Elezioni nelle Filippine: gli sfidanti e i temi del voto

Lunedì 9 maggio, l’arcipelago del sud-est asiatico sceglie il suo nuovo presidente. Alcune informazioni per capire la sfida elettorale e le sfide che attendono la leadership entrante.

Manca poco al giorno delle elezioni nelle Filippine. Il 9 maggio i cittadini votano per le presidenziali, oltre a esprimere la preferenza per legislatura ed esecutivo a livello nazionale e provinciale. Una sfida che vede soprattutto i cinque candidati per la presidenza protagonisti di una fase complessa per il destino dell’arcipelago. Tra i fattori che erediterà la nuova dirigenza: sei anni di amministrazione Duterte segnati dalla lotta alla criminalità senza compromessi, l’emergenza Covid-19, il rallentamento dell’economia e una crescente instabilità geopolitica nel Pacifico. Come vengono trattati questi temi oggi, quali misure verranno effettivamente prese dal nuovo governo, sarà decisivo per il futuro dei suoi cittadini e dell’ASEAN. Lo stesso presidente uscente, Rodrigo Duterte, non parteciperà al summit USA-ASEAN del 12-13 maggio a Washington per “non prendere posizioni che potrebbero risultare inaccettabili alla nuova amministrazione”.

Sfide e opportunità 

Il nuovo corso degli eventi non potrà prescindere da quelli che sono i temi del momento. Il nuovo presidente ha solo un mandato a disposizione per agire nei confronti degli elettori e preparare la strada per favorire la continuità delle riforme. Tra questi, proprio l’immobilità della classe politica rimane una delle maggiori preoccupazioni per la salute della democrazia filippina: qualsiasi carriera importante ha radici nel network di conoscenze (fino al nepotismo e all’esistenza di vere e proprie dinastie politiche) e nella corruzione. Da qui una certa frustrazione e disillusione nei confronti della classe politica, poiché la percezione generale è che chi possiede denaro e contatti ha già in mano un grande potere sulla politica locale e nazionale. Secondo il Corruption perception index del 2021, l’81% dei filippini pensa che la corruzione sia un serio problema interno all’élite politica del paese, mentre il 19% dei funzionari pubblici avrebbe ricevuto almeno una volta all’anno delle tangenti. 

A questo clima socio politico si aggiunge il problema sempre più grave della disinformazione. La famiglia dell’ex dittatore Marcos e dell’attuale candidato Ferdinand ‘Bongbong’ Marcos Jr., per esempio, ha lavorato assiduamente per “ripulire” la propria immagine. Oggi i social media offrono un’ampia varietà di contenuti propagandistici su Marcos Jr., o inneggiano a un passato glorioso attraverso gli inni e i simboli del regime del 1965. Quasi l’intera popolazione è esposta all’informazione su Facebook, YouTube e TikTok e la maggior parte di questi utenti sono giovani nati negli anni successivi alla caduta dell’autocrate (1986). Gli stessi giovani che, oggi, costituiscono un terzo dell’elettorato.

Una ricerca pubblicata da Publicus Asia segnala, inoltre, che il 51% dei rispondenti ritiene la campagna vaccinale e la crisi economica post-Covid i due principali problemi delle Filippine. Secondo gli ultimi dati sulla pandemia, i casi sono stabili e le vaccinazioni sembrano procedere di buon passo (il 74,3% della popolazione vaccinabile ha ricevuto almeno due dosi). Per quanto riguarda l’economia, le stime della Asia Development Bank (ADB) prevedono un trend positivo di crescita al 6% per il 2022, ma la guerra in Ucraina e i rallentamenti lungo le catene di approvvigionamento (soprattutto a causa del lockdown cinese) potrebbero cambiare le carte in tavola.

Ma le elezioni del 2022 potrebbero essere decisive anche per il futuro della politica estera filippina. Situate in un contesto geografico sempre più teso tra Cina e Stati Uniti, le Filippine sono da tempo combattute tra i vantaggi della partnership commerciale con Pechino e l’assertività delle sue navi nel mar Cinese meridionale. Se Marcos Jr. vincesse le elezioni, in molti ritengono ci si possa aspettare un allineamento verso la Repubblica popolare. Da un punto di vista dei valori alla base della sua campagna elettorale, invece, Leni Robredo otterrebbe un supporto maggiore dagli Usa nella sua lotta alla sopravvivenza delle istituzioni democratiche nel Sud-Est asiatico.

Chi sono i candidati

I candidati alle elezioni presidenziali nelle Filippine sono cinque, ma secondo i sondaggi il testa-a-testa decisivo sarà tra Ferdinand ‘Bongbong’ Marcos Jr. e Maria Leonor “Leni” Gerona Robredo. I due si trovano ancora una volta rivali davanti all’elettorato, che li aveva visti correre per la vicepresidenza nel 2016, quando Robredo vinse con solo lo 0,34% di vantaggio contro Marcos.

Il primo, come anticipato, è figlio del dittatore che ha guidato il Paese per oltre vent’anni (1965-1986) – undici dei quali imponendo la legge marziale. Lo spettro di Marcos padre non oscura la fama del figlio: per molti, al contrario, i Marcos rappresentano un’istituzione. A favorirlo potrebbe essere il nord (la regione di Ilocos Norte è storicamente considerata il “feudo” dell’ex famiglia presidenziale, e proprio lì si è consolidata la carriera politica di Marcos Jr.), che anche nel 2016 aveva preferito la coalizione d’opposizione di Jejomar Binay. Al momento sembra essere il favorito dai sondaggi. La sua candidata alla vicepresidenza è nientemeno che Sara Duterte, figlia del presidente uscente che ha rinunciato alla corsa per il posto del padre (nonostante le analisi e il sentiment popolare l’avessero messa al primo posto tra i favoritissimi per la corsa alla presidenza).

Maria Leonor “Leni” Gerona Robredo, dei Liberali, ha fatto della difesa della democrazia e della lotta al nepotismo le sue armi in campagna elettorale. Avvocata per i diritti umani, si è presto distaccata dal presidente Duterte durante la sua vicepresidenza, complice la sanguinosa campagna contro la droga che ha portato alla morte di oltre seimila persone dall’inizio del suo mandato. È la seconda candidata favorita dai sondaggi, attestandosi intorno al 24% e ottenendo una discreta ripresa su Marcos Jr. Sta avendo successo su parte dell’elettorato per i suoi atteggiamenti di “umiltà” in un paese dove l’accesso alla politica si ottiene spesso con il denaro e le conoscenze: tra questi, l’aver tolto i tacchi alti in pubblico e l’utilizzo dei mezzi pubblici per spostarsi. Alcune recenti analisi sembrano inoltre vederla in vantaggio tra gli investitori, che diffidano della capacità di Marcos Jr. nel portare avanti politiche economiche e fiscali efficaci. Se eletta, sarebbe la terza presidente donna del paese dopo Corazon Aquino e Gloria Macapagal Arroyo.

Gli altri candidati alle presidenziali sono il sindaco di Manila e attore Isko Moreno, l’ex campione di pugilato e senatore Manny “PacMan” Pacquiao e l’ex dirigente della Polizia nazionale delle Filippine Panfilo Lacson.

Le elezioni e l’ASEAN

L’elezione di un nuovo capo di stato è sempre determinante nel contesto delle relazioni regionali. Nel caso delle Filippine, il problema diventa ancora più urgente davanti a un panorama geopolitico in mutazione. Un ambiente, quello odierno, che per la sua complessità necessiterebbe della massima coesione interna al gruppo ASEAN.
In uno degli ultimi dibattiti della campagna elettorale in corso, Leni Robredo ha sottolineato la necessità per Manila di guidare il dialogo ASEAN sull’assertività cinese nel tratto di mare comune. Per Robredo, il Codice di condotta per il Mar cinese meridionale non può essere posticipato ulteriormente. E le Filippine “devono spingere gli altri Paesi membri” ad approvarlo in modo da consolidare la propria posizione davanti alle rivendicazioni territoriali cinesi. L’Associazione osserva con attenzione quanto accadrà nelle urne filippine anche per il proprio bilanciamento interno, quanto mai fondamentale in un momento globale così delicato tra coda pandemica e guerra in Ucraina.

Timor Est, dopo le elezioni si punta all’ingresso nell’ASEAN

I cittadini della più recente democrazia asiatica hanno scelto Ramos-Horta come nuovo leader. Si tratta di un ritorno per il premio Nobel che vuole l’ingresso nell’Associazione delle Nazioni del Sud-Est asiatico

Timor Est ha scelto il proprio Presidente: si tratta di José Ramos-Horta, premio Nobel per la Pace nel 1996 e figura chiave della Resistenza all’occupazione indonesiana (1975-1999). Già presidente tra il 2007 e il 2012, Ramos-Horta ha sfidato al ballottaggio il presidente uscente Francisco “Lu Olo” Guterres. È la quinta elezione per una delle democrazie più giovani d’Asia, e la prima in era post-pandemica. Non sono quindi poche le sfide che la nuova amministrazione dovrà affrontare, tra crisi economica e nuove turbolenze politiche nella regione. 

Elezioni a Timor Est: una panoramica

Timor Est, noto anche come Timor Leste o Timor Lorosa-e, è la prima democrazia asiatica a nascere nel XXI secolo. Il dominio coloniale portoghese è durato circa 400 anni fino all’indipendenza, dichiarata unilateralmente nel 1975. Un’indipendenza durata poche settimane, fino al 7 dicembre dello stesso anno. La leadership politica emergente si era progressivamente formata intorno alle forze indipendentiste di stampo socialista: l’allora Presidente indonesiano Suharto poté quindi giustificare l’invasione e la repressione degli est-timoresi appoggiandosi su una politica estera nazionalista e anticomunista. Nel 1999 un referendum supervisionato dalle Nazioni Unite confermò la richiesta di autonomia da parte dei cittadini di Timor Est. Solo nel 2002 arrivò l’indipendenza ufficiale, dopo quasi tre anni di ripercussioni da parte delle forze di occupazione.

Il ventesimo anniversario dell’indipendenza – il 20 maggio 2022 – sarà il giorno dell’inizio della nuova presidenza. L’elezione di Ramos-Horta conferma la prevalenza di figure chiave della Resistenza nel panorama politico di Timor Est. Non è una caratteristica indifferente in un paese dove solo il 33% circa della popolazione ha più di 30 anni. La maggior parte del 1,3 milioni dei cittadini, infatti, ha solo un’esperienza limitata della violenza degli anni dell’occupazione. Molto più familiari a molti est-timoresi sono, invece, un’economia e un mercato del lavoro stagnanti. Le condizioni di vita sono lentamente migliorate nel corso dell’ultimo decennio, ma il 42% della popolazione vive ancora in stato di povertà. Il sistema economico è esposto agli shock esterni in quanto poggia su pochi settori vitali. Al di fuori degli aiuti internazionali, la maggior parte delle entrate dipende da gas e petrolio, che costituiscono il 90% delle esportazioni totali (e vedono il coinvolgimento anche di imprese italiane come Eni). Anche il caffè è un bene che porta ricchezza nel paese, ma non abbastanza per stabilizzare un mercato del lavoro legato in buona parte all’economia informale.

Il futuro di Timor Est e l’ASEAN

All’alba dell’elezione a nuovo presidente di Timor Est, José Ramos-Horta ha fatto riferimento all’obiettivo nell’ingresso di Timor Est nell’Associazione delle Nazioni del Sud-est asiatico (ASEAN) entro il 2023. Una promessa pronunciata per la prima volta oltre dieci anni fa durante il primo mandato, quando venne sottoposta ufficialmente la candidatura di Dili all’entrata nel gruppo. L’anno prossimo la presidenza di turno passerà all’Indonesia e, come afferma il neoeletto presidente, entrare nell’ASEAN in quest’occasione “sarebbe un gesto altamente simbolico”. L’ingresso di Timor Est nel blocco è stato posticipato a più riprese perché parte dei Paesi membri giudica la sua economia ancora “troppo sottosviluppata”. 

I Paesi ASEAN che più hanno intrecciato rapporti con Dili sono Cambogia e Filippine. Manila viene spesso associata a Timor Est in quanto “sorella maggiore” tra le (poche) realtà di fede cattolica in Asia. Le forze armate filippine sono inoltre coinvolte negli affari est-timoresi dai tempi della transizione a repubblica indipendente e contribuiscono all’addestramento dell’esercito, insieme a Portogallo, Brasile e – in piccola parte – Stati Uniti. Phnom Penh ha una parziale influenza sulla politica estera est-timorese: negli ultimi anni Dili ha cercato i favori della Cambogia in vista della presidenza ASEAN nel 2022, ma anche il legame comune con la Cina ha spesso favorito l’allineamento dei due Paesi in diverse questioni internazionali (da ultimo, Phnom Penh ha spinto per l’astensione di Dili al voto Onu per la condanna del colpo di stato in Myanmar).

Il rapporto con la Cina è una delle chiavi per comprendere l’importanza di Dili sullo scacchiere asiatico. Analogamente ad altre piccole economie della regione, gli investimenti in arrivo da Pechino rappresentano un’opportunità di crescita fondamentale. Opportunità che parte dello stesso blocco ASEAN favorirebbe per non addossarsi i costi dello sviluppo di Timor Est. Ma la situazione è molto più complessa, e l’allargamento della Repubblica Popolare nei piccoli Paesi dell’Asia pacifico rimane un segnale d’allerta per la stabilità dell’area. La Cina è stata il primo paese ad avviare i rapporti diplomatici con il paese nel 2002 e da allora ha contribuito in larga parte agli investimenti necessari per la ripresa economica. Molte infrastrutture a Timor Est sono opera di imprese cinesi (tra cui i palazzi governativi e alcune strutture militari). E le opportunità non sono terminate con la ricostruzione: l’intero sistema portuale deve essere potenziato per aprire il Paese ai commerci internazionali, mentre sono ancora numerosi i bacini di petrolio e gas a non essere ancora stati scoperti e sfruttati.Infine, un fattore sempre più determinante per il destino di Timor Est sarà il cambiamento climatico. Il paese è soggetto a fenomeni climatici estremi che si stanno intensificando con il passare degli anni. Il solo Governo non possiede le risorse per prevenire e riparare i danni che alluvioni, terremoti e frane causano a economia e società. Tre quarti della popolazione dipendono da un’agricoltura di sussistenza: questo significherà, quindi, una maggiore vulnerabilità ai limiti della sopravvivenza. E, quindi, un crescente rischio in termini di indipendenza economica e politica.

Italia e Cambogia, una relazione con tante opportunità

La Cambogia sembra confermarsi un terreno fertile per nuove opportunità, mostrandosi molto aperta all’innovazione in molti settori. Un webinar tenutosi il 7 aprile ha fornito una panoramica generale per aiutare le imprese italiane a comprendere meglio gli sviluppi chiave dell’ambiente di investimento cambogiano e a capitalizzare le opportunità emergenti nel Paese.  

Il 7 aprile scorso l’Italian Cambodian Business Association in Cambogia (ICBA), con il supporto della Camera di Commercio Europea in Cambogia (Eurocham) e dell’Associazione Italia-ASEAN, ha organizzato un webinar per presentare le opportunità di collaborazione commerciale tra Italia e Cambogia. Come ha spiegato Sok Chenda Sophea, Ministro legato al Primo Ministro e Segretario Generale del Consiglio per lo Sviluppo della Cambogia, il Regno del Sud-Est asiatico è una delle economie in più rapida crescita al mondo, nel 2018 il tasso di crescita  si è attestato intorno al 7 per cento del PIL; trainata dall’aumento delle esportazioni e dai maggiori consumi interni. Nonostante le chiusure e le restrizioni di viaggio per il contenimento della pandemia, la rapida crescita della Cambogia è in gran parte destinata a persistere.

Subito dopo la guerra civile negli anni Settanta, il Paese ha avuto bisogno del supporto del settore privato, il sostegno del sistema internazionale e di donatori bilaterali per la sua ricostruzione, e, negli anni, è riuscito a creare un ambiente commerciale che punta su crescita inclusiva e sostenibile.

Tra le altre misure, la nuova legge sugli investimenti promulgata il 15 ottobre 2021 rappresenta un altro tassello per rendere l’ambiente di investimento in Cambogia più incentivante e conforme alle esigenze degli investitori. Nel Paese, gli investitori stranieri ricevono gli stessi diritti degli investitori nazionali, ad eccezione della proprietà del terreno; in proposito le normative stabiliscono che la partecipazione maggioritaria, pari ad almeno il 51 per cento, debba essere riservata a cittadini di nazionalità cambogiana e/o allo stesso Governo. Inoltre, gli investimenti sono aperti in tutti i settori e  non ci sono restrizioni sul rimpatrio di capitali.

Nel suo intervento al webinar, Lorenzo Galanti, Ambasciatore d’Italia in Thailandia, Cambogia e Laos, ha sottolineato come l’Italia stia prestando sempre più attenzione all’ASEAN e di conseguenza anche a Phnom Penh. A testimoniare l’impegno italiano, la donazione di oltre un milione di dosi di vaccini Astrazeneca e, a proposito della gestione della pandemia, Galanti ha rilevato come il Regno sia riuscito a contenere con efficacia la diffusione del virus e come ad oggi registri uno dei più alti tassi di vaccinazioni con una quota che raggiunge il 92 per cento della popolazione. 

Alla luce delle attuali tensioni internazionali, l’Ambasciatore ha voluto esprimere il pieno appoggio alla presidenza cambogiana dell’ASEAN nel 2022 e alla nomina di S.E. Prak Sokhonn, Vice Primo Ministro e Ministro degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale della Cambogia, in qualità di inviato speciale dell’ASEAN in Myanmar.

La partnership Italia-Cambogia è un importante strumento per aumentare le capacità istituzionali dell’ASEAN e  ha un grande potenziale economico sia in termini di commercio che investimenti. Il commercio tra i due Paesi si è ripreso nel 2021 raggiungendo 416 milioni di euro, facendo segnare un +12 per cento rispetto all’anno precedente. L’Ambasciatore ha inoltre posto l’accento sul grande valore che le imprese italiane possono offrire alla crescita sostenibile in Cambogia, grazie alla loro solida esperienza e know how in molti campi come quelli di infrastrutture ed energia.

In conclusione del suo intervento,  ha invitato le autorità cambogiane a mostrare il loro supporto per la candidatura di Roma al World Expo nel 2030 dove il tema principale sarà un nuovo modello di città più inclusivo, interconnesso e  sostenibile sulla scia della trasformazione digitale.

In aggiunta, il Vicepresidente dell’Associazione Italia-ASEAN Romeo Orlandi ha affermato come il percorso di apertura verso il libero commercio rappresenti uno strumento fondamentale per la crescita della Cambogia e di altri Paesi del Sud-Est asiatico. Phnom Penh può essere presa come uno degli esempi più recenti in cui un Paese asiatico, globalizzandosi, ha acquisito  un ruolo crescente nelle catene di approvvigionamento. Il Regno ha la possibilità di attrarre investimenti grazie alla stabilità politica, network di infrastrutture in rapida crescita, un mercato interno in costante crescita e grandi incentivi per gli investimenti, come la possibilità di rimpatriare i profitti.

Orlandi ha infine ribadito che altrettanto importante è sostenere lo sviluppo di valori condivisi tra i due Paesi per approfondire la cooperazione bilaterale. L’Associazione Italia-ASEAN esercita da sempre un forte impegno nell’avvicinare le realtà dei 10 Paesi dell’ASEAN all’Italia, mettendo in luce le opportunità di cooperazione e di crescita, organizzando eventi per riunire le rispettive comunità business e di decision maker.

Le sfide ancora da vincere per Widodo

Infrastrutture, industrie manifatturiere e capitale umano sono le tre direttrici che impegnano il Presidente indonesiano nella seconda parte del suo ultimo mandato.

Nel pieno del suo secondo e ultimo mandato, il Presidente indonesiano Joko Widodo, ha una fitta lista di progetti da portare a termine entro il 2024, quando dovrà abbandonare la guida del governo. Conosciuto dagli indonesiani come “Jokowi”, il Presidente si presenta come un uomo del popolo: non si risparmia le visite nei villaggi lontani e persino nei bassifondi. “Devo incontrare la gente per sapere cosa vuole”, ha detto a Nikkei Asia. Sarà per questo che il suo indice di gradimento è quasi sempre al di sopra del 70%, come rivelato da Indikator Politik Indonesia.

Tuttavia, l’indiscussa capacità di Widodo di piacere agli indonesiani è sempre più messa alla prova nel tentativo di inseguire la crescita economica. Se da un lato infatti deve assicurarsi il favore del suo popolo, dall’altro ha bisogno di corteggiare gli investitori e le imprese. L’Indonesia ha un urgente bisogno di investimenti: la sua economia deve espandersi ogni anno per poter assorbire un afflusso annuale di oltre due milioni di nuovi lavoratori, mentre la crescita stagnante alimenta il rischio di instabilità sociale. 

Durante i mandati di Widodo, il Pil è cresciuto solo del 5% circa, quando il Presidente aveva promesso almeno il 7%. Per incentivare la crescita, Jokowi ha deciso di puntare su tre politiche chiave, che saranno i pilastri del suo governo fino alla fine del secondo mandato: infrastrutture, industrie manifatturiere e capitale umano. Lavorando su questi tre aspetti, Widodo è sicuro che “il Pil dell’Indonesia nel 2030 sarà il triplo di quello che è ora”.

La costruzione di infrastrutture come strade, porti, aeroporti e ponti, è stata il segno distintivo della presidenza di Widodo. Nei suoi primi sei anni in carica sono stati costruiti 6240 km di strade, 15 nuovi aeroporti e 124 nuovi porti marittimi. Tutti progetti che impallidiscono di fronte a Nusantara, la nuova capitale che sostituirà Giacarta. Un progetto da 30 miliardi di dollari, da costruire sull’isola del Borneo. Secondo il presidente è una mossa necessaria per incentivare la crescita economica al di fuori della popolosa isola di Giava, che ad oggi rappresenta il 60% del Pil del Paese.

Un’altra priorità del presidente è la riallocazione industriale. In particolare, passare dalla lavorazione alla produzione, anziché concentrarsi solamente sull’estrazione di materie prime. Questa politica è stata accompagnata da una legge che proibisce l’esportazione di minerali non trasformati, per incentivare le aziende estere a spostare le lavorazioni di materiali e la produzione di beni in Indonesia. Inoltre, a partire dal 2020, l’esportazione di nichel – fondamentale per i dispositivi elettronici – è stata vietata. Widodo, nel corso dei suoi mandati, ha insistito molto sull’importanza del divieto di esportazione per generare nuovi e migliori posti di lavoro, puntando quindi anche sulla formazione del capitale umano.

Ma proprio quest’ultimo sembra essere il punto debole della presidenza di Jokowi, che secondo i suoi critici si sarebbe dimostrato molto poco ambizioso nello sviluppo del capitale umano. Certo, alcune misure sono state messe in atto, come il programma per studenti universitari per guadagnare crediti facendo stage presso le aziende. Oppure il programma di aiuti per aiutare le famiglie a basso reddito a pagare le tasse scolastiche. 

Secondo i politologi indonesiani, il problema principale per Widodo è un classico della politica indonesiana: la mancanza di continuità politica tra i diversi presidenti, che provenendo da partiti diversi e avendo ideologie diverse mettono a repentaglio la continuità delle politiche di governo. Un rischio che Jokowi dovrà correre, dal momento che alcuni dei suoi progetti potrebbero essere annullati quando il suo successore prenderà il controllo del Paese nel 2024.

Cooperazione India-ASEAN: le implicazioni regionali

Sono numerose le opportunità di cooperazione tra Nuova Delhi e i Paesi del Sud-est asiatico, così come è alto il potenziale per approfondire tale relazione.

Articolo di Aishwarya Nautiyal

Con l’emergere dello sviluppo economico e di una maggiore influenza da parte dell’India, uno dei principali obiettivi dei responsabili politici è stata la cosiddetta “Look East Policy” (politica rivolta a est), in cui l’ASEAN ha assunto un ruolo fondamentale, favorendo la collaborazione allo scopo di promuovere gli interessi commerciali, economici e di sicurezza dell’India. Uno dei principali accordi è stato il “Free Trade Agreement”, ossia un accordo di libero scambio firmato da India e ASEAN a Bali, in Indonesia, nel 2009. Le mutevoli dinamiche internazionali e la crescente importanza della regione indopacifica rendono questa partnership un nodo centrale per la stabilità e la realizzazione di un coordinamento sostenibile nell’odierno mondo globalizzato. Un gruppo di dieci nazioni con variazioni nella crescita economica e molte risorse a disposizione ha gettato solide basi grazie a una liberalizzazione delle tariffe pari al 90%, rendendo questo FTA uno dei più grandi accordi di libero scambio nel mondo, e comprende inoltre alcuni prodotti pregiati come l’olio di palma, il tè e il caffè.

L’India prevede di esportare 46 miliardi di dollari nell’anno finanziario 2022, ed è tra le più grandi regioni commerciali verso il raggiungimento dell’obiettivo di 400 miliardi di dollari a livello globale. La cooperazione principale proviene dal settore ingegneristico, in cui l’ASEAN detiene il 15% della quota delle esportazioni indiane, pari a 35,3 miliardi di dollari nel 2021 e con un nuovo obiettivo fiscale di 105 miliardi di dollari per il 2022. Nello scenario globale, questa cooperazione sta diventando un’importante catena di approvvigionamento e del valore incentrata sulla partnership reciproca e sui mercati dell’export. L’ASEAN stessa è il terzo partner esportatore e il quinto partner commerciale dell’India al mondo. Mentre si guarda alla crescente interazione tra i due partner, tra i responsabili politici indiani hanno suonato un campanello d’allarme, dal momento in cui si è visto come la riduzione delle tariffe stia portando una maggiore partecipazione da parte dell’ASEAN nei mercati indiani rispetto a quanto l’India partecipi nei mercati competitivi delle economie ASEAN. Ciò è dovuto al fatto che alcuni dei Paesi più importanti come Singapore, Malesia e Indonesia sono economie esportatrici, ed hanno un vantaggio competitivo con un rapporto più alto tra PIL ed export di beni.

Il Kerala è uno dei maggiori esportatori, comprese le esportazioni nazionali di prodotti agricoli. La gomma, il caffè, il pesce sono la principale fonte di reddito, mentre la minore produttività dovuta all’aumento delle importazioni per poter raggiungere prezzi competitivi sta danneggiando l’industria agricola. L’importazione di pesce, gomma e olio di palma a minor prezzo dalla Malesia e dall’Indonesia può costituire uno dei maggiori ostacoli; ha già colpito la produzione locale  causando una riduzione della domanda. L’aumento della concorrenza dovuta alle importazioni dall’ASEAN ha posto alcune sfide al governo, che ha l’arduo compito di mantenere l’equilibrio tra agricoltura locale e liberalizzazione del commercio. Un’altra grande sfida è la variazione della stabilità economica e politica dell’ASEAN. Il Myanmar, in cui persiste l’instabilità politica, è il sorvegliato speciale nella visione che ha Nuova Delhi del Sud-est asiatico.

Un’altra sfida che questa cooperazione ha dovuto affrontare è il boicottaggio dell’esportazione di olio di palma malese in India da parte dei commercianti, che ha suscitato forti preoccupazioni tra gli Stati membri. L’India ha giudicato l’intervento della Malesia un’ingerenza nei propri affari interni quando il governo indiano ha revocato lo statuto speciale del Kashmir nel 2019. In quest’occasione, la dichiarazione del primo ministro malese Mahathir Mohamad, che si opponeva alla revoca, ha provocato una nuova spaccatura fra i due Paesi, in seguito a cui l’India ha deciso di imporre limiti sulle importazioni di olio di palma dalla Malesia. Queste dinamiche politiche e alcune tensioni mettono in evidenza un aspetto importante: è necessario un forte coordinamento da parte della diplomazia per attuare importanti misure di confidence building. Ciononostante, emergono sfide e interessi strategici, e i negoziati attraverso dialoghi multilaterali stanno facendo in modo che si trovino alternative per affrontare tali questioni. La crescente importanza dell’ASEAN e dell’Oceano Indiano fa emergere nuove possibilità in cui le controversie nel Pacifico possono essere considerate come un nuovo punto focale per migliorare la partnership strategica e modificare le dinamiche riguardanti la sicurezza.

Il dilemma di Malacca è uno degli aspetti centrali in cui le isole indiane di Andamane e Nicobare sono posizionate strategicamente nei pressi della principale rotta commerciale dello Stretto di Malacca, e la sua posizione geografica è condivisa con le principali economie come Tailandia, Malesia, Singapore e Indonesia; questo fa sì che l’India abbia confini marittimi con i vicini Paesi  dell’ASEAN. Negli ultimi anni si è rafforzata la cooperazione reciproca in vari ambiti del settore della difesa, fra cui le esercitazioni militari, lo sviluppo tecnologico, il commercio di armi e lo sviluppo reciproco delle infrastrutture. Lo stretto di Malacca è una delle importanti rotte commerciali che si trova sotto la supervisione degli Stati regionali e in cui vengono promosse  collaborazioni reciproche per garantire la libera navigazione e il commercio fra Paesi in conformità con le leggi internazionali, anche allo scopo di promuovere ed esplorare nuove opportunità economiche in scenari geopolitici mutevoli e complessi. D’altro canto, la cooperazione nel settore della difesa fra India e Vietnam, la vendita, per la prima volta, di missili supersonici Brahmos alle Filippine e l’utilizzo di jet da combattimento Tejas da parte dell’aeronautica militare della Malesia sono da ritenersi un elemento di confidence building che si inserisce in varie dinamiche di cooperazione strategica e sicurezza, condividendo le preoccupazioni reciproche sulle controversie regionali.

Rafforzare questo rapporto sfaccettato, dalla cooperazione politica e per la sicurezza alla partecipazione sociale, culturale e linguistica, è un obiettivo della nuova visione dell’India nell’ “Act East Forum” per i suoi Stati nord-orientali e il suo sviluppo delle infrastrutture, con l’aiuto di investimenti giapponesi che mirano ad una maggior collegamento con i vicini Paesi dell’ASEAN. Il porto di Sittwe nella provincia di Rakhine, in Myanmar, che è stato sviluppato con l’intento di sviluppare le infrastrutture e i trasporti, e garantire inoltre l’accesso alla Baia del Bengala al Mizoram, Stato nord-orientale dell’India privo di sbocco sul mare, e più all’interno. Un altro progetto trilaterale riguarda l’autostrada che collega Moreh (India) a Mae Sot (Thailandia) passando per Mandalay (Myanmar), ed è un esempio della collaborazione India-ASEAN per costruire nuove infrastrutture, con futuri piani di espansione verso Laos, Cambogia e Vietnam. Questi progetti hanno destato forte interesse nel governo del Bangladesh, alla ricerca di un’opportunità nello sviluppo delle infrastrutture fra India e ASEAN collegando Dhaka per estendere la propria rete infrastrutturale; il Bangladesh può inoltre fornire l’accesso a Paesi senza sbocco sul mare come il Nepal e il Bhutan ai membri dell’ASEAN attraverso l’India nord-orientale. Riconoscere questo potenziale di sviluppo reciproco può approfondire e rafforzare nuove prospettive per la regione, forgiando un forte legame storico-culturale tra i partner regionali e la loro ricca storia comune.

La transizione energetica spinge il nichel indonesiano

Il nichel è uno dei prodotti di punta dell’Indonesia, che ha promosso una politica di “nazionalismo delle risorse” per trattenere la ricchezza della lavorazione mineraria nel Paese e promuovere la crescita interna. Gli investitori cinesi dominano il mercato, ma Giacarta deve fare i conti con i costi sociali e ambientali legati allo sviluppo del settore.

A inizio marzo il prezzo del nichel ha subito un incremento del 90% al London Metal Exchange, arrivando a toccare i 100 mila dollari per tonnellata metrica. Anche se l’estrema volatilità di questo metallo non colpisce direttamente le tasche dei consumatori, come fa invece l’apprezzamento di altre materie prime come il petrolio, si tratta un fenomeno da tenere d’occhio – soprattutto per gli investitori interessati ai mercati emergenti del Sud-Est asiatico.

Il nichel è uno dei metalli più volatili, perché il suo processo di estrazione e lavorazione non è standardizzato come quello di altri minerali. Le tecnologie impiegate per la produzione sono diverse, anche perché spesso viene commerciato in forma di sottoprodotti come il ferro nichel o il pig iron – metalli meno raffinati di quello di classe 1 (puro al 99,8%) scambiati al London Metal Exchange. Buona parte del nichel viene estratto dalla laterite, di cui sono ricche alcune zone del Sud-Est asiatico, e dai depositi di solfuro. Al contrario di quest’ultimo la laterite non è un minerale scarso, ed è una risorsa fondamentale per la produzione delle batterie dei veicoli elettrici. Per questa ragione buona parte degli investitori impiegati nel settore automotive guardano con interesse le oscillazioni del nichel per capitalizzare sulle opportunità fornite da alcune economie del Sud-Est asiatico.

Una delle principali produttrici di nichel al mondo è l’Indonesia. Secondo l’agenzia di consulenza McKinsey&Company, Giacarta si aggiudica in media il 27% dell’offerta globale di nichel, e alcuni analisti ritengono che il Paese potrebbe aumentare la sua quota di produzione mondiale fino al 60% entro i prossimi otto anni. “Entro il 2028, prevediamo che la produzione indonesiana (di nichel) supererà la produzione mondiale totale del 2020 di 2,5 milioni di tonnellate”, hanno dichiarato i rappresentanti di Macquerie, un istituto di servizi finanziari con base in Australia. L’aumento dell’offerta di nichel lavorato sarà una vittoria per il governo indonesiano, da anni impegnato a delineare misure normative che svincolino la crescita economica nazionale dal ruolo dominante delle esportazioni di materie prime. Il primo giro di vite è stato introdotto nel 2014, poi allentato nel 2017 e istituito nuovamente l’anno scorso. Il cosiddetto “nazionalismo delle risorse” promosso dal governo di Joko Widodo punta a incoraggiare le compagnie minerarie a investire a valle del processo produttivo, limitando l’esportazione del minerale grezzo e valorizzando invece lo stadio della lavorazione a valore aggiunto. Anche se l’obiettivo era quello di impedire che la ricchezza veicolata dalle esportazioni di metalli grezzi andasse a finire nelle raffinerie d’oltremare, molti investitori stranieri sono stati coinvolti in questa transizione.

La Cina domina il settore del nichel in Indonesia. Pechino vanta infatti il più grande mercato automobilistico al mondo, e ha visto una crescita impressionante nella vendita di veicoli elettrici negli ultimi anni – altro fattore che ha contribuito all’innalzamento del prezzo del nichel. Non ha però una grande disponibilità di deposit minerari: le riserve di laterite del Paese costituiscono solo il 3% del totale mondiale. Per questo deve attingere alle risorse dei suoi vicini regionali per supportare lo sviluppo interno del settore. Gran parte delle attività di lavorazione del nichel in Indonesia è concentrata a Sulawesi, dove la compagnia cinese Tsingshan gestisce l’Indonesia Morowali Industrial Park. Morowali è una contea indonesiana con meno di 200 mila residenti, che però ha attirato miliardi di dollari di investimenti cinesi negli ultimi anni. Le aziende produttrici di materiali per batterie Zhejiang Huayou Cobalt, Eve Energy e Guangdong Brunp Recycling Technology hanno iniettato nella contea fino a 4 miliardi di dollari solo nel 2021. Tsingshan ha fondato il Morowali Industrial Park nel 2013. Oggi l’impianto appartiene per il 49,69% alla società cinese Shanghai Decent Investment Group, per il 25,31% all’indonesiana Bintang Delapan Group e per il restante 25% alla loro joint venture, Sulawesi Mining Investment PT. Il progetto è stato inserito nell’alveo della strategia di sviluppo globale Belt and Road Initiative lanciata dal governo di Pechino nel 2013. 

Nonostante gli interessi di Pechino e Giacarta si intersechino nel settore della lavorazione del nichel, e molti fautori degli accordi di Parigi sul clima considerino questa intesa come un passo importante verso forme di trasporto più sostenibili, l’Indonesia deve fare i conti con alcune contraddizioni. La recente legge Omnibus promulgata dal governo indonesiano per la creazione di posti di lavoro incide sulle prestazioni di Giacarta rispetto agli standard ESG (Environmental, Social and Governance criteria), specie per quello che riguarda la partecipazione pubblica. Secondo Angela Tritto, una ricercatrice dell’Università di Scienza e Tecnologia di Hong Kong, le valutazioni di impatto ambientale possono essere contestate solo dalle persone “direttamente interessate” dalle esternalità negative dei progetti. Spesso però queste persone non hanno sufficienti disponibilità finanziarie per ingaggiare delle cause legali. Inoltre, due rapporti pubblicati l’anno scorso da AEER e la Fondazione Rosa Luxemburg, hanno messo in guardia dai pericoli della deforestazione e delle inondazioni che spesso accompagnano le iniziative di estrazione mineraria in Indonesia, così come gli onerosi turni di lavoro che il personale è costretto a sopportare senza ricevere un’adeguata compensazione. Il primato indonesiano della fornitura di nichel comporta diversi costi sociali e ambientali, per questo gli investimenti nel settore dovrebbero tenere conto che la transizione verso veicoli elettrici non basta da sola a garantire sostenibilità.

Il ruolo dei social nel Myanmar post golpe

Articolo di Agnese Loreta

Dal boom di Internet e dei social media nel 2013 al loro shutdown ad intermittenza a partire dal 2021. Come ha cambiato l’utilizzo dei social media il golpe dell’esercito birmano.

Guerra e social media, un binomio fondato da una dipendenza reciproca e che si è sviluppato a partire dalla metà del XIX secolo con i nascenti moderni strumenti di informazione. Da allora questa relazione, quasi intrinseca, non è più venuta a mancare ma, anzi, si è rafforzata ed ha portato a una crescita dell’esposizione informativa dei conflitti.

Di tale relazione sono interessanti due elementi: il primo è il tentativo di controllare il traffico di informazioni, il secondo è l’utilizzo intensivo dei social media come armi.

Di entrambi questi processi sono a conoscenza, rispettivamente, la Giunta militare ed il Movimento di Disobbedienza Civile (CDM), due degli attori primari della situazione in Myanmar. Dopo il 1° febbraio 2021, data che segna il terzo colpo di Stato avvenuto nella storia del Paese, e conseguentemente all’arresto di Aung San Suu Kyi, il malcontento da tempo celato è scoppiato tra le strade birmane ed ha preso gran voce tramite il CDM, con i social media che hanno giocato un ruolo centrale nella sua creazione e nella sua lotta. 

La storia del Myanmar è tristemente contornata da conflitti, a partire da quelli anglo-boeri fino all’invasione del Giappone. Stavolta però il ruolo dei social media ha assunto una forte centralità, complice il fatto che solo nel 2013 è terminato il monopolio statale sui servizi telefonici, permettendo quindi una fruizione maggiore di Internet e dei servizi ad esso associati.  Ciononostante, le politiche della Giunta militare contro la libertà d’opinione e d’espressione, poste in essere a partire da febbraio 2021, hanno notevolmente modificato l’assetto degli utenti dei social media. Di fatto, se nel gennaio 2021 si registravano 23,65 milioni di utenti in Internet e 29 milioni di utenti di social media; un anno dopo, il numero è salito a 25,68 milioni – con un aumento del +7,1% nel corso del 2021 – mentre si registra un netto crollo in quelli dei social media, che a gennaio 2022 erano di 20,75 milioni, praticamente ⅓ di utenti in meno. Secondo Statcounter Global Stats a marzo 2022 il social media maggiormente utilizzato in Myanmar è Facebook (87,21%), seguito da YouTube (5,48%), Pinterest (3,5%), Twitter (1,67%), VKontakte (1,21%) e Instagram (0,38%). 

Oltre che per la sua predominanza nel Paese, Facebook è noto anche per avere avuto un ruolo complesso in Myanmar. Di fatto, se da una parte è riuscito ad unire i cittadini birmani ed a creare una comunicazione diretta tra popolo e governo in carica, dall’altra parte non è stato capace di controllare le difficoltà sorte dalla rapida diffusione dei social media in un lasso di tempo breve, come l’hate speech e la disinformazione problemi correlati all’assenza della cosiddetta “alfabetizzazione digitale critica”. Nonostante Facebook abbia adottato strumenti e politiche volte alla risoluzione delle problematiche sopra citate, queste non sono scomparse ma sono riemerse con prepotenza in occasione delle elezioni del 2020 e, successivamente, dopo il colpo di Stato a cui ha fatto seguito il divieto dell’utilizzo di Facebook. La Giunta militare riteneva che con questa mossa si potessero bloccare le manifestazioni e l’attivismo del CDM ma, al contrario, ha comportato un aumento esponenziale nell’uso di Twitter che però non è stato in grado di risolvere i problemi di disinformazione e di hate speech che affliggevano il fratello-Facebook. 

Secondo l’analisi di Freedom House, la libertà di Internet in Myanmar ha subito una brusca battuta d’arresto dopo il colpo di Stato ed ha segnato “il più grave declino mai documentato da Freedom on the Net”, come si legge nell’introduzione al Rapporto che dà un punteggio complessivo di 17/100 al Paese.  

Nonostante le piattaforme social ed Internet vengano oscurate e bloccate in Myanmar da parte del governo militare, i manifestanti sono capaci di aggirare questi divieti grazie alla messaggistica criptata – come Signal, Viber e Messenger – e le VPN; inoltre, applicazioni come Bridgefy hanno garantito ai dimostranti di comunicare tra loro anche durante i momenti di blackout totale di Internet. Questo dimostra come la pratica dello shutdown di Internet sia limitata e antiquata ma anche quanto sia forte la resistenza dei cittadini. 

In conclusione, sebbene i social media non siano privi di difetti e di grattacapi e la strada per un loro uso consapevole, efficace sia ancora lunga, è doveroso riconoscergli una parte nodale per la nascita e la sopravvivenza stessa del CDM. Hanno saputo mantenere accesa l’attenzione sulla questione a livello internazionale, sono stati capaci di portare tra i cittadini birmani il valore dell’inclusività, poiché la lingua principale usata nei social era il birmano e sono stati un luogo – seppur virtuale – in cui le parole chiave erano resistenza e solidarietà. 

Primi passi nella gestione dei rifiuti plastici

Entro il 2024 l‘Onu e i Paesi asiatici vogliono realizzare il primo trattato mondiale sul contenimento dei rifiuti plastici

L’80% dei rifiuti plastici mondiali ha origine nel continente asiatico e più di un terzo deriva dalle Filippine. Per contrastare il fenomeno, i maggiori produttori di plastica dell’Asia, dalla Cina all’India, dall’Arabia Saudita al Giappone, hanno partecipato, nell’ambito delle Nazioni Uniti, alla stesura di un piano per la realizzazione del primo trattato mondiale sul contenimento dei rifiuti plastici entro il 2024.

“Un momento storico”, è stato definito così l’accordo raggiunto il 2 marzo dal Programma sull’ambiente dell’ONU. Ma gli scettici non hanno mancato di sottolineare le criticità di questo accordo. Il trattato infatti si concentra principalmente sul riciclaggio della plastica monouso, ma gli esperti dell’ambiente continuano ad insistere che per avere un impatto significativo bisogna fare i conti anche con la limitazione della produzione di prodotti in plastica. Una prospettiva che non piace ai governi di quelle nazioni con un’economia improntata sull’industria petrolchimica.

L’accordo, però, è più complesso: i Paesi hanno concordato una risoluzione che prevede il monitoraggio dell’inquinamento da plastica lungo tutta la filiera produttiva, dalla creazione allo smaltimento. Osservati speciali saranno i Paesi asiatici considerati i maggiori responsabili della dispersione di rifiuti plastici nell’ambiente, in particolar modo le Filippine. Anche la Malesia, destinazione preferita da molte altre nazioni per lo smaltimento della plastica, sarà al centro dell’attenzione. 

Secondo alcuni esperti, rendere più costoso il processo di smaltimento è l’unico modo per incentivare le Nazioni al riciclo. Non a caso, la maggior parte dei rifiuti plastici deriva dai Paesi del Sud-Est asiatico, dove le politiche sullo smaltimento dei rifiuti sono fin troppo permissive e le concentrazioni di plastica finiscono perlopiù bruciate nelle discariche o, direttamente, negli oceani.

Questa situazione, oltre che dannosa per l’ambiente, si traduce anche in una consistente perdita economica. Una serie di studi condotti dalla Banca mondiale conferma infatti come in Tailandia, Malesia e Filippine si perde oltre il 75% del valore materiale della plastica riciclabile – l’equivalente di sei miliardi di dollari l’anno – quando viene utilizzata una sola volta. Secondo il Programma sull’Ambiente ONU, globalmente vengono spesi tra i 6 e 19 miliardi di dollari all’anno per ripulire la sporcizia che deriva dall’inquinamento da plastica.

Una possibile soluzione, auspicata dagli esperti, potrebbe essere la creazione di centri di riciclaggio a livello internazionale, dove far confluire i rifiuti plastici. Un’altra area di interesse, che il trattato dovrebbe prendere in considerazione riguarda il coordinamento della strategia tra diversi Paesi e regioni, per appianare le discrepanze nelle azioni anti inquinamento. Senza contare che gli effetti dell’inquinamento si manifestano soprattutto nelle aree geografiche più arretrate. Questo significa che, anche se questo trattato è già stato incoronato come “il più grande accordo dai tempi di Parigi”, la strada è ancora lunga. 

L’India in cerca di nuove opportunità nella filiera produttiva dei semiconduttori

Articolo di Aishwarya Nautiyal

L’India importa buona parte dei semiconduttori dall’Asia sudorientale e la sua conoscenza del settore può essere preziosa per i produttori nel Sud-est asiatico, rendendo l’India più competitiva grazie a nuove cooperazioni

L’economia indiana ha quasi raggiunto i 5 bilioni di dollari, e il Paese adesso punta a diventare un centro nevralgico per la produzione di semiconduttori per rendersi autosufficiente. Il governo prevede una spesa di 10 miliardi di dollari per la produzione di semiconduttori nei prossimi cinque anni, dato che l’India è un Paese per lo più importatore e questi componenti hanno un’importanza fondamentale nel 21 secolo. Su proposta del Ministero dell’Elettronica e della Tecnologia dell’Informazione, i principali concorrenti Vedanta Foxconn JV, IGSS Ventures e ISMC hanno avviato dei progetti per la costruzione di impianti per produrre chip elettronici nell’ambito del Semicon India Program. Taiwan, in testa ai produttori, ha individuato delle opportunità con TSMC e UMC, che stanno costruendo impianti in India, attraverso una negoziazione bilaterale con un accordo di libero scambio.

Le crescenti pressioni della Cina nei confronti di Taiwan, che intende ampliare l’ottica della sua strategia, possono essere un’ulteriore opportunità per la produzione di semiconduttori nel Maharashtra e nel Gujarat. Una nota positiva viene dal governo: l’India dovrebbe diventare uno dei poli produttivi entro il 2025 e il valore del mercato aumenterebbe da 2 a 100 miliardi di dollari, compresa l’ecosistema produttivo degli schermi. Si stima che il gruppo TATA, ad esempio, gestisca l’assemblaggio delocalizzato di semiconduttori nel Telangana, nel Karnataka e nel Tamil Nadu per un totale di 300 milioni di dollari, e le sue forniture di chip semiconduttori e wafer di silicio provengono da TSMC & Fitch Solutions. Al contrario, aziende come l’americana Intel hanno espresso interesse nella realizzazione di nuovi impianti. Soffermandosi su quest’industria, si apre uno scenario che è cambiato dal 1987, quando l’India era a soli due anni dal diventare leader nella produzione dei chip, ad oggi, rimasto indietro di 12 anni a causa di carenza di infrastrutture, lungaggini burocratiche, un alto tasso di corruzione e scarsa lungimiranza. Tutto questo ha portato a una fortissima dipendenza nell’era delle nuove dinamiche delle infrastrutture nella robotica.

In seguito all’aumento della domanda nel mercato elettronico e a un’ulteriore diversificazione in quello delle tecnologie smart, la Cina, spinta anche da relazioni bilaterali altalenanti, ha modificato la sua strategia, spostando la produzione di tali componenti sul proprio territorio; ciò avrà un ruolo cruciale negli sviluppi futuri dell’economia moderna. Un altro aspetto importante nella fase produttiva è l’introduzione di politiche adeguate, coadiuvate da un ambiente competitivo a livello internazionale che garantisca il rispetto dei diritti umani. Durante la pandemia di Covid-19, ci sono state diverse interruzioni delle catene di approvvigionamento, e tale situazione è stata resa ancora più complessa dell’imprevedibilità. L’India dovrebbe stabilire un ICT layer, cosa che finora è stata trascurata. Dal 5G alla robotica alle nuove piattaforme di realtà virtuale,  l’India è considerata un ottimo partner sostenibile grazie alla sua accessibilità e alle sue capacità per quanto riguarda le soluzioni tecnologiche. Saper affrontare le crisi di approvvigionamento è diventato un imperativo nel periodo post-pandemico.

Analizzando i dati odierni, possiamo osservare che Taiwan produce il 92% dei chip di dimensioni inferiori ai 10 nanometri (nm), mentre la Cina rappresenta il 54% del mercato globale dei semiconduttori e svolge un ruolo di primo piano nella fase di test dei circuiti integrati. Il potere economico della Cina, unito ai suoi prezzi competitivi che costituiscono un certo vantaggio nelle complesse relazioni commerciali tra USA e Cina, può lanciare una sfida ai policy maker indiani; l’India deve assolutamente potenziare la sua produzione interna, concentrandosi su design sviluppati autonomamente nell’ottica dell’autosufficienza, invece di immischiarsi troppo nelle questioni dei propri concorrenti, ossia USA e Cina. La rivoluzione dei semiconduttori sembra avvenire con il giusto tempismo per l’India, aumentando inoltre il numero di talenti a disposizione. Il vento del cambiamento ha fatto emergere Taiwan come leader della produzione, e lo stesso potrebbe avvenire per l’India, con la dovuta disponibilità di risorse e manodopera competitiva.

Superare gli ostacoli e creare nuove opportunità nell’economia ha aperto nuovi orizzonti per il settore privato, pronto a collaborare e ad “ammorbidire” le relazioni con i policy maker e i produttori internazionali. Si lavora dunque per costruire la fiducia, migliorando la cooperazione diplomatica e mirando ad un approccio più coordinato nel futuro. L’India importa buona parte dei semiconduttori dall’Asia sudorientale e la sua conoscenza del settore può essere preziosa per i produttori nel Sud-est asiatico, rendendo l’India più competitiva grazie a nuove cooperazioni. Grazie alla presenza, seppur piccola, di SCL a Mohali, GAETEC a Hyderabad e SITAR a Bengaluru, non è da escludere la possibilità che si sviluppi un mercato competitivo che punti seriamente ad attrarre nuovi talenti e investimenti internazionali. La prossima fase di trasformazione del mercato tecnologico e del capitale sarà un fattore chiave nel definire nuove relazioni bilaterali e multilaterali tra i produttori del Sud Est asiatico e dell’Occidente.

Rafforzare gli attuali legami commerciali e diversificare l’affidabilità dei singoli partner può offrire all’India una nuova serie di opportunità, in base alle capacità apprese nel periodo post-pandemico a causa delle interruzioni delle catene di approvvigionamento. Avere la forza di superare le nuove sfide che ci attendono può far scaturire opportunità inaspettate per le nazioni che riescono, sviluppando le proprie idee, ad affermarsi come leader internazionali nel settore tecnologico, migliorando l’impatto socio-economico attraverso la crescita sostenibile.

ASEAN history and politics

Partito il primo corso “ASEAN History and Politics” diretto dall’Associazione Italia-ASEAN

Lo scorso mercoledì 23 marzo ha avuto inizio, presso l’Istituto Italiano di Studi Orientali della Sapienza Università di Roma, il primo corso interamente in lingua inglese su “Storia e politica dell’ASEAN” che l’Associazione Italia-ASEAN ha l’onore di dirigere e condurre. Il ciclo di lezioni si protrarrà fino a giugno e si inserisce all’interno della laurea in Global Humanities dell’Ateneo romano. Circa 70 studenti provenienti da tutto il mondo, dall’Indonesia passando per il Giappone fino all’Africa e all’Europa, affronteranno nei prossimi mesi le più importanti tematiche riguardanti la regione del Sud-Est asiatico: dagli aspetti storici a quelli economici e geopolitici, dai diritti umani al commercio internazionale, passando per la transizione digitale e sostenibile della regione. Durante la prima lezione, il Vicepresidente scientifico dell’Associazione, il prof. Romeo Orlandi, ha effettuato una panoramica sulla storia dell’Association, dalla fondazione alle sfide della pandemia e dei prossimi anni, compiendo un’attenta analisi sulle peculiarità dei singoli Paesi. Nelle prossime lezioni le studentesse e gli studenti avranno la possibilità di ascoltare le testimonianze di alcuni degli Ambasciatori dei Paesi ASEAN a Roma e di diversi analisti della regione, si confronteranno, inoltre, con i temi centrali che riguardano il Sud-Est asiatico, con laboratori e presentazioni che gli permetteranno di entrare in prima persona nel vivo di tutte le questioni. Questo corso sarà l’ennesima occasione di migliorare il grado di conoscenza e la percezione dell’ASEAN nel nostro Paese. Obiettivo al quale l’Associazione Italia-ASEAN lavora sin dalla sua fondazione e che ritiene essenziale per accompagnare presso istituti universitari, opinione pubblica e decision maker una ancora maggiore consapevolezza di una regione del mondo con la quale abbiamo molti interessi in comune.

New tech, così il Vietnam sta diventando autosufficiente

L’economia digitale vietnamita è in continua espansione, anche grazie all’accelerazione portata dalla pandemia

Il Vietnam è sicuramente in cima alla lista dei Paesi del Sud-Est Asiatico in quanto a presenza di aziende all’avanguardia nei settori del tecnologico e digitale, tanto da essere quasi autosufficiente. Infatti, ad oggi conta già ben 64mila aziende digitali, e la cifra è in continua espansione, tanto che il Paese si colloca al 25esimo posto tra i 50 più digitali al mondo, secondo la società di consulenza Tholons. Inoltre l’economia digitale vietnamita è in rapida crescita, e si stima che nei prossimi 10 anni sarà in testa ai Paesi del Sud-Est Asiatico, secondo il rapporto e-Conomy SEA 2021 di Google, Temasek e Bain. Il mercato digitale del Vietnam sta prosperando grazie alla forte crescita dei settori dell’e-commerce, della fintech e della tecnologia dell’istruzione. In parallelo cresce velocemente anche la popolazione di utenti dei social media, che ha raggiunto il 78% della popolazione totale nel febbraio 2022. Sicuramente ci sono importanti fattori socio demografici a facilitare l’espansione del mercato digitale, vista la popolazione giovane (il 70% dei cittadini ha meno di 35 anni), istruita (il tasso di alfabetizzazione nella fascia di età 15-35 anni è superiore al 98%) e avvezza alla tecnologia (più del 60% della popolazione usa gli smartphone). In ogni caso, il fenomeno è da tener d’occhio visto che secondo un report della società Alphabeta, la tecnologia digitale potrebbe potenzialmente portare oltre 74 miliardi di dollari al Vietnam entro il 2030, principalmente nei settori di industria,  agricoltura e alimentazione e istruzione.

Come successo in molti Paesi, anche in Vietnam il COVID-19 è stato un significativo fattore trainante per la trasformazione digitale. Da quando è scoppiata la pandemia, Hanoi ha assistito ad una repentina accelerazione nell’adozione e diffusione di nuovi strumenti di digitalizzazione, sia nel settore privato che in quello pubblico. Si stima che già nel giugno 2021 circa due terzi delle imprese private in Vietnam abbiano avuto accesso alle tecnologie legate all’economia digitale, un enorme salto rispetto al periodo pre-COVID-19. Di conseguenza, cresce anche il mercato dei pagamenti digitali, che già avevano raggiunto 620 miliardi di dollari nel 2020 e si prevede che possano raggiungere il valore di 1,2 trilioni di dollari nel 2025.

Il processo di digitalizzazione è inoltre accelerato dalla vicinanza delle numerose imprese digitali locali, le quali vanno a creare un vero e proprio agglomerato industriale che favorisce la diffusione di competenze e innovazioni. Tra le aziende più note spicca il gruppo FPT, acronimo di Corporation for Financing and Promoting Technology, la più grande società di servizi informatici in Vietnam, che ha come core business la fornitura di servizi legati all’ICT. FPT si occupa di innovazioni tecnologiche come l’automazione, l’intelligenza artificiale, la tecnologia blockchain, il cloud computing, e altri servizi volti a migliorare l’efficienza della vita di cittadini, imprese e governo. Molte di queste aziende, infatti, collaborano con il settore pubblico con l’obiettivo comune di sviluppare un governo e un’economia digitale, ma anche aumentare l’efficienza dei servizi pubblici e le competenze informatiche di funzionari e dirigenti. Alcuni progetti in corso prevedono già lo sviluppo di città e traffico intelligenti, così come sanità e istruzione all’avanguardia, allo scopo di migliorare le vite di milioni di cittadini così come la competitività del Paese.

Tuttavia, ci sono ancora molti ostacoli allo sfruttare appieno i benefici della tecnologia digitale, per esempio la burocrazia e la mancanza di risorse umane specializzate. Inoltre, alcune leggi in materia di localizzazione e protezione dei dati personali scoraggiano le aziende straniere ad investire nel mercato digitale locale, dal momento che proteggono le aziende locali ma nel contempo pregiudicano ulteriori profitti.

In ogni caso, il futuro fa ben sperare, e lo stesso Vicedirettore del Dipartimento di Gestione delle Imprese, Nguyen Trong Duong, ha annunciato che, con politiche di sostegno alle imprese digitali e alle start-up tecnologiche vietnamite, l’economia digitale del Paese potrebbe raggiungere il 26,2% del PIL nei prossimi tre anni.

La stretta del governo indonesiano con le piattaforme digitali

Tempi duri per le piattaforme online in Indonesia, con le nuove misure che dovrebbero entrare in vigore a giugno 2022 e che obbligherebbero gli operatori di sistemi internet a rimuovere contenuti considerati “illegali” dal governo in tempi record.

Quattro ore. È il tempo massimo concesso alle piattaforme digitali dal governo indonesiano per rimuovere i contenuti “illegali” su richieste etichettate come “urgenti”. Ogni altro tipo di richiesta, che potrà essere inoltrata da qualsiasi agenzia governativa, dovrà essere soddisfatta entro 24 ore. Sono queste le nuove misure che il governo dell’Indonesia starebbe finalizzando e che, secondo un report esclusivo di Reuters, dovrebbero entrare in vigore a giugno 2022. 

Le regole, che le autorità ritengono necessarie per far sì che la rete sia propriamente ripulita da contenuti “illegali”, sono tra le più rigorose a livello globale sui social media e seguono l’intensificarsi della repressione dei contenuti online che hanno allarmato gli attivisti in diversi Paesi asiatici. 

Come funzionerà nello specifico?

  • Le misure si applicheranno a tutte le piattaforme Internet e digitali classificate come “operatori di sistemi Internet”, dai giganti dei social media alle società di e-commerce e fintech, nonché alle società di telecomunicazioni.
  • Secondo quanto riferito dai funzionari di governo, le richieste “urgenti” del governo includerebbero contenuti percepiti come sensibili in aree quali “sicurezza, terrorismo e ordine pubblico, protezione dei bambini e pornografia”.
  • Dopo aver ricevuto un reclamo ufficiale, le aziende saranno multate per contenuto illecito, con multe che aumenteranno man mano che i contenuti restano sulle piattaforme, secondo tre fonti e un documento governativo esaminato da Reuters.
  • Le multe saranno determinate dal numero degli utenti locali dell’azienda target e dalla “gravità dei contenuti”. L’ammontare delle multe deve ancora essere finalizzato, ma potrebbe arrivare a milioni di rupie (1 milione di rupie = $ 69,71) per contenuto.
  • Le piattaforme che non soddisferanno le richieste del governo in più di un’occasione potrebbero essere bloccate in Indonesia e il loro personale potrebbe essere soggetto a sanzioni penali.

Le implicazioni:

  • L’Indonesia è uno dei primi 10 mercati a livello globale per numero di utenti per le società di social media, tra cui Youtube, TikTok, Twitter e Facebook, Instagram e Whatsapp di Meta.
  • Alcuni dirigenti di società online informati sui piani hanno riferito che le misure saranno difficili da rispettare, che aumenteranno i costi operativi e potrebbero minare la libertà di espressione dei cittadini del quarto paese più popoloso del mondo.
  • Le normative avranno maggiore impatto sulle società di social media, che considerano la popolazione giovane dell’Indonesia (270 milioni) come un’enorme opportunità di crescita.

Il contesto:

  • Nelle campagne elettorali presidenziali del 2014 e 2019, le piattaforme dei social media avrebbero facilitato la diffusione di rumors e “notizie false”, in gran parte rivolte all’attuale presidente Joko Widodo. Nelle rivolte seguite alle elezioni del 2019, le autorità hanno bloccato l’accesso ai social media.
  • Nello stesso anno, durante le manifestazioni in Papua, la regione più orientale del paese, le autorità indonesiane hanno interrotto l’accesso a Internet, presumibilmente per scongiurare la violenza che avrebbe potuto essere scatenata dalla rapida diffusione della disinformazione online.
  • Il regolamento ministeriale 5 (MR5), entrato in vigore a novembre 2020 con poca consultazione, richiede che tutti i servizi e le piattaforme digitali private si registrino presso il Ministero delle comunicazioni e dell’informatica e accettino di fornire l’accesso ai propri sistemi e dati come specificato nel regolamento. Coloro che non si registrano entro il 24 maggio saranno bloccati in Indonesia.
  • Lo scorso ottobre, la Corte Costituzionale ha stabilito che il blocco di Internet durante periodi di agitazione sociale era lecito.

Un confronto 

  • Rispetto alle misure proposte dall’Indonesia, le società di social media in Vietnam sono tenute a rimuovere i contenuti offensivi dalle loro piattaforme entro un giorno dalla ricezione di una richiesta dalle autorità. L’India concede alle aziende 36 ore di tempo per la rimozione, con possibili sanzioni penali in caso di mancato rispetto.
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