sostiene anche il commercio libero e multilaterale. È importante sottolineare che la firma della Regional Comprehensive Economic Partnership (RCEP) avvenuta l’anno scorso non sarebbe stata possibile senza la conclusione delle trattative su oltre 20 capitoli durante la Presidenza ASEAN della Thailandia nel 2019, un’impresa dalla portata eccezionale. L’accordo aumenterà le opportunità di commercio e investimenti per gli imprenditori thailandesi, che avranno accesso ad un mercato di 2.2 miliardi di persone, o quasi un terzo della popolazione mondiale.

Con tali prospetti, i turni della Thailandia alla Presidenza del Bay of Bengal Initiative for Multi-Sectoral, Technical and Economic Cooperation (BIMSTEC) dal 2021 al 2022, e dell’APEC nel 2022, giungono al momento opportuno. Essi pongono la Thailandia in una posizione eccezionale per rafforzare le sue relazioni internazionali e ricoprire un ruolo costruttivo nell’elaborazione di un piano per la ripresa economica post-COVID volto ad una crescita sostenibile della regione. 

Con il BIMSTEC, la Thailandia si porrà in prima linea per il miglioramento dei collegamenti terrestri e marittimi, necessari per rafforzare l’infrastruttura dei trasporti e facilitare gli scambi commerciali. Uno dei progetti di punta è l’autostrada trilaterale di 1.360 km che collegherà la provincia di Tak, sul confine occidentale della Thailandia, alla città di Moreh, nello Stato del Manipur al confine indiano, passando attraverso il Myanmar. Per quanto riguarda i collegamenti marittimi, stiamo progettando di collegare la provincia di Ranong sulla costa Andaman alla città portuale di Krishnapatnam nell’Andhra Pradesh indiano, come ulteriore canale per promuovere gli scambi interregionali.

Con riferimento all’APEC, la Thailandia ha intenzione di dare una spinta ulteriore al gruppo e concretizzare la Visione APEC post-2020 per promuovere il commercio e gli investimenti. Cercheremo di promuovere la digitalizzazione al fine di rilanciare la crescita economica, e migliorare l’inclusione nel mondo del business per tutte le fasce della popolazione, in particolare donne, persone con disabilità, e comunità rurali.

In quest’epoca di cambiamento continuo, la Thailandia è giunta alla consapevolezza che sia le capacità interne che le partnership internazionali sono di importanza vitale se vuole essere pronta per la “nuova normalità” ed essere in grado di fronteggiare le nuove sfide senza precedenti. Dal momento che il 2021 può considerarsi come una fase di transizione verso una ripresa post-COVID-19, la Thailandia si augura una stretta collaborazione con i suoi partner internazionali per rilanciare la ripresa globale e delineare un futuro sostenibile per le generazioni a venire.

Il Parlamento Europeo condanna il colpo di stato in Myanmar

Il PE ha voluto dare un segnale chiaro approvando a larga maggioranza una dura risoluzione contro il golpe militare

COMUNICATO STAMPA


In una risoluzione sulla situazione in Myanmar, i deputati condannano fermamente il colpo di stato militare del 1° febbraio e chiedono ai militari (Tatmadaw) il ripristino immediato del governo civile, la fine allo stato di emergenza e il rilascio incondizionato di tutte le persone arrestate illegalmente, inclusa Aung San Suu Kyi. L’esito delle elezioni generali dell’8 novembre 2020 deve essere rispettato e il potere restituito alle autorità civili elette.


Secondo i deputati, “nonostante la sua incapacità di condannare adeguatamente le violazioni dei diritti umani nei confronti delle minoranze in Myanmar/Birmania, Aung San Suu Kyi continua a essere il simbolo del popolo del Myanmar/Birmania per quanto riguarda le aspirazioni e le ambizioni democratiche per un futuro più giusto e democratico”.


Inoltre, per garantire il riconoscimento e la rappresentanza di tutti i gruppi etnici in Myanmar, compresi i rohingya, la nuova costituzione deve essere elaborata e attuata attraverso un processo libero ed equo.


I deputati accolgono con favore l’estensione delle sanzioni del 2018 nei confronti del personale militare e dei funzionari del Tatmadaw, della guardia di frontiera e della polizia responsabili di gravi violazioni dei diritti umani ai danni dei rohingya, ed esortano il Consiglio a estendere le sanzioni mirate all’intera dirigenza dell’esercito del Myanmar/Birmania, compresi tutti coloro che hanno preso parte al colpo di Stato.


Infine, il PE invita l’UE e gli Stati membri a promuovere il coordinamento internazionale al fine di impedire l’esportazione illegale di merci non autorizzate dal Myanmar/Birmania, soprattutto a vantaggio economico delle forze armate.


Il testo è stato approvato con 667 voti favorevoli, 1 contrario e 27 astensioni.

Fonte: Parlamento Europeo