Il problema dell’acqua

Gli effetti dell’aumento delle temperature sull’Himalaya in un nuovo report: la principale riserva idrica del continente rischia di andare a secco nel 2100. Con conseguenze per un’area in cui nascono Yangtze e Fiume Giallo, Indo, Gange e Mekong

L’Asia perderà la sua principale riserva d’acqua entro il 2100. È l’allarme lanciato dai ricercatori dell’International Centre for Integrated Mountain Development (ICIMOD) di Kathmandu, che nel loro ultimo report prevedono una riduzione dei ghiacciai himalayani fino all’80% dell’attuale volume. La stima si basa sulle previsioni di aumento delle temperature globali di 4°C, ben oltre i limiti promessi dall’Accordo per il clima di Parigi ma vicini alle proiezioni reali qualora non venga intrapresa un’azione significativa. 

L’area dell’Hindu Kush, oggetto della ricerca, ospita quella che è oggi la riserva di ghiaccio più estesa al mondo dopo i due Poli. Qui si trovano 15mila ghiacciai per un totale di 100mila chilometri quadrati di superficie, da dove iniziano il loro percorso lo Yangtze e il Fiume Giallo, così come l’Indo, il Gange e il Mekong. Un’area tanto vasta da interessare direttamente le 240 milioni di persone che abitano sull’altopiano e altre 1,65 miliardi lungo i bacini fluviali. 

Secondo le previsioni di ICIMOD lo scioglimento dei ghiacciai provocherà un picco dell’approvvigionamento idrico a valle entro la metà del secolo, per poi iniziare lentamente a declinare. A partire da quel momento la disponibilità di acqua inizierà a diminuire e non vi saranno più sufficienti riserve a monte per il mantenimento degli ecosistemi locali.

Dalla dipendenza dei sistemi energetici dall’idroelettrico fino all’instabilità delle risorse idriche per l’agricoltura, lo scioglimento dei ghiacciai avrà e ha già adesso un impatto epocale sul continente. Questo in una regione dove l’80% delle precipitazioni si concentra nei quattro mesi della stagione monsonica, oggi sempre più intensa, breve e calda. Nel 2021 la presidente dell’Ufficio delle Nazioni Unite per la riduzione del rischio di disastri Mami Mizutori aveva definito la siccità “la prossima pandemia”. Peccato, aggiungeva, che per la siccità non esiste alcun vaccino. 

La scarsità di risorse idriche entra in gioco in un’area dove, negli ultimi vent’anni, gli investimenti nell’energia idroelettrica sono esplosi. Cento dighe sono oggi operative nei sedici paesi raggiunti dalle acque provenienti dall’altopiano, mentre è prevista la costruzione di altre 650 dighe nei prossimi anni. L’entusiasmo verso le opportunità derivanti da questa fonte apparentemente sostenibile è stato presto smorzato dalle ondate di calore record che si susseguono di anno in anno. Un picco delle temperature prolungato che, come sta accadendo in Vietnam da oltre cinque settimane, ha portato alla graduale chiusura di alcune delle principali centrali idroelettriche del paese. 

Ma l’appetibilità delle risorse idriche per sostenere la rampante domanda energetica dei nuovi poli industriali ha generato narrazioni ben diverse nella comunità degli investitori internazionali. Dall’Irrawaddy per il Myanmar al Mekong per il Laos, sono tante le aziende e le istituzioni che vorrebbero cogliere l’occasione di trasformare questi paesi nelle “batterie dell’Asia”. Il potenziale idrico dei grandi fiumi asiatici viene spesso definito “un’opportunità mancata” o “ampiamente sottosfruttata”. 

A ciò sta contribuendo una graduale conversione delle catene di approvvigionamento globali nell’Asia meridionale e nel Sud-Est asiatico dovuta all’aumento dei costi della manodopera cinese e alle tensioni internazionali. Non meno importanti sono gli sgravi fiscali adottati dai governi per attirare gli investitori stranieri, così come i numerosi accordi commerciali. Tutte misure che stanno ampliando l’accesso ai mercati asiatici e, facilitando gli scambi regionali, permettono di delocalizzare un’intera filiera produttiva sulla base dei benefici fiscali o economici dei vari paesi.

La contrazione della calotta polare sta alle esplorazioni energetiche nei mari del nord come lo scioglimento dei ghiacciai sta alle ambizioni infrastrutturali e minerarie di Pechino. È infatti la Repubblica Popolare, in particolare, a puntare sulla crescente accessibilità dell’altopiano himalayano. Recentemente alcuni ricercatori hanno identificato una vena di terre rare che potrebbe estendersi per mille chilometri lungo il confine meridionale del Tibet, fattore che potrebbe tanto rafforzare la posizione dominante della Cina su uno dei mercati più strategici nel nostro tempo, quanto far riaffiorare le tensioni con la vicina India.

Una maggiore presenza di attività antropiche sull’altopiano himalayano, infatti, sta già facendo ritornare alla luce le rivendicazioni territoriali dei diversi governi della regione. È il caso della contea tibetana di Lhunze, uno dei maggiori bacini di terre rare localizzati in un’area tuttora contestata dall’India e dove gli investimenti infrastrutturali sono più che raddoppiati tra il 2016 il 2019. L’escalation di un conflitto legata tanto alle nuove risorse minerarie potrebbe presto rappresentare solo l’anteprima di un più aspro scontro per le risorse idriche. Escludendo il Trattato delle acque dell’Indo firmato da India e Pakistan, non esiste alcun meccanismo regionale dedicato alla redistribuzione e ai diritti di utilizzo delle acque dei fiumi che attraversano più stati asiatici. 

La massiccia presenza di dighe cinesi a monte del Mekong è solo un esempio di quanto sia ancora considerata marginale l’emergenza idrica che, prima o poi, non sarà più solo un problema di pochi contadini. La sua marginalità, conclude il report, è anche dovuta al vuoto conoscitivo sugli ecosistemi oltre i dati: la dimensione umana, sottolinea il documento, è fondamentale per capire quali conseguenze e quali soluzioni si stanno mettendo in campo. Le popolazioni locali si stanno adattando, ma lo stanno facendo attraverso forme di sostegno e ridefinizione autonomi e su scala ridotta. Ma la crisi climatica è transfrontaliera, e i suoi effetti sulle già complesse relazioni tra gli attori della regione sono – ancora – tutte da vedere.

Vola il tessile del Sud-Est asiatico

Le statistiche di Trading Economics mostrano che nel 2021 la Cambogia è stata il secondo esportatore dell’ASEAN nel settore con 5,82 miliardi di dollari, dietro solo ai 15,73 miliardi del Vietnam e davanti ai 4,35 miliardi dell’Indonesia, terza classificata

Di Tommaso Magrini

La regione ASEAN sta emergendo come uno dei principali hub di prodotti tessili al mondo, un settore tradizionalmente dominato dalla Cina continentale e da altri operatori. Secondo il presidente dell’ASEAN Federation of Textile Industries (AFTEX), Albert Tan, che è anche vicepresidente del membro cambogiano dell’AFTEX Textile, Apparel, Footwear and Travel Goods Association in Cambodia (TAFTAC), ha evidenziato che nell’ultimo decennio il divario complessivo tra i costi di produzione, che comprendono principalmente materie prime, manodopera, logistica e conformità, e i prezzi FOB (free-on-board) e al dettaglio si è ridotto. Si aspetta che questa tendenza continui anche nel prossimo decennio. I partecipanti a un forum dedicato sul tema hanno stilato un elenco di progetti e piani di lavoro per i prossimi mesi sotto la presidenza della Cambogia, nel tentativo di consolidare il ruolo dell’AFTEX e stimolare la crescita delle industrie tessili e dell’abbigliamento regionali. La Cambogia ha guadagnato 1,395 miliardi di dollari dall’esportazione di “articoli di abbigliamento, a maglia o all’uncinetto” nei primi quattro mesi del 2023, con un calo del 28,49% su base annua e del 40,80% su base semestrale (rispetto al periodo luglio-ottobre 2022), secondo i dati provvisori delle Dogane.  Questa categoria di articoli ha rappresentato il 19,28% dei 7,234 miliardi di dollari di valore delle esportazioni totali di merci del Regno nei quattro mesi, rispetto al 25,64% e ai 7,606 miliardi di dollari del periodo gennaio-aprile 2022, nonché al 31,97% e ai 7,368 miliardi di dollari del periodo luglio-ottobre 2022. Le statistiche di Trading Economics mostrano che nel 2021 la Cambogia è stata il secondo esportatore dell’ASEAN nel settore con 5,82 miliardi di dollari, dietro solo ai 15,73 miliardi del Vietnam e davanti ai 4,35 miliardi dell’Indonesia, terza classificata. La Cina continentale, invece, ha esportato 86,46 miliardi di dollari nello stesso anno.

Dall’Indonesia una nuova economia circolare

Pubblichiamo qui un estratto di un articolo di Bambang Susantono, Presidente dell’Autorità di Nusantara Capitale, su Nikkei Asia

Nel cuore delle foreste insulari del Borneo, è in corso lo sviluppo di Nusantara e dell’area circostante. Si prevede che la popolazione della nuova capitale raggiungerà 1,8 milioni di abitanti entro il 2045.

Fedele alla visione verde che la sostiene, la nuova capitale sarà in gran parte circondata dalla foresta esistente, che sarà protetta.

Ma è il modello economico circolare della città che tradurrà la visione verde di Nusantara in pratiche quotidiane significative.

Ad esempio, la nuova città implementerà un sistema completo e ben coordinato che darà priorità alla riduzione, al riutilizzo e al riciclaggio, con il 60% dei rifiuti di Nusantara da riciclare entro il 2045 e tutto l’approvvigionamento idrico trattato attraverso un sistema di recupero entro il 2035.

Questo approccio non solo ridurrà al minimo la quantità di rifiuti prodotti, ma garantirà anche il recupero di risorse preziose e la loro reintegrazione nell’economia.

L’economia circolare offrirà anche un approccio vantaggioso per gli investitori e le comunità. Secondo uno studio congiunto dell’Agenzia indonesiana per la pianificazione dello sviluppo nazionale e del Programma di sviluppo delle Nazioni Unite, la piena attuazione dell’approccio all’economia circolare nei settori industriali chiave dell’alimentazione e delle bevande, del tessile, del commercio all’ingrosso e al dettaglio, dell’edilizia e dell’elettronica potrebbe creare 4,4 milioni di posti di lavoro in Indonesia e aumentare la produzione economica del Paese di 45 miliardi di dollari entro il 2030.

Tuttavia, la piena attuazione dell’approccio all’economia circolare richiederà una maggiore collaborazione tra il settore pubblico e quello privato.

Coinvolgendo aziende, imprenditori e investitori nello sviluppo e nell’implementazione di modelli economici circolari, Nusantara sbloccherà maggiori opportunità di crescita e di creazione di posti di lavoro, riducendo al minimo l’impatto ambientale.

Le aree di collaborazione attualmente in fase di esplorazione includono la creazione di strutture di riciclaggio e progetti di infrastrutture verdi che potrebbero consolidare ulteriormente la posizione della nuova capitale come pioniere dello sviluppo urbano sostenibile. Per attirare gli investimenti e guidare la crescita sostenibile, abbiamo lanciato incentivi completi agli investimenti, tra cui agevolazioni fiscali per le imprese che adottano pratiche di economia circolare. Inoltre, saranno concesse agevolazioni fiscali fino a 30 anni e altre detrazioni fiscali alle imprese che si impegnano nella ricerca e nello sviluppo e agli investitori che adottano rigorosi standard ambientali, sociali e di governance.

Allineando gli incentivi economici agli obiettivi ambientali, la nuova capitale sarà una destinazione attraente per gli investitori lungimiranti impegnati nella sostenibilità.

Il successo dell’infrastruttura a zero rifiuti e zero emissioni della nuova capitale può fungere da catalizzatore per combattere l’inquinamento da plastica su scala nazionale e globale, in quanto il suo progetto di sviluppo può diventare un punto di riferimento per mega progetti simili.

Vietnam, quanto è difficile mollare il carbone

Hanoi sta affrontando uno dei periodi più critici per la fornitura di energia elettrica nelle zone colpite dalle ondate di calore. Le fonti fossili tornano a essere la prima scelta in un paese considerato tra i più promettenti per la produzione di energia pulita nel Sud-Est asiatico

In Vietnam non è ancora tempo per dire addio al carbone. Il dato è emerso lo scorso 31 maggio in occasione di un incontro tra società e istituzioni del mondo Esg (Environment, Society, Governance) a Ho Chi Minh City ed è stato riportato da diverse testate asiatiche. Ma il problema esiste da tempo, ed è sintomatico di un processo di sviluppo rapido e disordinato. Da pochi anni il paese è al centro di un significativo processo di conversione alle rinnovabili mai visto prima nel Sud-Est asiatico, ma la corsa all’energia verde non è ancora sufficiente a sostenere una domanda energetica che è raddoppiata in meno di dieci anni.

Come accade oggi per la Cina – stretta tra le promesse di sviluppo sostenibile e un sistema energetico ancora da stabilizzare – anche per Hanoi il problema di equilibrare domanda e offerta energetica è già realtà. E il cambiamento climatico aggiunge un ulteriore difficoltà nella tenuta della rete elettrica e nella gestione dei picchi energetici. A partire da maggio diverse aree industriali nel nord del paese hanno iniziato a registrare una serie di interruzioni della corrente elettrica senza precedenti: “È la prima volta che accade in dieci anni”, racconta a VnExpress un lavoratore della provincia di Bac Ninh. Il manager dell’impianto, che si occupa dell’assemblaggio di alcune componenti telefoniche, ha avvertito i dipendenti che il giorno dopo non sarebbe stato possibile lavorare a causa di un’interruzione della corrente di dodici ore consecutive.

Crisi energetica e transizione

A giustificare la crisi energetica di queste settimane è senz’altro un aumento record delle temperature, fattore che causa a sua volta un picco della domanda energetica legata a impianti di raffreddamento industriali e utilizzo di condizionatori negli edifici. Ma anche il lato dell’offerta manca di continuità. Secondo quanto riferito dal ministero dell’Economia e del Commercio ben undici centrali idroelettriche sono state chiuse a causa della carenza di acqua, mentre sarebbe necessario almeno un milione di tonnellate di carbone per far funzionare le centrali termiche del nord.

Lo scorso 7 giugno il direttore dell’Autorità di regolamentazione dell’elettricità del ministero dell’Industria Tran Viet Hoa aveva parlato di “gravi carenze” nella fornitura energetica, affermando che – importazioni comprese – la disponibilità effettiva era di soli 18 mila megawatt, contro una previsione di domanda energetica capace di toccare punte di 24 mila megawatt. A fine maggio l’output delle dighe era capace di sostenere solo altri quattro giorni di picco energetico, pochi giorni dopo – il 3 giugno – i principali impianti idroelettrici non erano in grado di produrre energia per l’intera giornata. 

La dipendenza dal carbone

La crisi idrica è senz’altro un fattore che rallenta l’avanzamento vietnamita nel mondo dell’energia rinnovabile, e riporta inevitabilmente il paese verso una fonte considerata – almeno in teoria – più sicura e disponibile. Se da un lato il crollo della produzione di energia idroelettrica ha fatto emergere un deficit nello stock di carbone per la produzione di corrente elettrica, dall’altro le fonti fossili non hanno mai lasciato un vuoto nel mix energetico nazionale. Anzi, sono semplicemente aumentate per sopperire al boom economico. Come riferisce l’International Energy Agency (IEA) il Vietnam è uno di quei paesi che, pur essendo uno dei più grandi investitori ASEAN nelle rinnovabili, prevede di raddoppiare la produzione delle centrali termoelettriche a carbone. 

Inoltre, “il problema del Vietnam è che le centrali a carbone sono molto giovani, alcune hanno meno di 10 anni”, ha spiegato a Nikkei Asia Tung Ho, responsabile nazionale della consulenza energetica Allotrope. Tant’è che i legislatori stanno valutando non tanto l’abbandono di questa fonte energetica, bensì la conversione degli impianti a tecnologie che cadono sotto l’ombrello semantico del “carbone pulito (clean coal technologies)”. Tra queste, l’utilizzo dell’ammoniaca come co-combustibile per ridurre le emissioni nocive, una tecnologia ancora molto dibattuta perché non esistono ancora prove certe della sua efficacia.

Quale futuro per la transizione energetica vietnamita?

Il carbone in Vietnam occupa oltre il 50% del mix energetico, superando tutti gli altri paesi del gruppo ASEAN. Il secondo consumatore di carbone nella regione è il Laos, paese chiave per le forniture di questo combustibile ad Hanoi. Mentre le prospettive del Power Development Plan 8 (PDP8) parlano di transizione verde come opportunità per attrarre capitale straniero e raggiungere la neutralità carbonica entro il 2050, la leadership vietnamita continua a valutare una serie di ambiziosi progetti infrastrutturali legati al carbone. È il caso di un’autostrada di 160 km che collegherebbe le province laotiane di Sekong e Salavan al distretto vietnamita di Hai Lang.

Lo stesso PDP8 prevede la costruzione di nuove centrali a carbone fino al 2030, anno che dovrebbe segnare l’inizio effettivo di una transizione esclusiva – almeno a livello infrastrutturale – verso gli impianti di produzione energetica sostenibile. Si tratta dunque di scadenze che non prevedono la chiusura delle centrali a carbone, ma del solo divieto a nuovi appalti. Sebbene le previsioni mostrino un graduale calo della produzione legata al carbone (una riduzione del 10% nei prossimi dieci anni), è importante ricordare che le prospettive di produzione totale sono ambiziosamente al rialzo. Secondo il piano di sviluppo, infatti, Hanoi punta a produrre più energia di paesi come Francia e Italia.

I piani del Vietnam dovranno fare i conti anche con le promesse internazionali. Dal 2022 il paese è entrato a far parte della Just Energy Transition Partnership. Lo schema, adottato insieme a partner quali Usa, Giappone, Regno Unito e Unione Europea, prevede di sbloccare oltre 15 miliardi di dollari per sostenere la transizione energetica dei paesi membri. Alla COP26 di Glasgow, inoltre, Hanoi ha dichiarato che smetterà di utilizzare il carbone come fonte energetica entro il 2040. Nel 2022 l’Economist aveva definito il Vietnam come “un punto luminoso in una mappa altrimenti nera come la notte” per il suo rapido sviluppo nel campo dell’energia solare. Ma la strada da percorrere è ancora lunga.

A Singapore si vola col Wi-Fi gratis per tutti

Dal 1° luglio Singapore Airlines diventa una delle prime compagnie aeree internazionali ad offrire la connessione gratuita e illimitata a tutti i passeggeri

Articolo di Tommaso Magrini

Navigare su Internet è diventato sempre più importante, anche mentre ci si trova in volo. Singapore Airlines, riporta il South China Morning Post, si è unita alla manciata di vettori che offrono il Wi-fi gratuito a bordo a tutti i passeggeri e, a partire dal 1° luglio, i clienti potranno navigare senza i soliti costi o limiti di dati. Internet in volo è stato a lungo un costo aggiuntivo scomodo e disordinato che di solito è più problematico di quanto valga, se disponibile, e di solito rimane un’esclusiva di coloro che pagano per un posto in prima classe o in business. Sebbene il tempo trascorso online sia diminuito rispetto alle chiusure per la pandemia di Covid-19, nel 2022 i 5 miliardi di utenti regolari di Internet hanno trascorso ancora più di sei ore al giorno navigando e scrollando, secondo We Are Social, un’azienda britannica che traccia l’uso del web e dei social media. Allo stesso tempo, il numero di passeggeri aerei è in ripresa. Secondo l’International Air Transport Association, nell’aprile 2023 il traffico globale di passeggeri è tornato al 90% del livello pre-Covid, il che significa che il mondo è sulla buona strada per tornare ai 4,5 miliardi di passeggeri trasportati nel 2019, l’anno prima dell’inizio della pandemia e dell’imposizione di restrizioni ai viaggi.

Da qui, vettori come Singapore Airlines puntano sul Wi-fi gratuito per convincere i passeggeri a scegliere la compagnia aerea con cui volare. Air New Zealand è la migliore compagnia aerea del mondo; Singapore è al primo posto in prima classe. “In un mondo sempre più iperconnesso come quello odierno, la connettività Wi-fi ad alta velocità in volo è uno dei requisiti più importanti per i nostri clienti”, ha dichiarato Yeoh Phee Teik, Senior Vice President Customer Experience della compagnia aerea. Per accedere al Wi-fi i passeggeri dovranno iscriversi al programma fedeltà gratuito della compagnia aerea, in modo simile a come operano alcuni dei pochi altri vettori che offrono il Wi-fi gratuito, come Qatar Airways e Delta Air Lines. Singapore Airlines ha dichiarato che l’offerta si applicherà a 129 dei suoi 136 aeromobili, ad eccezione di sette Boeing 737-800 NG che, a suo dire, “non sono abilitati al Wi-fi”.

Il Presidente Pipan partecipa al Convegno “No time left”

Nella giornata di mercoledì 21 giugno 2023 l’Ambasciatore Michelangelo Pipan, Presidente dell’Associazione Italia ASEAN, ha preso parte ai lavori del convegno “NO TIME LEFT. Contro il consolidamento della dittatura in Birmania/Myanmar” organizzato dall’Associazione ITALIA BIRMANIA Insieme a CeSPI e BASE Italia. L’Ambasciatore Pipan, intervenendo insieme ad illustri ospiti internazionali, ha voluto sottolineare l’importanza della cooperazione internazionale per la risoluzione della crisi birmana e il raggiungimento della pace.

No a protezionismo e arroganza

Pubblichiamo qui uno stralcio del discorso a Chatham House di Tharman Shanmugaratnam, Senior Minister di Singapore

Gli Stati Uniti e la Cina dovrebbero abbandonare l’arroganza di rivendicare la superiorità dei rispettivi sistemi politici e concentrarsi invece sulla collaborazione per portare avanti i propri interessi. Non ci sono santi nelle relazioni tra le superpotenze. Entrambe devono fare degli aggiustamenti. Entrambe devono evitare un senso di arroganza nei confronti della superiorità dei propri sistemi. Entrambe devono riconoscere che c’è molto in comune nel modo in cui cercano di migliorare le vite e di far crescere i redditi. Queste sono ottime ragioni per vedere da vicino e sviluppare regole per assicurare che il commercio sia equo, che gli investimenti siano equi e che la proprietà intellettuale sia protetta. Sono regole che possono essere sviluppate. L’assenza di una strategia di interdipendenza non significherebbe necessariamente che la Cina si spenga gradualmente. Alla fine si risolleverà comunque, ma quando finalmente ci arriverà saprà chi le ha reso estremamente difficile arrivarci. Questo rende il mondo pericoloso. Nel 2016 c’è stato un “cambio di passo” nella percezione della “minaccia” della Cina negli Stati Uniti. Non credo che questo cambio di rotta sia stato provocato da una nuova strategia della Cina o da un nuovo sviluppo della quota di mercato cinese o delle azioni della Cina in qualsiasi ambito. Si è trattato di politica interna. La politica è importante e credo che stiamo percorrendo una strada che ci porta alla politica del pessimismo e della lamentela e che deve essere corretta. La Cina non si sente ancora pronta a essere alla pari con gli Stati Uniti sulla scena centrale, ma vuole giocare un ruolo più importante nella definizione delle regole del Fondo Monetario Internazionale, della Banca Mondiale, del commercio e di altri settori. E nemmeno gli Stati Uniti. È estremamente importante preservare le intese precedenti su Taiwan e preservare l’ambiguità costruttiva su Taiwan che dura da decenni sia da parte degli Stati Uniti che della Cina. Per quanto riguarda il commercio globale, se optiamo per un sistema protezionistico, che impone restrizioni e in cui le vostre azioni interne hanno ricadute negative sul resto del mondo, potreste essere in grado di preservare la superiorità relativa, almeno per un certo periodo di tempo. Ma quasi certamente a costo di una performance assoluta ovunque.

“L`ASEAN del 2045”

Cosa possiamo aspettarci dal futuro dell’Associazione dei Paesi del Sud-Est Asiatico

Il futuro aspetto dell’ Associazione per i Paesi del Sudest Asiatico (ASEAN) è stato discusso durante gli ultimi due summit del gruppo, tenutisi a Belitung e Labuan Bajo. Infatti, la visione della comunità per gli anni a venire non si limiterà al 2035, ma sarà estesa di dieci anni, fino al 2045. Ma di cosa si tratta di preciso?

Una task force lavorerà per elaborare e mettere a punto i dettagli di questa visione nei prossimi tre anni, ma ciò che è sicuro, hanno annunciato i leader, è che  la strategia sarà composta da un equilibrio tra pragmatismo e ambizione. L’obiettivo primario è quello di raggiungere la stabilità e il progresso dell’ASEAN, pur rimanendo fedele alla sua identità. Inoltre, si intende porre una maggiore attenzione al benessere dei popoli dei Paesi membri, sottolineando il rafforzamento degli organi dell’Associazione e del segretariato con sede a Giacarta, garantendo le libertà fondamentali e i diritti umani e migliorando la vita di tutti i cittadini degli stati membri. Tra gli altri obiettivi, inoltre, viene sottolineato l’impegno a migliorare la capacità di affrontare le sfide esistenti ed emergenti, mantenendo la centralità dell’ASEAN. Ciò sarà ottenuto anche grazie alla partecipazione attiva dei cittadini, e saranno incoraggiati processi di consultazione “dal basso” (voluti in particolar modo  dall’Indonesia e dalle Filippine), che prevedono il coinvolgimento di organizzazioni della società civile nel processo decisionale.

Per quanto riguarda i Paesi membri, invece, si prevede un allargamento: entro il 2045 si prevede che l’ASEAN possa includere, potenzialmente, anche Timor Est e Papua Nuova Guinea. Il primo, diventato indipendente nel 2002, nonostante sia ampiamente considerato uno Stato del Sud-Est asiatico e geograficamente ne fece parte anche quando venne incorporato nell`Indonesia, non è ancora un membro a tutti gli effetti. A conferma di questa volontà, gli stati dell`ASEAN lo scorso novembre hanno votato a favore dell’adesione “in linea di principio” di Timor Est nell’Associazione. Per quanto riguarda Papua Nuova Guinea, l’isola è un osservatore del blocco regionale dal 1976, prima di qualsiasi altro membro non originario dell’ASEAN. I suoi leader hanno spinto per l’adesione a pieno titolo almeno dagli anni ’80, e il Paese sta lavorando intensamente per prepararsi all`integrazione.

E non si esclude che, se le dinamiche politiche più ampie lo giustificassero, potrebbero aggiungersi all` ASEAN anche membri della regione indo-pacifica. Ciò, tuttavia, richiederebbe un sostanziale aumento del budget. Attualmente ogni membro versa un contributo di pari importo, a differenza del modello dell’UE dove ogni stato contribuisce in base al proprio PIL. I membri dell’ASEAN intendono infatti mantenere il sistema corrente di contributi uguali e diritti di voto uguali.

Gli organi e le strutture chiave dell’ASEAN dovrebbero rimanere invariati nei prossimi decenni, preservando i principi consolidati nel tempo e sanciti dalla Dichiarazione di Bangkok del 1967. Questi principi includono la ricerca del consenso, la non interferenza negli affari interni e il rifiuto dell’uso della forza. 

Sarà interessante osservare come l`Associazione riuscirà a gestire le sfide e le opportunità degli anni a venire. Sicuramente, dinamiche demografiche e geopolitiche modificheranno il panorama in cui questi Paesi si inseriscono, ma l’organizzazione sembra determinata a  mantenere la stabilità e la centralità regionale, impegnandosi al contempo nel dialogo e nella cooperazione con le principali potenze mondiali.

Il versatile sistema politico vietnamita

Hanoi sta crescendo a livello commerciale e diplomatico, ma si trova al centro degli interessi delle potenze globali. Continuare ad approfittarne in modo positivo non sarà semplice, ma il Vietnam vuole continuare il processo che ha tirato fuori dalla povertà milioni di persone dopo la guerra

Quasi due anni prima il XX Congresso del Partito comunista cinese, si è svolto il XIII Congresso del Partito comunista vietnamita. Quasi due anni prima che Xi Jinping ottenesse uno storico terzo mandato da segretario generale, aveva fatto lo stesso Nguyen Phu Trong. In quella sede sono stati nominati i 19 membri del Politburo e soprattutto le quattro cariche cruciali del sistema vietnamita: segretario generale del partito, presidente della Repubblica, primo ministro e presidente dell’Assemblea nazionale (il corpo legislativo unicamerale). Sono le figure su cui si basa il cosiddetto principio dei “quattro pilastri”, che reggono il sistema politico vietnamita.

Eppure, il numero 4 è stato nel recente passato parzialmente eroso. Dopo la morte di Tran Dai Quang avvenuta nel 2018, Trong è stato presidente proprio fino al Congresso del gennaio 2021. In quella sede ha ottenuto una conferma a segretario generale di portata storica. Trong, 76 anni e condizioni di salute da più fonti definite “precarie”, è oggi il leader più longevo del Vietnam dai tempi di Le Duan, successore di Ho Chi Minh, e dal Doi Moi, il programma di riforme e aperture lanciato nel 1986. Accantonato il limite dei due mandati, visto che Trong è segretario generale dal 2011. Segnale che non è stato trovato un accordo sul possibile erede, ma anche completamento di un processo di accentramento di poteri iniziato già all’alba del suo primo mandato, quando la direzione del comitato centrale anticorruzione è passata dal primo ministro al segretario. Trong, in modo simile a Xi Jinping, ha costruito la sua reputazione su una ostentata inflessibilità in materia di sicurezza e di anticorruzione, promossa attraverso la spietata campagna della “fornace ardente” che gli ha consentito di sbarazzarsi dei rivali politici sconfitti al 12esimo congresso del 2016. Strumento utilizzato da Trong, subito dopo il congresso del 2016, per lanciare la campagna della “fornace ardente”, con la quale ha accresciuto la propria popolarità e si è sbarazzato di alcuni rivali politici.

Il percorso è proseguito anche negli scorsi mesi, quando sono arrivate le dimissioni “guidate” di Nguyen Xuan Phuc, l’ex presidente lambito da un’inchiesta anticorruzione nell’ambito del nuovo impulso alla campagna anticorruzione. Phuc era il grande deluso del XIII Congresso, visto che si aspettava la promozione da premier a segretario del Partito. Al suo posto è stato nominato Vo Van Thuong, che con “solo” 52 anni è il membro più giovane del Politburo. Thuong significa continuità, visto che come Trong il neo presidente si pone su una linea ideologica piuttosto ortodossa, ammantata di una forte retorica anticorruzione ma anche di una spinta verso gli affari. Nato nella provincia meridionale di Vinh Long, interrompe una parentesi nella quale tutti e 4 i pilastri venivano espressi dalle province settentrionali. La sua nomina riporta dunque una sorta di bilanciamento regionale che aveva sempre caratterizzato la politica vietnamita. C’è anche chi vede la nomina di un politico in età ancora relativamente giovane come il primo segnale di una futura successione a Trong, magari al prossimo Congresso del 2026.

Nel frattempo, Hanoi cercherà di continuare ad attrarre investimenti stranieri. Diversi colossi internazionali, a partire da quelli dell’elettronica, stanno scegliendo il Vietnam per posizionarsi in Asia o diversificare le proprie catene di produzione rispetto alla Cina. Fenomeno incentivato dagli accordi di libero scambio sottoscritti da Hanoi con Unione Europea e Regno Unito. Ma anche dagli effetti collaterali delle tensioni tra Cina e Stati Uniti,che ha portato della rilocalizzazione di linee produttive in un paese meno esposto politicamente e con un costo del lavoro più basso rispetto a quello della Repubblica Popolare. L’economia vietnamita è cresciuta dell’8,02% nel 2022, il ritmo annuale più veloce dal 1997. Si tratta di un dato superiore anche all’ambizioso +6,%-6,5% che era stato fissato dal governo. A stabilirsi in Vietnam non solo linee produttive di bassa qualità, ma anche produzioni di colossi tecnologici e dell’elettronica. Un elenco lunghissimo in cui figurano, tra gli altri, anche diversi fornitori di Apple.

Ma la geopolitica bussa alla porta. Il Vietnam è sempre più al centro delle attenzioni degli Stati Uniti, che stanno cercando di migliorare i rapporti con un attore importante sullo scenario a cui tengono di più, quello dell’Asia-Pacifico. Non a caso ad aprile si è svolta un’importante visita di Antony Blinken ad Hanoi. Non solo. Il 29 marzo, Joe Biden ha avuto un colloquio telefonico con Trong. Mossa non così usuale, visto che di solito il presidente americano parla con l’omologo vietnamita. Interessante anche il tempismo, visto che il colloquio è avvenuto in concomitanza del summit per la democrazia organizzato dalla Casa Bianca. I più maligni hanno sottolineato che un sistema politico non certo democratico possa alla fine andare bene a Biden qualora questo rientri in una sua strategia o calcolo. Come già accade peraltro con l’India. La visita di Blinken è servita a porre le basi per l’elevazione dei rapporti, che dovrebbe avvenire a luglio. Ma il Vietnam non ha intenzione di lasciarsi “arruolare”, da una parte e dell’altra. Per continuare un processo storico che ha portato fuori dalla povertà milioni di persone, dopo le devastazioni della guerra.

L’ASEAN vuole dialogo

Pubblichiamo qui uno stralcio del discorso di Ng Eng Hen, Ministro della Difesa di Singapore, allo Shangri-La Dialogue 2023

L’aumento delle spese militari, il cambiamento delle alleanze militari e commerciali e le politiche economiche di fatto nativiste sono forti venti di cambiamento. Come possiamo resistere alle tempeste che verranno? Per l’Asia e la più ampia regione indo-pacifica, le relazioni tra Stati Uniti e Cina sono fondamentali per la stabilità. Questo è il nucleo, ma anche la penombra delle relazioni di altri Paesi al di fuori di questo nucleo è importante per la stabilità. Nessun Paese, credo, vuole la guerra, ma le nostre ipotesi di lavoro e i nostri scenari devono prevedere che possano verificarsi incidenti non pianificati. Devono esistere canali di comunicazione, sia formali che informali, in modo che quando si verificano questi incidenti non pianificati, tali canali possano essere utilizzati per una de-escalation ed evitare il conflitto. Nonostante la guerra fredda, nel 1972 Breznev e Nixon firmarono i trattati sulla limitazione degli armamenti strategici e sui missili anti-balistici. Il punto saliente è che tali canali di comunicazione devono essere costruiti nel tempo. Sarà troppo tardi per avviarli o attivarli solo in momenti di crisi. Diplomatici esperti paragonano sfavorevolmente le linee di comunicazione tra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica durante la Guerra Fredda con quelle che esistono oggi tra gli Stati Uniti e la Cina, ormai al collasso. Non è nostro compito e certamente non è mia intenzione commentare gli sforzi diplomatici di altri Paesi, ma espongo queste osservazioni sui punti di contatto in declino tra le strutture militari americane e cinesi sapendo bene che Singapore e altri Stati dell’ASEAN non sono spettatori disinteressati.  Sia gli Stati Uniti che la Cina hanno dichiarato di non volere che i Paesi dell’ASEAN si schierino, ma gli Stati membri dell’ASEAN, con un vivido ricordo della rivalità tra grandi potenze nel nostro passato e delle devastanti conseguenze, sono fortemente preoccupati che il peggioramento delle relazioni tra queste due potenze, Stati Uniti e Cina, costringerà inevitabilmente a scelte difficili i nostri singoli Stati. Per l’ASEAN, sia attraverso i legami bilaterali e i singoli Stati membri, sia collettivamente con gli Stati Uniti e la Cina attraverso l’ADMM-Plus, abbiamo cercato l’inclusione e l’impegno come piattaforme chiave per la prelazione e la costruzione della fiducia. Nell’ambito dell’ADMM, continuiamo a portare avanti esercitazioni multilaterali che coinvolgono tutti i nostri oltre otto partner. Queste interazioni rafforzano la cooperazione pratica, come il Codice per gli incontri imprevisti in mare (CUES), per ridurre il rischio di incidenti e di errori di calcolo. Al centro dei nostri impegni, come pienamente esemplificato nello Shangri-La Dialogue, c’è il desiderio di cercare la pace, anche se noi capi della sicurezza rafforziamo i nostri eserciti per proteggere le nostre singole nazioni. A volte i progressi sembrano dolorosamente lenti, ma è nostro dovere nei confronti dei nostri cittadini e della prossima generazione persistere e fare progressi.

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Che eredità lascerà Widodo all’Indonesia?

Self-made man di umili origini, primo presidente dell’Indonesia senza una dinastia politica o l’esercito alle spalle. A pochi mesi dalla fine del suo secondo e ultimo mandato, Joko Widodo rimane popolarissimo e il suo successore emergerà probabilmente dal suo entourage. Storia eccezionale di un leader che incarna le forze e le contraddizioni del suo Paese

Ci si riferisce a Joko Widodo quasi sempre con il soprannome “Jokowi”. Accorciare nomi e titoli o dare nomignoli è un’abitudine diffusissima nella lingua indonesiana parlata, ma sembra che il soprannome del presidente sia stato coniato da un suo business partner francese. Prima di entrare in politica, Jokowi si occupava, con un discreto successo, di produrre ed esportare mobili fabbricati con il pregiato legname delle foreste tropicali dell’arcipelago indonesiano. Si trattava, per certi versi, dell’attività di famiglia, anche se il padre la svolgeva su una scala ben minore. Jokowi infatti era nato nella casa di un falegname di Surakarta, città nella Giava centrale, che vendeva per strada i mobili che fabbricava. Dopo gli studi in ingegneria forestale, Widodo lavora prima in una fabbrica statale di cellulosa e apre poi la sua azienda, entrando a far parte dell’associazione di categoria. All’inizio gli affari non decollano e, nei primi anni Novanta, Jokowi rischia la bancarotta, ma viene salvato da un prestito concesso da un’azienda statale. La società riesce a crescere grazie alle esportazioni, soprattutto verso l’Europe e, in particolare, la Francia. Insomma, il successo imprenditoriale di Widodo è stato costruito sul sostegno delle aziende statali e sull’export, due elementi che saranno poi al centro della sua politica economica, soprannominata da alcuni imprenditori Jokowismo.

I produttori di mobili sono un gruppo industriale influente in Indonesia e Widodo, presidente dell’associazione per la città di Surakarta, è pronto a entrare in politica. Nel 2005 vince le elezioni a sindaco di Surakarta e la sua amministrazione risulta estremamente popolare grazie al pugno duro contro la criminalità e alla promozione del turismo. L’imprenditore di successo ora sindaco non dimentica però le sue umili origini e si reca spesso a visitare i quartieri poveri della città, dove promuove l’edilizia popolare e l’accesso all’istruzione. Politiche apprezzate che Jokowi replicherà su scala più grande nei suoi incarichi successivi. La sua popolarità è altissima e nel 2010 viene rieletto sindaco con più del 90% dei voti. Forte di tale risultato, appena due anni dopo punta alla posizione di governatore di Giacarta e viene eletto. Carica che mantiene per poco tempo, dato che nel 2014 il suo partito, il PDI-P (Partito Democratico Indonesiano di Lotta) lo designa quale proprio candidato alla presidenza del Paese. La fulminante carriera politica di Jokowi è costruita sul suo talento di apparire come “uomo del popolo” che non dimentica le sue origini, capace di ottenere risultati e sinceramente interessato a migliorare le condizioni di vita degli indonesiani più poveri.  

La scelta di Widodo da parte del PDI-P fu eccezionale per le dinamiche della politica indonesiana. L’allora governatore di Giacarta non era un ex ufficiale dell’esercito come invece il suo rivale, l’ex generale conservatore Prabowo Subianto, né il rampollo di una dinastia politica come la leader del PDI-P e figlia di Sukarno Megawati. Prima di lui, tutti i presidenti dell’Indonesia erano appartenuti a una delle due categorie, ma per Widodo e il PDI-P l’anomalia poteva diventare la leva con cui risollevare il partito dopo anni di disfatte elettorali. Jokowi si presenta come uomo nuovo, estraneo all’establishment e vicino al popolo. Come tanti altri leader negli stessi anni, Widodo vince con una piattaforma populista che metteva al centro la lotta alla corruzione. Le elezioni sono un trionfo, Jokowi batte Prabowo con il 53% dei voti e ripete il successo nel 2019, sempre contro Prabowo, con il 55%. Tutt’oggi Jokowi rimane popolarissimo, con un gradimento intorno al 76%. È difficile sentire voci critiche contro il presidente, anche perché offenderlo può portare a 18 mesi di prigione, come è successo a un diciottenne di Sumatra nel 2017.

Widodo infatti è un leader democraticamente eletto, disposto a cedere il potere alla fine dei suoi due mandati come previsto dalla Costituzione, ma è anche il leader di una democrazia “ibrida”. Il potere è contendibile alle elezioni, ma il dissenso viene represso quando alza troppo la voce o esce dal solco tracciato dal governo. Durante l’amministrazione Widodo sono state scritte leggi alquanto vaghe contro la diffamazione e la “blasfemia”, che sono ora interpretate in modo ampio per limitare la libertà di espressione, assemblea e associazione. Un’altra pagina grigia per quanto riguarda i diritti fondamentali è rappresentata da una recente e inedita assunzione di responsabilità da parte di Jokowi per alcuni episodi di violenza perpetrati dallo Stato indonesiano in passato. Un passo in avanti solo parziale, dato che il presidente ha taciuto sui crimini commessi dall’esercito durante l’occupazione di Timor Est e sulla violenta repressione tutt’oggi perpetrata contro i nativi della Papua Occidentale che chiedono l’indipendenza da Giacarta. Anche la promessa di combattere la corruzione è rimasta disattesa. Rizal Ramli, politico di lungo corso ed ex ministro del primo governo Widodo, ha recentemente scritto su The Diplomat che con Jokowi “le lancette dell’orologio sono tornate indietro”, dato che la clique del presidente si è dimostrata “terribilmente corrotta, con enormi conflitti d’interesse”. Widodo tace e lascia fare, così da tenere uniti gruppi d’interesse contrapposti e mantenere il potere. Anche l’ex rivale Prabowo è stato cooptato come ministro della difesa.

Nonostante la corruzione sia un problema gravissimo e percepito come tale dall’opinione pubblica, l’economia indonesiana cresce e non conosce crisi. Il Jokowismo sembra funzionare e rimane popolare. Memore della sua esperienza personale, Widodo vede nelle ricche aziende statali del Paese uno strumento utile per guidarne l’economia e le infrastrutture verso i suoi obiettivi di sviluppo economico, ma anche sociale. In questo, il presidente è stato assistito con successo dal suo ministro delle imprese statali Erick Thohir, imprenditore noto in Italia per aver acquistato e guidato per alcuni anni l’Inter. Un altro principio del Jokowismo è la ricerca di nuovi mercati e investimenti all’estero. L’Indonesia ha ricoperto recentemente la presidenza sia del G20 sia dell’ASEAN, dando grande importanza in entrambi i forum al commercio e alla crescita economica. E Jokowi è riuscito a trovare molti investitori, soprattutto in Cina. La presenza di Pechino nel Paese è aumentata molto, sia per investimenti che per presenza di lavoratori cinesi, categoria spesso vittima di violenze. Un tema un po’ scomodo per l’amministrazione, criticata in passato dall’opposizione per aver “svenduto” il Paese alla Cina e oggi impegnata a tenere sotto controllo il sentimento anti-cinese.

Anche se è difficile prevedere chi sarà il successore di Jokowi, sicuramente sarà un jokowista in economia. Presentarsi in continuità con il popolare presidente uscente sarà necessario per emergere da una rosa ancora affollata di contendenti. I due nomi più probabili sembrano essere l’ex rivale, ora alleato, Prabowo e il candidato ufficiale del PDI-P Ganjar Pranowo, governatore della Giava centrale. I due potrebbero addirittura allearsi e correre in ticket, in continuità assoluta con la grande coalizione che sostiene Widodo. Se Jokowi è entrato in politica senza provenire da una dinastia di potere, ne esce dopo averne creata una propria: i suoi figli hanno già iniziato a far gavetta e il primogenito è già sindaco di Surakarta, la città da cui è partita l’ascesa di Widodo. Sentiremo ancora parlare di loro. In ogni caso, il fatto che la transizione al post-Jokowi stia avvenendo in modo democratico dimostra la forza della democrazia, seppur “ibrida”, indonesiana. Una democrazia piena di contraddizioni che ha richiesto un politico fuori dagli schemi come Jokowi per guidarla: tanto capace ed efficace, quanto accondiscendente verso la corruzione e i vizi del sistema.

La nuova “corsa allo spazio” del Sud-Est Asiatico

Turismo, comunicazioni e difesa sono le nuove frontiere della tecnologia spaziale

Articolo di Tommaso Magrini

Turismo spaziale e tecnologia satellitare sono il futuro del Sud-Est Asiatico. Thailandia e Vietnam si sono infatti lanciate in una nuova “corsa allo spazio” che proietterà la Regione al centro delle dinamiche dello sviluppo del settore. 

La Geo-Informatics and Space Technology Development Agency tailandese si prepara a mettere in orbita nel mese di agosto un satellite industriale, sviluppato con il sostegno del Regno Unito. Entro i prossimi cinque anni, inoltre, il Paese del Sud-Est Asiatico è intenzionato a lanciare altri due o tre satelliti interamente home made.

Si tratta di progetti molto ambiziosi quanto importanti per lo sviluppo tecnologico della Thailandia, dal momento che l’impiego di satelliti sviluppati nazionalmente offrirebbe al Paese più ampia libertà nel raccogliere e gestire dati scientifici, che nel caso di Bangkok verrebbero utilizzati per veicolare il settore agricolo verso un approccio più tecnologico e funzionale.

In più il Paese sta valutando la possibilità di costruire un proprio sito di lancio. Se il budget a disposizione e lo sviluppo tecnologico lo consentiranno, la struttura potrebbe essere costruita in meno di dieci anni. Intanto la previsione del governo è che l’economia spaziale sia destinata a crescere di circa 9 miliardi di dollari entro il 2030, diventando una delle industrie di punta del Paese.

La Thailandia inoltre sta valutando l’impiego della tecnologia spaziale per scopi di difesa. Inoltre, sta considerando di vietare i siti di produzione per satelliti militari stranieri e relative apparecchiature nel territorio nazionale.

Ma la Thailandia non è l’unica nazione del Sud-Est Asiatico con ambizioni spaziali. Anche Hanoi si sta muovendo nella stessa direzione, avendo approvato un piano per la costruzione di uno spazioporto turistico entro il 2026. Un progetto da 30 trilioni di dong, secondo i media locali, all’incirca 1,3 miliardi di dollari. La struttura sarà costruita sull’isola di Phu Quoc, già famosissima destinazione turistica, e il primo lancio è previsto per il 2030.

Thailandia e Vietnam sono quindi in concorrenza con i due giganti dello spazio: Cina e Stati Uniti. Ma non partono affatto svantaggiati. I Paesi del Sud-Est Asiatico hanno infatti un vantaggio geografico non indifferente: la posizione vicino all’equatore permette di usare un minore quantitativo di energia per il singolo lancio, abbattendo di conseguenza i costi.

Anche le Filippine non si sono lasciate sfuggire la ghiotta occasione e hanno firmato un accordo con SpaceX, l’azienda di Elon Musk, per la fornitura dei servizi internet di Starlink. L’azienda, infatti, spera di migliorare le comunicazioni e il transito di dati nelle zone montuose e più remote dell’arcipelago, soprattutto per facilitare le operazioni di soccorso in caso di necessità. L’aumento di condizioni climatiche estreme ha infatti incrementato l’interesse per il business dei satelliti, essendo il Sud-Est Asiatico una delle aree più colpite dal cambiamento climatico, con inondazioni e prolungati periodi di siccità che si verificano su larga scala. In questo senso i sistemi di monitoraggio dei satelliti potrebbero aiutare a mitigare le conseguenze di tali fenomeni.

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