La strategia della Malesia nel mercato dei chip

Kuala Lumpur ha presentato una nuova strategia nazionale per i semiconduttori con la quale intende acquisire un ruolo più strategico all’interno della catena di approvvigionamento globale

Di Alessia Caruso

Negli ultimi anni, il mercato dei semiconduttori è stato sottoposto a pressioni significative, che hanno spinto le aziende leader del settore a decentralizzare e diversificare le loro operazioni. Questo contesto ha stimolato un crescente interesse tra le nazioni del Sud-Est asiatico, che vedono nel decoupling un’opportunità per assumere un ruolo di primo piano in una delle catene produttive più strategiche e tecnologicamente avanzate del mondo.

Tra queste nazioni, la Malesia si distingue per la sua lunga esperienza nel settore. Già negli anni ’70, era sede di 14 aziende di semiconduttori, attirando investimenti da leader del settore come Intel e Infineon. Recentemente, il Paese ha deciso di rafforzare il suo ruolo competitivo. Il 28 maggio 2024, il Primo Ministro malese Anwar ha annunciato la Strategia Nazionale per i Semiconduttori (NSS), mirata ad espandere e riposizionare la Malesia nella catena produttiva globale dei microchip.

Il piano prevede di attrarre 107 miliardi di dollari in investimenti per l’industria nazionale dei semiconduttori, offrendo 5 miliardi di dollari in incentivi fiscali per gli investimenti esteri, creando 20 aziende locali per il design e il packaging avanzato di chip, e avviando un programma di formazione per 60.000 ingegneri malesi. Questa strategia intende rafforzare in modo strutturato e consistente il ruolo della Malesia nella catena di approvvigionamento globale, con una prospettiva di crescita annuale dell’11,41% entro il 2029.

Due elementi della strategia sono particolarmente degni di attenzione. Il primo riguarda il tentativo di riposizionamento lungo la catena di approvvigionamento. Attualmente, la Malesia rappresenta il 13% del mercato globale di test e packaging dei semiconduttori, fasi produttive che richiedono tecnologie non particolarmente avanzate e facilmente trasferibili. L’obiettivo del Primo Ministro malese è spostarsi verso fasi produttive più tecnologiche, occupando un ruolo più strategico. Il secondo elemento da attenzionare è il tentativo di posizionarsi come hub neutrale. In occasione del lancio della NSS, Anwar ha affermato che intende “offrire la nazione come il posto più neutrale e non allineato per la produzione di semiconduttori, contribuendo alla costruzione di una catena di approvvigionamento più sicura e resiliente”.

Quest’ultima considerazione è particolarmente rilevante se inserita nel contesto geopolitico attuale. Tre dinamiche principali hanno caratterizzato questo settore negli ultimi anni: le crescenti tensioni fra Stati Uniti e Cina, le tensioni fra Cina e Taiwan, e gli impatti della pandemia di COVID-19. La competizione tecnologica tra Stati Uniti e Cina ha portato a restrizioni commerciali e politiche protezionistiche. In seguito alle sanzioni imposte dagli Stati Uniti su alcune aziende cinesi, le imprese statunitensi sono state spinte a cercare alternative per le loro catene di approvvigionamento, aumentando così l’interesse verso i produttori di semiconduttori in altre regioni, inclusa la Malesia. In secondo luogo, le crescenti tensioni tra Cina e Taiwan hanno spinto le aziende globali a diversificare le loro fonti di semiconduttori. Taiwan è infatti un attore chiave nel mercato globale dei semiconduttori, con aziende come TSMC che dominano la produzione di chip avanzati. Infine, la pandemia ha evidenziato le vulnerabilità nelle catene di approvvigionamento globali, causando interruzioni significative nella produzione e nella distribuzione di chip. In risposta, molte aziende hanno cercato di ridurre la dipendenza da singoli punti di produzione, spostando parte della loro produzione in regioni con infrastrutture adeguate e politiche di supporto.

La strategia malese si inserisce in questo contesto. L’obiettivo è quello di cogliere le opportunità di attrarre capitali di aziende alla ricerca di un hub tecnologico stabile, lontano dalle tensioni regionali.

Tuttavia, le sfide che si pongono di fronte alla Strategia Nazionale per i Semiconduttori sono diverse. Molti paesi del Sud-Est asiatico hanno infatti riconosciuto le opportunità offerte dal mercato dei semiconduttori. Paesi come Vietnam, Cambogia e Thailandia stanno investendo in questo settore. Tuttavia, la Malesia ha una lunga storia nell’industria, che le dà un vantaggio competitivo significativo. Inoltre, nonostante rappresenti uno dei maggiori esportatori di chip verso gli Stati Uniti, nel 2023 il volume di export è diminuito del 20%. Contrariamente, essa rappresenta l’esportatore di chip più in rapida espansione in Cina, nonché il primo Paese ASEAN. Il rischio è che la Malesia possa rimanere intrappolata nelle dinamiche competitive dell’area, diventando un punto di riferimento solo per uno dei due contendenti. La Malesia ha anche una significativa carenza di capitale umano qualificato, che rappresenta una sfida significativa, soprattutto considerando che il mercato dei semiconduttori è caratterizzato da competenze altamente settoriali e a rapida obsolescenza. La NSS intende proprio affrontare questo problema.

In definitiva, il mercato dei semiconduttori malese oggi si trova di fronte a grandi opportunità che lo Stato intende sfruttare. Se riuscirà a gestire la competizione regionale e posizionarsi come un hub centrale e neutrale, la sua esperienza nell’industria, unita alla sensibilità del governo nel rafforzare le debolezze strutturali, potrà rendere la Malesia un grande hub mondiale per il mercato dei semiconduttori.

Italia-ASEAN: a Manila l’ottavo High Level Dialogue

Torna a novembre l’High Level Dialogue on ASEAN Italy Economic Relations, l’iniziativa che The European House – Ambrosetti e l’Associazione Italia ASEAN realizzano dal 2016

Di Lorenzo Tavazzi, The European House – Ambrosetti

Torna l’appuntamento di riferimento per le relazioni bilaterali tra l’Italia e i Paesi ASEAN: l’High Level Dialogue on ASEAN Italy Economic Relations, l’iniziativa che The European House – Ambrosetti e l’Associazione Italia ASEAN realizzano dal 2016 e che quest’anno giunge all’ottava edizione.

Ogni anno l’High Level Dialogue viene ospitato da un Paese ASEAN: quest’anno si svolgerà a Manila, nelle Filippine, presso il Dusit Thani Hotel, martedì 5 e mercoledì 6 novembre 2024, con il supporto del Governo filippino, attraverso il Ministero del Commercio e dell’Industria (DTI), come co-organizzatore dell’evento.

Il Dialogo, sin dalla prima edizione del 2017 in Indonesia, e nelle successive a Singapore, in Vietnam, in Malesia e in Thailandia, insieme alle due edizioni digitali nel 2020 e 2021, ha riunito oltre 3.500 Presidenti, Amministratori Delegati e leader di Governo e istituzionali dei Paesi ASEAN e dell’Italia. Solo l’edizione 2023, tenutasi a Bangkok, ha visto la partecipazione di oltre 450 delegati di alto profilo.

Quest’anno il Dialogo affronterà una serie di temi prioritari per lo sviluppo delle relazioni Italia-ASEAN con un carattere duplice nelle opportunità di partnership tra le imprese italiane e le controparti del Sud Est Asiatico. Tra questi: la filiera delle materie prime critiche per i settori strategici del futuro, l’intelligenza artificiale e l’innovazione digitale, il ruolo della blue economy per la cooperazione economica, l’evoluzione dell’industria creativa, le opportunità di collaborazioni tecnologiche e industriali in ambito spazio, difesa e produzione high-tech, finanziamenti e servizi a sostegno dello sviluppo di imprese e infrastrutture sostenibili. 

In questo quadro verranno anche approfondite le specificità e le opportunità offerte dalle Filippine con cui nel 2022 l’Italia ha celebrato i 75 anni delle relazioni bilaterali.

La partecipazione all’High Level Dialogue è gratuita e solo su invito. 

Per registrarsi all’evento: Registrazione

Per avere maggiori informazioni sulle edizioni precedenti dell’evento: Sito web dell’High Level Dialogue

Filippine, frizioni nell’alleanza tra Marcos e Duterte

Le dimissioni dalla Vicepresidente Sara Duterte dal ruolo di Segretaria all’Educazione rilancia la sfida politica tra le due famiglie della politica di Manila

Di Francesco Mattogno

Mentre il mondo guardava al mar Cinese meridionale, la scorsa settimana nella politica filippina è successa una cosa importante: Sara Duterte si è dimessa da segretaria all’Educazione, lasciando così il governo del presidente Ferdinand Marcos Jr. Duterte è la vicepresidente del paese, nonché figlia di Rodrigo Duterte, predecessore di Marcos. Le dinastie politiche nelle Filippine (così come in tutto il Sud-Est asiatico) sono una cosa seria, e quelle dei Marcos e dei Duterte sono due delle famiglie più importanti dello stato. La prima radicata nella provincia di Ilocos Norte, a nord, la seconda a Davao, nel sud.

Sara Duterte e Marcos si sono alleati in vista delle elezioni del maggio 2022 all’interno del cosiddetto “Uniteam”, sostenendosi a vicenda alla ricerca rispettivamente della vicepresidenza e della presidenza del paese. Va precisato che al contrario di quanto accade in altri luoghi, come a Taiwan o negli Stati Uniti, nelle Filippine i candidati presidente e vicepresidente non corrono formalmente insieme. Si tengono due elezioni separate e questo comporta, come è successo più volte nel corso della storia, che un vicepresidente possa anche non far parte della coalizione del presidente. A Marcos e Duterte è andata bene, almeno sulla carta: erano alleati e ognuno ha vinto la sua corsa.

L’elezione di entrambi avrebbe dovuto spianare la strada verso un governo unito, solido, ma fin dal principio si è capito che non sarebbe andata così. I primi scricchiolii nel rapporto tra i due sono arrivati già al momento della nomina della squadra di governo. Duterte voleva il delicato posto di segretaria alla Difesa, ma Marcos le ha concesso solo quello di segretaria all’Educazione. Un ruolo meno rilevante sul piano del potere politico e per cui, tra l’altro, la vicepresidente non era minimamente qualificata.

A maggio del 2023 Duterte ha poi lasciato il Lakas-CMD, il partito guidato dal presidente della camera e cugino di Marcos, Martin Romualdez. La decisione è arrivata a seguito del demansionamento di una delle principali alleate di Duterte (l’ex presidente Gloria Macapagal-Arroyo), e ha rappresentato solo il primo atto della faida con Romualdez. Qualche mese dopo, a seguito di un’indagine parlamentare, lo speaker della camera ha bloccato lo stanziamento dei “fondi riservati” da destinare al dipartimento dell’Educazione, contestando a Duterte il fatto di aver speso 125 milioni di pesos (circa 2 milioni di euro) solamente nei primi 11 giorni del suo mandato. Una cifra imponente e ritenuta ingiustificata.

Con l’arrivo del 2024 i rapporti si sono definitivamente sfaldati. Duterte non ha mai commentato, se non sminuendoli, gli attacchi di suo fratello Sebastian e di suo padre Rodrigo contro Marcos (accusato persino di essere un «tossicodipendente»). Le parti si sono scontrate su varie altre questioni e infine Duterte, dopo aver dichiarato morto l’Uniteam, il 19 giugno si è dimessa sia da segretaria all’Educazione, sia da vicepresidente della task force per il contrasto al conflitto armato di matrice comunista.

Le sue dimissioni sono state accolte positivamente dalle associazioni degli insegnanti, che da due anni lamentavano la totale impreparazione di Duterte. La vicepresidente è stata anche accusata di non aver mai preso in considerazione le richieste dei lavoratori del settore e di aver silenziato i critici con la pratica del “red-tagging” (di cui abbiamo parlato qui). Nonostante questo, secondo un sondaggio di dicembre del 2023 il 57% dei filippini si è detto soddisfatto del suo lavoro di governo. Duterte è un personaggio popolare, con alle spalle una famiglia forte e decine di alleati, sia in politica che nell’esercito. La sua aperta opposizione a Marcos apre a una serie di scenari che potrebbero cambiare radicalmente il futuro del paese.

Come sottolineato da John Ney su Rappler, Duterte ora punterà tutto sulle elezioni del 2028 (alle quali Marcos non si potrà ricandidare, visto il limite di un mandato). Le dimissioni l’hanno liberata dalle responsabilità di governo e questo la aiuterà a far dimenticare ai filippini la sua pessima gestione del settore dell’Educazione, permettendole inoltre di criticare liberamente le politiche di Marcos, specialmente su mar Cinese meridionale e lotta al comunismo (Duterte è contraria ai colloqui di pace con i ribelli).

Se è vero che uscire allo scoperto così presto rappresenta un rischio, si tratta però di un rischio calcolato, almeno in teoria. Duterte si è dimessa a cento giorni dal termine ultimo per la presentazione delle candidature alle elezioni di metà mandato del 2025, che le serviranno per testare il terreno in vista del 2028.

Ci si aspetta un grande riallineamento dei partiti politici del paese, con possibili numerose defezioni dallo schieramento di Marcos, la cui popolarità è in calo dall’anno scorso. C’è già chi parla di Duterte come leader dell’opposizione, anche se il principale partito di minoranza, il Partito Liberale, ha detto chiaramente che i valori della famiglia regina di Davao non corrispondono a quelli di chi contesta l’operato dell’attuale governo. Per ora, comunque, non c’è stato il grande shock politico che ci si poteva attendere. La rottura tra il presidente e la sua vice era nell’aria da tempo e il chiaro intento politico delle sue dimissioni non ha contribuito a scaldare gli animi dei suoi sostenitori.

Quello dello scorso 19 giugno resta però uno sviluppo molto importante. Intanto per il fronte dell’opposizione, che potrebbe sfruttare la spartizione dei voti tra Marcos e Duterte per ottenere più seggi già nel 2025 e rafforzare la propria posizione in vista del 2028. Poi per quelle che potranno essere le conseguenze in politica estera, in particolare nel mar Cinese meridionale. Duterte condivide la posizione più dialogante con la Cina di suo padre ed è probabile che, se eletta, possa indebolire i legami di Difesa con gli Stati Uniti, che Marcos ha invece portato ai massimi storici.

Thailandia e Malesia verso l’ingresso nei BRICS

Pubblichiamo qui un estratto di un articolo a firma di Maria Siow pubblicato sul South China Morning Post

La prospettiva che i Paesi del Sud-Est asiatico entrino a far parte dei BRICS ha suscitato un acceso dibattito tra gli analisti: i sostenitori sostengono che l’adesione potrebbe sbloccare lucrose opportunità commerciali e geopolitiche, mentre gli scettici avvertono che rischia di trascinare i Paesi nell’orbita di Cina e Russia e di erodere ulteriormente l’unità regionale. Thailandia e Malesia hanno annunciato nelle scorse settimane che chiederanno l’adesione alla piattaforma, seguendo le orme di Laos e Myanmar, che hanno dichiarato il loro interesse lo scorso anno. Contrariamente ai timori che l’adesione ai BRICS possa erodere l’unità e la centralità dell’ASEAN, diversi analisti asiatici ritengono che l’Associazione abbia la flessibilità e la capacità di resistenza necessarie per mantenere la sua importanza per gli Stati membri. Molti membri dell’ASEAN appartengono anche ad altre organizzazioni come l’Organizzazione della cooperazione islamica, l’Associazione dell’Oceano Indiano e il forum della Cooperazione economica Asia-Pacifico. Altre istituzioni multilaterali a cui i membri dell’Asean appartengono già sono la Banca asiatica di sviluppo, la Banca mondiale, il Fondo monetario internazionale e la Banca asiatica d’investimento per le infrastrutture. “L’adesione ai BRICS darà accesso a una nuova fonte di finanziamento per le numerose esigenze di sviluppo dei Paesi della regione del Sud-Est asiatico”, ha dichiarato Jayant Menon, senior fellow dell’ISEAS-Yusof Ishak Institute di Singapore, riferendosi alla Nuova Banca di Sviluppo istituita nel 2015 dai Paesi BRICS. Anche l’Indonesia e il Vietnam hanno dichiarato che stanno valutando i vantaggi dell’adesione ai BRICS. L’adesione al gruppo delle economie emergenti potrebbe fornire un migliore accesso a mercati lucrativi, un aumento degli investimenti stranieri e opportunità di collaborazione per progetti infrastrutturali. L’adesione ai BRICS può essere vista anche come una mossa strategica per diversificare i partenariati economici e ridurre la dipendenza dalle istituzioni finanziarie guidate dall’Occidente. La mossa, se gestita in modo efficace, potrebbe rafforzare la voce e l’influenza del Sud-Est asiatico negli affari globali. L’Indonesia punta ad aderire anche all’OCSE entro tre anni, come ha ribadito il ministro dell’Economia coordinatore del Paese a maggio, dopo la visita a Giacarta del segretario generale dell’organizzazione, che ha incontrato il Presidente Joko Widodo. Secondo le proiezioni dell’OCSE, il prodotto interno lordo dell’Indonesia raggiungerà i 10.500 miliardi di dollari entro il 2050, diventando una delle maggiori economie insieme a Cina, Stati Uniti e India.

L’ambiziosa missione di VinFast

La prima casa automobilistica interamente vietnamita ha grandi progetti per il futuro. La competizione è forte e gli ostacoli da superare sono molti, ma l’azienda è stata inserita da TIME tra le più influenti al mondo

di Francesco Mattogno

Il circuito di Hanoi se lo ricordano in pochi anche tra gli appassionati di Formula 1. Non per le caratteristiche della pista, dal layout comunque discutibile, ma perché il Gran Premio del Vietnam è esistito solo sulla carta, o nel mondo virtuale. La gara, che avrebbe dovuto debuttare nel 2020, è stata prima rinviata di un anno a causa della pandemia da Covid e infine rimossa definitivamente dal calendario di Formula 1, nonostante un contratto di dieci anni firmato nel 2018 (decisione su cui ha pesato anche la campagna anti-corruzione che ha colpito alcuni degli organizzatori dell’evento). Oggi chi vuole può “correre” nel circuito di Hanoi solo sul videogioco di Formula 1 2020, nel quale era stato inserito preventivamente. 

Sarebbe stato il secondo Gran Premio della categoria nel Sud-Est asiatico (dopo quello di Singapore), ma anche la prima grande vetrina per VinFast, casa automobilistica vietnamita parte del conglomerato Vingroup. L’annuncio in pompa magna e la successiva cancellazione della gara, a cui Vingroup avrebbe fatto da sponsor principale, si inseriscono perfettamente nel percorso di alti e bassi che ha caratterizzato fin qui la breve storia di VinFast. L’azienda è nata nel 2017 per volontà di Pham Nhat Vuong, presidente, maggiore azionista e fondatore nel 2002 anche della stessa Vingroup, divenuta nel giro di vent’anni la più grande società privata vietnamita grazie alle attività delle sue sussidiarie, operative soprattutto nel settore immobiliare, tecnologico e dei servizi. 

La grande crescita di Vingroup ha reso Vuong il primo miliardario della storia del Vietnam e di conseguenza uno dei personaggi pubblici più in vista del paese, che si ritiene inoltre essere molto vicino alla leadership del Partito Comunista al potere. Una posizione di forza che ha spinto Vuong a investire in un settore ipercompetitivo come quello automobilistico, con l’idea di rendere VinFast un marchio specializzato nella produzione di veicoli elettrici. E facendone anche una questione di orgoglio nazionale.

Il piano di Vingroup era fare di VinFast la prima casa automobilistica interamente vietnamita, visto che l’altro importante marchio del settore, la Truong Hai Auto Corporation (THACO), realizza veicoli per conto di grandi aziende straniere come BMW, Hyundai e Kia. Non a caso, la cerimonia di inaugurazione dell’impianto di produzione di Haiphong, ancora oggi unica fabbrica di VinFast in Vietnam, è stata organizzata il 2 settembre 2017, nel 72° anniversario della dichiarazione di indipendenza dalla Francia pronunciata da Ho Chi Minh nel 1945.

VinFast ha iniziato a spedire le sue prime auto in Vietnam a giugno del 2019, due anni dopo la sua fondazione, ma è entrata nel mercato dei veicoli elettrici solo a partire dal 2022 (in un primo momento produceva soprattutto automobili con motori a combustione). Il 2022 è anche l’anno in cui Vuong ha dato il via al piano di espansione internazionale dell’azienda, che ha cominciato a puntare totalmente sull’elettrico. Vingroup ha prima firmato un accordo preliminare da due miliardi di dollari con la contea statunitense di Chatham (North Carolina) per la costruzione della prima fabbrica di VinFast all’estero, poi si è accordata con Intel per sviluppare congiuntamente le tecnologie per la guida autonoma dei veicoli. 

Sempre nel 2022 un’altra sussidiaria del conglomerato, la VinES Energy Solution, ha avviato la costruzione di una fabbrica di batterie per auto elettriche insieme alla cinese Gotion High-Tech, nella provincia vietnamita di Ha Tinh. La VinES si è poi fusa con VinFast l’anno successivo. I grandi investimenti di Vingroup hanno posto le basi per la quotazione in borsa di VinFast negli Stati Uniti, al Nasdaq, ma nascondevano anche una certa frenesia da parte del gruppo per rendere l’azienda davvero competitiva nel settore dell’elettrico. 

Nel 2023 l’azienda ha venduto 34.855 auto elettriche, un dato molto superiore a quello del 2022 (7.400) ma comunque inferiore all’obiettivo di 50 mila consegne prefissato dalla la società, che proprio lo scorso anno ha iniziato a spedire auto, scooter e autobus elettrici anche fuori dal Vietnam. Al di là delle perdite nette, che nel 2023 hanno raggiunto i 2,39 miliardi di dollari (+14,7% rispetto al 2022), a preoccupare sono soprattutto i dettagli. Se è vero che VinFast ha consegnato circa 35 mila veicoli nel 2023, più del 72% di questi sono stati “venduti” alla Green and Smart Mobility (GSM), una società di taxi sussidiaria proprio di Vingroup. 

Nei primi giorni la capitalizzazione di VinFast è stata la terza più alta tra i marchi mondiali di auto, dietro solo a Tesla e Toyota, ma col passare del tempo il valore delle azioni della casa vietnamita è crollato di oltre il 95% rispetto al suo picco iniziale. Gli analisti hanno parlato di «titolo meme», gonfiato dal grande interesse suscitato nei suoi confronti dai media internazionali e dai social. D’altronde ancora oggi il marchio, nonostante le tante recensioni negative sui suoi prodotti, gode di buona stampa: ad esempio il TIME ha inserito VinFast nella lista delle 100 aziende più influenti del 2024. 

Negli ultimi mesi la casa vietnamita si è trovata costretta a ritirare centinaia di auto già consegnate a causa di problemi di sicurezza (come airbag fallati) o della scarsa qualità dei componenti, oltre che ad affrontare varie controversie legali. Negli Stati Uniti è stata avviata un’indagine per accertare la causa della morte di quattro persone, tra cui due bambini, dovuta allo schianto contro un albero del VF 8 su cui viaggiavano. La macchina, che ha anche preso fuoco, potrebbe aver avuto problemi al suo sistema di guida autonoma. VinFast è stata poi denunciata da AncelorMittal per il furto di proprietà intellettuale riguardo alcune componenti in acciaio utilizzate nei suoi veicoli, mentre ad aprile diversi investitori hanno querelato la società, accusandola di aver gonfiato artificialmente il valore delle sue azioni al Nasdaq.

Vista la situazione complicata, a gennaio Vuong ha preso le redini del progetto auto-nominandosi amministratore delegato dell’azienda, e diventando così il quarto CEO di VinFast negli ultimi tre anni. Nonostante i tanti intoppi, che avrebbero potuto suggerire un ridimensionamento di VinFast, Vingroup sembra invece intenzionata ad aumentare progressivamente obiettivi e investimenti. La casa ha dichiarato di voler arrivare a vendere 100 mila veicoli elettrici nel 2024, fissando poi una soglia di 750 mila consegne annuali entro il 2026.

Per farlo, oltre a grandi iniezioni di liquidità (dal 2017 Vingroup e Vuong hanno investito in VinFast più di 11 miliardi di dollari), l’azienda ha detto di volersi espandere in almeno 50 mercati internazionali entro la fine dell’anno. In pochi mesi VinFast ha aperto vari uffici in Europa e stretto accordi per la vendita delle sue auto in Ghana, Thailandia, Micronesia e nelle Filippine, mentre sta potenziando la sua infrastruttura di stazioni di ricarica e progettando la costruzione di altri due impianti di produzione, in India e Indonesia, che si andrebbero ad aggiungere a quello negli Stati Uniti. 

«VinFast sta entrando in un mercato altamente competitivo come quello dei veicoli elettrici, contro marchi storici consolidati e nel bel mezzo di una guerra dei prezzi», ha dichiarato l’analista Chris Robinson al Nikkei. E proprio questo potrebbe essere il suo più grande ostacolo. 

Amici di tutti, arruolati da nessuno

La recente visita di Vladimir Putin non è stata per il Vietnam una scelta, ma una necessità per la sua linea diplomatica

Editoriale a cura di Lorenzo Lamperti

In Occidente c’è spesso una visione “esclusiva” dei rapporti diplomatici. Quasi come se mantenere o perseguire migliori relazioni con l’uno o l’altro relazioni significasse fare una scelta di campo. Una visione da bianco e nero che non aiuta a capire la prospettiva di molti Paesi emergenti, il cosiddetto “Sud globale”. E in particolare del Sud-Est asiatico, regione che è la cartina di tornasole del desiderio di multipolarità e multilateralismo. Un desiderio radicato nel profondo dell’approccio dell’ASEAN e che si riflette, pur mantenendo diversi tratti e specificità, nei suoi Stati membri. Chi forse più di tutti incarna questa postura è il Vietnam, con la sua “diplomazia del bambù”. L’idea alla base: essere amici di tutti, nemici di nessuno. Proprio come i bambù, il Vietnam crede che con questo approccio possa crescere in modo flessibile ma saldo. Una convinzione che si è fin qui rivelata corretta. Hanoi è riuscita a mantenere stretti legami politico-difensivi con la Russia ed economici con la Cina. Ma ha anche perseguito con successo un percorso di approfondimento delle relazioni con gli altri vicini asiatici e con l’Occidente. Nel corso di pochi anni, il Vietnam ha elevato le relazioni bilaterali con Giappone, Corea del Sud, Australia e Filippine. Ma ha anche sottoscritto due importanti accordi di libero scambio con Unione Europea e Regno Unito. Non solo. Durante la sua presidenza di turno dell’ASEAN è stato siglato anche il RCEP, accordo commerciale che riunisce gran parte dei Paesi dell’Asia-Pacifico. Quando, lo scorso settembre, Joe Biden è stato protagonista di una storica visita nella capitale vietnamita, Hanoi ha anche portato al massimo livello la partnership col suo vecchio rivale. Approfondendo ulteriormente le già floride relazioni commerciali: il Vietnam è sempre di più epicentro regionale di investimenti e hub produttivo globale. Un processo che negli ultimi tempi coinvolge con sempre maggiore convinzione i grandi colossi internazionali della tecnologia. Tutto questo, però, non significa che Hanoi abbia fatto o voglia fare una scelta di campo. La visita del Presidente americano non preludeva a un “arruolamento” del Vietnam in ottica anti russa o anti cinese, come forse pensava qualcuno viste le critiche per il recente viaggio di Vladimir Putin nel Paese. Per il Vietnam, ricevere il Presidente russo non è stata una scelta, ma una necessità per continuare a tutelare le sue relazioni internazionali, fornendo qualche rassicurazione allo storico partner dopo i due passi in direzione di Washington. I rapporti con Mosca non hanno peraltro impedito al governo vietnamita di mostrare vicinanza anche all’Ucraina. Negli ultimi due anni, il Premier ha incontrato due volte il Presidente ucraino Volodymyr Zelensky e Hanoi ha anche inviato degli aiuti umanitari a Kiev. Il tutto provando come sempre a favorire il dialogo e la risoluzione politica del conflitto. 

Tra le pieghe del Funan Techo

Tutto quello che c’è da sapere sul canale in fase di costruzione in Cambogia. Un’infrastruttura chiave anche a livello commerciale

Di Francesco Mattogno

Da un paio di mesi in Cambogia, Vietnam e un po’ in tutti gli stati attraversati dal fiume Mekong si parla molto di un canale che ancora non esiste, se non sulla carta. Ufficialmente si chiama Tonle Bassac Navigation Road and Logistics System Project, ma per tutti è semplicemente il “Funan Techo”. Nelle intenzioni del governo cambogiano il canale collegherà il porto sul fiume Mekong della capitale Phnom Penh a quello di Kampot, città che affaccia sul Golfo della Thailandia (o Golfo del Siam), e quindi sul mare.

Il Funan Techo sarà profondo 5,4 metri, largo 100, lungo 180 km, sarà composto da due corsie e la sua costruzione verrà interamente finanziata dalla Cina. Pechino investirà 1,7 miliardi di dollari sul progetto, affidato all’azienda statale China Road and Bridge Corporation (CRBC). Una sussidiaria della CRBC, la China Harbour Engineering, ha inoltre stretto un accordo con un costruttore locale per contribuire alla realizzazione del porto di Kampot (dal costo stimato di 1,5 miliardi di dollari), proprio dove sfocerà il Funan Techo. I lavori per la costruzione del canale dovrebbero partire entro la fine del 2024 e durare al massimo quattro anni, dice Phnom Penh.

La forte presenza cinese all’interno del progetto è solo una delle ragioni per cui se ne sta discutendo molto. Il Funan Techo è stato pensato per ridurre la dipendenza logistica della Cambogia dal Vietnam, attraverso cui sono obbligate a passare tutte le merci cambogiane trasportate via nave sul Mekong destinate al commercio internazionale. È una questione geografica: il fiume, uno dei più grandi e importanti al mondo, scorre lungo tutta la Cambogia ma prima di sfociare in mare attraversa per oltre un centinaio di km il territorio vietnamita.

Questa condizione conferisce al Vietnam una certa leva politica ed economica sulla Cambogia, le cui aziende sono costrette a sostenere costi di trasporto elevati (con conseguenze sulla competitività delle proprie esportazioni) e a convivere con il rischio perenne di un blocco navale. È già successo trent’anni fa, nel 1994, quando in un momento di forte tensione tra i due paesi Hanoi decise di fermare per mesi la navigazione delle imbarcazioni cambogiane lungo il tratto vietnamita del Mekong. Oggi i rapporti tra Cambogia e Vietnam sono buoni ma, nonostante nel 2009 i due vicini abbiano anche firmato un trattato per la libertà di navigazione sul fiume, Phnom Penh non ha mai smesso di cercare un’alternativa. Ed eccola qui.

Non è solo una questione di sicurezza economica. Il Funan Techo è anche un veicolo per fomentare il nazionalismo e legittimare il nuovo corso del primo ministro Hun Manet, che ad agosto ha sostituito suo padre Hun Sen, rimasto al potere per 38 anni. Lo dimostra lo stesso nome dato al canale. “Funan” richiama l’antico Regno del Funan (nato nei primi secoli dopo Cristo) che si ritiene essere precursore dell’Impero Khmer, mentre “Techo” è un termine che fa parte del titolo onorifico di Hun Sen. Secondo l’analista cambogiano Chhengpor Aun, con la costruzione del canale Phnom Penh cercherà di risanare a livello simbolico la perdita del Delta del Mekong, che la Francia ha formalmente consegnato al Vietnam nel 1949, durante il suo dominio coloniale.

Da settimane il governo cambogiano continua a elencare i benefici derivanti dalla costruzione del canale, che «faciliterà l’irrigazione dei terreni» e comporterà la creazione di «10 mila posti di lavoro». Secondo le stime di Phnom Penh i costi per il trasporto navale delle merci si ridurranno del 30%, e le spedizioni risulteranno più agili e veloci. È però presto per dire quanto queste proiezioni troveranno riscontro nella realtà. Come hanno fatto notare diversi esperti, per esempio, la profondità del canale non permetterà il trasporto di carichi troppo pesanti, e questo significa che molti prodotti dovranno ugualmente passare per il Vietnam (che comunque si è subito lamentato del progetto). 

Al di là delle questioni economiche, su quanto convenga o meno alla Cambogia costruirlo, il Funan Techo presenta questioni ambientali. Il timore è che il canale, con i suoi argini molto alti, possa ostacolare le inondazioni naturali delle pianure che circondano il Mekong (fondamentali per il settore agricolo), alterare i flussi d’acqua degli altri affluenti e aumentare la salinità dei terreni. Phnom Penh si è impegnata a eseguire tutte le valutazioni di impatto ambientale del caso con «48 esperti internazionali».

Passo storico: la Thailandia legalizza il matrimonio egualitario

Momento da ricordare per Bangkok, che approva la norma che legalizza le nozze tra persone dello stesso sesso

Di Alice Freguglia

Il 18 giugno 2024 sventolano le bandiere arcobaleno in Thailandia, diventato il primo Paese del Sud-Est asiatico pronto a legalizzare il matrimonio tra persone dello stesso sesso. Un decisivo passo in avanti per i diritti LGBTQ+, mosso da forti ideali di uguaglianza ed inclusione, promossi dal Partito Pheu Thai e dallo stesso Primo Ministro Srettha Thavisin. 130 su 134, infatti, sono stati i voti favorevoli enunciati dal Senato, per i quali, ora, la legge attenderà il consenso pronunciato dal Re Maha Vajiralongkorn, considerato, però, una mera formalità. 

Sebbene la Thailandia sia celebre per la vibrante cultura LGBTQ+ e la tolleranza generale, gli attivisti hanno a lungo criticato le attitudini conservative e il quadro giuridico del Paese, soprattutto in merito al riconoscimento delle persone transgender e non binarie, alle quali viene ancora impedito di cambiare il proprio genere sui documenti identificativi. Negli ultimi dieci anni, infatti, diversi sono stati i tentativi da parte del Governo di legalizzare le unioni tra persone dello stesso sesso, sintetizzati nelle ultime elezioni presidenziali del 2023 con la vittoria del Partito Pheu Thai, il quale propose la legalizzazione dei matrimoni egualitari nel proprio programma elettorale, ottenendo il consenso soprattutto degli elettri più giovani.

La legislazione recentemente approvata ridefinisce il matrimonio come un’unione tra due individui, eliminando i termini specifici di genere come “uomini”, “donne”, “mariti” e “mogli” a favore di un linguaggio neutrale rispetto al genere. In seguito a ciò, questo cambiamento conferisce alle coppie LGBTQ+ gli stessi diritti legali delle coppie eterosessuali, compresi i diritti di eredità e di adozione.  Lo stesso Plaifah Kyoka Shodladd, membro del Comitato Parlamentare sul matrimonio tra persone dello stesso sesso, ha espresso orgoglio per il risultato ottenuto, sottolineando che “l’amore ha trionfato sul pregiudizio” dopo decenni di lotta.

In seguito ai recenti sviluppi, la Thailandia si unisce a Nepal e Taiwan in qualità delle uniche giurisdizioni in Asia ad aver legalizzato i matrimoni tra persone dello stesso tempo. Nello specifico, in quella parte del mondo in cui i diritti nei riguardi delle persone LGBTQ+ sono spesso repressi, quale il Sud-est asiatico, la Thailandia rappresenta una fonte di cambiamento e inclusività. In Myanmar e Brunei, infatti, le relazioni tra persone dello stesso sesso sono tutt’oggi considerate un crimine perseguibile, mentre in Indonesia e Malesia sono ricorrenti discriminazioni e ostilità. Chanatip Tatiyakaroonwong, ricercatore di Amnesty International in Thailandia, l’ha descritta come un passo storico e una ricompensa per gli sforzi instancabili degli attivisti, delle organizzazioni della società civile e dei legislatori favorevoli. 

La nuova legge promette di trasformare la vita di innumerevoli coppie e di promuovere una società più giusta ed equa. Mentre la Thailandia celebra questo traguardo, stabilisce anche un precedente che potrebbe influenzare positivamente il cambiamento in tutta la regione, dimostrando che l’uguaglianza e l’amore possono davvero trionfare sul pregiudizio e la discriminazione.

Modi vuole avvicinare India e ASEAN

Tra gli obiettivi del terzo mandato del Premier indiano c’è quello di rafforzare i rapporti col Sud-Est asiatico

Il terzo mandato da Primo Ministro di Narendra Modi può avvicinare India e ASEAN? Se lo chiede un commento di Syed Munir Khasru, pubblicato sul South China Morning Post. La politica indiana “Act East” è pronta per una ricalibrazione. L’impegno economico e strategico di Nuova Delhi con il Sud-Est asiatico ha registrato un’impennata durante i suoi primi due mandati, anche se con alcune carenze che richiedono una correzione di rotta. Modi potrebbe ora dare nuovo vigore a questa politica estera chiave, mentre l’India cerca di stabilire una presenza più forte nell’Indo-Pacifico. Sul fronte economico, i legami commerciali e d’investimento con i Paesi del Sud-Est asiatico hanno ricevuto un notevole impulso, con un’impennata del commercio bilaterale annuale da circa 80 miliardi di dollari nel 2014 a oltre 110 miliardi di dollari entro il 2021-22. Tuttavia, l’accordo commerciale esistente con l’Associazione delle Nazioni del Sud-Est Asiatico – l’Area di Libero Scambio Asean-India – è visto come fortemente favorevole alla parte Asean, frustrando l’India. Le esportazioni indiane verso il Sud-Est asiatico hanno registrato un moderato aumento nell’anno finanziario 2023, passando a 44 miliardi di dollari dai 42,3 miliardi dell’anno precedente. Nel frattempo, le importazioni dai Paesi dell’ASEAN sono aumentate a un ritmo più sostenuto, passando da 68 a 87,6 miliardi di dollari, con un conseguente sostanziale deficit commerciale di 43,6 miliardi di dollari per l’India. La necessità di affrontare lo squilibrio commerciale è ancora più urgente se si considera che nel 2011 il deficit commerciale era di soli 5 miliardi di dollari. Ma il governo di Modi non ha colto tutte le opportunità di avvicinamento economico ai Paesi dell’ASEAN a causa della riluttanza a intraprendere riforme di mercato e a liberalizzare le tariffe. Sul fronte strategico, gli sforzi dell’India nell’ambito della politica Act East hanno contribuito a far entrare sette membri dell’Asean nell’Indo-Pacific Economic Framework, un’iniziativa volta a rafforzare la cooperazione economica tra le due regioni. La partecipazione a queste strategie indo-pacifiche complementari consente un maggiore coordinamento dei rispettivi interessi in questa regione strategicamente vitale. Le iniziative che riguardano la connettività, come il progetto di trasporto multimodale Kaladan da 484 milioni di dollari che collega l’India al Myanmar e l’autostrada trilaterale India-Myanmar-Thailandia, sono esempi di ciò che la collaborazione tra ASEAN e India può raggiungere in questo settore.

Armi nucleari in Asia: l’approccio dell’ASEAN

I Paesi del Sud-Est asiatico sono quelli maggiormente attivi e volenterosi a evitare la proliferazione delle armi nucleari nella regione

Di Francesca Leva

A un discorso tenuto alle Nazioni Unite lo scorso marzo, il Segretario Generale Antonio Guterres ha dichiarato che il rischio di una guerra nucleare è al punto più alto dopo decenni e che le armi nucleari stanno crescendo in potenza, gittata ed in modo sempre meno rilevabile. Antonio Guterres ha inoltre aggiunto che “un lancio accidentale è a un solo errore, una sola valutazione errata, un solo atto impulsivo di distanza”.

L’Asia non rappresenta un’eccezione: nell’area le armi nucleari hanno infatti avuto un profondo impatto sulla salute pubblica e sull’ambiente, portando all’evacuazione e allo spostamento di persone e impattando negativamente su sviluppo, educazione, preservazione della cultura e delle tradizioni locali e sulla stabilità economica.

Le armi nucleari arrivarono in Asia nel 1945 con gli eventi tragici a Hiroshima e a Nagasaki. Qualche anno dopo, l’URSS annunciò i suoi programmi per lo sviluppo di armi nucleari: durante la Guerra Fredda, dal 1950 al 1990, il termine MAD – “Mutual Assured Destruction” – venne coniato per descrivere la fase di armamento nucleare in Stati Uniti e in URSS. Avendo riconosciuto la necessità di uno sviluppo pacifico e controllato del nucleare, nel 1957 le Nazioni Unite fondarono l’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica. Nel 1968 adottarono inoltre il Trattato di Non Proliferazione Nucleare (TNP), stando al quale solo le cinque potenze nucleari dell’epoca – Stati Uniti, Cina, Russia, Regno Unito e Francia – potevano possedere armi nucleari, al contempo impegnandosi a ridurre il proprio arsenale e ad applicare la tecnologia nucleare a scopi pacifici. Tuttavia, plurimi Paesi non firmatari del Trattato cominciarono a sviluppare il proprio arsenale indipendentemente: tra questi India, Pakistan e Israele. Nel 1988 l’India detonò infatti tre bombe vicino al confine con il Pakistan, azione che fu immediatamente seguita dai test nucleari condotti da Islamabad.

Una pattern osservabile è quello per il quale quando un Paese sviluppa delle armi nucleari i suoi vicini inizieranno a sviluppare il proprio arsenale per proteggere i propri confini e per pregio nazionale. Questa dinamica rappresenta un pericolo concreto e attuale in Asia dove Cina, Pakistan, India. Corea del Nord e Federazione Russa sono tutti Paesi dotati di arsenali nucleari.

Una delle aree più soggette a questa dinamica è il cosiddetto “triangolo nucleare”, costituito da Cina, India e Pakistan. In questo caso il rischio è accentuato da competizione regionale, situazioni domestiche instabili e rapidi sviluppi tech. Lo sviluppo della deterrenza nucleare ad ampio spettro adottata dal Pakistan ha infatti portato l’India a sviluppare preventivamente il proprio arsenale. Questo meccanismo è accentuato dalla competizione tra Stati Uniti e Cina: mentre Pechino tenta di sviluppare le proprie testate in risposta agli Stati Uniti, l’India è a sua volta incentivata a massimizzare il proprio arsenale, allontanandosi dalla sua tradizionale politica del “no first use”. La situazione interna in evoluzione del Pakistan, così come l’incremento della competizione tra Islamabad e Nuova Delhi, aumentano ulteriormente il rischio di utilizzo accidentale ed escalation involontaria. 

Un’ ulteriore potenziale area di crisi è costituita da Nord Corea e Sud Corea: in questo caso il rischio non è solo di una guerra tra Seoul e Pyongyang, ma anche che Giappone e Corea del Sud sentano la necessità di sviluppare le proprie armi. Altre possibili aree di tensione si trovano infine nel Mar Cinese Meridionale, dove competizione regionale e priorità nazionali entrano in collisione.

Nel 1995 gli Stati Membri dell’ASEN hanno firmarono il Southeast Asia Nuclear-Weapon-Free Zone Treaty – SEANWFZ, conosciuto anche come Trattato di Bangkok – inizialmente ideato per riaffermare l’ importanza dell’ NPT e per stabilire una a nuclear weapons-free zone (NWFZ). Vi sono al momento cinque NWFZ al mondo che rappresentano un approccio regionale volto alla non -proliferazione e al disarmo nucleare. Nelle aree coperte dai Trattati di Nuclear Free Zone è esplicitamente proibito svolgere attività relative ad acquisizione, possesso, test e utilizzo di armi nucleari. Inoltre, gli Stati che hanno ratificato suddetti trattati stanno attivamente lavorando per istituzionalizzare trattati legalmente vincolanti per assicurare che Paesi dotati di armi nucleari non utilizzino i propri arsenali contro Paesi localizzati entro queste zone.

Vi è stata tuttavia crescente preoccupazione e scetticismo tra i Paesi firmatari dell’NPT, poiché’ le cinque potenze nucleari hanno continuato a sviluppare i propri arsenali, i paesi non firmatari – India, Pakistan e Israele – non sono stati integrati nell’NPT e la Corea del Nord non è stata reintrodotta. Di conseguenza, nel 2017 è stato ideato il Treaty on the Prohibition of Nuclear Weapons (TPNW) a supporto dell’NPT. Il TPNW è stato firmato da tutti i Paesi ASEAN tranne Singapore. Sebbene l’esito di queste misure rimanga incerto, è evidente che la minaccia nucleare rappresenta un rischio inaccettabile per i paesi asiatici, soprattutto considerando il numero, la densità e la vicinanza delle aree urbane e abitate.

La queerness nel cinema dell’Asia sudorientale

Il cinema queer nella regione è vivace e prolifico e interseca la rappresentazione della comunità Lgbtqia+ a tradizioni locali. Tratto dall’ebook “Cinema e politica” di China Files

Articolo di Agnese Ranaldi

“Oggi chiedo al capo villaggio o all’autorità di riconoscermi. Anche se sono lesbica, ho anche un cuore. Amo tutto il popolo khmer. Rivendico i miei diritti di non essere discriminata e questo vale anche per le prossime generazioni”. A parlare è Soth Yun, una delle protagoniste di Two girls against the rain, cortometraggio del 2012 diretto da Sopheak Sao.

Due donne si conoscono sin dai tempi degli Khmer Rossi, negli anni Settanta. Stanno insieme da allora. Molti anni dopo, le ultracinquantenni Soth Yun e Sem Eang raccontano il loro vissuto in una società che ha fatto difficoltà ad accoglierle. Hanno sfidato le convenzioni etero-patriarcali e ogni pregiudizio rispetto alla loro capacità di mantenersi da sole e di sfamare le loro famiglie. Ma raccontano la frustrazione di dover attendere ancora il riconoscimento ufficiale da parte delle autorità del villaggio. La loro storia, raccontata in un corto di 10 minuti e ambientata in Cambogia, parla per tante altre. Il cinema Lgbtqia+ nel Sud-Est asiatico mette in luce le ingiustizie che discendono dal mancato riconoscimento delle coppie queer in tutta la regione.

Dagli anni Cinquanta ad oggi

L’esperienza della comunità Lgbtqia+ è una storia di lotte per la visibilità. Tra regimi autoritari, censure, e stigmi sociali radicati in alcune culture, il cinema ha rappresentato una delle espressioni più efficaci per la battaglia queer nella regione. Dove le parole non bastano, arrivano le immagini. Cinema, documentari, serie, cortometraggi sono diventati lo strumento per mettere in questione la normatività legata al sesso e al genere, a partire dalle prime, timide aperture avvenute nella seconda metà del XX secolo, fino agli ultimi decenni, quando i film hanno iniziato a fare luce sul legame tra la queerness e la storia della regione.

Sono quattro i fattori che spiegano il recente aumento delle pellicole sul tema, secondo Atit Pongpanit e Ben Murtagh. Gli autori dell’articolo Emergent queer identities in 20th century films from Southeast Asia sostengono che negli ultimi anni si sia creato un ambiente in cui le rivendicazioni dal basso delle comunità queer hanno trovato spazio anche nei Paesi più restrittivi. Il diffuso accesso alle tecnologie digitali, la crescita di piattaforme come Youtube e Vimeo, un incremento del discorso pubblico sul tema attraverso festival come “&Proud” Yangon Lgbt Film Festival del Myanmar (non più attivo dal colpo di Stato del 2021), o l’Indonesia Q! Film Festival; e infine una diffusa tendenza a decostruire i discorsi sulla sessualità e i generi normativi in tutta l’Asia, nonostante le resistenze di alcuni governi. 

Il caso delle Filippine
Le Filippine, ad esempio, nonostante una cultura politica autoritaria e rigide tradizioni religiose, hanno una lunga storia di film che affrontano  queste tematiche, anche perché si innestano bene in una società a cui la fluidità sessuale e di genere non sono estranee. A partire dal film filippino Tubog sa Ginto (“Gold Plated”) diretto da Lino Brocka e considerato uno dei capisaldi del cinema queer in tutto il Sud-est asiatico.

Nelle Filippine “esiste una sorta di sistema in quattro parti, che combina le idee di sesso, espressione di genere e identità”, scrive Griselda Gabriele su Kontinentalist, “babae (donne eterosessuali cisgender), lalaki (uomini eterosessuali cisgender), tomboy (usato indifferentemente per uomini trans, donne mascoline o lesbiche) e bakla (usato indifferentemente per donne trans, uomini effeminati o gay). Il bakla, in particolare, è descritto con vari termini in altri Paesi, come kathoey in Thailandia, waria in Indonesia e mak nyah in Malesia. In alcune lingue, come il malese e il birmano, i pronomi binari non sono affatto predefiniti”.

Quella dei bakla è anche una storia di potere e autodeterminazione. Nella lingua tagalog, parlata nelle filippine, bakla indica la pratica del cross-dressing maschile. “Si tratta di un’identità costruita sulla pratica culturale performativa più che sulla sessualità”, ha detto il regista australiano di origini filippine Vonne Patiag in un articolo apparso sul Guardian. In uno dei suoi cortometraggi, Tomgirl, racconta la vita di un giovane filippino di Western Sydney che riceve un corso intensivo sulla cultura di origine, in occasione del quale suo zio gli rivela di osservare la tradizione bakla

“Erano rinomati come leader della comunità, visti come i governanti tradizionali che trascendevano la dualità tra uomo e donna”, spiega Patiag, “molti dei primi resoconti dei colonizzatori spagnoli facevano riferimento a entità mistiche che erano ‘più uomo dell’uomo e più donna della donna’. Più tardi ho scoperto che molte persone, in modo problematico, traducono bakla con ‘gay’ in inglese. Essendo un’identità non legata al sesso, la parola non corrisponde direttamente alla nomenclatura occidentale delle identità Lgbtqia+, collocandosi a metà strada tra gay, trans e queer. Quando i filippini si sono trasferiti in Paesi come l’Australia e gli Stati Uniti, i bakla sono stati erroneamente etichettati come parte della cultura gay occidentale e rapidamente sessualizzati”. Patiag spera che, attraverso Tomgirl, si possa far conoscere questa cultura e possa essere d’ispirazione per un’interpretazione dei confini di genere che sia più fluida.

La diasporaUn altro segno della vivace proliferazione di film sul tema nel Sud-Est asiatico, è il Queer East film festival di Londra. Si tratta della rassegna di film provenienti dall’Asia orientale e sudorientale e dalle comunità della sua diaspora. Presenta opere cinematografiche, ma anche arti dal vivo e icone del movimento Lgbtqia+. Per i suoi organizzatori, lo scopo è esplorare “cosa significhi essere queer e asiatici oggi”. “Gli eventi globali degli ultimi anni ci hanno ricordato ancora una volta che una rappresentazione razziale e sessuale equa e autentica è fondamentale per la nostra società – si legge sul sito del Queer Festival. – La ricchezza del patrimonio asiatico e queer costituisce una parte vitale dell’identità di questo Paese”. Attraverso un programma diversificato, il festival mira ad amplificare le voci delle comunità asiatiche e a sfidare le normatività eteropatriarcale. L’obiettivo? Eliminare le etichette e gli stereotipi associati alle rappresentazioni asiatiche queer.

La centralità ASEAN in un mondo che cambia

Pubblichiamo qui uno stralcio dell’analisi di Kavi Chongkittavorn, apparsa sul Bangkok Post

Che cos’è la centralità dell’ASEAN? Può avere significati diversi per persone diverse, ma in generale può essere vista come un quadro regionale che sostiene il ruolo dell’ASEAN come piattaforma regionale dominante per superare le sfide comuni e impegnarsi con le potenze esterne. I cittadini della comunità ASEAN ne conoscono il valore intrinseco, poiché ha mantenuto la regione stabile e resiliente nel corso degli oltre cinque decenni di esistenza. In un mondo in rapida evoluzione, ci si chiede spesso se il concetto di centralità dell’ASEAN debba essere ridefinito. Negli anni Novanta, l’ASEAN è stata percepita come un “motore” della cooperazione regionale. Ci si chiedeva se fosse solo un motore e se fossero i passeggeri (gli Stati membri) a stabilire la direzione. Indipendentemente dalla risposta, l’ASEAN ha continuato a ritenere di essere al posto di guida, contribuendo a guidare i processi regionali. Quando l’ASEAN è entrata nel XXI secolo, il blocco si è trasformato in un “hub centrale”, simile a un aeroporto in grado di fornire servizi di navigazione e protezione. 

Oggi, la centralità dell’ASEAN è riconosciuta per il suo ruolo nel guidare l’elevata crescita economica della regione. Ma quale forma assumerà la centralità dell’ASEAN nei prossimi 20 anni? In un futuro non troppo lontano, si prevede che la regione ASEAN diventerà la terza regione più popolosa del mondo e la quarta economia più grande, con una classe media in rapida crescita. Inoltre, grazie alla sua diversità e alla buona connettività, la regione diventerà una società innovativa. 

L’ASEAN potrebbe e dovrebbe essere più coraggiosa in futuro, diventando un pioniere della trasformazione verde, della connessione digitale e dell’economia innovativa. L’ASEAN può anche essere un esempio per trasformare la contesa e il confronto nel Mar Cinese Meridionale in cooperazione e connettività. Inoltre, l’ASEAN può essere un esempio di come affrontare con successo crisi multiple, come il cambiamento climatico e la sicurezza idrica e alimentare nella regione del Mekong, fornendo così soluzioni ad altre regioni. 

La centralità dell’ASEAN ha già guadagnato terreno, poiché le grandi potenze, in particolare Stati Uniti, Cina e Unione europea, continuano a corteggiare l’ASEAN. Con il suo potere di convocazione e di convincimento, la centralità 2.0 dell’ASEAN può diventare globale e creare una pietra miliare, soprattutto per quanto riguarda gli sforzi per costruire un mondo migliore e pacifico.

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