L’IA per prevedere e gestire i disastri naturali

Le nuove applicazioni possono perfezionare i sistemi oggi in uso nel Sud-Est asiatico nelle varie fasi della gestione dei disastri naturali, a partire dalle strategie di mitigazione

Di Emanuele Ballestracci

60.000 morti, 150.000 feriti e altrettanti sfollati all’anno. Non si tratta delle atrocità dovute a conflitti internazionali, guerre civili o attacchi terroristici ma delle conseguenze di ricorrenti fenomeni la cui forza distruttrice viene troppo spesso sottovalutata: i disastri naturali. Tra il 1998 e il 2017 i disastri climatici e geofisici hanno causato la morte di oltre 1,3 milioni di persone e 4,4 miliardi feriti, spesso tra le fasce più deboli della popolazione mondiale. Tuttalpiù, il riscaldamento globale non farà altro che aumentare in numero e intensità questi fenomeni, come stiamo già sperimentando negli ultimi anni. Certe regioni ne soffriranno più di altre e il Sud-Est asiatico è tra quelle più a rischio. Il 99% della sua popolazione è già esposta al pericolo di inondazioni e tra il 2004 e il 2014 ha registrato il 50% dei decessi globali dovuti ad eventi climatici estremi. La situazione non potrà che deteriorare a meno di una rivoluzione nell’impegno mondiale alla lotta al riscaldamento globale, che oggi sembra sempre meno probabile.

Un faro di speranza arriva però dalle innovazioni tecnologiche nel campo dell’intelligenza artificiale (IA). Il suo utilizzo la creazione di modelli predittivi permette infatti di analizzare ampie serie di dati, identificare andamenti e così prevedere potenziali disastri. Le sue applicazioni andrebbero così a perfezionare i sistemi oggi in uso nelle varie fasi della gestione dei disastri naturali: la previsione e il rilevamento dei cataclismi; i sistemi di allarme rapido; la valutazione della vulnerabilità e del rischio; la modellazione spaziale; le strategie di mitigazione. Non solo, sono in via di sviluppo nuovi sistemi di rilevazione che beneficeranno in particolar modo le aree meno resilienti del pianeta, come lo “AI-SocialDisaster”. Si tratta di un sistema di supporto alle decisioni per l’identificazione e l’analisi di disastri naturali come terremoti, inondazioni e incendi utilizzando dati tratti i feed dei social media. Così, utilizzando informazioni prodotte in tempo reale da ogni individuo senza dover far affidamento ad avanzate – e costose – strumentazioni di rilevazione, le capacità governative di gestione delle crisi in aree rurali incrementeranno esponenzialmente. Per esempio, l’azienda giapponese Spectee sta sviluppando un sistema di rilevazione dei disastri naturali adattato alle Filippine, utilizzando proprio le informazioni provenienti dai social media. Il ruolo dei privati è in generale fondamentale per il progresso di queste nuove tecnologie. Microsoft Azure può essere utilizzato per migliorare gli allarmi sui terremoti e le rappresentazioni virtuali degli spazi fisici nella risposta ai disastri, mentre Amazon Augmented AI può prestarsi alla costruzione di modelli integrati per il riconoscimento di scene di disastri da immagini di disastri a bassa quota. Cina e Stati Uniti stanno già collaborando con i rispettivi campioni nell’high-tech, come Xiaomi e Google, mentre in Corea del Sud il governo metropolitano di Seoul ha annunciato lo sviluppo di una “piattaforma digitale di risposta ai disastri” in cui l’IA sarà strumentale. Inoltre, Giappone, Singapore e Cina hanno fatto passi da gigante nello sviluppo di sistemi di allarme rapido, sfruttando tecnologie avanzate come i sensori IoT, i modelli IA e i sistemi informativi geografici.

Oltre a multinazionali e governi anche le organizzazioni internazionali e regionali stanno dando il loro contributo. Nel 2015 le Nazioni Unite hanno adottato il “Quadro di Sendai per la riduzione del rischio di disastri”, che delinea obiettivi e priorità d’azione per prevenire nuovi rischi di disastri e ridurre quelli esistenti. Invece, tra le organizzazioni regionali l’ASEAN è una delle più attive in materia di disastri naturali, riflesso dell’elevata esposizione a tali fenomeni. Nel 2009 è stato firmato l’Accordo ASEAN sulla gestione dei disastri e la risposta alle emergenze, due anni dopo è stato istituito il Centro AHA per rilanciare il coordinamento regionale e in occasione del 28° vertice ASEAN in Laos nel 2016 venne firmata la Dichiarazione congiunta “Un ASEAN, Una Risposta”. Infine, lo scorso 19 agosto è stata istituita l’Alleanza Civile ASEAN per le contromisure regionali e dal 2022 il tema dell’utilizzo dell’IA è stato sempre più discusso tra i vertici dei Paesi membri, soprattutto in occasione dell’annuale dialogo politico strategico sulla gestione dei disastri naturali. Anche l’Unione Internazionale delle Telecomunicazioni (UIT), l’agenzia specializzata delle Nazioni Unite per le tecnologie dell’informazione e della comunicazione, ha lanciato un nuovo gruppo di lavoro a tema IA: il Focus Group sull’intelligenza artificiale per la gestione dei disastri naturali (FG-AI4NDM). 

Tuttavia, nonostante il potenziale dell’IA, non mancano certo le problematiche. Prima fra tutte l’incapacità dei modelli IA di fornire “accountability” ed “explainability”. Detto in parole povere, i modelli di intelligenza artificiale funzionano come scatole nere: date determinate previsioni e input, forniscono degli output senza però spiegare la relazioni tra le variabili. Ciò è una seria mancanza quando questi vengono utilizzati per la gestione delle crisi, in cui la massima trasparenza è fondamentale. Tuttavia, se i recenti tentativi di sviluppare modelli di “Intelligenza Artificiale Spiegabile” dovessero riuscire, l’IA diventerebbe senza ombra di dubbio una risorsa ancor più preziosa per controbilanciare gli effetti dei disastri naturali.

Pasti gratuiti nelle scuole: l’ambizioso piano di Prabowo

Fornire pasti gratuiti e nutrienti per gli studenti sarà la priorità per il nuovo Presidente indonesiano, che ha annunciato un programma che può arrivare a 45 miliardi di dollari

Di Anna Affranio

L’Indonesia ha lanciato un’ ambiziosa iniziativa per fornire pasti nutritivi a quasi 83 milioni di persone entro il 2029, concentrandosi inizialmente sui bambini in età scolastica, donne in gravidanza e madri che allattano. Promosso dal nuovo presidente Prabowo Subianto, il programma, che verrà implementato su scala nazionale, è stato un pilastro della sua campagna elettorale, e ha sicuramente contribuito alla sua vittoria nelle elezioni del febbraio 2024, esattamente un anno fa. A differenza del suo predecessore Joko Widodo (Jokowi) che ha dato priorità allo sviluppo delle infrastrutture, Prabowo ha invece spostato l’attenzione del governo sullo sviluppo del capitale umano. Al centro di questo cambiamento dunque, vi è proprio il programma dei pasti gratuiti, progettato per essere il programma distintivo nonché l’eredità politica di Prabowo. L’iniziativa mira ad affrontare due problemi cruciali: combattere la malnutrizione, che colpisce il 21,5% dei bambini indonesiani sotto i cinque anni, e aumentare le entrate degli agricoltori. Integrando quasi 2.000 cooperative e collaborando con produttori locali per la fornitura di uova, verdure, riso, pesce e carne, il programma dovrebbe creare circa 2,5 milioni di posti di lavoro e stimolare la domanda di prodotti locali. Il governo ha promesso di dare priorità alle aree più povere e remote dell’arcipelago, dove la malnutrizione rimane una preoccupazione seria. Si pensi che, secondo l’UNICEF, sotto i 5 anni di età, un bambino su 12 in Indonesia è sottopeso, e uno su 5 è più basso della media. Le cause sono da ritrovarsi nella malnutrizione, che nella maggior parte dei casi non solo ostacola la crescita fisica, ma influisce anche sullo sviluppo cognitivo. Infatti, secondo recenti studi del rapporto PISA, gli studenti indonesiani sono rimasti indietro scolasticamente rispetto ai loro coetanei a livello internazionale.

Il programma di distribuzione di pasti gratuiti è stato ufficialmente lanciato in Indonesia il 6 gennaio 2025, e prevede la fornitura di un pasto gratuito al giorno per gli studenti a partire dall’istruzione prescolare e si estende fino alla scuola superiore. Questi alimenti dovrebbero coprire circa un terzo del fabbisogno calorico giornaliero dei bambini e vengono serviti in contenitori di acciaio riutilizzabili. Per garantire sia il valore nutrizionale che la rilevanza culturale, il contenuto dei pasti varia in base alle regioni e agli ingredienti locali disponibili. Ad esempio, nelle isole Maluku e Papua, dove il riso non è un alimento base né facilmente reperibile, potrebbero essere utilizzate alternative come il sago, un amido estratto dalle palme locali.  Ogni pasto, per essere gratuito per gli alunni, viene sovvenzionato dal governo ed ha un costo di circa 10.000 rupie (circa 60 centesimi di euro) per porzione.

Come è naturale per ogni politica di questa portata, non mancano le critiche. Prima di tutto, i critici avvertono che il costo previsto potrebbe raggiungere i 45 miliardi di dollari nell’arco della durata del piano, cifra che potrebbe mettere a dura prova la stabilità fiscale dell’Indonesia e peggiorare il saldo della bilancia dei pagamenti, considerando la già forte dipendenza del Paese dalle importazioni di alimenti di base come riso, grano, soia, carne bovina e latticini. Altri sostengono che politiche alternative come il miglioramento della qualità dell’alimentazione per i bambini più piccoli sarebbero state una priorità più strategica, poiché l’arresto della crescita si verifica spesso prima che un bambino inizi la scuola. Infine, ci sono evidenti ostacoli logistici comportati dall’implementazione di un progetto così ambizioso in un vasto arcipelago.

Sebbene la fattibilità a lungo termine del programma rimanga incerta, sia dal punto di vista politico che economico, sembra che il programma si sia già rivelato una mossa popolare. Molti genitori accolgono con favore il sollievo finanziario derivante dal non dover sopportare i costi per il pranzo dei figli a scuola. Per il momento, l’iniziativa rappresenta una vittoria politica per Prabowo, a testimonianza del suo impegno per il benessere sociale e della sua risolutezza nel mantenere le promesse elettorali.

L’ASEAN porto sicuro contro i dazi

Alcune economie asiatiche come Malesia, Singapore e Vietnam si stanno posizionando per essere vincenti in una possibile nuova guerra commerciale

Diversi problemi, ma anche alcune opportunità. Come minacciato in campagna elettorale, il Presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha iniziato il suo secondo mandato con l’introduzione di dazi per affrontare un’ampia gamma di questioni, dall’immigrazione alla sicurezza nazionale, fino all’eccessiva dipendenza dalle importazioni per la produzione. Ma le barriere commerciali di Trump sono molto più mirate di quanto paventato in campagna elettorale, sottolinea Trinh Nguyen, economista di Natixis Corporate & Investment Banking, in un editoriale sul Financial Times. Invece di preoccuparsi dei dazi, gli investitori dovrebbero cercare opportunità nei Paesi che possono trarre vantaggio dai probabili cambiamenti, sostiene Nguyen. Le economie dei mercati emergenti asiatici, al di fuori della Cina, dovrebbero essere sulla lista, perché come durante il primo mandato di Trump potrebbero trarre dei vantaggi. Il Vietnam è il grande esempio, si legge sul Financial Times. Dal 2017 al 2023, il Paese ha aumentato la sua quota di esportazioni verso gli Stati Uniti in tutte le categorie di prodotti, risultando vincente tra le economie emergenti dell’Asia. Questa crescita non è semplicemente il risultato di un riorientamento delle esportazioni da parte della Cina sotto l’apparenza di prodotti vietnamiti, ma è il risultato del grande allargamento dei rapporti commerciali internazionali del Vietnam. Secondo Nguyen, anche la Malesia e Singapore hanno beneficiato di una spinta alla diversificazione degli investimenti. Kuala Lumpur ha puntato su settori high-tech come i semiconduttori e i centri dati, mentre Singapore si è espansa nei servizi finanziari e ha attirato sedi aziendali. Quest’anno, inoltre, i due Paesi hanno collaborato alla creazione della Zona Economica Speciale Johor-Singapore per incrementare gli investimenti e i posti di lavoro in settori strategici. L’ASEAN è diventata oggi il principale destinatario di investimenti diretti esteri in Asia. Per alcune economie, il nuovo shock al commercio globale rappresenta secondo l’economista “un’opportunità per rafforzare la resistenza, liberalizzare l’accesso al commercio e migliorare la competitività. Alcune economie asiatiche, come la Malesia, Singapore, il Vietnam e sempre più l’India, si stanno posizionando per essere vincenti nella guerra commerciale”.

A.I.: l’ascesa del Sud-Est asiatico

L’intelligenza artificiale generativa e i modelli linguistici di grandi dimensioni: il Sud-Est Asiatico sta diventando hub globale dell’Innovazione

Articolo di Luca Menghini

Il Sud-Est asiatico sta vivendo una rapida trasformazione nel campo dell’intelligenza artificiale generativa (Gen AI) e dei modelli linguistici di grandi dimensioni (LLM). Storicamente considerata un hub per la manifattura e i servizi digitali, la regione sta emergendo come attore chiave nell’innovazione guidata dall’AI. Con investimenti significativi in Ricerca e sviluppo (R&S) e infrastrutture, le nazioni dell’ASEAN si stanno posizionando in prima linea, competendo con leader globali come USA e Cina.

L’interesse crescente per la Gen AI si riflette nelle tendenze di investimento. Il mercato dell’AI nell’ASEAN dovrebbe raggiungere i 2,3 miliardi di dollari entro il 2025, con un tasso di crescita annuo del 41,48% fino al 2030. Paesi come Singapore, Thailandia e Indonesia stanno guidando l’adozione dell’AI, con governi e aziende che collaborano per sviluppare LLM autoctoni, adattati a lingue e culture locali. Singapore, nota per le sue politiche tech-friendly, ha istituito quadri normativi che promuovono un’innovazione responsabile. La Thailandia, attraverso iniziative come ThaiLLM, sta investendo milioni per creare modelli locali che rispondano alle sfumature linguistiche e culturali della regione.

L’ecosistema dell’AI è inoltre alimentato da una crescita esponenziale di startup e investimenti. L’ASEAN ha visto emergere numerose aziende AI-driven, in particolare nei settori fintech, sanitario ed e-commerce. Le imprese stanno sfruttando i LLM per ottimizzare il servizio clienti, automatizzare processi e migliorare la presa di decisioni. Indonesia e Vietnam stanno vivendo un boom di startup AI, attirando capitali da fondi VC globali desiderosi di entrare nel mercato digitale della regione. Le startup basate a Singapore hanno ottenuto importanti round di finanziamento, rafforzando lo status della città-Stato come trampolino di lancio per il settore AI.

Nonostante questi progressi, la governance dell’AI rimane una questione cruciale. L’ASEAN ha affrontato proattivamente le sfide normative introducendo l’Expanded ASEAN Guide on AI Governance and Ethics – Generative AI, che stabilisce linee guida per un uso etico dell’AI, concentrandosi su rischi come disinformazione, bias e proprietà intellettuale. La guida promuove una governance collaborativa, iniziative di condivisione dei dati a livello regionale e framework indipendenti per il testing dell’AI generativa, garantendone un utilizzo sicuro. Inoltre, il framework ASEAN AI Governance and Ethics – Generative AI fornisce una roadmap completa per aiutare policymakers e aziende a orientarsi nel panorama etico dell’AI. Questo modello enfatizza accountability, trasparenza e equità nell’implementazione dell’AI e promuove misure di sicurezza tecnica come digital watermarking, incident reporting e programmi di certificazione indipendenti, tra cui Project Moonshot di Singapore.

Un altro fattore cruciale che sta alimentando la crescita dell’AI nel Sud-Est Asiatico è la giovane popolazione nativa digitale. Uno studio recente evidenzia che oltre l’80% degli studenti universitari e il 62% dei lavoratori nella regione stanno già sperimentando strumenti di intelligenza artificiale generativa. Questa fascia demografica, spesso definita Generazione AI, sta accelerando l’adozione dell’AI, rendendo l’ASEAN uno dei mercati in più rapida espansione per queste tecnologie. L’uso diffuso della Gen AI nei luoghi di lavoro sta spingendo le aziende a integrare soluzioni basate sull’AI, anche se molte faticano a tenere il passo con l’adozione indipendente da parte dei dipendenti.

Oltre alle startup, anche le grandi aziende e le multinazionali stanno investendo nell’infrastruttura AI del Sud-Est Asiatico. Colossi tecnologici globali come Google, Microsoft e NVIDIA stanno collaborando con governi e imprese locali per creare centri di ricerca AI e hub di cloud computing. Queste partnership mirano ad aumentare l’alfabetizzazione AI, fornire risorse di cloud computing e creare opportunità per i talenti locali. Malaysia e Filippine stanno emergendo come destinazioni chiave per i centri di R&S AI, grazie alla crescente forza lavoro tecnologica e a politiche governative favorevoli.

L’impatto dell’AI generativa nell’ASEAN non si limita alle applicazioni commerciali. I governi stanno esplorando il potenziale dell’AI per lo sviluppo nazionale, utilizzando analisi basate sull’AI per previsioni economiche, pianificazione urbana e gestione delle crisi. Le soluzioni AI-driven stanno inoltre rivoluzionando l’istruzione, con piattaforme di apprendimento adattivo alimentate da LLM, che offrono esperienze personalizzate in più lingue, rispondendo alla diversità linguistica della regione.

Tuttavia, permangono delle sfide. Il divario digitale, le infrastrutture AI limitate in alcune aree e le preoccupazioni sulla privacy dei dati rappresentano ostacoli all’adozione su larga scala. Singapore è all’avanguardia nella preparazione all’AI, mentre paesi come Cambogia, Laos e Myanmar affrontano difficoltà dovute a infrastrutture digitali insufficienti e bassi livelli di alfabetizzazione AI. La strategia dell’ASEAN per colmare questo divario include cooperazione regionale, investimenti nei programmi di formazione AI e incentivi per le imprese AI-driven.

Mentre il Sud-Est Asiatico consolida il proprio ruolo nel panorama globale dell’AI, è evidente che la regione non è più un semplice consumatore di tecnologia, ma un nuovo polo emergente di innovazione AI. Con un ecosistema di startup dinamico, iniziative strategiche dei governi e una forza lavoro tech-savvy, l’ASEAN si sta affermando come un hub chiave per l’AI, destinato a plasmare il futuro della Gen AI per gli anni a venire. Policymakers, investitori e leader aziendali continueranno a monitorare e adattare le proprie strategie per garantire che il potenziale trasformativo dell’AI sia pienamente realizzato nella regione.

In Vietnam ecco “l’era dell’ascesa nazionale”

Hanoi si avvicina al Congresso del Partito Comunista del 2026 con un programma molto ambizioso

Di Francesco Mattogno

Secondo il segretario generale del Partito Comunista del Vietnam (CPV), To Lam, il Vietnam sta per entrare «nell’era dell’ascesa nazionale», definita come un «nuovo punto di partenza storico» che trasformerà negli anni a venire il ruolo e la rilevanza del Vietnam all’interno dell’ordine internazionale. Ne aveva parlato per la prima volta davanti ai colleghi di partito lo scorso 13 agosto, dieci giorni dopo il suo insediamento alla segreteria del CPV, ripetendosi poi in discorsi pubblici, comunicati ufficiali e nell’ambito di vari incontri diplomatici.

Nella teoria del segretario generale – approvata a settembre dal Comitato Centrale del partito, che l’ha quindi resa una dottrina ufficiale – la storia moderna del Vietnam si può suddividere in tre periodi: l’era dell’indipendenza e del socialismo (1930-1975), l’era della riunificazione e delle riforme Doi Moi (1975-2025) e l’era dell’ascesa nazionale, appunto, che partirà con il 14° Congresso del CPV nel 2026 per poi terminare nel 2045.

Come scritto dall’analista Phan Xuan Dung su Fulcrum, la periodizzazione presentata da Lam supporta una narrazione di progressione lineare verso una maggiore forza e prosperità del Vietnam, che nel Novecento ha combattuto due guerre per liberarsi dal colonialismo occidentale prima di intraprendere un percorso di crescita continua. Oggi però, dice Lam riferendosi alle varie crisi internazionali e all’avanzamento delle nuove tecnologie, il mondo si trova in una fase di «cambiamenti che definiscono un’era», alla quale il Vietnam non deve farsi trovare impreparato.

Il leader del CPV ha quindi definito gli anni che vanno dal 2024 al 2030 come un «periodo di sprint» decisivo, che risulterà fondamentale per stabilire la forma del nuovo ordine internazionale. Non c’è tempo da perdere, insomma. Per questo negli ultimi mesi Hanoi ha iniziato a prendere varie decisioni politiche radicali che serviranno a plasmare la «nuova era», accelerando l’implementazione di molti progetti infrastrutturali rimasti in sospeso a volte per decenni (come la costruzione di ferrovie ad alta velocità o di nuove centrali nucleari) e, soprattutto, riformando gran parte del sistema burocratico del paese.

L’enorme ristrutturazione burocratica voluta da Lam negli ultimi mesi ha portato alla chiusura di cinque ministeri e di altre agenzie e dipartimenti governativi, le cui responsabilità sono confluite all’interno di istituzioni e dicasteri già esistenti. Dopo anni di aggiustamenti graduali, l’apparato di polizia è stato ulteriormente centralizzato attraverso la rimozione dei dipartimenti a livello distrettuale, mentre la seconda rete televisiva del paese (la VTC) è stata chiusa lasciando a casa più di 800 impiegati nell’ambito di un più generale ridimensionamento del settore dell’informazione.

L’obiettivo ufficiale delle riforme è quello di ridurre la burocrazia e tagliare i costi, migliorando a conti fatti l’efficienza del governo. Dopo l’importante +7,09% registrato nel 2024, Hanoi si è data un ambizioso obiettivo di crescita di PIL per il 2025 tra l’8% e il 10%, con un più ampio target di crescita in doppia cifra per il periodo 2026-2030. Secondo gli esperti, come Alexander Vuving, che ne ha scritto sul Diplomat, la leadership vietnamita sa che per garantirsi una crescita di questo tipo l’economia dovrà essere trainata dal settore tecnologico e guidata da una pubblica amministrazione snella e competente.

A dicembre, per la prima volta dopo decenni in cui la questione era sempre stata affrontata in modo un po’ fumoso, il Politburo del CPV si è impegnato politicamente nel definire «la scienza, la tecnologia, l’innovazione e la trasformazione digitale» come i cardini dello sviluppo economico del paese. Contestualmente Lam, in qualità di segretario generale, è stato nominato a capo della Commissione direttiva centrale per lo sviluppo della scienza, della tecnologia, dell’innovazione e della trasformazione digitale, ed è stato deciso che il governo dovrà destinare a tale scopo almeno il 3% del budget annuale.

Negli ultimi anni, beneficiando degli scontri tecnologici e commerciali tra Pechino e Washington, il Vietnam si era già trasformato in una destinazione gradita dalle multinazionali tecnologiche (soprattutto americane) interessate a delocalizzare la produzione dalla Cina. Salvo rare eccezioni, però, la manifattura vietnamita nel settore delle nuove tecnologie si è quasi sempre limitata all’impiego di operai scarsamente qualificati, dimostrandosi poco avvezza all’innovazione (non è un segreto che nel paese manchino ingegneri, per esempio). Lam sta provando a cambiare questo paradigma. 

Prima di diventare segretario (passando per un periodo ad interim da presidente) Lam è stato per anni il ministro della Sicurezza Pubblica incaricato di guidare la campagna anti-corruzione, che ha usato per farsi strada nel CPV, purgando nemici e avversari politici. Oggi, per opera di Lam, sei membri su quindici del Politburo del partito provengono dall’apparato di sicurezza, mentre lo stesso ministero della Sicurezza Pubblica ha preso in carico molte delle funzioni dei ministeri e dei dipartimenti appena tagliati dalla ristrutturazione burocratica. Ed è in questa centralizzazione del potere che risiede probabilmente l’altro obiettivo della dottrina di Lam sulla nuova era.

Presentare i prossimi anni come quelli decisivi per “l’ascesa” (vươn mình) del Vietnam è anche un modo per legittimare il suo mandato, facendo leva sul senso di urgenza per giustificare cambiamenti rapidi e radicali. In un momento storico spartiacque, Lam può dunque dipingersi come l’architetto di un cambiamento epocale, che non pare comunque portare cambiamenti riguardo la postura internazionale di Hanoi, che resta impostata sulla bamboo diplomacy di Trong. Il Vietnam incarna forse più degli altri l’equilibrismo diplomatico della regione, essendo in grado di mantenere ottimi rapporti contemporaneamente con Russia, Cina e Stati Uniti.

Le Filippine tra i Marcos e i Duterte

Le elezioni di metà mandato faranno da sfondo allo scontro tra le due famiglie più importanti del Paese, che esprimono rispettivamente il presidente e la vicepresidente

Di Francesco Mattogno

È in un contesto politico movimentato che le Filippine sono entrate nel 2025, un anno elettorale. Il 12 maggio il Paese sarà chiamato a rinnovare tutti i 317 seggi della Camera dei Rappresentanti nazionale, 12 dei 24 senatori e oltre 18 mila posizioni a livello locale per le elezioni di metà mandato, che cadono esattamente a tre anni dal voto delle presidenziali del 2022. All’epoca il Presidente Ferdinand “Bongbong” Marcos Jr. e la Vicepresidente Sara Duterte correvano insieme nel cosiddetto “Uniteam”, sostenendosi a vicenda nelle rispettive candidature alla presidenza e alla vicepresidenza (nelle Filippine l’elezione del presidente e del vice avviene con due voti separati, e il presidente può restare in carica per un solo mandato di 6 anni).

Si trattava di un’alleanza di comodo tra quelle che erano – e sono – le due famiglie più potenti del paese. Una aveva appena espresso il presidente, Rodrigo Duterte, in carica dal 2016 al 2022 e capostipite di un clan che governa la città di Davao, nel sud delle Filippine, dalla fine degli anni Ottanta. L’altra era composta dagli eredi del dittatore Ferdinand Marcos (padre di Bongbong, al potere dal 1965 al 1986), desiderosi di tornare alla ribalta in campo nazionale dopo decenni di dominio locale nella provincia di Ilocos Norte. Alla fine hanno avuto ragione entrambe, con Bongbong e Sara usciti nettamente vincitori dalle urne.

Nonostante i buoni propositi per una proficua collaborazione, però, l’Uniteam non ha retto alla prova di governo e si è sfaldato, un pezzo alla volta. Le recenti dichiarazioni di Sara Duterte rappresentano solo l’ultimo atto di una guerra dinastica cominciata a poche settimane di distanza dal voto e che ha poco a che fare con la politica, o il buon governo. Tra Marcos e il suo predecessore, Rodrigo Duterte, c’è piena continuità su buona parte delle questioni interne, dalla gestione dell’economia alle enormi lacune nel rispetto dei diritti umani. 

L’unica vera differenza sta nella politica estera. Le Filippine di Marcos hanno abbandonato l’approccio morbido e remissivo di Duterte con la Cina, che nel mar Cinese meridionale rivendica come propri parte dei territori internazionalmente riconosciuti all’interno della Zona Economica Esclusiva filippina, per spostarsi su una posizione più assertiva a difesa dei propri confini marittimi, allineata agli interessi degli Stati Uniti. Si è trattato di un cambio di atteggiamento radicale che da un lato ha incrinato i rapporti tra Manila e Pechino e dall’altro ha generato una serie di ripercussioni interne, tra cui lo smantellamento delle organizzazioni criminali cinesi legate in particolare alle truffe e al gioco d’azzardo (le cosiddette POGOs), considerate molto vicine alla famiglia Duterte.

In un Paese in cui le dinastie politiche dominano da sempre il panorama politico, locale e nazionale, lo scontro per il potere tra i Duterte e i Marcos si è spostato in parlamento. Diverse commissioni interne alle due camere hanno aperto un’indagine a carico di Rodrigo per definire la portata della sua “guerra alla droga” (si parla di almeno 30 mila uccisioni extragiudiziali di spacciatori e consumatori: rischia di essere formalmente accusato di crimini contro l’umanità) e contro Sara per fare chiarezza sull’uso dei fondi pubblici destinati ai suoi uffici, che si ritiene siano stati usati per scopi personali. 

Il potenziale abuso dei finanziamenti pubblici e le recenti minacce verso Marcos hanno portato il parlamento ad avviare tre procedure di impeachment contro Sara Duterte, che fa ampio uso di una retorica populista per mostrarsi all’opinione pubblica come la vittima di una persecuzione politica orchestrata dal presidente. Quello della disinformazione, delle fake news e dei contenuti fuorvianti sui social rappresenta un problema serio per molti degli osservatori delle Filippine, che temono il ripetersi di quanto già accaduto durante le elezioni del 2022, quando TikTok risultò molto importante per riabilitare l’immagine della famiglia Marcos e spianare la strada a Bongbong verso il palazzo presidenziale.

Intanto, mentre avanza lo scontro dinastico, fuori dalle sale del potere oltre la metà delle famiglie filippine si descrive come “povera” e milioni di persone faticano ad arrivare a fine mese. Marcos ha finora disatteso gran parte delle sue promesse economiche, in particolare riguardo il contrasto alla povertà, e le principali preoccupazioni dei cittadini restano legate all’inflazione, al basso livello dei salari e alle difficoltà nel trovare lavoro. Sotto Marcos, ad esempio, il contributo della manifattura al PIL filippino è sceso al 18%, il livello più basso dalla seconda guerra mondiale.

Al governo si contestano anche l’inadeguata risposta alle emergenze provocate dai tifoni (e in generale i carenti sforzi nel contrasto al cambiamento climatico), la continua repressione di attivisti e giornalisti e il prosieguo, seppur in modi molto più contenuti, della guerra alla droga di Duterte. La coalizione di sinistra Makabayan proverà a capitalizzare la frustrazione contro le élite al potere, cercando soprattutto di sfondare al senato, ma nonostante tutto sia i Marcos che i Duterte mantengono una buona base di sostenitori e saranno difficili da scalfire, per quanto il loro indice di gradimento sembri essere entrato in una fase calante. Entrambi i clan nel 2025 candideranno cinque componenti della famiglia, tra elezioni locali e nazionali, e Rodrigo Duterte correrà nuovamente a sindaco di Davao, città che ha già governato per vent’anni. 

Lo scenario più probabile è che le elezioni di metà mandato faranno nuovamente da sfondo a uno scontro tra dinastie politiche, durante il quale sia i Marcos che i Duterte proveranno a consolidare il proprio potere in vista del 2028, senza reali contendenti fuori dal cerchio dei grandi clan delle Filippine. E dunque senza una vera alternativa.

Aumenta l’export italiano in ASEAN

I dati del 2024: record per la crescita delle esportazioni Made in Italy in Vietnam

Il rialzo dei dazi da parte degli Stati Uniti potrebbe avere effetti positivi per l’export italiano, soprattutto da parte dei mercati emergenti. Secondo un approfondimento messo a punto dalla Farnesina, dopo la riunione presieduta dal ministro Antonio Tajani con alcuni rappresentanti del tessuto produttivo italiano, un ruolo importante potrebbe avere l’apprezzamento del dollaro sull’euro, verificatosi negli ultimi mesi, unito all’aumento delle scorte di merci da parte delle imprese americane. Anche misure tariffarie più elevate contro Cina e Messico potrebbero avere effetti opposti, aprendo spazi competitivi per il Made in Italy. In particolare, segnala la Farnesina, importanti opportunità per l’export italiano vengono dai mercati emergenti: Mercosur, India, ASEAN, Paesi del Golfo, Africa e Balcani. Le esportazioni italiane nella regione ASEAN hanno raggiunto 9,7 miliardi di euro nel 2023, con una crescita del 5,1%, confermata da un’ulteriore +11% nel 2024. I settori trainanti sono macchinari, chimica, tessile e agroalimentare. Sebbene il saldo commerciale sia negativo, il deficit si è progressivamente ridotto grazie alla crescente competitività del Made in Italy. Nello specifico, nel 2024 l’aumento più significativo è quello verso il Vietnam, dove si registra un ragguardevole +25%. La crescita riguarda anche gli altri Paesi dell’ASEAN e il dato è una chiara testimonianza della crescente apertura del mercato asiatico, che continua a rappresentare una frontiera chiave per l’industria italiana. Il trend si sta addirittura intensificando, visto che il solo dato di dicembre 2024 è addirittura di un aumento del 39,9%. Negli ultimi sei anni, l’interscambio commerciale complessivo tra Italia e ASEAN è cresciuto circa del 40%, più di Regno Unito, Germania e Francia, evidenziando il grande dinamismo delle relazioni economiche Italia-ASEAN. Gli strumenti di cooperazione economica tra l’ASEAN e l’Italia sono diversi e sfaccettati. Comprendono accordi commerciali, trattati di investimento, joint venture e programmi di cooperazione economica e tecnica. Questi strumenti mirano a ridurre le barriere commerciali, a promuovere gli investimenti, a favorire il trasferimento di tecnologia e a rafforzare i legami economici tra le due regioni. Insieme, costruiscono partenariati economici resistenti e reciprocamente vantaggiosi. Ad oggi, gli IDE italiani nell’ASEAN valgono 7,7 miliardi di euro, mentre gli IDE ASEAN ammontano a più di 800 milioni di euro. Si tratta di aumenti esponenziali da quando è stata fondata l’Associazione Italia-ASEAN. 

I vantaggi della ZES Johor-Singapore

L’obiettivo della nuova zona economica speciale creata da Malesia e città-stato è quello di sopperire alle rispettive lacune tramite la complementarità delle due economie per attrarre investimenti

Di Emanuele Ballestracci

Lo stretto di Johor è il confine naturale che separa la regione più meridionale della penisola malesiana, Johor, dalla città-stato di Singapore. La distanza tra le due coste è poco più di un chilometro nei punti di minima ma, nonostante ciò, esistono solo due collegamenti terrestri. Le due sopraelevate “Causeway” e “Tuas Link” risalgono rispettivamente al 1923 e al 1998 e vengono reputate dai più come insufficienti a gestire le oltre 350.000 persone che ogni giorno effettuano il transito transfrontaliero. Gran parte di questo flusso umano sono i residenti della capitale regionale malese di Johor Bahru (JB), lavoratori pendolari che si recano a Singapore per godere degli alti stipendi che la metropoli offre. Questo viaggio dura in media 3 ore totali e nei casi più estremi il tragitto casa-lavoro può arrivare a 7 ore totali, con partenza alle 4 di mattina o ritorno alle 11 di sera. Viceversa, i singaporiani si recano dall’altra parte dello Stretto per passare un weekend fuoriporta o acquistare immobili di proprietà, il tutto a prezzi e cambio di valuta decisamente vantaggiosi. 

Lo Stretto racconta così di due volti del Sud-Est asiatico profondamente diversi fra loro: da una sponda una metropoli simbolo di modernità, efficienza e benessere; dall’altra una regione decisamente più modesta e caotica. Basti pensare che il PIL pro capite di Johor si attesta a 8.600 dollari, mentre quello singaporiano è ben dieci volte tanto. Nonostante queste enormi differenze le due regioni sono profondamente interdipendenti, soprattutto economicamente, tanto da essere state concettualizzate come un’unica “Mega Città-Regione dello Stretto”. Johor fornisce infatti a Singapore beni di prima necessità come risorse idriche e prodotti agricoli, manodopera a basso prezzo e ampi spazi dove locare l’industria manifatturiera singaporiana. Viceversa, la disponibilità di capitale di Singapore, il suo avanguardistico aeroporto e il suo immenso porto, il secondo più trafficato al mondo, stimolano lo sviluppo dell’economia locale di Johor e la collegano alle catene globali del valore. 

Perseguire una maggiore integrazione economica è perciò stata la naturale risposta alle rispettive esigenze di crescita e caratteristiche strutturali. I due governi hanno incentivato questo processo soprattutto a partire dal 1989, anno in cui venne lanciato l’accordo di partnership di crescita triangolare “SIJORI” congiuntamente all’Indonesia. L’idea alla base di tale progetto era di attrarre investimenti tramite la promozione di Singapore, Johor e le isole indonesiane Riau come se fossero un’unica destinazione. La complementarità dei tre territori, già ben collegati fra loro a livello infrastrutturale, avrebbe infatti offerto sia collegamenti alle catene globali del valore e ai mercati finanziari sia terreni e manodopera a basso costo. Successivamente, nel 2006 la Malesia ha lanciato il progetto di corridoio economico “Iksandar Malesia” che, sfruttando la vicinanza geografica a Singapore, avrebbe dovuto attrarre investimenti a Johor Bahru, nonché nelle aree a ridosso del confine con la città-stato. Questa iniziativa top-down da parte del governo di Kuala Lumpur è riuscita a stimolare con successo lo sviluppo locale, nonostante qualche eclatante fallimento come il megaprogetto di Forest City, oggi una città fantasma. 

Il processo di integrazione economica è oggi più che mai incoraggiato dagli esecutivi delle due sponde dello Stretto. L’accordo per la creazione della zona economica speciale Johor-Singapore, JS-SEZ, è infatti stato firmato lo scorso 7 gennaio in occasione dell’undicesimo “Ritiro tra i Leader di Malesia e Singapore”. La sua logica è sempre la stessa: sopperire alle rispettive lacune tramite la complementarità delle due economie per attrarre investimenti. Non solo, l’accordo mira anche a ottimizzare la connettività transfrontaliera per consentire una maggiore circolazione di merci e persone, nonché rafforzare l’ecosistema imprenditoriale all’interno della regione. Nell’ambito della mobilità transfrontaliera negli ultimi anni erano già stati lanciati alcuni progetti chiave. Il sistema di trasporto rapido “RTS Link” dovrebbe infatti essere completato nel 2026. Si tratta di una ferrovia leggera di 4 km che viaggerà tra la stazione sotterranea singaporiana di Woodlands North e il capolinea malesiano in superficie di Bukit Chagar, vicino al checkpoint di Johor Bahru, completando il viaggio in soli 6 minuti. Da gennaio 2024 è inoltre in fase di sperimentazione un nuovo sistema di controllo dei documenti al confine che permetterà l’uso di QR code al posto dei passaporti fisici, consentendo transiti più rapidi. 

Pur nelle loro differenze, Johor e Singapore continuano quindi a rafforzare il loro legame attraverso infrastrutture e progetti comuni, confermando il ruolo cruciale della cooperazione per lo sviluppo del Sud-Est asiatico.

Arriva Trump, l’ASEAN guarda ai BRICS

L’Indonesia è entrata ufficialmente nel gruppo. Malesia, Thailandia e Vietnam tra i Paesi partner

L’ingresso ufficiale dell’Indonesia nei BRICS è una novità rilevante. L’immenso arcipelago, quarto Paese più popoloso al mondo, è uno snodo cruciale su diversi fronti. Innanzitutto, si tratta della principale economia del Sud-Est asiatico, regione dove tra venti di guerre commerciali e minacce di dazi, da tempo diversi colossi internazionali hanno messo radici. L’Indonesia sta attraendo diversi investimenti. Elon Musk sta lavorando alla costruzione di un impianto di batterie per veicoli elettrici Tesla, mentre il governo indonesiano sta trattando con Apple un piano di ampio respiro. Non è un caso, visto che il Paese è ricco di risorse cruciali per l’industria tecnologica verde. Come il nichel, su cui le imprese cinesi hanno conquistato una posizione di privilegio. Ma l’Indonesia ha ruolo notevole anche sul fronte politico-diplomatico. Giacarta ha spesso giocato un ruolo di stabilizzatore regionale, mediando su temi sensibili come il Mar Cinese meridionale. L’Indonesia è anche l’unico rappresentante ASEAN al G20, dove si è spesso fatto portavoce di una visione di mondo basata su libero commercio, neutralità, pacifismo e pragmatismo. Per il neo presidente Prabowo Subianto, aderire al gruppo significa portare avanti gli obiettivi di sicurezza alimentare, indipendenza energetica, riduzione della povertà e sviluppo del capitale umano. Secondo gli analisti, la mossa è una svolta della storica politica indonesiana di non allineamento, che si sta tramutando in un multi allineamento che rafforzi i legami sia coi Paesi occidentali che con quelli del cosiddetto Sud globale. Non a caso, l’Indonesia porta contestualmente avanti il suo processo di adesione all’Ocse. “Tuttavia, i BRICS sono sempre più attraenti per le potenze emergenti”, scrive Richard Heydarian su Nikkei, secondo cui questo non solo riflette il rapido spostamento dell’equilibrio di potere sulla scena globale, ma, cosa fondamentale, consente ai Paesi emergenti di esprimere il proprio malcontento nei confronti dell’ordine internazionale guidato dagli Stati Uniti e di proteggersi collettivamente dall’impatto potenzialmente dirompente della seconda presidenza Trump. Dopo l’allargamento del 2023, il gruppo rappresenta ora circa metà della popolazione mondiale e il 30% del prodotto interno globale, contribuendo a oltre il 50% della crescita. Dopo l’Indonesia, potrebbero presto aderire anche Turchia e Malesia, mentre il Brasile ha già annunciato l’inclusione nella nutrita lista dei paesi partner di Cuba, Bolivia, Kazakistan, Uzbekistan, Thailandia e Uganda.

Gli investimenti cinesi nel Sud-Est asiatico

Un hub in crescita per la manifattura globale

Di Luca Menghini

Gli investimenti cinesi nel Sud-Est asiatico sono cresciuti significativamente negli ultimi anni, trasformando la regione in un importante hub manifatturiero. Questo trend è sostenuto dall’aumento dei costi di produzione in Cina, dalle crescenti tensioni geopolitiche e da un cambiamento strategico verso la diversificazione delle catene di approvvigionamento. I Paesi dell’ASEAN, grazie alla loro posizione strategica, ai costi del lavoro competitivi e alle politiche favorevoli agli investimenti, sono in prima linea in questa trasformazione, attirando consistenti investimenti cinesi in vari settori.

L’impulso per questo cambiamento deriva dalle continue tensioni commerciali tra Cina e Stati Uniti, che hanno interrotto i tradizionali flussi delle catene di approvvigionamento. I dazi statunitensi e le regole sull’origine dei prodotti più rigide hanno spinto le aziende cinesi a spostare le operazioni manifatturiere all’estero per aggirare queste barriere. Il Sud-Est asiatico rappresenta un’alternativa attraente grazie alla sua vicinanza alla Cina, agli accordi commerciali già consolidati e ai vantaggi in termini di costi. Paesi come Vietnam, Thailandia, Malesia e Indonesia sono diventati destinazioni fondamentali per questi investimenti, rafforzando il loro ruolo di attori indispensabili nelle catene di approvvigionamento globali.

Un chiaro indicatore di questa tendenza è la rapida crescita delle esportazioni di beni intermedi dalla Cina verso i Paesi dell’ASEAN. Da gennaio a novembre 2024, le esportazioni di questi beni verso il solo Vietnam sono aumentate del 32% rispetto all’anno precedente, rappresentando oltre il 70% delle esportazioni cinesi di prodotti meccanici ed elettrici. Questo riflette un modello più ampio di aziende cinesi che trasferiscono le catene di approvvigionamento verso i Paesi dell’ASEAN per mitigare i rischi associati alle tensioni geopolitiche e ai dazi. Questo cambiamento segna un nuovo capitolo nella globalizzazione della manifattura, in cui il Sud-Est asiatico assume un ruolo sempre più centrale.

L’attrattiva della regione per gli investitori cinesi risiede nel suo mercato del lavoro competitivo. I salari medi nel settore manifatturiero nei Paesi dell’ASEAN rimangono significativamente inferiori rispetto a quelli in Cina, con tariffe orarie che vanno da 1,50 a 3 dollari USA in Vietnam, Thailandia e Malesia, rispetto agli 8,27 dollari USA della Cina. Questa disparità salariale offre un forte incentivo per le industrie con un’alta intensità di manodopera a trasferirsi. Tuttavia, persistono sostanziali differenze di produttività e gli industriali cinesi stanno affrontando questa sfida investendo nella formazione della forza lavoro e adottando tecnologie avanzate di automazione, una strategia che mira a replicare il successo della Cina nella costruzione di una base industriale efficiente.

L’infrastruttura del Sud-est asiatico, sebbene ancora in fase di sviluppo, sta subendo significativi miglioramenti per sostenere questo boom manifatturiero. I governi della regione stanno investendo pesantemente in sistemi di trasporto, porti e sistemi energetici per aumentare la loro attrattività agli occhi degli investitori stranieri. Ad esempio, l’Indonesia sta sfruttando le sue ricche riserve di nichel per creare una solida filiera di veicoli elettrici (EV), inclusa la produzione di batterie e componenti. Nel frattempo, la Thailandia si sta posizionando come un hub per l’assemblaggio di veicoli elettrici, supportata da sussidi e requisiti di localizzazione volti a promuovere le capacità produttive domestiche.

Tra i principali beneficiari degli investimenti cinesi infatti, ci sono le industrie dell’elettronica e dell’automotive. Il Vietnam, ormai uno dei principali esportatori di elettronica, ha registrato un notevole afflusso di investimenti diretti esteri (FDI) da parte di aziende cinesi interessate a sfruttare le sue crescenti capacità manifatturiere. Allo stesso modo, Malesia e Thailandia sono diventate centrali per il settore automotive, con numerose aziende cinesi che hanno avviato operazioni per produrre componenti e assemblare veicoli. Questi investimenti sono in linea con le tendenze globali che favoriscono soluzioni energetiche sostenibili, come la rapida crescita della produzione di veicoli elettrici (EV).

Le aziende cinesi stanno inoltre sfruttando le favorevoli politiche commerciali dell’ASEAN per accedere a mercati più ampi. Iniziative come il Regional Comprehensive Economic Partnership (RCEP) hanno semplificato le procedure commerciali e ridotto i dazi, rendendo la regione più attraente per le imprese. Consentendo ai prodotti di attraversare più volte i confini con costi e burocrazia minimi, il RCEP ha rafforzato il ruolo del Sud-est asiatico nelle catene globali di approvvigionamento. Inoltre, l’integrazione della regione con la Belt and Road Initiative (BRI) ha ulteriormente approfondito i legami economici tra Cina e ASEAN, favorendo un maggiore flusso di investimenti.

Nonostante questi vantaggi, permangono delle sfide importanti, come l’instabilità politica, le discrepanze normative e le carenze infrastrutturali che in alcuni paesi dell’ASEAN rappresentano rischi per gli investimenti a lungo termine. Ad esempio, quadri legislativi incoerenti e procedure doganali frammentate possono aumentare i costi di conformità per le aziende che operano in diverse giurisdizioni. Inoltre, sebbene i paesi dell’ASEAN vantino costi del lavoro più bassi, la disponibilità di lavoratori qualificati nei settori ad alta tecnologia rimane limitata. Questo ha spinto le aziende cinesi a investire in programmi di formazione professionale e iniziative educative, affrontando il divario di competenze e garantendo operazioni sostenibili.

Le considerazioni ambientali rappresentano un altro fattore cruciale che influenza le decisioni di investimento. Il Sud-est asiatico è tra le regioni più vulnerabili ai cambiamenti climatici, con l’innalzamento del livello del mare e fenomeni meteorologici estremi che pongono rischi significativi per le infrastrutture e gli impianti produttivi. Per rispondere a questo fenomeno i governi dell’ASEAN stanno dando sempre più priorità alla sostenibilità nelle loro strategie di sviluppo. Iniziative sulle energie rinnovabili, come la rapida espansione dell’energia solare in Vietnam, evidenziano l’impegno della regione per una crescita verde. Questi sforzi sono fondamentali per attirare investitori attenti all’ambiente e rispettare gli standard globali di sostenibilità.

Anche la geopolitica gioca un ruolo significativo nel plasmare le dinamiche degli investimenti cinesi nell’ASEAN. La posizione strategica della regione, all’incrocio di importanti rotte commerciali, ne aumenta l’importanza nei network economici globali. I paesi dell’ASEAN sono riusciti abilmente a mantenere un equilibrio tra le partnership economiche con la Cina e le alleanze di sicurezza con gli Stati Uniti. Questa delicata diplomazia ha permesso loro di attrarre investimenti da entrambe le superpotenze, riducendo al minimo il rischio di essere coinvolti nella loro rivalità geopolitica.

Guardando al futuro, il ruolo del Sud-est asiatico come hub manifatturiero è destinato a crescere, ma difficilmente sostituirà completamente la posizione dominante della Cina. Il successo della regione dipenderà dalla sua capacità di affrontare le sfide esistenti, come il miglioramento delle infrastrutture, l’aumento della produttività della forza lavoro e la promozione di una maggiore integrazione regionale. Iniziative come l’ASEAN Highway Network e i progetti energetici transregionali dimostrano l’impegno della regione a costruire un blocco economico più interconnesso ed efficiente.

In conclusione, gli investimenti cinesi stanno trasformando il Sud-est asiatico in un hub manifatturiero fondamentale, con implicazioni di vasta portata per il commercio globale e le catene di approvvigionamento. Sebbene la regione debba affrontare sfide significative, i suoi vantaggi strategici, uniti a investimenti costanti e a politiche di supporto, la posizionano come un attore chiave nel panorama economico globale in evoluzione. Man mano che l’ASEAN continua ad attrarre e integrare investimenti esteri, la sua influenza sulla manifattura globale si approfondirà, offrendo opportunità di crescita e sviluppo economico negli anni a venire.

Thailandia, via libera ai matrimoni Lgbtq+

Dal 22 gennaio Bangkok è il primo Paese del Sud-Est asiatico a consentire le nozze tra persone dello stesso sesso. Un evento di portata storica 

Vittoria Mazzieri

Dopo il voto favorevole di Camera dei rappresentanti e Senato della Thailandia, rispettivamente ad aprile e a giugno 2024, il Marriage Equality Bill è stato approvato dal re Maha Vajiralongkorn a settembre. Un evento storico che ha confermato le speranze di migliaia di coppie Lgbtq+, in attesa di celebrare legalmente la loro unione. Dalla firma del sovrano, come comunicato dalla Royal Gazette, devono trascorrere 120 giorni affinché la legge entri in vigore. 

Dal 22 gennaio la Thailandia è il primo Paese del Sud-Est asiatico ad aver compiuto questo passo. La nuova legge thailandese concede anche i diritti all’adozione, all’assistenza sanitaria e all’eredità, oltre a modificare il Codice civile e commerciale della nazione con termini come “individui”, al posto di “uomini” e “donne”.

Bangkok si avvicina alla data catartica con una serie di riconoscimenti alle spalle. A giugno del 2024 le strade della capitale hanno ospitato un pride da record con oltre 200 mila persone presenti, il più grande della storia del paese. E alcune città hanno festeggiato la loro prima parata, tra cui la piccola località balneare di Hua Hin e Phuket, capitale dell’omonima isola diventata una delle mete turistiche più popolari del paese.

Ad agosto, inoltre, le autorità per l’immigrazione hanno lanciato la campagna “Welcome Pride by Immigration”, facendo uso come già accaduto per altre comunicazioni della sigla estesa lgbtqia2s+ (dove “2s” sta a indicare i “due spiriti”, termine della tradizione delle comunità indigene nel Nord America). In sostanza, uno sforzo congiunto per far fronte ai problemi che in sede di controlli possono nascere quando si registrano discrepanze tra l’aspetto fisico, qualora ci si trovi davanti a una persona che si è sottoposta a interventi chirurgici e terapie ormonali, e i marcatori di genere sul passaporto, spesso regolati dalle leggi dei paesi di origine. Agli uffici di competenza viene ora chiesto di esaminare documenti di identità alternativi, come cartelle cliniche e dati biometrici.

Questa misura ha contribuito alla solida reputazione che la Thailandia ha costruito nel tempo: una sorta di paradiso per la comunità lgbtq+, dove locali gay friendly ormai iconici sorgono negli stessi quartieri divenuti tappe obbligate per i fruitori dell’enorme industria sessuale del paese (che incide per oltre il 10% sul Pil nazionale). A Bangkok e a Pattaya, sulla costa occidentale, eventi drag si svolgono a fianco dei go-go bar dove si affollano giovani e paganti turisti maschi. Sul portale Medium, l’utente Tracy.3 racconta le proprie esperienze personali citandone alcuni: l’ormai celebre DJ Station, a Si Lom Road, e The Stranger Bar, a Soi 4, entrambe affollate vie di Bangkok. Ma anche il Silversands Bar a Samed, piccola isola diventata dagli anni Ottanta una popolare meta turistica. 

L’impatto economico di questo genere di attività non è passato inosservato. Se ne parla addirittura in termini di “baht rosa”, a indicare la capacità di spesa dei consumatori queer a cui le agenzie sparse in tutto il paese dedicano pacchetti di viaggio sempre più specifici. “Abbiamo qualcosa per tutti”, si legge sul sito di “Go Thai Be Free”, la campagna lanciata nel 2022 dall’Autorità per il turismo (TAT) per incoraggiare le persone della comunità a visitare il paese. Sulla piattaforma la Thailandia viene presentata come “il paese più accogliente per le persone lgbtq+ in Asia”.

In termini di impatto turistico, il 2025 si prospetta come un anno ancora più promettente. Intanto, nel tentativo di recuperare lo slancio perso durante il Covid-19, il governo thailandese ha recentemente fissato per il 2025 l’obiettivo di superare gli ingressi registrati nel 2019 e toccare quota 40 milioni di visitatori. Una sfida per Paetongtarn Shinawatra, erede della più famosa dinastia politica thailandese ed eletta premier lo scorso agosto dopo lo scioglimento del Move Forward, il partito progressista che aveva tecnicamente vinto le elezioni del 2023: si punta a crescere e raggiungere numeri da record, al contempo dovendo rispondere agli avvertimenti sull’impatto del turismo di massa sulle aree naturalistiche. Una tra tutte Maya Bay, sull’isola di Ko Phi Phi Leh, chiusa ai visitatori dal 2018 al 2022.

I “baht rosa” contribuiranno allo scopo. Un rapporto commissionato dalla piattaforma di viaggi Agoda stima che la nuova legge potrebbe far crescere del 10% i viaggi in entrata, con un aumento di oltre 2 miliardi di dollari della spesa turistica. I diretti interessati potrebbero essere le oltre 3,5 milioni di persone che vivono a meno di cinque ore di volo e a cui è negata la possibilità di convolare a nozze nel loro paese di origine. “Stiamo già prendendo registrazioni di coppie internazionali pronte a sposarsi in Thailandia”, ha dichiarato l’attivista Ann Chumaporn, cofondatrice del Bangkok Pride, che intende coinvolgere oltre mille coppie lgbtq+ per un matrimonio di massa che si svolgerà proprio il 22 gennaio.

Ma al di là dei riconoscimenti ottenuti e del grado di visibilità raggiunto nei media, sono necessari tempo e impegno per allentare lo stigma sociale che ancora permea gran parte della società. “Tolleranza e visibilità non equivalgono a sicurezza e diritti”, avvertono gli attivisti. Da un rapporto risalente al 2019 del Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo (UNDP) emerge che il 50% delle persone queer intervistate ha subito discriminazioni nel contesto familiare. Lo scenario che si delinea è chiaro: i thailandesi sono generalmente più tolleranti fuori che dentro la propria famiglia.
La Thailandia continuerà a essere un’isola felice per i turisti queer, ma le associazioni puntano ai grandi eventi per rafforzare il proprio riconoscimento sul fronte internazionale. Phuket è stata proposta come città ospitante per l’InterPride 2025, l’incontro di tutte le associazioni attive per i diritti della comunità che quest’anno si è tenuto a Medellín, Colombia. E l’intenzione è di dimostrare il proprio “rainbow soft power” mirando all’evento più grande: il WorldPride del 2030.

Commercio e diplomazia ASEAN alla prova del Trump bis

Articolo di Pierfrancesco Mattiolo

Donald Trump presta giuramento per la seconda volta, generando preoccupazione e incertezza tra i governi ASEAN. I dazi commerciali sembrano minacce più che promesse, utili per spingere i partner a fare concessioni senza dover arrivare alla loro adozione. Dopo gli sforzi di Joe Biden per rafforzare cooperazione e presenza americana nella regione, Trump potrebbe essere meno interessato al Sud Est asiatico e seguire una logica do ut des.

La nuova amministrazione Trump è pronta a entrare nella West Wing della Casa Bianca. Gli analisti e i paesi terzi si aspettano un secondo governo più aggressivo e preparato del primo. Trump promette di portare cambiamenti rapidi in certe regioni del mondo, chiudendo la guerra tra Russia e Ucraina e stabilizzando il Medio Oriente, e di tenere una linea dura verso la Cina. Su altre aree invece, come nel Sud Est asiatico, è più difficile fare previsioni su quali saranno gli impatti della nuova amministrazione. Hoang Thi Ha e William Choong, due Senior Fellow dell’ISEAS-Yusof Ishak Institute di Singapore, prevedono che l’ASEAN potrebbe scontare altri quattro anni di assenza e disinteresse da parte di Trump, come avvenuto durante il suo primo mandato, durante il quale non si era preoccupato neppure di nominare degli ambasciatori presso l’ASEAN e Singapore. Al contrario, Barack Obama e Joe Biden si erano contraddistinti per il loro impegno nell’intessere legami forti con l’Organizzazione e i suoi governi. 

Il punto chiave dell’agenda trumpiana, almeno in apparenza, sono i dazi e il riequilibrio delle bilance commerciali con i paesi che esportano negli USA più di quanto importino. Nella narrativa di Trump e dei suoi alleati più protezionisti, questa politiche dovrebbero riportare posti di lavoro sul suolo americano e avvantaggiare la classe lavoratrice penalizzata dalla globalizzazione. Il primo passo in questo senso prevede di terminare o ridurre i programmi con un effetto favorevole sugli scambi, come il Generalized System of Preferences (GSP, la stessa sigla che utilizza l’UE per il suo programma omologo) o l’Indo-Pacific Economic Framework (IPEF) promosso da Biden. Il GSP riduce i dazi sulle merci importate dai paesi in via di sviluppo e, durante la prima amministrazione Trump, India e Turchia erano state escluse dalla lista dei beneficiari a causa del loro surplus commerciale. Quasi il 60% delle merci coperte dal GSP esportate dall’ASEAN verso gli States è prodotto in Tailandia e Indonesia, quindi una revoca delle preferenze li colpirebbe duramente – insieme ai loro clienti americani, che dovrebbero pagare di più le forniture. L’IPEF invece mirava a stabilire regole comuni su certi ambiti, senza però ridurre le tariffe commerciali tra i membri. Trump ha bollato l’iniziativa come un “TPP due”, facendo riferimento alla ben più ambiziosa Trans-Pacific Partnership che aveva bloccato durante il suo primo mandato, quindi anche questo progetto verrà probabilmente accantonato.

Il secondo passo sarebbe poi ridurre gli scambi attraverso l’imposizione di nuove tariffe e altri strumenti protezionistici. Il programma elettorale di Trump prevedeva l’imposizione di dazi generalizzati tra il 10 e il 20% per tutti, salendo al 60% per le merci cinesi. Misure del genere avrebbero effetti negativi non solo sui partner commerciali, ma anche sull’economia e i consumatori americani. I dazi trumpiani dovrebbero essere considerati forse come una minaccia eventuale, più che come una promessa concreta. Gli analisti parlano di ritorno del “transazionalismo” a Washington (e nella politica internazionale). Per scongiurare il rischio di essere colpiti dagli ordini esecutivi di Trump, i paesi terzi (e le aziende, anche americane, rispetto alle politiche interne) preferiscono fare concessioni preventive al presidente-imprenditore, evitando così di doverle fare a seguito di un braccio di ferro commerciale costoso per entrambe le parti. In altre parole, la minaccia delle tariffe può essere più efficace e veloce delle tariffe stesse per ottenere i successi promessi da Trump agli elettori. Anziché un aumento dei dazi generalizzati, la nuova amministrazione potrebbe utilizzare questo strumento in modo piu’ flessibile (e imprevedibile). Un indizio in questo senso proviene dall’esclusione di Robert Lighthizer, Rappresentante per il Commercio (USTR) internazionale del primo governo Trump e influente “teorico” dei dazi orizzontali, dal suo nuovo gabinetto. Lighthizer era stato per mesi uno dei favoriti per la nomina a Segretario del Tesoro o del Commercio, ma alla fine sono stati scelti due esponenti di Wall Street, rispettivamente Scott Bessent e Howard Lutnick. Il nuovo USTR sarà Jamieson Greer, ex capo dello staff di Lighthizer, con l’insolita novità che il suo ufficio verrà posto sotto la “diretta responsabilità” del Segretario del Commercio Lutnick. Tale organigramma ha in parte allarmato gli alleati più protezionistici di Trump e rasserenato gli ambienti finanziari statunitensi sul fatto che i dazi saranno utilizzati in modo opportunistico più che ideologico.

Tornando al Sud Est asiatico e allo scenario ipotetico di dazi tra 10 e 20%, gli export dall’Asia (Cina esclusa) verso gli USA calerebbero del 3%, mentre quelli di segno opposto dell’8%, considerando che i prodotti americani verrebbero probabilmente colpiti da tariffe di pari entità come rappresaglia e ne calerebbe la domanda. Anche i flussi di investimenti potrebbero cambiare: Trump favorirà le aziende che investono in America, quindi parte dei capitali americani potrebbe rimanere da quel lato del Pacifico, anziché finanziare lo sviluppo in ASEAN. Anzi, le aziende ASEAN potrebbero investire sul suolo americano in modo da mantenere l’accesso al mercato USA. Sarà inoltre necessario diversificare la provenienza degli investimenti, guardando a partner alternativi come l’UE e il Giappone. Le sfide poste da Trump potrebbero però essere accompagnate anche da delle opportunità per i paesi ASEAN, considerando che la Cina sarà colpita più duramente e le aziende potrebbero spostarsi da lì verso sud per evitare i dazi più severi. Tale fenomeno si era verificato già durante il primo mandato di Trump ed era accelerato con Biden, promotore di una politica di friendshoring, ossia di spostamento delle catene di approvvigionamento a favore dei paesi alleati. 

Il possibile decoupling tra USA e Cina non è però privo di rischi per l’ASEAN, i cui prodotti destinati verso gli Stati Uniti hanno spesso componentistica cinese e che fornisce a sua volta a Pechino materie prime e parti per i prodotti da esportare in America. Una riduzione di export cinesi potrebbe avere impatti anche sull’export ASEAN. Inoltre, la crescita dell’import da Vietnam, Tailandia e Malesia, quasi o più che raddoppiato tra 2017 e 2023, potrebbe però spingere Washington a voler “riequilibrare” la bilancia commerciale rispetto a questi paesi stavolta. Ad Hanoi c’è una certa preoccupazione, dato che il paese è diventato il terzo esportatore verso gli Stati Uniti (dopo Cina e Messico) e nel 2019 Trump lo aveva definito il “peggior approfittatore” del commercio internazionale. Forse per ingraziarselo, il Partito Comunista Vietnamita ha favorito un investimento da 1.5 miliardi di dollari della Trump Organization per l’apertura di un campo da golf poco distante da Hanoi. 

Le tensioni tra America e Cina avranno anche grande impatto sulla sicurezza della regione e le nomine di Mike Walz a Consigliere per la Sicurezza nazionale e Marco Rubio a Segretario di Stato hanno portato i “falchi” sulla Cina alla ribalta nella nuova amministrazione repubblicana. Anche in questo settore Trump potrebbe seguire una logica di do ut des, come dimostra il suo paragone tra la Corea del Sud e una money machine: secondo il nuovo presidente, Seoul potrebbe pagare 10 miliardi di dollari l’anno in cambio della presenza dei soldati statunitensi sul proprio territorio. Anche in questo caso, è bastata una dichiarazione suggestiva di Trump per portare il governo sudcoreano ad alzare dell’8.3% il suo contributo annuale alle spese militari americane, arrivando a 1.13 miliardi di dollari nel 2026. Tra i paesi ASEAN, sono soprattutto le Filippine ad essere esposte ai possibili cambi di marcia USA, dato che dal 2022, con Ferdinand Marcos Jr. e Joe Biden alla guida dei rispettivi paesi, la cooperazione nella difesa è stata molto approfondita. Un’altra preoccupazione è che Trump, desideroso di dimostrare l’art of the deal su cui ha costruito il suo personaggio, offra gli interessi dei partner come contropartite alla Cina per chiudere gli accordi che gli premono personalmente, magari rispetto al Mar Cinese Meridionale o Taiwan. Infine, è molto probabile che Washington tagli i fondi destinati alla cooperazione e allo sviluppo, portando a un peggioramento delle condizioni delle comunità locali che beneficiano dei progetti americani.

In conclusione, la diplomazia transazionale del deal making di Trump presenta dei forti rischi (e qualche opportunità) per i paesi ASEAN. Di sicuro segna un cambio di passo con la strategia di Biden nella regione, basata sulla cooperazione e il sostegno politico ed economico agli alleati in cambio di un loro impegno contro la Cina. Se Biden è stato talvolta criticato per aver “chiuso un occhio” sulle violazioni dei diritti umani e politici nei paesi alleati, questo tema probabilmente neppure si porrà con Trump. La nuova amministrazione cercherà comunque di spingere gli attori regionali a seguire le sue iniziative per contenere la Cina. Per molti governi ASEAN sarà più complicato, ma ancora più importante, mantenere la propria strategia di “equilibrismo”  tra Washington e Pechino, considerati entrambi partner strategici ed economici necessari, anche se in contrapposizione e talvolta ingombranti. Inoltre, non rinunciare al multilateralismo ASEAN potrebbe metterli al riparo dalle tattiche divide et impera delle grandi potenze. Partner alternativi come UE e Giappone potrebbero acquisire un’importanza maggiore. Infine, rimarrà da osservare l’impatto di Trump nelle competizioni elettorali di certi paesi, con un suo possibile effetto galvanizzante sui movimenti populisti nelle Filippine o in Indonesia.

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