Asean

Sea: un modello ASEAN per l’e-commerce

La più grande piattaforma e-commerce nel Sud-Est asiatico combina tratti di Amazon, Alibaba e Tencent in una formula nuova

Quando Sea fu fondata nel 2009 come ‘piattaforma di comunicazione’, per soli video gamer e nel solo Sud-Est asiatico, Forrest Li, il fondatore, non aveva previsto che la sua azienda avrebbe spodestato Uber per capitalizzazione di mercato ($120 miliardi), né che la sua crescita avrebbe di gran lunga superato quella di Lazada (gruppo Alibaba).

Sea è cresciuta ininterrottamente dal 2016 (+750%) e ora il suo fatturato si attesta a $4,37 miliardi (+101% rispetto al 2019) diventando un simbolo del successo dell’e-commerce nel Sud-Est asiatico. Oggi le azioni di Sea vengono considerate tra le più attrattive nel mondo tech, seconde solo a Tesla. 

Cosa è quindi Sea, come è arrivata ad essere una potenza digitale? E perche il suo motto è ‘connecting the dots’?

Partiamo dall’inizio. Sea viene fondata sul modello di business di TenCent (che difatti è la sua azienda mentore e ne detiene il 21%): focus primario sul gaming per espandersi successivamente nei mercati e-commerce, social network e infine nei pagamenti digitali.

Sea punta in primis a conquistare i gamer nel Sud-Est asiatico: prima come piattaforma di comunicazione, poi come azienda di pubblicazione, infine come  società di sviluppo di videogame. Garena Free Fire, il gioco di maggior successo degli ultimi anni in ASEAN, rappresenta la consacrazione dell’azienda nell’industria, e segna l’inizio della scalata di Sea nella e-conomy.

Con la successiva espansione nell’e-commerce, Sea sviluppa una sua piattaforma interna che prende il nome di Shopee. Una mossa determinante che la distacca però dall’esperienza di TenCent, la quale, a suo tempo, si espanse acquisendo le piattaforme cinesi di Pinduodo e JD. 

Nel complesso, la strategia di crescita organica ha portato a Sea enormi benefici: oggi Shopee è la prima piattaforma di e-commerce in ASEAN per dimensione, registrando un volume di affari annuo di $2,16 miliardi.

Infine, seguendo la traiettoria tracciata da TenCent, Sea ha recentemente investito nell’industria della tecnologia applicata alla finanza (fintech). SeaMoney, una piattaforma di proprietà simile a Mercado Libre (Sud America), è cresciuta del 282% nel 2020 e sta rivoluzionando le modalità di pagamento in ASEAN, anche sull’onda degli effetti del distanziamento sociale. Questo fenomeno ha tratti del tutto simili a quanto accaduto con Alipay e WeChat pay durante la pandemia da SARS nel 2003. 
Non solo, l’azienda ha di recente acquisito la banca indonesiana BKE al fine di ovviare i suoi problemi di liquidità, oltre che aver istituito un fondo, Sea Capital, tramite cui impegnare risorse nel mondo fintech (credito, portafogli digitali, SPayLater).

In ultima analisi, il vantaggio competitivo di Sea si basa su due fattori, insieme cruciali e complementari. Il focus sulle esigenze dei mercati locali e lo sfruttamento delle economie di scala su base regionale. 

Al contrario di altri player, Sea ha deciso infatti di investire massivamente in ricerca e sviluppo anche al fine di analizzare dati ed elaborare campagne marketing rivolte alle esigenze delle popolazioni locali nei rispettivi Paesi. Come ha dichiarato Forrest Li, CEO di Sea, l’investimento costante è l’unica via di crescita, anche quando questo porta a ingenti perdite nel breve termine (Sea è in crescente perdita dal 2015, e non ha mai registrato profitti).

Questa ripida scalata è tuttavia resa possibile dalla dimensione di Sea, che, sia organicamente che tramite acquisizione, continua ad allargare il suo portafoglio di business e potenziali sinergie interne, in un circolo virtuoso che evoca il modello Amazon.

Forse è proprio questo che rende questa azienda così attrattiva per gli investitori internazionali: la prospettiva di avere davanti non solo un conglomerato e-commerce asiatico, ma un enorme powerhouse con potenza di gestione dati pressoché illimitata in grado di rivoluzionare la vita dei suoi utenti.

Oltretutto, come suggeriscono i rumors sulla fusione tra Gojek e Tokopedia, gli altri due giganti ASEAN, i prossimi mesi saranno cruciali per il futuro sviluppo di una delle industrie più dinamiche del Sud-Est asiatico. 

Inquinamento marittimo: una questione inderogabile per il Sud-Est asiatico

I Paesi dell’ASEAN devono risolvere il problema dell’inquinamento marittimo

Da diversi anni l’inquinamento marittimo è diventato uno dei dossier principali per gli Stati e per le  organizzazioni internazionali che si occupano di ambiente. 

Uno studio del 2015 ha messo in luce una scomoda verità per i Paesi del Sud-Est asiatico: ad oggi sono la causa di oltre il 60% dell’inquinamento marino. Tra i 20 Paesi al mondo con il tasso più alto di inquinamento causato dai rifiuti plastici dispersi in mare, 11 Paesi appartengono all’area asiatica: dopo la Cina troviamo infatti Indonesia (2°), Filippine (3°), Vietnam (4°), Thailandia (6°), Malesia (8°) e Myanmar (17°).

Secondo le statistiche, ogni anno la maggior quantità di inquinamento da plastica proviene dalle industrie di imballaggio e dal settore tessile, le quali sono sempre più presenti in Cina e nei Paesi asiatici: su circa 300 milioni di tonnellate di rifiuti plastici nel mare, più della metà provengono proprio dal settore tessile e da quello dell’imballaggio.

Questi numeri, non solo mettono in cattiva luce i Paesi asiatici agli occhi dell’opinione pubblica, ma dimostrano l’inefficienza di questi Paesi nell’implementare politiche idonee al riciclaggio dei rifiuti: secondo i dati della Banca Mondiale, circa il 75% della plastica in Malesia, Thailandia e nelle Filippine non viene riciclata, facendo si che ogni anno i Paesi del Sud-Est asiatico perdano 7 miliardi di dollari.  

Un così elevato tasso di inquinamento di rifiuti plastici è causato principalmente da due fattori: da una parte le correnti marine trasportano i rifiuti di altri Paesi verso le coste del Pacifico, dall’altra parte il fattore dominante sono i fiumi. Tra i dieci più inquinanti del mondo, ben otto si trovano in Asia: i più importanti, per tasso di inquinamento, sono alcuni fiumi che si trovano in Cina (Fiume Azzurro, Xi Jiang, Huangpu), seguiti dal fiume Brantas (Indonesia), dal Pasig (Filippine), dall’Irrawaddy (Myanmar) e dal Mekong (Cina, Myanmar, Laos, Thailandia, Vietnam e Cambogia) che aumentano in maniera considerevole il già ampio problema dell’inquinamento dei mari del Sud-Est asiatico. 

Per cercare di ovviare al problema dei rifiuti plastici, negli ultimi anni i Paesi dell’ASEAN hanno trovato accordi per la riduzione dell’inquinamento marittimo: ad esempio a Bangkok nel 2019 è stata adottata la Bangkok Declaration on Combating Marine Debris in the ASEAN Region con l’obiettivo di “rinforzare le azioni a livello nazionale e le azioni di collaborazione affinché si prevenga e si riduca drasticamente l’inquinamento marittimo”.  Attualmente i maggiori sforzi sono stati intrapresi da Malesia e Filippine, dove le principali aziende e brand internazionali stanno cercando di ridurre il consumo di plastica. A questi due Paesi si è unita la Thailandia, dove la plastica ricopre un ruolo importante nell’economia del Paese: i proventi delle aziende produttrici di plastica ricoprono da sole il  7% del PIL del Paese.  

Recentemente sono stati sviluppati importanti progetti nella regione asiatica: il più importante di questi è il “Closing Loop” istituito dall’ESCAP, la Commissione ONU per l’Economia e il Sociale per l’Asia e il Pacifico, in collaborazione con il Giappone e l’ASEAN. Il progetto, che vede coinvolte Kuala Lumpur (Malesia), Surabaya (Indonesia), Nakhon Si Thammarat (Thailandia) e Da Nang (Vietnam), si pone come obiettivo quello di fornire gli strumenti essenziali e il know-how per sviluppare politiche e strategie di investimento, affinché si sviluppi un approccio verso l’economia circolare e una migliore gestione del riciclaggio della plastica all’interno dei Paesi coinvolti. 

Nei prossimi anni i Paesi del Sud-Est asiatico dovranno condurre politiche ambientali sempre più rivolte alla transizione verso l’economia circolare, fattore che potrebbe rivelarsi decisivo per il futuro. 

Attraverso l’economia circolare, questi Paesi hanno l’occasione di accrescere le rispettive economie, migliorando da una parte le condizioni del settore ittico, di vitale importanza per i Paesi che si affacciano sul Mar Cinese Meridionale, e dall’altra parte incrementando la domanda del turismo costiero e marittimo. 

Combinare uguaglianza di genere ed economia digitale in ASEAN

L’accelerata digitalizzazione economica nel Sud-Est asiatico è un’occasione per i Paesi ASEAN di realizzare una ripresa economica che punti all’uguaglianza di genere

L’Economic Research Institute for ASEAN and East Asia ha recentemente pubblicato un policy brief dal titolo “Women’s Participation in the Digital Economy: Improving Access to Skills, Entrepreneurship, and Leadership Across ASEAN”. Le autrici del policy brief, Giulia Ajmone Marsan e Araba Sey, hanno osservato come tra le tendenze riscontrate all’indomani della pandemia da Covid-19 vi sia la progressiva digitalizzazione dell’economia, considerata una vera opportunità per le lavoratrici del Sud-Est asiatico.

In un recente webinar, Araba Sey ha constatato la difficoltà di trattare tali argomenti, sostenendo “it is difficult to legislate gender equality because it comes from the heart”. In effetti, affrontare tematiche legate alla sistematica esclusione delle donne da alcuni settori economici, specie quello delle tecnologie digitali, è sempre un’impresa complessa. È difficile destreggiarsi nella pluralità di istanze racchiuse nella nozione di uguaglianza di genere, poiché la battaglia per una maggiore inclusione si gioca su livelli materiali e immateriali – dal divario salariale alle discriminazioni sociali.

In generale, l’obiettivo del report è quello di indicare un paradigma di strategie che possa favorire l’integrazione delle lavoratrici asiatiche in un’economia regionale che sta registrando prestazioni sempre in crescita. Ricordiamo infatti che alcuni Paesi ASEAN, pur avendo conosciuto tracolli del PIL nel 2020, hanno dimostrato eccezionali capacità di ripresa negli ultimi mesi. A questo proposito, puntare su un’economia digitale più inclusiva può contribuire ulteriormente alla ripresa post-pandemica delle economie nazionali. 

Le autrici del rapporto sostengono che per includere le lavoratrici nella digital economy del Sud-Est asiatico sia necessario elaborare strategie politiche mirate e realizzare un piano d’azione a livello regionale. La popolazione femminile è stata duramente colpita dalle conseguenze economiche del Covid-19, perché in percentuale è sovra-rappresentata in settori come il turismo e vendita al dettaglio e l’abbigliamento: il primo settore è quasi completamente fermo da un anno a questa parte, i secondi sono ambiti a forte rischio di automazione. Inoltre, sottolineano, esiste una profonda connessione tra bassi salari, lavori poco qualificati e rischio di automazione. Ecco perché suggeriscono di investire nella creazione di una forza lavoro femminile più qualificata, che favorisca maggiori opportunità di accesso all’economia digitale. 

Durante il webinar, Araba Sey ha sottolineato che a una strategia economica coordinata a livello regionale debba coniugarsi anche un impegno volto a decostruire stereotipi e pregiudizi di genere, che supportano simbolicamente la sistematica esclusione femminile. Ad esempio, mentre gli uomini sono premiati per la loro devozione al lavoro, le donne sono frequentemente chiamate a scegliere tra una devozione familiare e lavorativa, con il risultato che il desiderio di non rinunciare a nessuna delle due comporta il ricorso a impieghi poco qualificati, e dunque sottopagati, ha sottolineato Sey.Il report dimostra infine che i Paesi ASEAN sono a un buon punto per quanto riguarda l’accesso a tecnologie e strumenti digitali basilari, come tablet e smartphone. Ma le donne vengono lasciate indietro quando si tratta di fornire l’accesso a tecnologie più avanzate e posizioni di leadership in ambito digitale, che garantirebbero l’integrazione di una prospettiva di genere nel settore, e dunque un contesto economico più inclusivo. Considerando che entro il 2025 quasi la metà della popolazione mondiale risiederà in Asia, il destino delle lavoratrici nel Sud-Est asiatico ha grande rilevanza per la condizione delle lavoratrici di tutto il mondo.

I vantaggi economici della RCEP per il Sud-Est asiatico

La RCEP è l’accordo di libero scambio più grande al mondo. Quali saranno i vantaggi economici per il Sud-Est asiatico?

Un report pubblicato di recente dalla Conferenza delle Nazioni Unite per il Commercio e lo Sviluppo (UNCTAD) sostiene che l’implementazione della Regional Comprehensive Economic Partnership (RCEP) potrebbe essere dannosa per molti Stati partecipanti. Infatti, il report afferma che, in seguito alla ratifica della RCEP, la bilancia commerciale dei Paesi ASEAN potrebbe risentirne poiché le loro importazioni di merci verso altri Paesi partecipanti all’accordo saranno maggiori rispetto alle esportazioni. Ciò vale in particolare per la Cina, che grazie alla sua efficiente capacità di esportazione, potrebbe beneficiare più di tutti dalla deviazione del traffico commerciale.
Secondo Deborah Elms, Direttrice Esecutiva dell’Asian Trade Centre di Singapore, è molto probabile che le conclusioni tratte da questo report siano sbagliate. Partecipando al più grande accordo di libero scambio (ALS) del mondo, l’ASEAN conoscerà infatti un nuovo impulso economico. 

Spesso, un modello inadeguato si traduce in giudizi negativi sull’impatto degli accordi commerciali. Elms osserva che è molto complicato ottenere stime valide relative all’impatto di qualsiasi accordo commerciale. L’elemento più semplice da valutare in un ALS è la riduzione delle aliquote tariffarie. Tutti gli ALS mirano infatti ad abbassare le aliquote tariffarie alla frontiera in modo da fornire vantaggi agli Stati membri e ridurre i costi. Una riduzione delle tariffe dovrebbe stimolare maggiori flussi commerciali. Tuttavia, non tutti i beni risultano idonei ai tagli tariffari, che devono essere elaborati in modo da soddisfare i criteri di ogni accordo commerciale e includere un sufficiente contenuto proveniente dai Paesi partecipanti. Anche se un prodotto è idoneo, le aziende devono richiedere aliquote tariffarie inferiori poiché le preferenze dell’ALS non vengono concesse automaticamente. Di conseguenza, nessun ALS ha mai raggiunto la completa liberalizzazione tariffaria, in cui sono concesse tariffe gratuite o scontate a tutte le merci che entrano nel Paese.

I modelli economici sono normalmente basati anche sui profili commerciali esistenti. Quindi, per analizzare l’impatto economico della riduzione e dell’eliminazione delle tariffe, un modello parte dalle informazioni commerciali esistenti. Tuttavia, un punto chiave di un ALS è fornire nuove opportunità per il commercio e migliorare gli accordi o i contesti commerciali vigenti. Pertanto, i nuovi flussi commerciali generati dalla RCEP non si vedranno nei modelli economici degli ALS esistenti, come riportato nel report dell’UNCTAD, poiché sono novità che incideranno solo in seguito.

Determinare l’impatto economico della RCEP, come di qualsiasi ALS, continua Elms, dipende anche da altre condizioni esistenti. I governi asiatici, compresi i membri dell’ASEAN, hanno partecipato con entusiasmo agli accordi di libero scambio. La stessa RCEP è stata costruita sulla base di cinque accordi commerciali ASEAN+1 preesistenti. La regione aderisce infatti a numerosi accordi di diverso tipo, dagli impegni bilaterali ai grandi accordi regionali. I vantaggi della RCEP, anche limitandosi alla sola valutazione delle riduzioni tariffarie, dipendono quindi dal confronto della RCEP con gli altri accordi commerciali vigenti. Le aziende potrebbero già beneficiare di un’esenzione dei dazi per i loro prodotti nell’ambito di altri ALS, come quello tra ASEAN e Cina. I modelli economici che guardano alla RCEP isolandola dagli altri processi, come ha fatto lo studio UNCTAD, faticano quindi a cogliere questo livello di complessità.

Inoltre, tutti gli accordi di libero scambio includono impegni graduali. I tagli tariffari non vengono concessi immediatamente a tutte le categorie di prodotti, ma adattati nel tempo. Elms sottolinea che il confronto tra i vantaggi dell’ALS e gli impegni della RCEP richiedono un’attenta valutazione delle tempistiche. Il primo giorno in cui entrerà in vigore, la RCEP potrebbe non essere paragonabile ai vantaggi degli ALS già esistenti, ma dopo che le tariffe saranno pienamente applicate le differenze potrebbero essere notevoli. 

Inoltre, la RCEP, come anche altri ALS globali, include molto più di semplici riduzioni tariffarie. I cambiamenti nelle procedure doganali potranno avere un impatto ancora più forte sulle aziende, in quanto il costo dei ritardi alla frontiera può essere piuttosto elevato e incidere sui rendimenti molto più della modifica di un’aliquota tariffaria. L’impegno a trasferire online la documentazione commerciale o a sdoganare il carico entro sei ore potrebbe rivelarsi il punto più importante della RCEP per molte aziende. I servizi e, soprattutto, gli impegni di investimento inclusi nella RCEP sono considerevoli, ma difficili da mostrare tramite modelli economici.

Secondo Elms la contrazione delle tariffe sui beni, a vantaggio della Cina, è spesso sopravvalutata, mentre la riduzione delle barriere che incidono sui servizi, a favore dell’ASEAN, viene liquidata troppo velocemente. Escludere l’analisi di tali aspetti dell’accordo non consente di ottenere una visione completa dei vantaggi complessivi forniti dalla RCEP. Sembra chiaro, conclude Elms, che la RCEP offrirà significativi benefici economici agli Stati membri, che saranno ancor più apprezzati dalle aziende.

Carlo Urbani, il nuovo eroe dei due mondi

Il medico marchigiano, scopritore del virus della Sars, operò in Cambogia, Laos e Vietnam

È il 29 marzo 2003 quando l’Italia viene a sapere che un suo cittadino, il Dottor Carlo Urbani, è morto presso l’ospedale di Bangkok a causa della Sars (Sindrome respiratoria grave), una forma atipica di polmonite comparsa nel Sud-Est asiatico nell’inverno di quello stesso anno. 

Solo allora, si viene a conoscenza dello straordinario lavoro svolto dal medico marchigiano, il primo ad aver isolato il virus e uno dei primi a rimanerne vittima. Come dichiara l’Istituto Superiore di Sanità, “la sua segnalazione precoce della Sars ha messo in allarme il sistema di sorveglianza globale ed è stato possibile identificare molti nuovi casi e isolarli prima che il personale sanitario ospedaliero venisse contagiato. Grazie all’isolamento del virus si è potuto in poco tempo sviluppare un vaccino e delle cure efficaci che ne hanno controllato la diffusione”. 

Urbani, spostato e padre di 3 figli, dopo la sua specializzazione in malattie infettive all’Università di Ancona, viene subito attratto dalla sfida che la salute internazionale lancia all’umanità, dapprima in Mauritania con l’Oms e successivamente nel in Cambogia con Medici senza Frontiere (MSF). Nell’aprile 1999 viene eletto presidente di Msf Italia e partecipa alla delegazione che ritira il premio Nobel per la pace assegnato all’organizzazione. Dopo la Cambogia, il suo impegno lo porta nel Laos e quindi, nell’aprile del 2001, Urbani si trasferisce con la sua famiglia ad Hanoi come coordinatore delle politiche sanitarie dell’Oms in Vietnam, Cambogia, Laos, Thailandia, Cina e Filippine. 

Nonostante le responsabilità organizzative, però, combattere le malattie dimenticate e salvare le vite umane resta sempre la missione principale di Urbani. Cosa che avviene anche in quel 28 febbraio 2003, quando il medico viene chiamato presso un ospedale privato francese di Hanoi, per occuparsi di un caso di polmonite atipica che aveva colpito un uomo di affari americano. Dai sintomi accertati, capisce subito di trovarsi davanti ad un nuovo virus molto contagioso.

Il sospetto principale cade su un focolaio epidemiologico già da tempo diffuso nel Guangdong, la regione della Cina meridionale in cui il virus della Sars si era diffuso ormai da mesi, tenuto nascosto dalle autorità di Pechino alla comunità mondiale. Un ritardo che si rivela fatale e che contribuisce alla diffusione incontrollata del virus. 

Urbani intuisce di trovarsi di fronte ad un virus del tutto sconosciuto all’organismo umano, senza protocollo terapeutico né vaccino, e per questo capace di evolvere in brevissimo tempo in una grave polmonite bilaterale, potenzialmente letale. Così il medico italiano, nel lanciare l’allarme al Governo e all’Oms, convince le autorità locali ad adottare misure di isolamento e quarantena preventiva per circoscriverne la diffusione.

Purtroppo non immaginava di essere già stato contagiato. Lo capisce l’11 marzo, durante il volo che da Hanoi lo porta a Bangkok, in Thailandia. Chiede di essere ricoverato in isolamento, ma 18 giorni dopo muore, lasciando disposizione che in seguito al decesso gli venga prelevato un campione dai polmoni per analizzarlo e sperimentare un vaccino contro la Sars.

Le ricerche di Urbani sono tutt’oggi importanti, e, in questi mesi di emergenza sanitaria, acquisiscono un peso ancora maggiore. Le indicazioni fornite dal medico sulle modalità di contenimento del contagio – tra cui la misura della quarantena – sono alla base del protocollo dell’OMS contro le pandemie.

Il suo impegno e abnegazione al lavoro sono stati riconosciuti dallo stesso Kofi Annan, l’allora Segretario Generale della Nazioni Unite, che dopo la sua scomparsa ha così testimoniato: “Non sapremo mai quanti milioni di morti avrebbe provocato la Sars perché il dottor Urbani ha fatto in modo di evitarlo. Egli lascia un esempio illuminante nella comunità e lo ricorderemo come un eroe nel senso più elevato e vero del termine”.

Il Regno Unito post-Brexit guarda a Est

Nel ricostruire le sue relazioni politiche e commerciali dopo la Brexit, Londra guarda all’Indo-Pacifico, e in particolare alle economie emergenti del Sud-Est asiatico

Lo scorso marzo il Primo Ministro Boris Johnson ha presentato al Parlamento inglese il documento Global Britain in a competitive age 2021. Dal rapporto sulla politica estera inglese, emerge l’intenzione di Londra di ricostruire relazioni politico-commerciali autonome all’indomani della Brexit, in particolare con i Paesi della regione dell’Indo-Pacifico. L’idea di un Regno Unito che svolge il ruolo di mediatore tra l’Unione Europea e gli Stati Uniti è infatti storia passata. Oggi il Paese guarda all’Asia Orientale, e in particolare alle economie emergenti del Sud-Est asiatico, per celebrare la sua rinnovata autonomia internazionale. In realtà, nonostante i toni declaratori del Global Britain 2021, il Paese non è altro che una media potenza in un mondo multipolare, ma sembra aver compreso che il baricentro del nuovo ordine globale si trova proprio in Asia. 

Già durante gli ultimi mesi del 2020 il Primo Ministro Johnson ha iniziato a tessere le fila di nuove intese commerciali con Giappone e Australia, ma anche Singapore e Vietnam. Il Paese si è infatti affrettato a regolamentare nuovamente i legami commerciali con due delle economie ASEAN più floride e ricche di opportunità. L’accordo con Singapore, siglato nel dicembre scorso, ha sostanzialmente replicato quello dell’Unione che lo precedeva. Il Paese è un hub finanziario e commerciale fondamentale per molte multinazionali che operano nella regione, e il Regno Unito è la principale destinazione di IDE singaporiani. Anche in Vietnam l’accordo di libero scambio con l’UE è stato sostituito da un nuovo accordo bilaterale che assicura al Regno Unito l’accesso a tariffe preferenziali. Istruzione, energia, infrastrutture e sanità sono i settori che offrono più opportunità per gli esportatori inglesi, ma la gran parte del commercio tra i due Paesi si svolge in termini di importazioni di indumenti, calzature, riso, frutti di mare e mobili in legno dal Vietnam.

Inoltre, il Segretario di Stato per gli Affari Esteri Dominic Raab si è recato più volte in visita nel Sud-Est asiatico, presso Singapore, Malesia, e più recentemente in Indonesia. L’obiettivo era quello di rinsaldare le relazioni economiche con le economie emergenti, ma anche ribadire che il Regno Unito si rende disponibile come alleato per la sicurezza regionale. Infine, la Segretaria per il Commercio Internazionale Liz Truss ha dichiarato che le negoziazioni per l’adesione della Gran Bretagna alla Comprehensive and Progressive Trans-Pacific Partnership (CPTPP) avranno luogo quest’anno. La partecipazione inglese all’accordo che sancisce una delle aree di libero scambio più estese al mondo andrebbe a tutto beneficio delle relazioni con i Paesi ASEAN. 

Dunque, a differenza di Francia, Germania e Paesi Bassi, il Regno Unito non ha ancora una strategia ufficiale per l’Indo-Pacifico, ma ci sta lavorando. Una serie di segnali lasciano intravedere la postura del Paese, particolarmente interessato alle economie emergenti del Sud-Est asiatico, e con l’adesione al CPTPP la Gran Bretagna potrebbe infine innestare il futuro delle sue relazioni commerciali in questa regione. La politica estera inglese del 2021 è quindi cartina di tornasole di un ordine economico che si gioca ormai principalmente in Asia Orientale.

5 anni in 1: Il nuovo e-commerce in ASEAN

Non solo Cina: il fenomeno e-commerce ora abbraccia anche l’ASEAN con un’enfasi particolare sui consumi di tutti i giorni

Negli ultimi mesi abbiamo tutti assistito alla graduale scomparsa di interi settori delle economie tradizionali, mentre altri invece sono cresciuti in modo esponenziale conquistando una posizione di rilievo nei mercati di riferimento. È questo il caso dell’e-commerce e nello specifico dell’e-commerce in Asia.

McKinsey stima che le aziende europee di maggior successo nel 2020 in termini di fatturato sono accomunati da due singoli fattori: focus sull’Asia (+9%) e massicci investimenti sulla costruzione di canali digitali dedicati (+76%).

La Cina è sicuramente il caso-studio più noto. Nel 2020, il Paese del Dragone ha registrato un record assoluto di vendite online: $2.090 trilioni, registrando un incremento del 26% rispetto all’anno precedente. In totale il numero di consumatori attivi ha superato i 900 milioni, su una popolazione totale di poco inferiore a 1,4 miliardi. Negli ultimi mesi l’e-commerce cinese ha però subito profondi cambiamenti riconducibili a due fenomeni distinti.


Il primo è la chiusura dei confini e delle tratte internazionali, che ha portato la popolazione cinese a spendere online entro i confini domestici, ponendo così fine al trend dello ‘shopping tourism’. Questo ha portato ad un sostanziale incremento della spesa online in madrepatria, quota che si attesta ora al 73% contro il 35% del 2019, e il trend si stabilizzerà al 50% per il 2025. Il secondo fattore riguarda l’aumento della spesa da parte delle giovani generazioni, e, in particolare, della Generation Z, nata dopo il 1995, che esercita il proprio accresciuto potere di spesa anche al di fuori dei centri urbani di prima fascia. 

I Gen Z e i Millennnials rappresentano circa 300 milioni di consumatori, non solo oggetto di corteggiamento e contesa da parte delle aziende, ma fautori di una vera e propria rivoluzione nel mondo dell’e-commerce all’insegna della customization e dell’omnicanalità.

La crescita dell’e-commerce nel Sud-Est asiatico, forse meno discussa ma certo altrettanto eclatante, condivide alcune caratteristiche del caso cinese ma presenta anche delle peculiarità. Si stima che la e-conomy in ASEAN sia cresciuta cinque volte più nel 2020 che in un normale anno pre-Covid.

Lo scorso anno la regione, che conta circa 650 milioni di abitanti, ha infatti visto crescere i propri utenti attivi da 360 a 400 milioni. Un consumatore su tre ha acquistato per la prima volta online proprio nel 2020 e se la crescita continuerà a questo ritmo il mercato digitale varrà circa $300 miliardi nel 2025. 

Nel complesso, i Paesi dell’ASEAN e la loro crescita economica travolgente hanno radici profonde nei precedenti investimenti in digitalizzazione e in innovazione dei modelli di business tradizionali: le politiche in questo senso sono riuscite a costruire dei forti pilastri su cui far crescere l’industria digitale nel lungo termine. L’investimento nelle infrastrutture telecomunicative e nell’educazione digitale, in particolare, è stato cruciale per reggere lo shock del Covid-19 e del lockdown. Inoltre, lo sviluppo dei sistemi di pagamento digitali, insieme a piattaforme social conglomerate, hanno permesso anche ai numerosi negozi al dettaglio di accedere alle piattaforme di e-commerce e interfacciarsi con nuovi mercati. Così come accaduto in Cina, molti dei nuovi consumatori digitali provengono dalle zone rurali o poco urbanizzate, e simile è anche la dinamica di attitudine all’unicità, desiderio di confronto con gli altri sui social e forte propensione all’ esperienza di acquisto omnicanale, soprattutto per le giovani generazioni. Il 94% degli internet users del Sud-Est asiatico infine preferiranno comprare online anche dopo la fine della pandemia, una quota impressionante anche rispetto alla Cina (circa il 40%). 

Tra molte somiglianze, c’è però una differenza che rende l’e-commerce ASEAN unico nel suo genere.

Prima del 2020 infatti la maggior parte delle vendite retail avvenivano offline: le economie in via di sviluppo dell’ASEAN sono tradizionalmente ‘comunitarie’, e la componente di contatto fisico giornaliero gioca un ruolo fondamentale e di coesione sociale. In questo senso, il Sud-Est asiatico ha creato un nuovo metodo di fare e-commerce con un’enfasi particolare sul commercio dei cosiddetti beni di prima necessità e tutto quello che ruota attorno ad essi. La spesa online e l’acquisto di cibo a domicilio ad esempio sono cresciuti del 35% fino a toccare i $6 miliardi, il tasso più alto, anche spinto dal desiderio dei consumatori di elevare la qualità dei beni quotidiani acquistati. La chiave, qui, è che gli asiatici sono ora pronti ad acquistare beni di prima necessità online, ma soprattutto e anche beni di alta qualità.

Questi numeri rappresentano un’opportunità irripetibile per l’Italia e il Made in Italy, che, storicamente, ha saputo declinare parole chiave come qualità, ma anche unicità e personalità nella vita di tutti i giorni, attraverso prodotti alimentari o capi di abbigliamento. 

L’e-commerce asiatico è stato la chiave di crescita per le aziende nel 2020, ma il trend sembrerebbe tutt’altro che in declino: sta all’Italia e alle sue aziende sfruttare questo momento, promuovendo un nuovo sistema di export che non solo faciliti un cambiamento degli schemi commerciali tradizionali, ma anche e soprattutto promuova una leadership del Paese nel lungo termine.

ENRICO LETTA LASCIA IL TESTIMONE A ROMANO PRODI: cambio di Presidenza all’Associazione Italia-ASEAN

COMUNICATO STAMPA

Il Prof. Romano Prodi sostituisce Enrico Letta alla presidenza dell’Associazione Italia-ASEAN. L’ex Presidente della Commissione europea ha accettato l’invito del neosegretario del Partito Democratico a guidare l’associazione da lui fondata nel 2015 per favorire e stimolare le relazioni tra l’Italia e i 10 paesi del Sudest asiatico, nel quadro delle relazioni tra Unione Europea e ASEAN.

Nel suo commiato, il presidente uscente Enrico Letta ha sottolineato che “in questi sei anni di attività, il livello di relazioni politiche ed economiche è cresciuto grazie al lavoro dell’associazione, che si è sviluppato dalle intuizioni di Francesco Merloni – alla guida di uno dei primi gruppi industriali italiani a guardare all’Asia sudorientale – e del Presidente della Repubblica Mattarella, primo capo di stato europeo a visitare il Segretario Generale dell’ASEAN”.

Enrico Letta nel motivare la scelta di Romano Prodi – con esperienze di governo italiane ed europee – ha ringraziato i vice presidenti Romeo Orlandi e Michelangelo Pipan, il tesoriere Oliver Galea, il direttore Valerio Bordonaro e la Segretario Generale Alessia Mosca, che assumerà la carica di Vice Presidente esecutivo.

Il professor Prodi ha accettato con entusiasmo spingendo sulla necessità dell’Italia di rafforzare quelle strutture che si occupano di creare relazioni internazionali economiche e politiche che siano di sistema, informali e profonde.

Donne e sostenibilità: un binomio vincente per lo sviluppo

Donne e sostenibilità sono elementi correlati: osservare lo sviluppo del Sud-Est asiatico adottando una prospettiva di genere favorirà la ripresa economica post-pandemica 

L’uguaglianza di genere e il cambiamento climatico sono problematiche endemiche nel Sud-Est asiatico e la pandemia di Covid-19 le ha rese ancor più urgenti. La buona notizia è che l’ASEAN non è sola: l’impegno internazionale sancito dall’Agenda ONU 2030 sistematizza infatti le sfide globali che ci attendono. Tuttavia, le specificità locali giocano un ruolo fondamentale, il Sud-Est asiatico è una delle regioni più colpite dal cambiamento climatico e questo incide sulla marginalizzazione di alcuni gruppi sociali quali persone indigenti e donne – categorie che spesso coincidono

L’ASEAN Gender Outlook pubblicato lo scorso febbraio, encomia gli sforzi compiuti sinora in tema di gender equality, ma sottolinea anche come le conseguenze economiche del Covid-19 possano compromettere questi risultati. Le donne e le ragazze del Sud-Est asiatico sono infatti le categorie le più colpite dalla crisi dovuta alla pandemia. Le discriminazioni sistemiche, storicamente radicate in alcune pratiche culturali e aggravate da altri fattori – come imperativi di crescita economica insostenibili – sono molto influenti sulla condizione femminile di questi Paesi. La diseguaglianza è infatti una questione multidimensionale, per questo è necessario che i governi adottino uno sguardo d’insieme in grado di coglierne la complessità. 

Date le specificità della regione, donne e sostenibilità sono concetti chiave per lo sviluppo. Secondo il rapporto FAO Rural women and girls 25 years after Beijing, il 39% delle donne che vivono in zone rurali è impegnato nel settore agricolo. Come abbiamo già osservato in un precedente articolo il cambiamento climatico colpisce con particolare veemenza i Paesi del Sud-Est asiatico, infierendo duramente sull’agricoltura – settore di punta delle economie regionali. A ciò si aggiunge una progressiva urbanizzazione guidata dalle nuove opportunità di lavoro offerte dallo sviluppo industriale degli ultimi decenni, che ha comportato lo spostamento di gran parte della forza lavoro maschile verso le città, e dunque una conseguente ‘femminilizzazione’ del lavoro agricolo nelle aree rurali. 

Questo scenario descrive plasticamente come le donne impegnate nel settore siano anche i soggetti più esposti agli effetti nefasti del cambiamento climatico. Il quadro si aggrava se consideriamo che a questa crescente presenza delle donne in agricoltura non corrisponde un’analoga ‘femminilizzazione’ della terra e del decision-making. L’85% dei diritti di proprietà sui terreni agricoli appartiene a uomini, ai quali effettivamente spetta l’ultima parola. L’ASEAN Gender Outlook stima che il 24% dei terreni nei Paesi ASEAN siano oggi meno fertili che in passato, e che le donne siano costrette a subire il degrado ambientale senza poter fare nulla, dal momento che non gli è concesso di prendere decisioni circa l’abuso di pesticidi e l’impiego di monocolture.

Adottare una prospettiva di genere nel Sud-Est asiatico significa pertanto includere istanze marginalizzate di vario tipo: dall’attenzione al degrado ambientale allo sviluppo agricolo, dalla crescita economica alla giustizia sociale. In conclusione, tenere conto del binomio donne-sostenibilità può favorire lo sviluppo dell’ASEAN nella fase post-pandemica.

Multilateralismo, digitalizzazione e sostenibilità

L’agenda della nuova strategia UE per il commercio internazionale

Il 18 Febbraio 2021 la Commissione Europea ha pubblicato le linee guida della sua nuova “Strategia per il commercio internazionale”, che determinerà l’approccio dell’Unione verso il commercio con i Paesi terzi negli anni a venire.

Dal documento appare chiaro che la parola d’ordine sarà “autonomia strategica e aperta”. Aperta ad una ripresa economica dalla pandemia di COVID-19, che sia guidata dalla trasformazione green e digitale. Ma aperta anche ad un rinnovato multilateralismo, e soprattutto ad una sostanziale riforma dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC).

La transizione verso un’economia più ecosostenibile è probabilmente la sfida principale. Gli obiettivi posti dal Green Deal europeo, l’insieme di iniziative politiche proposte dalla Commissione per raggiungere la neutralità climatica in Europa entro il 2050, sono ambiziosi, numerosi, e urgenti. Per questo motivo, uno dei primi traguardi da raggiungere attraverso la nuova Strategia sarà quello di rafforzare le clausole di salvaguardia dell’ambiente, già presenti negli accordi di libero scambio che l’UE stringe con i Paesi terzi. Il rispetto di queste clausole sarà monitorato con estrema attenzione, e verrà inasprita la lotta contro il commercio illegale per garantire la protezione dei cittadini, dei lavoratori, e dei coltivatori.

La seconda sfida è quella della rivoluzione digitale. L’UE si è posta come obiettivo l’attuazione di nuove linee guida per il commercio digitale, ovvero quella tipologia di commercio in beni e servizi che viene realizzato ogni giorno attraverso mezzi elettronici. Secondo stime della Commissione Europea, nel 2018 più del 60% del PIL mondiale era rappresentato dalle transazioni digitali, cifre che sono cresciute in maniera esponenziale durante l’epidemia di COVID-19. Tuttavia, la Commissione intende mostrarsi fortemente contraria a quei Paesi che impongono misure sempre più discriminatorie per promuovere la propria competitività digitale a discapito degli altri. Nella nuova Strategia, l’UE spinge verso un maggiore flusso di informazioni digitali tra Paesi, ma nel rispetto delle regole comunitarie sulla protezione dei dati personali. Una delle finalità più ambiziose è quella di vietare la richiesta della localizzazione da app e siti web quando queste non siano strettamente necessarie, in linea con il quadro giuridico dell’UE sulla protezione dei dati personali.

La riforma dell’OMC è indispensabile per raggiungere questi obiettivi. La Strategia della Commissione, infatti, sottolinea il bisogno di inserire delle clausole sulla salvaguardia dell’ambiente non solo nei suoi accordi di libero scambio, ma anche nelle regole generali per tutti i Paesi che vogliano continuare a scambiare merci, beni e servizi in tutto il mondo.

L’OMC, con la nomina della nuova Direttrice Generale Ngozi Okonjo-Iweala lo scorso 1° marzo, ha superato una difficile situazione di stallo riguardante le nomine per l’organo di appello che durava da oltre tre anni, a causa del blocco alle nomine voluto dall’Amministrazione Trump. L’economista nigeriana, prima donna e prima rappresentante africana a ricoprire l’incarico di Direttore Generale, ha ricevuto rinnovato sostegno sia dell’UE sia della Casa Bianca con la nuova Amministrazione Biden. In molti sperano che lei sia la “donna giusta al momento giusto” per porre fine alla disputa commerciale e al crescente protezionismo tra l’Unione e gli Stati Uniti. Ma anche per risolvere la guerra commerciale in atto tra Cina e USA, da quando questi ultimi hanno imposto tariffe “incompatibili” con le norme internazionali ai prodotti cinesi nel 2018. Coadiuvata dalla nuova amministrazione, l’UE si augura di esportare il suo modello di transizione green e digitale anche nell’OMC.

L’obiettivo di porre la propria autonomia strategica al centro, verso un’Unione che da sola è in grado di raggiungere i suoi obiettivi e perseguire la sua agenda globale su multilateralismo, digitalizzazione e cambiamento climatico, è senza dubbio lodevole. È impossibile non notare, tuttavia, la mancanza di una strategia per il giusto rilancio dei rapporti con l’area ASEAN e dell’Asia Pacifico. In modo particolare, le Tigri asiatiche brillano da tempo per i successi raggiunti nello sviluppo digitale e fanno parte di quei Paesi più interessati alla lotta contro il cambiamento climatico, data la loro posizione geografica particolarmente soggetta ai disastri ambientali. L’Europa sta già iniziando a dare maggiore centralità all’Indo Pacifico, ne sono un esempio i vari trattati di libero scambio con Giappone, Vietnam, Singapore e le trattative con Australia, Indonesia e Malesia, oltre alla “Strategia per l’Indopacifico” in corso di sviluppo da parte della Commissione Europea. Tuttavia, un maggiore focus verso quest’area del mondo dal punto di vista commerciale resta cruciale per dare una svolta importante alla nuova strategia europea e rafforzare la posizione dell’UE nell’arena globale.   

La cooperazione ASEAN-UE in tema di climate action

L’impatto del cambiamento climatico sui paesi del Sud-Est asiatico è già realtà. Per questo, la cooperazione inter-regionale con l’UE rappresenta una vera opportunità per la realizzazione di un futuro sostenibile

Il cambiamento climatico è ormai una forza inarrestabile. Indonesia, Thailandia, Vietnam, Myanmar e Filippine sono tra i Paesi ASEAN più colpiti dagli effetti di questo fenomeno, e anche se nessuna area del globo è immune alla sua inclemenza, la regione del Sud-Est asiatico è particolarmente vulnerabile. A questo proposito, la cooperazione inter-regionale tra Unione Europea e ASEAN può rappresentare davvero un’opportunità per promuovere buone pratiche di produzione e consumo sostenibili. 

Le responsabilità legate al deterioramento ambientale e al mutamento climatico sono difficili da individuare: i Paesi in via di sviluppo biasimano quelli più sviluppati per aver fatto profitti depredando risorse ambientali preziose; viceversa, i secondi vantano oggi un mercato dei consumatori molto più informato e sensibile a tematiche ecologiste, perciò accusano i Paesi con normative ambientali più blande di inquinare irrimediabilmente il pianeta – evitando di menzionare il fatto che gli imperativi di crescita economica nel mondo globalizzato passano anche attraverso regolamentazioni nazionali finalizzate ad attrarre investimenti stranieri. Dunque, distinguere retoriche interessate da evidenze storiche e scientifiche è un lavoro complesso, che rischia di bistrattare un dato terribilmente urgente: il cambiamento climatico è già qui. 

Due certezze guidano perciò il dibattito contemporaneo in proposito. Innanzitutto, la frequenza inedita di nubifragi, siccità, e fenomeni meteorologici e ambientali straordinari sono tra gli effetti direttamente conseguenti l’attività umana. A questo proposito, il premio Nobel per la chimica Paul Crutzen è noto per aver introdotto il termine antropocene per indicare l’era geologica attuale, un’era in cui l’essere umano ha compromesso la sopravvivenza del pianeta attraverso attività inquinanti, determinate spesso da ritmi produttivi insostenibili. La seconda certezza è che le popolazioni povere dei Paesi in via di sviluppo sono le più vulnerabili, e quelle meno resilienti alla dirompenza dei disastri ambientali. Risorse economiche insufficienti e istituzioni pubbliche instabili, fanno sì che inondazioni, cicloni e siccità si trasformino da disastri ambientali a disastri sociali, compromettendo così a lungo termine la tenuta del tessuto socio-economico e la sopravvivenza stessa delle popolazioni locali. 

Questi temi, insieme a quello della food security, sono particolarmente sentiti tra i Paesi del Sud-Est asiatico, per due principali ordini di ragioni. Innanzitutto, la gran parte della popolazione che abita la regione è concentrata nelle aree costiere. Ad esempio, Giacarta è un caso emblematico della varietà di rischi legati al cambiamento climatico. Si stima che i residenti urbani dell’Indonesia rappresenteranno nel 2025 il 65% della sua popolazione totale. Per quella data la capitale indonesiana sarà probabilmente sommersa per il 95% dal Mar di Giava. Il Paese più popoloso del Sud-Est asiatico non è nuovo a questo tipo di fenomeni ambientali, che dagli anni Sessanta si sono fatti però sempre più ricorrenti e aggressivi. Anche la Thailandia è avvezza a inondazioni e nubifragi, che un tempo però la colpivano con meno frequenza e causando danni più contenuti: Bangkok, sprofonda di 1-2 centimetri circa ogni anno, e di questo passo nel 2030 si troverà sotto il livello del mare. Allo stesso modo lo sviluppo della città di Da Nang in Vietnam, che grazie alla centralità della sua posizione geografica è considerata uno snodo importante per i settori dei trasporti e dei servizi vietnamiti, è rallentato da continui allagamenti. Infine, secondo il Global Climate Risk Index, Myanmar e Filippine sono regolarmente esposte a gravi cicloni tropicali e difficilmente riescono a riprendersi in tempo dai disastri degli anni precedenti, con il risultato che i danni si sommano tra loro pesando sulla popolazione locale. 

In secondo luogo, l’agricoltura è uno degli ambiti su cui il cambiamento climatico impatta con più severità. Principale fonte di sussistenza delle popolazioni residenti e maggior settore di esportazioni, quello agricolo è anche il settore di punta di gran parte dei Paesi ASEAN. In particolare, i raccolti di grano, riso e mais sono estremamente suscettibili a condizioni meteorologiche avverse. Oltre ad essere compromesse dall’imprevedibilità di questi fenomeni climatici, le attività agricole causano anche la più ampia quota di emissioni di cui sono tacciate le economie del Sud-Est asiatico, colpevoli dell’intenso consumo di energia e di combustibili fossili.

Lo scenario appena descritto rende tanto più necessaria la promozione della cooperazione internazionale. Oltre ad essere parte dell’Accordo di Parigi, nel 2009 l’ASEAN ha fondato un proprio gruppo di lavoro, l’ASEAN Working Group on Climate Change. Si tratta di una piattaforma consultiva atta a promuovere anche la cooperazione regionale e la climate action con partner internazionali, oltre che con le comunità locali. Anche L’ASEAN Senior Officials on the Environment realizza un’azione coordinata tra i Paesi membri e i vari partner di dialogo e di sviluppo; inoltre, l’ASEAN Climate Resilience Network è dedicato alla condivisione di informazioni esperienze e competenze relative alla climate smart agriculture

L’ASEAN mette quindi le proprie piattaforme istituzionali a servizio della lotta al cambiamento climatico. A questo proposito, la cooperazione con l’Unione Europea è particolarmente rilevante. Oltre al contributo delle istituzioni multilaterali, nel novembre scorso l’ASEAN ha tenuto un ampio dialogo sul tema dei cambiamenti climatici e delle responsabilità internazionali, in cui si sono stati ribaditi i rispettivi impegni assunti. Nel solco del Green Deal Europeo, il Sud-Est asiatico può attingere alla longeva esperienza dell’Unione sul tema delle normative contro l’abuso della plastica, e per la promozione della biodiversità e dell’economia circolare. La cooperazione tra le due realtà regionali è supportata anche dall’Enhanced Regional EU-ASEAN Dialogue Instrument, nell’ambito del quale viene promosso il dialogo tra i Paesi in diverse aree d’interesse, tra cui sostenibilità, ambiente e cambiamento climatico. Come sostiene Vandana Shiva, esperta di ecologia sociale e attivista ambientalista, per poter immaginare un futuro sostenibile per il nostro pianeta è fondamentale un cambio di paradigma, fondato non più sulla predazione di risorse ambientali o sulla competizione sregolata, bensì sulla condivisione di informazioni, pratiche e responsabilità. La cooperazione inter-regionale ASEAN-UE rappresenta in questo senso una vera opportunità per riuscire ad immaginare modelli alternativi di sviluppo socio-economico, all’insegna del rispetto ambientale.

A cura di Agnese Ranaldi

Sfide e opportunità per la Presidenza italiana del G-20

Per la prima volta l’Italia presiederà il G-20 e dovrà essere in grado di mediare tra USA e Cina. La “staffetta” con l’Indonesia può contribuire a mettere al centro i temi asiatici.

Per la prima volta dalla sua costituzione, il G-20 verrà presieduto dall’Italia. La Presidenza italiana è iniziata nel dicembre del 2020 e si concluderà il 30-31 ottobre 2021 con una grande conferenza di tutti i capi di stato e di governo dei Paesi membri a Roma. Prima del Summit romano, si svolgeranno incontri a livello ministeriale sulle diverse tematiche in varie città italiane nel periodo compreso tra maggio e ottobre. Per l’Italia si profila una grande occasione per essere protagonista indiscussa nel palcoscenico della politica internazionale. 

I temi centrali sui quali la Presidenza italiana ha deciso di impostare il lavoro del G-20 sono tre: People, Planet e Prosperity, esemplificati nella sigla 3P. Si tratta di tre concetti alla base dell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite per la sostenibilità e infatti si può parlare di sostenibilità sociale in favore delle Persone, ambientale in relazione al Pianeta e anche economica con riguardo alla Prosperità. Il fatto di mettere al centro del forum proprio il tema della sostenibilità fa pensare che il nostro Paese sia intenzionato a giocare un ruolo di primo piano per la costruzione di un’economia internazionale nuova basata sul rispetto del pianeta e sulla tutela delle persone. Accanto a quello della sostenibilità sarà centrale anche il tema della salute, visto che l’Italia presiederà insieme alla Commissione Europea anche il Global Health Summit e quindi possiamo aspettarci un impegno forte della Presidenza italiana sul problema attuale della pandemia e di come contrastarla con misure globali. 

Una sfida che attende il nostro Paese, sotto la guida del nuovo esecutivo Draghi, sarà quella di svolgere un ruolo di mediazione tra USA e Cina. In quest’ottica, il summit di Roma sarà anche il primo evento internazionale di peso in cui il neo-Presidente Joe Biden si incontrerà col Presidente cinese Xi Jinping. Come già dimostrato dalle parole di Biden al recente G-7, gli USA hanno deciso di lasciarsi alle spalle la stagione isolazionista trumpiana e di tornare protagonisti nella politica internazionale. Sicuramente il nuovo Presidente porrà sul tavolo il tema del maggiore impegno degli USA per la sostenibilità e per il rispetto degli Accordi di Parigi sul clima, come anche il sostegno alla battaglia contro il virus e la fine della “guerra dei dazi” con la Cina, ma nei confronti di questa farà sentire la sua voce relativamente ad Hong Kong, agli Uiguri e al delicato conflitto nel Mar Cinese Meridionale. L’Italia dovrà trovarsi pronta a facilitare il dialogo tra i due giganti e forse troverà un valido alleato per questo compito proprio nel Paese che succederà al nostro alla Presidenza del G-20.

Infatti, nel 2022 toccherà all’Indonesia coordinare i lavori del forum internazionale. L’Indonesia non solo è il Paese musulmano più popoloso al mondo e il terzo più popoloso dell’Asia, ma è anche un membro dell’ASEAN (l’unico di questi nel G-20) e sicuramente tra tutti, quello che di più si è speso per una maggiore integrazione e democratizzazione tra i Paesi del Sud-Est asiatico, come dimostrato dal recente caso del golpe in Myanmar. Per lo “stato arcipelago” la presidenza del G-20 sarà l’occasione tanto attesa per dimostrare al mondo che democrazia e Islam possono coesistere, che il Paese è avviato verso lo sviluppo e condivide la battaglia per la sostenibilità e che è un valido attore nella politica internazionale. Infatti, cercherà di sfruttare la sua posizione per far integrare meglio l’ASEAN con il G-20 e sicuramente svolgerà un ruolo di mediazione tra USA e Cina, anche per non finire intrappolata nella loro contesa. 

L’Italia dovrà fare squadra con l’Indonesia per facilitare il dialogo tra USA e Cina, per ammorbidire le relazioni tra Cina e India e per rafforzare i rapporti UE-ASEAN. È bene ricordare che l’Italia (insieme a Germania e Francia) è diventata da pochi mesi Development Partner dell’ASEAN e questo costituisce di certo un punto di osservazione privilegiato per lo scenario asiatico che il nostro Paese dovrà essere in grado di sfruttare al meglio soprattutto in vista del passaggio di consegne con l’Indonesia. Infine, non va dimenticato che UE e Indonesia stanno negoziando da diversi anni un accordo commerciale, ma le divergenze di vedute sull’olio di palma lo stanno di fatto bloccando. L’auspicio è che la Presidenza italiana riesca a sbloccare questo dossier commerciale, come anche quelli con gli altri Paesi ASEAN. Una più stretta relazione tra UE e ASEAN per mezzo di Italia e Indonesia non potrà che migliorare il dialogo tra Europa ed Asia ed evitare che le due aree geografiche siano intrappolate nella contesa tra USA e Cina. 

A cura di Niccolò Camponi