La cooperazione ASEAN-UE in tema di climate action

L’impatto del cambiamento climatico sui paesi del Sud-Est asiatico è già realtà. Per questo, la cooperazione inter-regionale con l’UE rappresenta una vera opportunità per la realizzazione di un futuro sostenibile

Il cambiamento climatico è ormai una forza inarrestabile. Indonesia, Thailandia, Vietnam, Myanmar e Filippine sono tra i Paesi ASEAN più colpiti dagli effetti di questo fenomeno, e anche se nessuna area del globo è immune alla sua inclemenza, la regione del Sud-Est asiatico è particolarmente vulnerabile. A questo proposito, la cooperazione inter-regionale tra Unione Europea e ASEAN può rappresentare davvero un’opportunità per promuovere buone pratiche di produzione e consumo sostenibili. 

Le responsabilità legate al deterioramento ambientale e al mutamento climatico sono difficili da individuare: i Paesi in via di sviluppo biasimano quelli più sviluppati per aver fatto profitti depredando risorse ambientali preziose; viceversa, i secondi vantano oggi un mercato dei consumatori molto più informato e sensibile a tematiche ecologiste, perciò accusano i Paesi con normative ambientali più blande di inquinare irrimediabilmente il pianeta – evitando di menzionare il fatto che gli imperativi di crescita economica nel mondo globalizzato passano anche attraverso regolamentazioni nazionali finalizzate ad attrarre investimenti stranieri. Dunque, distinguere retoriche interessate da evidenze storiche e scientifiche è un lavoro complesso, che rischia di bistrattare un dato terribilmente urgente: il cambiamento climatico è già qui. 

Due certezze guidano perciò il dibattito contemporaneo in proposito. Innanzitutto, la frequenza inedita di nubifragi, siccità, e fenomeni meteorologici e ambientali straordinari sono tra gli effetti direttamente conseguenti l’attività umana. A questo proposito, il premio Nobel per la chimica Paul Crutzen è noto per aver introdotto il termine antropocene per indicare l’era geologica attuale, un’era in cui l’essere umano ha compromesso la sopravvivenza del pianeta attraverso attività inquinanti, determinate spesso da ritmi produttivi insostenibili. La seconda certezza è che le popolazioni povere dei Paesi in via di sviluppo sono le più vulnerabili, e quelle meno resilienti alla dirompenza dei disastri ambientali. Risorse economiche insufficienti e istituzioni pubbliche instabili, fanno sì che inondazioni, cicloni e siccità si trasformino da disastri ambientali a disastri sociali, compromettendo così a lungo termine la tenuta del tessuto socio-economico e la sopravvivenza stessa delle popolazioni locali. 

Questi temi, insieme a quello della food security, sono particolarmente sentiti tra i Paesi del Sud-Est asiatico, per due principali ordini di ragioni. Innanzitutto, la gran parte della popolazione che abita la regione è concentrata nelle aree costiere. Ad esempio, Giacarta è un caso emblematico della varietà di rischi legati al cambiamento climatico. Si stima che i residenti urbani dell’Indonesia rappresenteranno nel 2025 il 65% della sua popolazione totale. Per quella data la capitale indonesiana sarà probabilmente sommersa per il 95% dal Mar di Giava. Il Paese più popoloso del Sud-Est asiatico non è nuovo a questo tipo di fenomeni ambientali, che dagli anni Sessanta si sono fatti però sempre più ricorrenti e aggressivi. Anche la Thailandia è avvezza a inondazioni e nubifragi, che un tempo però la colpivano con meno frequenza e causando danni più contenuti: Bangkok, sprofonda di 1-2 centimetri circa ogni anno, e di questo passo nel 2030 si troverà sotto il livello del mare. Allo stesso modo lo sviluppo della città di Da Nang in Vietnam, che grazie alla centralità della sua posizione geografica è considerata uno snodo importante per i settori dei trasporti e dei servizi vietnamiti, è rallentato da continui allagamenti. Infine, secondo il Global Climate Risk Index, Myanmar e Filippine sono regolarmente esposte a gravi cicloni tropicali e difficilmente riescono a riprendersi in tempo dai disastri degli anni precedenti, con il risultato che i danni si sommano tra loro pesando sulla popolazione locale. 

In secondo luogo, l’agricoltura è uno degli ambiti su cui il cambiamento climatico impatta con più severità. Principale fonte di sussistenza delle popolazioni residenti e maggior settore di esportazioni, quello agricolo è anche il settore di punta di gran parte dei Paesi ASEAN. In particolare, i raccolti di grano, riso e mais sono estremamente suscettibili a condizioni meteorologiche avverse. Oltre ad essere compromesse dall’imprevedibilità di questi fenomeni climatici, le attività agricole causano anche la più ampia quota di emissioni di cui sono tacciate le economie del Sud-Est asiatico, colpevoli dell’intenso consumo di energia e di combustibili fossili.

Lo scenario appena descritto rende tanto più necessaria la promozione della cooperazione internazionale. Oltre ad essere parte dell’Accordo di Parigi, nel 2009 l’ASEAN ha fondato un proprio gruppo di lavoro, l’ASEAN Working Group on Climate Change. Si tratta di una piattaforma consultiva atta a promuovere anche la cooperazione regionale e la climate action con partner internazionali, oltre che con le comunità locali. Anche L’ASEAN Senior Officials on the Environment realizza un’azione coordinata tra i Paesi membri e i vari partner di dialogo e di sviluppo; inoltre, l’ASEAN Climate Resilience Network è dedicato alla condivisione di informazioni esperienze e competenze relative alla climate smart agriculture

L’ASEAN mette quindi le proprie piattaforme istituzionali a servizio della lotta al cambiamento climatico. A questo proposito, la cooperazione con l’Unione Europea è particolarmente rilevante. Oltre al contributo delle istituzioni multilaterali, nel novembre scorso l’ASEAN ha tenuto un ampio dialogo sul tema dei cambiamenti climatici e delle responsabilità internazionali, in cui si sono stati ribaditi i rispettivi impegni assunti. Nel solco del Green Deal Europeo, il Sud-Est asiatico può attingere alla longeva esperienza dell’Unione sul tema delle normative contro l’abuso della plastica, e per la promozione della biodiversità e dell’economia circolare. La cooperazione tra le due realtà regionali è supportata anche dall’Enhanced Regional EU-ASEAN Dialogue Instrument, nell’ambito del quale viene promosso il dialogo tra i Paesi in diverse aree d’interesse, tra cui sostenibilità, ambiente e cambiamento climatico. Come sostiene Vandana Shiva, esperta di ecologia sociale e attivista ambientalista, per poter immaginare un futuro sostenibile per il nostro pianeta è fondamentale un cambio di paradigma, fondato non più sulla predazione di risorse ambientali o sulla competizione sregolata, bensì sulla condivisione di informazioni, pratiche e responsabilità. La cooperazione inter-regionale ASEAN-UE rappresenta in questo senso una vera opportunità per riuscire ad immaginare modelli alternativi di sviluppo socio-economico, all’insegna del rispetto ambientale.

A cura di Agnese Ranaldi

Il Vietnam conferma la sua leadership

Al centro del XIII Congresso del Partico Comunista Vietnamita gli obiettivi di trasformazione del Vietnam in grande potenza internazionale

Il 2021 sarà un anno importante per comprendere la direzione che intraprenderanno i Paesi del Sud-Est Asiatico nel futuro, che appare incerto ora più che mai. Il Vietnam non fa eccezione e, contro ogni aspettativa, chiude l’anno della pandemia con un’economia in crescita di quasi il 3%, vantando una gestione esemplare dell’emergenza sanitaria. In questo contesto si è tenuto il XIII Congresso del Partito Comunista della Repubblica Socialista del Vietnam, conclusosi il 2 febbraio scorso, dopo la nomina dei principali organi di Partito.

Il Vietnam ha una struttura politica informalmente chiamata “a quattro pilastri”, che prevede altrettante posizioni di leadership dominanti: il Segretario Generale del Partito, il Presidente dello Stato, il Primo Ministro e il Presidente dell’Assemblea Nazionale. Dal 2018, tuttavia, a seguito dell’improvvisa morte del Presidente Tran Dai Quang, le cariche di Segretario Generale e Presidente dello Stato sono state accorpate in un unico pilastro. 

Al termine del Congresso, è emersa la figura di Nguyen Phu Trong, riconfermato per la terza volta alla carica di Segretario Generale e Presidente per il nuovo mandato 2021-2025, diventando il più longevo capo di partito nella storia del Vietnam. La rielezione dell’ex Segretario Generale, ormai 76enne, è stata una sorpresa per tutti, in primo luogo per Trong stesso, che aveva sostenuto la nomina del collega Tran Quoc Vuong. Tuttavia, come il Congresso Nazionale ha successivamente dichiarato, la scelta è ricaduta su una figura già nota e in grado di assicurare stabilità al partito e al Paese in un momento di profonda incertezza globale, tra crisi pandemica e recessione economica. Resta comunque possibile che Trong si dimetta nel corso del suo nuovo mandato, qualora si trovi un candidato adatto a ricoprire la carica.

Il secondo nome di rilievo all’interno del panorama politico vietnamita è Nguyen Xuan Phuc, riconfermato nuovamente alla carica di Primo Ministro. Resta, poi, al potere Nguyen Thi Kim Ngan, capo dell’Assemblea Nazionale dal 2016 e prima donna a ricoprire tale posizione.

Attraverso le parole “Solidarietà, Democrazia, Disciplina, Creatività e Sviluppo”, il Congresso Nazionale si è posto l’obiettivo di elaborare, sulla base delle risoluzioni approvate negli anni scorsi, le nuove linee guida che indirizzeranno l’azione del Partito nel prossimo quinquennio. Al centro dei lavori hanno trovato spazio vari temi, tra cui le capacità di leadership dei membri del Politburo, la trasparenza del processo politico e la fiducia del popolo nel Partito, nello Stato e nell’ideologia socialista. Nell’attuale situazione di emergenza, inoltre, il Partito si impegnerà a ricercare la prosperità del Paese e il benessere dei suoi cittadini, promuovendo l’agire solidale e l’unità nazionale. Restano in primo piano gli obiettivi di industrializzazione, modernizzazione, sicurezza nazionale e la creazione di un ambiente stabile e pacifico nella regione del Sud-Est asiatico, nonché la trasformazione del Vietnam in una grande potenza internazionale orientata al socialismo. Per la realizzazione del piano, il XIII Congresso Nazionale ha elaborato un complesso di 12 direzioni strategiche per lo sviluppo nazionale nel periodo 2021-2030. In tal senso, viene evidenziata la necessità di rafforzare – e costruire, qualora non fossero già presenti – delle istituzioni atte a promuovere lo sviluppo sostenibile del Vietnam, l’economia di mercato di stampo socialista, la trasformazione industriale, le imprese emergenti e la transizione digitale. Si chiedono, inoltre, importanti cambiamenti nell’area dell’educazione e della formazione di risorse umane qualificate. Il Capo di Stato si è, poi, raccomandato: di stimolare il progresso umano in tutte le sue sfaccettature, non trascurando, però, l’identità culturale vietnamita; di combattere con vigore contro i cambiamenti climatici, i disastri naturali e le epidemie; di prevenire i conflitti, salvaguardare la sovranità e l’integrità territoriale; di sfruttare le risorse naturali della terra e migliorare la qualità dell’ambiente; e infine, di attuare una politica estera caratterizzata tanto da indipendenza e autodeterminazione, quanto dedita al rafforzamento delle relazioni multilaterali e all’integrazione nella comunità internazionale.

Ma c’è di più. Si prevedono anche obiettivi a lungo termine, come la trasformazione del Vietnam in un’economia moderna a reddito medio alto entro il 2030 e il raggiungimento di un reddito elevato pro capite entro il 2045. Obiettivi indubbiamente ambiziosi, ma anche possibili per uno Stato che mostra una crescita costante del PIL, nonostante le avversità. Da non dimenticare, poi, la chiave di lettura offerta dal Presidente Trong, secondo cui tutto ciò diventa realizzabile solo attraverso l’amore per la patria, la resilienza e l’unità nazionale.

Sfide e opportunità per la Presidenza italiana del G-20

Per la prima volta l’Italia presiederà il G-20 e dovrà essere in grado di mediare tra USA e Cina. La “staffetta” con l’Indonesia può contribuire a mettere al centro i temi asiatici.

Per la prima volta dalla sua costituzione, il G-20 verrà presieduto dall’Italia. La Presidenza italiana è iniziata nel dicembre del 2020 e si concluderà il 30-31 ottobre 2021 con una grande conferenza di tutti i capi di stato e di governo dei Paesi membri a Roma. Prima del Summit romano, si svolgeranno incontri a livello ministeriale sulle diverse tematiche in varie città italiane nel periodo compreso tra maggio e ottobre. Per l’Italia si profila una grande occasione per essere protagonista indiscussa nel palcoscenico della politica internazionale. 

I temi centrali sui quali la Presidenza italiana ha deciso di impostare il lavoro del G-20 sono tre: People, Planet e Prosperity, esemplificati nella sigla 3P. Si tratta di tre concetti alla base dell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite per la sostenibilità e infatti si può parlare di sostenibilità sociale in favore delle Persone, ambientale in relazione al Pianeta e anche economica con riguardo alla Prosperità. Il fatto di mettere al centro del forum proprio il tema della sostenibilità fa pensare che il nostro Paese sia intenzionato a giocare un ruolo di primo piano per la costruzione di un’economia internazionale nuova basata sul rispetto del pianeta e sulla tutela delle persone. Accanto a quello della sostenibilità sarà centrale anche il tema della salute, visto che l’Italia presiederà insieme alla Commissione Europea anche il Global Health Summit e quindi possiamo aspettarci un impegno forte della Presidenza italiana sul problema attuale della pandemia e di come contrastarla con misure globali. 

Una sfida che attende il nostro Paese, sotto la guida del nuovo esecutivo Draghi, sarà quella di svolgere un ruolo di mediazione tra USA e Cina. In quest’ottica, il summit di Roma sarà anche il primo evento internazionale di peso in cui il neo-Presidente Joe Biden si incontrerà col Presidente cinese Xi Jinping. Come già dimostrato dalle parole di Biden al recente G-7, gli USA hanno deciso di lasciarsi alle spalle la stagione isolazionista trumpiana e di tornare protagonisti nella politica internazionale. Sicuramente il nuovo Presidente porrà sul tavolo il tema del maggiore impegno degli USA per la sostenibilità e per il rispetto degli Accordi di Parigi sul clima, come anche il sostegno alla battaglia contro il virus e la fine della “guerra dei dazi” con la Cina, ma nei confronti di questa farà sentire la sua voce relativamente ad Hong Kong, agli Uiguri e al delicato conflitto nel Mar Cinese Meridionale. L’Italia dovrà trovarsi pronta a facilitare il dialogo tra i due giganti e forse troverà un valido alleato per questo compito proprio nel Paese che succederà al nostro alla Presidenza del G-20.

Infatti, nel 2022 toccherà all’Indonesia coordinare i lavori del forum internazionale. L’Indonesia non solo è il Paese musulmano più popoloso al mondo e il terzo più popoloso dell’Asia, ma è anche un membro dell’ASEAN (l’unico di questi nel G-20) e sicuramente tra tutti, quello che di più si è speso per una maggiore integrazione e democratizzazione tra i Paesi del Sud-Est asiatico, come dimostrato dal recente caso del golpe in Myanmar. Per lo “stato arcipelago” la presidenza del G-20 sarà l’occasione tanto attesa per dimostrare al mondo che democrazia e Islam possono coesistere, che il Paese è avviato verso lo sviluppo e condivide la battaglia per la sostenibilità e che è un valido attore nella politica internazionale. Infatti, cercherà di sfruttare la sua posizione per far integrare meglio l’ASEAN con il G-20 e sicuramente svolgerà un ruolo di mediazione tra USA e Cina, anche per non finire intrappolata nella loro contesa. 

L’Italia dovrà fare squadra con l’Indonesia per facilitare il dialogo tra USA e Cina, per ammorbidire le relazioni tra Cina e India e per rafforzare i rapporti UE-ASEAN. È bene ricordare che l’Italia (insieme a Germania e Francia) è diventata da pochi mesi Development Partner dell’ASEAN e questo costituisce di certo un punto di osservazione privilegiato per lo scenario asiatico che il nostro Paese dovrà essere in grado di sfruttare al meglio soprattutto in vista del passaggio di consegne con l’Indonesia. Infine, non va dimenticato che UE e Indonesia stanno negoziando da diversi anni un accordo commerciale, ma le divergenze di vedute sull’olio di palma lo stanno di fatto bloccando. L’auspicio è che la Presidenza italiana riesca a sbloccare questo dossier commerciale, come anche quelli con gli altri Paesi ASEAN. Una più stretta relazione tra UE e ASEAN per mezzo di Italia e Indonesia non potrà che migliorare il dialogo tra Europa ed Asia ed evitare che le due aree geografiche siano intrappolate nella contesa tra USA e Cina. 

A cura di Niccolò Camponi

La nuova strategia giapponese

L’annuncio a sorpresa di Mitsubishi: dopo l’uscita dall’Europa punterà tutto sull’ASEAN. La scelta della multinazionale giapponese è un caso di studio per il mondo che cambia.

Gli standard stringenti sulle emissioni inquinanti e normative tecniche sempre più rigorose hanno reso l’Europa un luogo difficile per fare affari per una grande multinazionale dell’automotive. Oltretutto, mentre l’UE sta diventando sempre più un mercato di nicchia, i nuovi consumatori sono altrove. Guidata da simili considerazioni, Mitsubishi Motors Corporation (MMC) ha recentemente annunciato l’intenzione di sospendere le operazioni in Europa una volta terminata l’attuale linea di produzione. Così facendo, MMC, a qualche anno di distanza dalla ‘connazionale’ Daihatsu, ha deciso di abbandonare l’Europa, dove era presente dal 1975, per concentrarsi sui mercati emergenti e sempre più redditizi del Sud-Est asiatico.

Secondo Sammu Chan, analista senior di LMC automotive, le case automobilistiche giapponesi hanno un problema con l’Europa: “Dalle normative sulle emissioni e le difficili condizioni di mercato, alla pressione del segmento premium e ai prezzi della concorrenza interna, si trovano ad affrontare uno scenario da incubo quando si tratta della questione della redditività sostenibile in Europa”. La questione che preoccupa di più sembra essere quella delle emissioni, soprattutto se si considerano le multe minacciate dall’Unione Europea al Regno Unito nel quadro delle normative sulle emissioni di carbone. “Con obiettivi di CO2 così severi in Europa” – secondo Chan – “è necessaria una chiara strategia EV per prosperare nel prossimo decennio”, che non tutti sembrano potersi permettere.

In un mercato consolidato come quello europeo le imprese dell’auto affrontano la sfida della smart technology strette tra la pressione della concorrenza e l’urgenza degli investimenti. La nuova recessione economica innescata dalla pandemia di Covid-19 non ha certo aiutato un settore già messo alla prova da un rallentamento delle vendite per certi versi fisiologico. Pertanto, il produttore giapponese sta concentrando il nuovo piano di sviluppo sulla “razionalizzazione dei costi e il miglioramento della redditività”, che confida possa riportare il marchio su una traiettoria di crescita sostenibile nei prossimi tre anni. Il progetto a medio termine, soprannominato “Small but Beautiful”, prevede la riallocazione delle risorse di gestione nei nuovi mercati emergenti e un rafforzamento delle tecnologie primarie: le operazioni europee non saranno più una priorità.

L’attenzione di Mitsubishi si concentrerà invece sui Paesi ASEAN, che generano ad oggi circa un quarto delle vendite totali dell’azienda, e dove l’azienda punta a raggiungere una quota di mercato dell’11%, prima di riprendere la propria espansione globale. Nell’ambito della sua ristrutturazione globale, le fabbriche del Sud-Est asiatico sono destinate a svolgere un ruolo chiave nella fornitura di nuovi prodotti ad altri mercati emergenti in tutto il mondo come appunto quelli dell’America Latina e dell’Africa. La strategia prevede anche un’innovazione della gamma Mitsubishi attraverso l’introduzione dell’ibrido plug-in e dei veicoli elettrici, che saranno destinati inizialmente al solo mercato ASEAN. I nuovi modelli beneficeranno della tecnologia sviluppata nell’ambito della sua alleanza con Renault e Nissan

“Integrando queste tecnologie – ha sottolineato l’azienda – Mitsubishi lancerà modelli ecologici che contribuiranno allo sviluppo di una società in cui le persone, le automobili e la natura possono coesistere in armonia”. Scegliendo di concentrarsi sull’ASEAN anziché disperdersi in giro per il mondo,la casa automobilistica ha deciso di investire nella straordinaria storia di sviluppo della regione. Attualmente la Mitsubishi ha già una base di produzione in Vietnam, così come in Thailandia, Indonesia e Filippine. Il piano è di aggiungere il Myanmar alla lista, anche se il recente colpo di stato potrebbe portare l’azienda a riconsiderare questo obiettivo.

In un momento di grande difficoltà, la Mitsubishi ha deciso di ripartire dall’ASEAN. Nel Sud-Est asiatico, l’azienda si troverà ad affrontare un mercato molto diverso da quello europeo, meno rigido per quanto riguarda le emissioni e più favorevole all’acquisto di prodotti non necessariamente in linea con le ultime tecnologie. La scelta della regione come sede di produzione di componenti e veicoli destinati ai nuovi mercati emergenti avrà inoltre un impatto molto significativo sul lavoro e sulla produzione e immissione dei veicoli elettrici nel Paesi dell’ASEAN.

L’Indonesia vaccinerà i lavoratori prima degli anziani

Il gigante ASEAN sceglie una strategia diversa per fermare l’avanzata del COVID e far ripartire l’economia

La sfida della vaccinazione, una straordinaria impresa logistica resa ancor più ardua dai ritardi della produzione, richiede scelte difficili. Durante lo scorso anno i policymakers di tutto il mondo hanno concentrato sforzi e risorse prima nella ricerca per lo sviluppo dei vaccini e quindi nell’acquisto delle dosi necessarie all’inoculazione dei propri concittadini. Negli ultimi mesi, invece, una nuova domanda ha conquistato il centro del dibattito politico: a chi spetteranno le prime dosi disponibili?

La discussione riguardante il corretto ordine di precedenza nella somministrazione dei vaccini è di estrema importanza. Una volta terminata la vaccinazione degli operatori sanitari, la maggior parte degli Stati Membri dell’Unione Europea ha scelto di dare priorità ai cittadini più anziani, ritenuti gli elementi più fragili di fronte al virus, partendo quindi  dagli ultraottantenni, gli ultra sessantacinquenni, e così via scendendo. L’Indonesia, invece, ha scelto una strategia diversa: vaccinare per primi i cittadini tra i 18 e i 59 anni, la forza lavoro, che rappresenta più del 60% della popolazione. 

Il governo ha scelto di intraprendere questa strada per due motivi principali. Il primo è prettamente sanitario; le autorità indonesiane sperano di poter fermare l’avanzata del contagio immunizzando coloro che si muovono di più, sia per gli impegni professionali che per le attività sociali. Queste persone hanno più probabilità di essere contagiate e di conseguenza di contagiare a loro volta: l’80% dei casi COVID registrati in Indonesia è tra la popolazione attiva. Il secondo motivo è essenzialmente economico; come e forse più di altre economie mondiali, infatti, l’Indonesia sta pagando un conto salatissimo per l’epidemia. La ripresa passa anche per la ripartenza del turismo e dei trasporti, tra i settori maggiormente colpiti, e per questo serve che le persone possano ritornare al più presto a lavorare, magari anche a viaggiare, in sicurezza. 

Questo risultato, secondo Fithra Faisal Hastiadi, economista dell’Università dell’Indonesia e portavoce del Ministero del Commercio, può essere raggiunto solo attraverso una campagna di vaccinazione di massa delle persone in piena età lavorativa, a partire, certo, da coloro che svolgono una professione in cui il rischio di contagio è più elevato (gli operatori sanitari, le forze di polizia ed i militari). L’Indonesia sta dunque puntando sul vaccino per risolvere sia l’emergenza sanitaria che la crisi economica. Per dirla con le parole di Hastiadi, «quando si parla di salute pubblica si parla anche di economia, perché la salute pubblica è una funzione dell’economia». 

Come tutte le scelte anche questa non è esente da critiche e il governo indonesiano è stato accusato a più riprese di non preoccuparsi abbastanza per la salute delle fasce più deboli della popolazione. Amin Soebandrio, direttore dell’Istituto di biologia molecolare Eijkman, difende però la strategia di Jakarta dichiarando che vaccinare per primi i lavoratori è l’unico modo per l’Indonesia di raggiungere l’immunità di gregge e riportare il contagio sotto controllo. Altro convinto sostenitore di questa scelta è il Ministro della Sanità, Budi Gunadi Sadikin, che, nonostante non vi siano ancora studi approfonditi sull’impatto dei vaccini sulla diffusione del virus, ha insistito sul fatto che grazie a questa strategia gli anziani non rischieranno più di essere infettati dai parenti che rientrano a casa dopo una giornata a contatto con altre persone. 

Certo, quando l’Indonesia ha dato il via alla campagna vaccinale, non era sicura di avere abbastanza dosi per vaccinare l’intera popolazione , ed il Paese aveva a disposizione soltanto il vaccino Sinovac Biotech, sviluppato in Cina, che, allora, non era ritenuto scientificamente efficace e sicuro sugli anziani. L’approvazione all’uso di Sinovac sugli ultrasessantenni è arrivata il 6 febbraio scorso e nel frattempo il governo ha prenotato ulteriori 125 milioni di dosi del vaccino cinese e 330 milioni di dosi dei vaccini di AstraZeneca e Pfizer-BioNTech. Eppure il Governo non sembra, al momento, intenzionato a cambiare l’ordine di priorità con cui verrà somministrato il vaccino. 

CB. Kusmaryanto, membro del Comitato di bioetica del Paese, sostiene che in Indonesia non è possibile «fare buone scelte, ma scegliere il male minore». L’economia indonesiana, la più grande del Sud-Est asiatico e la decima al mondo a parità di potere d’acquisto, ha superato l’India nel 2012 diventando il secondo stato membro del G20 per crescita del PIL. Dall’inizio del nuovo secolo, l’Indonesia ha dimezzato la povertà e prima del Covid-19 si era qualificata per raggiungere lo status di Paese a reddito medio-alto. Il piano del governo ora è di vaccinare il 67% degli individui nei prossimi 15 mesi, sperando che la strategia si dimostri efficace e sufficiente a rimettere l’Indonesia sulla propria traiettoria di sviluppo.

A cura di Carola Frattini

Un nuovo inizio per le relazioni Giappone-ASEAN

Il Giappone guarda al Sud-Est asiatico per diversificare la produzione e contenere la crescita cinese 

Vietnam e Indonesia sono state le mete della prima visita all’estero del capo di governo giapponese Yoshihide Suga a ottobre. Un segnale importante, che ha confermato il crescente interesse del Giappone verso il Sud-Est asiatico. Il 2021 segna il decimo anniversario dell’istituzione della Missione diplomatica del Giappone in ASEAN, istituita a Jakarta nel 2011, ulteriore riscontro dell’intenso e duraturo rapporto di alleanza.

Lo scorso ottobre, un mese dopo il suo insediamento governativo, Suga ha scelto due Stati chiave della regione per dare il suo primo contributo al progresso delle relazioni Giappone-ASEAN, fortemente voluto dal suo predecessore Shinzo Abe. “Anch’io vorrei continuare ad approfondire l’amicizia e la cooperazione con i popoli dell’ASEAN. Giappone e ASEAN sono partner e amici alla pari. Ci supportiamo lavorando fianco a fianco, imparando l’uno dall’altro e cooperando nel perseguimento della crescita”, ha dichiarato Suga nel suo discorso agli studenti della Vietnam-Japan University. In questa occasione il Primo Ministro giapponese ha affrontato tematiche fondamentali per il consolidamento della partnership. Apprezzando l’invio dei reciproci aiuti per affrontare la crisi sanitaria e l’impegno del Giappone a supporto dell’ASEAN Centre for Public Health Emergencies and Emerging Diseases, Suga ha assicurato che l’implementazione del COVID-19 Crisis Response Emergency Support Loan del Giappone rivolgerà un’attenzione particolare all’Indo-Pacifico, inclusi i Paesi ASEAN.

Il forte legame tra il Giappone e il Sud-Est asiatico è basato sulla necessità comune di affermarsi nel contesto regionale e di investire sulla pace e la stabilità nella regione indopacifica per prosperare. Il premier Suga ha espresso forte sostegno all’ASEAN Outlook on the Indo-Pacific (AOIP), poiché condivide gli stessi valori che caratterizzano anche la strategia di politica estera giapponese “Free and Open Indo-Pacific”, delineata dall’amministrazione Abe. L’approccio dell’ASEAN nell’AOIP enfatizza la centralità delle norme internazionali per sedare le dispute e l’importanza della trasparenza nelle relazioni regionali, stabilendo una linea d’azione condivisa con il Giappone e quindi una comunanza di intenti preziosa per lo sviluppo di un futuro prospero e pacifico in Asia Orientale. 

La questione del Mar Cinese Meridionale rappresenta un punto chiave delle relazione tra Tokyo e i Paesi ASEAN. Dichiarando la piena opposizione del Giappone a ogni tipo di aggressione nella regione, il capo di governo giapponese ha favorito iniziative di collaborazione con l’ASEAN per stabilire il rispetto delle norme internazionali nei mari e gli oceani. Il Giappone ha fornito navi da pattuglia e attrezzature per la sicurezza marittima a Vietnam e Filippine. Ha inoltre promosso la formazione del personale militare e l’invio di esperti alle nazioni costiere lungo le rotte marittime principali della regione, tra cui Indonesia e Malesia, per contribuire a rafforzare le loro capacità operative. Nell’incontro tra Suga eil Presidente indonesiano Joko Widodo a ottobre, entrambi i leader hanno rimarcato l’intenzione di continuare a lavorare a stretto contatto sulle sfide regionali, in particolare la questione del Mar Cinese Meridionale e la Corea del Nord. 
Tutte le tematiche affrontate nel corso delle visite ufficiali sono state poi confermate da Suga durante il 23° Japan-ASEAN Summit Meeting, tenutosi a novembre 2020. 

Segnali interessanti arrivano anche dal lancio della Supply Chain Resilience Initiative.  La strategia ideata dal Giappone, insieme a India e Australia nel ruolo di partner principali, proverà ad aumentare la resilienza delle catena di approvvigionamento dei tre Paesi diversificando la produzione verso l’ASEAN con l’obiettivo di ridurre la dipendenza dal sistema produttivo cinese. Grazie alla collaborazione con Paesi partner come i membri dell’ASEAN, il Giappone intende accelerare l’evoluzione economica della regione indopacifica per contenere la forte crescita della Cina. 
Pertanto, nell’implementazione della  Regional Comprehensive Economic Partnership (RCEP), che ha unito di nuovo ASEAN e Giappone nella più grande area commerciale del mondo, Tokyo punterà a rafforzare la partnership strategica con l’ASEAN per bilanciare il peso di Pechino nell’accordo. 

Sforzi congiunti sono stati orientati di recente anche verso il settore delle energie rinnovabili. L’Asian Development Bank e il Ministero giapponese dell’Economia, del Commercio e dell’Industria hanno firmato un memorandum di cooperazione per rafforzare il loro impegno nello sviluppo dell’energia pulita nel Sud-Est Asiatico. Con l’avanzare dell’agenda globale verso i temi della transizione ecologica e la sempre più impellente necessità di accompagnare questo processo, Tokyo punta con forza sui Paesi ASEAN per lavorare insieme su questi delicati e prioritari dossier d’interesse comune. 

Il Giappone dunque continua a guardare con grande interesse verso il Sud-Est asiatico anche con l’avvento della leadership di Suga. Le preziose iniziative commerciali e le dinamiche geopolitiche in gioco daranno un nuovo impulso alla partnership strategica Giappone-ASEAN. I presupposti per “costruire insieme il futuro dell’Indo-Pacifico” ci sono tutti.

 

Il Brunei alla Presidenza ASEAN nel 2021

Dopo il Vietnam, sarà il Brunei Darussalam il secondo Paese alla guida dell’Associazione delle Nazioni del Sud-Est asiatico dall’inizio della pandemia

Non è la prima volta che il Brunei è alla Presidenza dell’Associazione delle Nazione del Sud-Est asiatico, bensì la quinta: prima nel 1989, poi nel 1995, nel 2001, nel 2013 e infine nel 2021, seguendo il sistema a rotazione per ordine alfabetico degli Stati membri. È la prima volta, tuttavia, che il passaggio di testimone avviene in un momento così delicato. Un momento in cui le tensioni geopolitiche globali sono più accese che mai, e la crisi sanitaria aggiunge ulteriore incertezza riguardo al futuro. Il modo in cui il Brunei reagirà alle sfide quest’anno durante la sua Presidenza potrebbe essere decisiva sia per la politica estera, sia per la coesione interna all’ASEAN.

In lingua malese “Dimora della Pace” (Nagara Brunei Darussalam), il Brunei è una monarchia assoluta di stampo islamico situata sull’isola del Borneo, confinante con la Malesia e affacciata sul Mar Cinese Meridionale. La posizione del Sultanato, la cui economia si basa principalmente sul petrolio, è in mezzo ad un quadrato di fuoco della geopolitica globale. Da un lato i Paesi ASEAN, partner strategici, ma con due dei quali (Filippine e Vietnam) condivide anche delle dispute territoriali nel Mar Cinese Meridionale contro la Cina. Dall’altro la Cina, il suddetto avversario nelle dispute, ma anche il maggiore partner commerciale e investitore nelle raffinerie di petrolio e nelle infrastrutture locali del Brunei, oltre che il partner con cui proprio nel 2021 viene sancito il 30esimo anniversario delle relazioni. Da un altro lato ancora gli Stati Uniti con il nuovo Presidente Joe Biden, un alleato fondamentale per controbilanciare la Cina e rafforzare la sicurezza internazionale, ma anche uno dei critici più aspri riguardo la legge promulgata dal Sultano del Brunei Hassanal Bolkiah contro gli adulteri e la comunità LGBTQ. Nell’ultimo lato infine il Regno Unito, prezioso alleato che cerca di rafforzare i rapporti con il blocco ASEAN complessivamente dopo la Brexit, ma allo stesso tempo ex potenza coloniale in Brunei. Un altro ostacolo per la cooperazione tra i due è l’economia del Brunei, ancora fortemente dipendente dal petrolio, e che fa storcere il naso a chi vorrebbe un partner dedito a politiche più green.

Data la sua posizione estremamente delicata in questo contesto, il Brunei dovrà muoversi con attenzione e prudenza per non finire invischiato nelle fitte maglie della geopolitica internazionale, e allo stesso tempo riuscire a sfruttare il suo ruolo di Presidenza per promuovere l’agenda ASEAN. Non bisogna dimenticare che il Brunei è stato uno dei quattro Paesi firmatari dell’Accordo P-4, l’accordo commerciale che nel tempo si è evoluto nel Partenariato Trans-Pacifico (in inglese TPP, “Trans-Pacific Partnership”) fino a coinvolgere 12 Paesi, rappresentanti il 40% dell’economia globale. La sua potenza economica e il suo impegno in tal senso lo rendono un hub prezioso per i Paesi membri, che attendono di scoprire cosa includerà in termini concreti il suo programma di azione. 

Per ora, ciò che è noto è il tema scelto per quest’anno di Presidenza: “We Care, We Prepare, We Prosper”. Secondo il Sultano, esso rappresenta l’impegno collettivo dei Paesi ASEAN nel prendersi cura della sua popolazione e prepararsi per le future sfide, con l’obiettivo di garantire una prosperità sostenibile a tutta la sua comunità. Le priorità del Brunei sembrano essere il proseguimento dei lavori per raggiungere l’ASEAN Community Vision 2025 e il rafforzamento delle istituzioni interne dell’ASEAN; l’attuazione dell’ ASEAN Comprehensive Recovery Framework per riparare ai danni causati dal COVID-19 all’economia; il rafforzamento della resilienza complessiva della regione contro le sfide future sfruttando i meccanismi dell’ASEAN Plus Three e dell’ East Asia Summit; e l’aumento delle possibilità di collaborazione con partner già esistenti, oltre che la creazione di nuove laddove possibile.

Un programma ambizioso ma non esente da sfide. Oltre a quelle che possono apparire ovvie, per il Brunei la chiave sarà rafforzare il comparto tecnologico e digitale, e soprattutto passare ad un tipo di sviluppo economico più sostenibile. Per quest’ultimo, ci sarà bisogno di maggiore impegno nel settore della sicurezza energetica, negli obiettivi di Sviluppo Sostenibile dell’ONU, e nel supporto alle piccole e medie imprese. A questa agenda, di certo già abbastanza ricca di sfide, si aggiunge la situazione incerta in Myanmar dopo il colpo di stato dello scorso 1° Febbraio. In qualità di Paese di turno alla Presidenza, il Brunei si è già espresso spronando al dialogo, la riconciliazione, e un “ritorno alla normalità” appellandosi ai principi della Carta dell’ASEAN: democrazia, legalità, sana gestione degli affari pubblici, rispetto e protezione dei diritti umani e delle libertà fondamentali dell’individuo.

Il cammino per il turno di Presidenza del Brunei quest’anno sarà particolarmente ricco di ostacoli. Ci auguriamo che, nonostante le sfide, il Paese riesca a convogliare le giuste energie per fronteggiare le difficoltà, e lavorare in armonia con gli altri per una regione del Sud-Est asiatico più prospera, pacifica e inclusiva che mai.

Indo-Pacifico, le nuove sfide per l’Europa

Tra accordi commerciali e consolidamento militare, i Paesi europei ridefiniscono la loro strategia nel Sud-Est asiatico

L’Europa si è accorta del potenziale dell’Indo-Pacifico e ridefinisce le priorità strategiche in tal senso. La prima potenza europea a riconoscere l’importanza della regione è stata la Francia di Emmanuel Macron, che nel 2017 ha pubblicato i piani per una maggiore partecipazione regionale, immediatamente seguita da Germania e Paesi Bassi. Insieme, i tre Paesi stanno spingendo per delineare la strategia europea per l’Indo-Pacifico, la cui pubblicazione è attesa nel 2021.

L’interesse dell’Unione Europea verso il Sud-Est asiatico non è certo una novità. Nel 2017 lo stock di investimenti diretti esteri indirizzati ai Paesi ASEAN ha raggiunto il valore di 337 miliardi di euro, superando di gran lunga l’impegno di qualsiasi altro investitore estero e, solo nel 2020, il commercio tra Cina e UE ha raggiunto la cifra di 480 miliardi di euro. Senza contare che circa il 12% del flusso commerciale annuo di alcuni Paesi europei, tra cui Francia e Germania, passa attraverso il Mar Cinese Meridionale.

In tale ottica, le linee guida per la strategia regionale adottate dal governo tedesco lo scorso settembre, stabiliscono il principio della libertà di navigazione e chiedono una più profonda cooperazione. L’Australia ha accolto con favore la presenza tedesca e dell’Unione Europea nella regione, inviando diplomatici in tutte le capitali europee per manifestare il proprio sostegno all’iniziativa. Anche la Francia è stata bene accolta dall’India, che ne ha sostenuto l’ingresso nell’Indian Ocean Rim Association – un’associazione che riunisce Paesi che si affacciano sull’Oceano Indiano con obiettivi di cooperazione regionale e sviluppo sostenibile – rendendo Parigi il primo membro non regionale dell’Associazione. 

La componente più visibile del rinnovato interesse europeo per l’Indo-Pacifico è il cospicuo dispiegamento di risorse militari; Parigi ha recentemente stipulato un accordo con l’India per l’uso reciproco delle basi navali, che stabilisce anche lo stanziamento di unità militari e navi nelle “aree di responsabilità” francese della Nuova Caledonia e della Polinesia. Anche Il Regno Unito, seppur non più parte dell’Unione Europea, invierà un gruppo di portaerei nella regione entro la fine dell’anno ed è membro attivo dell’alleanza militare Five Powers, che comprende anche le ex colonie britanniche di Australia, Nuova Zelanda, Malesia e Singapore. 

La presenza militare, tuttavia, è secondaria all’influenza economica. Negli ultimi tre anni, l’Unione Europea ha intessuto un mosaico di accordi di libero scambio, concludendone due con Vietnam e Singapore e aprendo le negoziazioni con l’Australia. L’UE ha inoltre concordato un Partenariato Strategico con l’ASEAN in vista di un futuro accordo commerciale. 

Questi scenari di riferimento, apparentemente lontani dal contesto geografico italiano, pongono in evidenza alcuni spunti di riflessione per la politica estera del nostro Paese. La forte apertura dell’area dell’Indo-Pacifico verso l’Europa dovrebbe essere maggiormente sfruttata dall’Italia che ha enormi potenzialità di incremento della cooperazione bilaterale in pressoché tutti i settori. L’ASEAN, da solo, rappresenta la quinta economia globale e la quarta potenza commerciale al mondo e, negli ultimi anni, la regione si è progressivamente aperta al commercio e agli investimenti. Di conseguenza, i Paesi ASEAN nutrono per l’Italia e l’Europa un profondo interesse. Per fare un altro esempio, l’interscambio commerciale fra Italia e India, oggi attestato a circa 9 miliardi di euro, è ampiamente al di sotto delle potenzialità che i due Paesi potrebbero esprimere. Se da un lato sono aumentati gli investimenti italiani in diversi settori (manifattura avanzata; automotive; transizione energetica; infrastrutture; agroalimentare e IT), l’Italia è soltanto il 5° Paese della UE per interscambio commerciale con l’India.

Con l’avvio della presidenza Biden c’è, inoltre, da chiedersi se la strategia europea nell’Indo-Pacifico subirà delle modifiche, dal momento che l’interesse europeo per la regione è coinciso con la ritirata degli Stati Uniti dallo scenario internazionale. Ebbene, i vertici dell’UE nel rassicurare i loro cittadini e i Paesi dell’Indo-pacifico, hanno dichiarato che l’Unione Europea non è intenzionata a farsi da parte e che non rinuncerà alla sua autonomia strategica solo perché gli Stati Uniti hanno fatto ritorno. Se, infatti, corrisponde al vero che l’area Indopacifica costituirà una delle maggiori economie planetarie entro i prossimi anni, essa rappresenta un’opportunità irrinunciabile per l’Italia e l’Europa, non solo per le prospettive offerte da una sempre maggiore integrazione delle rispettive economie, ma soprattutto per costruire una solida partnership economica, politica e militare fondata su interessi e valori comuni.

The ASEAN way: il ruolo degli FTAs nell’integrazione regionale dell’Indo-Pacifico

Il delicato processo di integrazione commerciale dell’Asia Orientale ha individuato il suo polo propulsore nell’ASEAN. L’Associazione delle Nazioni del Sud-Est asiatico è infatti l’epicentro di una fitta rete di accordi di liberalizzazione, che ha creato le basi politiche e diplomatiche per promuovere relazioni mutuamente vantaggiose tra le economie asiatiche. Pur essendo stata definita una noodle bowl per via della confusione di aree di libero scambio non coordinate a livello regionale, la proliferazione di questi accordi ha contribuito notevolmente a fabbricare la fiducia reciproca tra i Paesi dell’area. Attraverso l’individuazione di misure di compromesso, sono state tutelate anche le economie più deboli – come ad esempio il Myanmar, da decenni impegnato in una complessa transizione democratica, recentemente frenata dal colpo di stato dei militari.

Il ricorso alla formula dei free trade agreements (FTAs) ben si concilia infatti con la preferenza di negoziazioni su base bilaterale, cui da sempre tendono le economie asiatiche, specie quelle in via di sviluppo. La conclusione di ben sette accordi di libero scambio nella regione – il primo tra i Paesi membri dell’ASEAN, gli altri tra l’Associazione e i suoi “partner di dialogo” – ha gettato le basi per la promozione della Regional Comprehensive Economic Partnership (RCEP). Grazie agli encomiabili sforzi dei suoi fautori, la cosiddetta ASEAN way ha di fatto realizzato le condizioni necessarie affinché i 15 Paesi firmatari della RCEP potessero dar vita a questo mega accordo commerciale nel novembre 2020.

Ma andiamo con ordine. All’indomani della creazione dell’area di libero scambio tra i Paesi membri dell’ASEAN nel 1993, sono stati promossi sei accordi con una serie di altre economie dell’Asia-Pacifico: Cina e Hong Kong, Giappone, Corea del Sud, Australia, Nuova Zelanda, e India.

Quello con la Cina è stato il primo accordo commerciale con uno dei dialogue partners dell’ASEAN. Le relazioni tra Pechino e i Paesi del Sud-Est asiatico sono andata via via migliorando dopo un lungo periodo di diffidenza, a partire dagli anni Settanta e poi con rinnovato vigore dagli anni Novanta. Infatti, nel 2002 è stato promosso il Framework Agreement on Comprehensive Economic Co-operation, cui ha fatto seguito un accordo di libero scambio sui beni che prevede la progressiva liberalizzazione economica tra le parti. Data l’imponenza dell’economia cinese rispetto ai Paesi membri dell’ASEAN alcuni membri dell’Associazione godono di un trattamento speciale e differenziato, con finestre temporali per la liberalizzazione più rilassate. Secondo i dati raccolti dall’Associazione, il valore del volume totale degli scambi tra ASEAN e Cina tra il 2003 e il 2019 ha conosciuto una crescita esponenziale dall’inizio del millennio: la crescita dell’interscambio di beni è pari a +692%, essendo incrementata da circa $64 miliardi a $507 miliardi. Ma è il tasso di crescita medio annuo a lasciare di stucco: il suo valore percentuale è pari al 13%, mentre il valore del volume totale degli scambi con il resto del mondo cresceva in media del 7% annuo (da circa $871 miliardi a $2.816 miliardi tra il 2003 e il 2019). All’accordo ASEAN-Cina ha fatto seguito quello con la regione amministrativa speciale di Hong Kong, siglato nel 2017, di cui l’ASEAN è il secondo partner commerciale. Nonostante il rapporto tra ASEAN e Cina sia complesso, entrambi desiderano mantenere la stabilità regionale, sfruttando rapporti commerciali mutualmente vantaggiosi.

Quella con il Giappone è considerata una delle relazioni più rilevanti tra l’ASEAN e una delle massime economie mondiali. Per resistenza e longevità, nonostante gli alti e i bassi, il legame economico-commerciale è sempre stato molto proficuo. Il volume totale del commercio di beni era già nell’ordine dei 119 miliardi di dollari nel 2003, ed è passato a $153 miliardi nel 2005, in seguito alla stipula dell’accordo, mentre nel 2019 invece ammontava a $226 miliardi. A questo ha fatto poi seguito la Joint Declaration con la Corea del Sud del 2004, che ha lanciato una Comprehensive Cooperation Partnership, poi seguita da un accordo sul libero scambio di beni (2006), di servizi (2007) e sulla mobilità degli investimenti (2009). 

Seguono infine gli ultimi due accordi: uno con Australia e Nuova Zelanda, e l’altro con l’India. Il primo riguarda un esteso orizzonte di settori. Infatti, oltre a promuovere una moderata liberalizzazione attraverso il progressivo abbattimento delle barriere commerciali, include disposizioni su una serie di altri ambiti che vanno dalle regolamentazioni sulla proprietà intellettuale e sulla competizione, alla promozione della cooperazione. Il secondo accordo è quello con l’India, che ha dato vita ad un mercato enorme che nel 2019 contava quasi due miliardi di persone, secondo la Banca Mondiale. A partire dal Framework Agreement siglato nel 2003, nel 2010 è entrato in vigore l’accordo sul libero scambio di beni, poi seguito da quello sulla liberalizzazione dei servizi. All’indomani della stipula dell’accordo, il volume totale dell’interscambio tra paesi ASEAN e India è quasi raddoppiato (+89%), passando in tre anni da circa $39 miliardi (2009) a circa $74 miliardi (2011).

Gettando le basi commerciali necessarie per creare spazi di prossimità politica, l’ASEAN ha giocato quindi un ruolo cruciale nel processo di fabbricazione dell’identità regionale dell’Asia Orientale – nonostante i suoi sviluppi siano ancora in divenire. La RCEP ne è l’epilogo positivo, anche se più che rappresentare un traguardo è l’unità elementare per costruire relazioni politico-economiche più salde e inclusive in futuro. Tali accordi di liberalizzazione nel complesso hanno dato vita ad un circolo virtuoso di interscambi anche sociali e politici all’insegna dell’ASEAN way che si innestano in un contesto di crescita positivo, nonostante la pandemia. Inoltre, seppur i recenti sviluppi in Myanmar rappresentano uno scenario imprevedibile, l’ASEAN saprà progredire nell’integrazione commerciale regionale sfruttando l’approccio inter-governativo, che le consentirà di superare le criticità attraverso la promozione del dialogo tra i Paesi.

A cura di Agnese Ranaldi

Aung San Suu Kyi

Ritratto di una donna contestata in un Paese lacerato dal conflitto

Metà del mondo la odia, metà la ama. Non è facile tratteggiarne il ritratto senza rimanere invischiati in una consistente zona d’ombra, che rende il suo profilo sfocato e misterioso. 

Aung San Suu Kyi, Consigliere di Stato della Birmania, Ministro degli Affari Esteri e Ministro dell’Ufficio del Presidente. Premio Nobel per la pace, premio Rafto per la difesa dei diritti umani, premio Sakharov per la libertà di pensiero, Medaglia d’Oro del Congresso degli Stati Uniti. Ma anche moglie, madre, figlia. Posta sotto arresti domiciliari, a fasi alterne dal 1988 al 2010, mentre il marito in Inghilterra moriva di cancro. Sfuggita per un pelo ad una sparatoria organizzata esplicitamente per colpire lei e i suoi sostenitori. Poi condannata dalla critica internazionale per legittimare, o quantomeno negare, il genocidio perpetrato ai danni della minoranza musulmana dei Rohingya in Myanmar. 

Myanmar che è tornato sulla bocca di tutti pochi giorni fa, con la notizia del colpo di stato delle forze militari, il Tatmadaw. Tutti i principali leader del partito di maggioranza NLD (National League for Democracy) guidato da Aung San Suu Kyi sono stati arrestati, è stato dichiarato lo stato d’emergenza, e linee telefoniche e trasmissioni televisive sono state interrotte. Per il momento, le accuse sono quelle di aver violato le leggi riguardanti l’import-export, di possedere in casa propria illegalmente quattro radio walkie-talkie. La notizia ha fatto scalpore, ma non ha sorpreso coloro che seguono già da tempo gli sviluppi nel Paese. Difatti, il coup d’etat si inserisce in un contesto dove le frizioni tra la leader politica e le forze militari esistono ormai da numerosi decenni. Così come lo stretto controllo della giunta sulla vita politica, sociale, e religiosa del Paese.

La giunta militare birmana è strettamente legata alla politica del Myanmar dal 1962, quattordici anni dopo l’indipendenza dalla Gran Bretagna e un breve periodo di transizione democratica. Dapprima con il supporto al Partito Socialista, poi con l’annullamento della sua stessa vittoria elettorale, la scusa del broglio è divenuta una costante che ha permesso alla giunta di mantenere il controllo e di reprimere tutti i movimenti pro-democratici che si sono succeduti negli anni. Il più famoso di questi, sfociato nella “Rivolta 8888” (un’insurrezione nazionale il cui fine era la democrazia), iniziata l’8 agosto 1988 e finita appena un mese dopo, è passato tristemente alla storia per essersi concluso in un bagno di sangue. Migliaia di monaci e civili (principalmente studenti) furono uccisi dal Tatmadaw. A causa delle rivolte, venne fondato il Consiglio di Stato per la Restaurazione della Legge e dell’Ordine. Fu in questo contesto che Aung San Suu Kyi emerse come icona nazionale. Aveva vissuto all’estero per gran parte della propria vita, ma proprio quell’anno era tornata nel Paese, per accudire la madre malata.

Figlia del generale e politico birmano Aung San, la vita di Suu Kyi è stata segnata dai risvolti politici del suo Paese fin dalla tenera età. Il padre fu eroe dell’indipendenza birmana dalla Gran Bretagna e primo Ministro della Difesa del governo. Tuttavia, all’apice del suo successo, venne assassinato lasciando una pesante eredità alla figlia, di appena due anni, agli altri due figli, e alla moglie, che pochi anni dopo sarebbe divenuta Ambasciatrice del Myanmar in India. Suu Kyi frequentò le migliori università occidentali ed entrò nelle Nazioni Unite, a New York, dove visse fino alla Rivolta del 1988. Dopo la tragedia, aveva deciso che sarebbe rimasta in Myanmar e avrebbe fondato la NDL. Appena un anno dopo, era agli arresti domiciliari.

Gli anni che seguono il 1988 si alternano tra libertà vigilata e nuovi arresti, la vittoria del suo partito alle elezioni (schiacciante ma annullata, ancora una volta, da un colpo di stato della giunta militare), il premio Nobel della pace, e l’appello della comunità internazionale per il suo rilascio, da Kofi Annan a Papa Giovanni Paolo II. Sopravvive ad una sparatoria, il marito muore di cancro in Inghilterra a migliaia di chilometri di distanza, i suoi figli crescono lontani da lei.

Nel 2010 viene finalmente liberata, e nel 2015 si hanno le prime elezioni libere dal colpo di Stato del 1962. Secondo la costituzione redatta dai militari nel 2008, Aung San Suu Kyi non può essere eletta presidente: i cittadini con familiari stranieri (nel suo caso, due figli britannici) non possono accedere alla massima carica dello stato. Si potrebbe presumere che l’articolo sia stato inserito apposta per impedirle di accedere alla carica, ma di certo non l’ha fermata: per lei è stato creato un nuovo ruolo ad hoc, “Consigliere di stato”, de facto un Primo Ministro.

Dopo qualche anno, l’euforia della comunità internazionale per le sue conquiste si spegne improvvisamente, e viene sostituito dallo sdegno. La paladina dei diritti umani e della democrazia prima nega le violenze perpetrate dalla giunta militare nei confronti della minoranza etnica dei Rohingya nello stato del Rakhine. Poi nel 2019 parla di “quadro fuorviante e incompleto” davanti al Tribunale internazionale dell’Aja per difendere il suo Paese dall’accusa di genocidio. Sebbene la crisi abbia demolito la sua immagine pubblica all’estero, la difesa del suo Stato gli ha valso grande seguito tra la popolazione del Myanmar, assieme al consenso sempre maggiore per come ha saputo gestire la crisi del Covid-19 nel Paese.

Il giudizio sulla sua figura è diviso in due profonde spaccature. Da un lato, chi punta il dito verso il suo silenzio, e impone che le vengano ritirati onorificenze e premi. Dall’altro, chi conosce bene la delicata situazione in cui versa Suu Kyi, e sa che non è facile contrastare la giunta militare e l’immensa influenza politica del Sangha, l’ordine monastico buddhista che di fatto legittima il potere politico di chi governa il Paese. Chi ha l’approvazione del Sangha, militare o politico che sia, ha l’approvazione del popolo. La sua fazione più radicale e nazionalista è nota per gli atti violenti e per diffondere discorsi di incitamento all’odio verso i Rohingya, e potrebbe avere un peso non indifferente nell’influenzare le azioni e le scelte di Suu Kyi per tenere assieme il Paese.

Influenza o meno, nel discorso alla nazione per il nuovo anno Suu Kyi aveva promesso un nuovo approccio verso le negoziazioni di pace, volte a risolvere la fitta rete di conflitti civili nel Paese. Aveva posto le basi per un piano, il “New Peace Architecture”, per raccogliere maggiore partecipazione da diverse forze politiche, organizzazioni della società civile, e i cittadini. Il nuovo colpo di Stato getta un’ombra oscura su questi progetti, e non è dato sapere se essi riusciranno ad avere mai seguito. 

Domare il Cigno Nero

Diplomazia multilaterale, uno strumento per lo sviluppo sostenibile nell’era del cambiamento

Articolo di Don Pramudwinai, Vice Primo Ministro e Ministro degli Esteri della Tailandia

Il 2020 è davvero stato un anno di profondi cambiamenti nella storia globale. La pandemia di COVID-19 e la velocità con la quale essa si è diffusa sono riusciti a bloccare persino la globalizzazione e a costringere i governi ad andare in lockdown. Le attività sono state costrette a chiudere, portando al congedo o al licenziamento dei lavoratori in alcuni casi, ed accentuando ancora di più le disuguaglianze sociali già esistenti. Tutti sono giunti alla consapevolezza che il lavoro non sarà mai più lo stesso, e bisognerà adeguarsi ad una “nuova normalità”. 

La pandemia è un promemoria crudele di quanto la nostra vita sia piena di incertezze e parametri sconosciuti. Nei casi peggiori, non sappiamo nemmeno ciò che non sappiamo, e questo ci coglie completamente alla sprovvista quando eventi al di fuori del nostro controllo accadono. Il danno causato da queste “incognite” o “Cigni Neri”, come li chiamano alcuni teorici, si fa più preoccupante a mano a mano che il mondo diventa più piccolo e interconnesso. In queste condizioni, per una nazione di medie dimensioni come la Thailandia, abbiamo sempre compreso quanto il multilateralismo, come strumento di sviluppo sostenibile, sia il miglior rimedio contro questi Cigni Neri. L’idea è che le sfide che ci colpiscono maggiormente siano di solito quelle che compromettono la sicurezza dell’uomo. Per tale motivo, bisogna che i Paesi operino in sinergia. Altrimenti i problemi rimarranno, spostandosi continuamente da una parte all’altra. Questo ci conduce al nostro sostegno per lo sviluppo sostenibile in tutte le istituzioni multilaterali che abbiamo fondato o alle quali ci siamo uniti, dalla Società delle Nazioni alle Nazioni Unite, e nella regione, dall’ASEAN all’ACMECS all’ACD, per nominarne alcuni.

Il motivo è evidente e i benefici prevedibili. Le potenze minori devono combinare le loro capacità per aumentare il loro peso politico o per conseguire obiettivi comuni che da sole non riuscirebbero mai a raggiungere, come il cambiamento climatico, lo sviluppo sostenibile e, ovviamente, la gestione dell’epidemia. Il COVID-19 ha dimostrato che le “grandi potenze” convenzionali non hanno potere contro tali sconvolgimenti, e hanno bisogno di collaborare e allargare la propria rete per sconfiggere il nemico comune. Riconoscere che “nessuno è al sicuro finché tutti non sono al sicuro” sottolinea oggi più che mai l’importanza della cooperazione multilaterale.

Quando la Guerra Fredda si concluse negli anni Novanta, la cooperazione economica divenne il primo punto all’ordine del giorno, portando alla formazione di gruppi regionali ai quali la Thailandia si unì, oppure contribuì in maniera significativa a creare. Tra essi vi sono l’APEC, il BIMSTEC, l’ACMECS e l’ACD. Assieme all’ASEAN, queste strutture hanno sostenuto la nozione di “portare prosperità al prossimo” della politica estera thailandese e hanno favorito la nascita di molti accordi concreti, che hanno rafforzato la nostra determinazione e solidarietà ogni volta che la regione si è trovata dinanzi a “Cigni Neri” in passato. La crisi finanziaria in Asia nel 1997 e la SARS nel 2003 ci hanno offerto lezioni preziose.

La comparsa del COVID-19 e il modo in cui le nazioni coordineranno la loro reazione seguirà presumibilmente uno schema simile in termini di cooperazione regionale. Per esempio, la Thailandia ha offerto pieno supporto al Vietnam, di turno alla Presidenza dell’ASEAN, per organizzare in via straordinaria l’ASEAN Summit e l’ASEAN+3 Summit sul COVID-19 ad aprile 2020. Ha anche proposto l’istituzione di un Fondo ASEAN di Risposta al COVID-19. Questo approccio rimanda alla strategia thailandese contro la SARS nel 2003, quando vennero subito organizzati un Meeting straordinario tra i leader ASEAN e ASEAN-Cina e un Meeting dei Ministri della Salute APEC, ospitati dalla Thailandia. In quell’occasione, vennero opportunamente dimostrati la necessità e i vantaggi di una sinergia comune nel fronteggiare una minaccia condivisa e di prepararsi alle sfide future.

Nel corso degli anni, la Thailandia ha perseguito in maniera consistente un tema comune attraverso tutte le strutture regionali: il bisogno di incoraggiare maggiormente uno sviluppo sostenibile che sia equilibrato e rimanga fondato sui diritti e bisogni basilari dell’uomo. Una volontà comune da parte della comunità internazionale è quella di non sfruttare fino all’esaurimento le risorse che permetteranno alle future generazioni di godere di un ambiente pulito, dignitoso, ed ecologico. 

Il mondo post-COVID necessita di un ripensamento – un cambiamento di paradigma – di come perseguiamo la crescita economica. Il nostro approccio attuale ha portato l’attività umana in conflitto diretto con la natura, generando uno squilibrio manifestatosi sotto forme quali il cambiamento climatico, la pandemia, e persino i conflitti sociali. Il governo thailandese di recente ha messo al primo posto nel suo programma nazionale l’Economia Bio-Circolare-Verde, o Modello BCG. Essa diventerà la nostra principale strategia per il rilancio e lo sviluppo dell’economia dopo la pandemia e oltre. Attraverso l’uso di strategie di crescita innovative e sostenibili che rispettano in maniera adeguata i bisogni dell’essere umano, aiutando milioni di persone ad uscire dalla povertà e rispettando allo stesso tempo il pianeta, speriamo di raggiungere un equilibrio che armonizzi la produzione e il consumo con la tutela ambientale. Dal momento che altri Paesi condividono la stessa intenzione, la Thailandia sarà lieta di lavorare con altri partner per trasformare questi concetti in azioni concrete al servizio delle persone in tutto il mondo.

Dal momento che l’economia globale è attualmente in difficoltà e il motore principale della crescita thailandese mostra segni di rallentamento, la collaborazione multilaterale dovrebbe essere parte del piano di ripresa della Thailandia. Per esempio, per posizionare la Thailandia al meglio nella catena di approvvigionamento globale è fondamentale un continuo impegno regionale sullo sviluppo della rete dei trasporti e sull’armonizzazione delle regolamentazioni. Al contempo, la pandemia ha stimolato un’incredibile digitalizzazione in vari settori, quali il business, la telemedicina, e la didattica a distanza. Dovremmo cogliere questa opportunità per accelerare la cooperazione nel connettere e potenziare l’e-commerce e la nostra infrastruttura digitale.

Queste dinamiche si allineano alla strategia Thailandia 4.0 per trasformare l’economia del Paese con la tecnologia e l’innovazione, puntando su industrie dal valore aggiunto. L’Eastern Economic Corridor (EEC) è il punto nevralgico di questa strategia e promuove gli investimenti in dieci comparti industriali mirati, quali le automobili di nuova generazione, l’elettronica intelligente, e l’alimentazione per il futuro. Tutti questi settori sembrano promettenti per la creazione di posti di lavoro e il dinamismo economico in Thailandia e nella regione, dal momento che l’EEC è divenuto un magnete notevole per gli investitori stranieri, grazie alle ottime strutture logistiche e la posizione strategica.

La politica regionale thailandese sostiene anche il commercio libero e multilaterale. È importante sottolineare che la firma della Regional Comprehensive Economic Partnership (RCEP) avvenuta l’anno scorso non sarebbe stata possibile senza la conclusione delle trattative su oltre 20 capitoli durante la Presidenza ASEAN della Thailandia nel 2019, un’impresa dalla portata eccezionale. L’accordo aumenterà le opportunità di commercio e investimenti per gli imprenditori thailandesi, che avranno accesso ad un mercato di 2.2 miliardi di persone, o quasi un terzo della popolazione mondiale.

Con tali prospetti, i turni della Thailandia alla Presidenza del Bay of Bengal Initiative for Multi-Sectoral, Technical and Economic Cooperation (BIMSTEC) dal 2021 al 2022, e dell’APEC nel 2022, giungono al momento opportuno. Essi pongono la Thailandia in una posizione eccezionale per rafforzare le sue relazioni internazionali e ricoprire un ruolo costruttivo nell’elaborazione di un piano per la ripresa economica post-COVID volto ad una crescita sostenibile della regione. 

Con il BIMSTEC, la Thailandia si porrà in prima linea per il miglioramento dei collegamenti terrestri e marittimi, necessari per rafforzare l’infrastruttura dei trasporti e facilitare gli scambi commerciali. Uno dei progetti di punta è l’autostrada trilaterale di 1.360 km che collegherà la provincia di Tak, sul confine occidentale della Thailandia, alla città di Moreh, nello Stato del Manipur al confine indiano, passando attraverso il Myanmar. Per quanto riguarda i collegamenti marittimi, stiamo progettando di collegare la provincia di Ranong sulla costa Andaman alla città portuale di Krishnapatnam nell’Andhra Pradesh indiano, come ulteriore canale per promuovere gli scambi interregionali.

Con riferimento all’APEC, la Thailandia ha intenzione di dare una spinta ulteriore al gruppo e concretizzare la Visione APEC post-2020 per promuovere il commercio e gli investimenti. Cercheremo di promuovere la digitalizzazione al fine di rilanciare la crescita economica, e migliorare l’inclusione nel mondo del business per tutte le fasce della popolazione, in particolare donne, persone con disabilità, e comunità rurali.

In quest’epoca di cambiamento continuo, la Thailandia è giunta alla consapevolezza che sia le capacità interne che le partnership internazionali sono di importanza vitale se vuole essere pronta per la “nuova normalità” ed essere in grado di fronteggiare le nuove sfide senza precedenti. Dal momento che il 2021 può considerarsi come una fase di transizione verso una ripresa post-COVID-19, la Thailandia si augura una stretta collaborazione con i suoi partner internazionali per rilanciare la ripresa globale e delineare un futuro sostenibile per le generazioni a venire.

Intervista all’On. Fassino sul recente golpe in Myanmar

Piero Fassino, già inviato UE in Myanmar nel 2007 e Presidente della Commissione Esteri della Camera dei Deputati, ci spiega il perché del golpe e delinea alcune tendenze del Paese per capire la situazione locale e quali i possibili sviluppi



Che ruolo giocano i militari nel Paese? Ci si poteva aspettare un loro ritorno al potere? Davvero si pensava avrebbero lasciato il potere definitivamente ai civili? Davvero i militari lasceranno il potere fra un anno?

Per rispondere a queste domande bisogna andare alle radici dell’indipendenza birmana e della guerra di liberazione contro l’occupazione giapponese nella Seconda Guerra Mondiale guidata con successo proprio dal generale Aung San, il padre di Aung San Suu Kyi. Intorno ad Aung San si formò un gruppo dirigente costituito da ufficiali, alcuni dei quali ordirono il complotto che portò all’uccisione dello stesso Aung San alla vigilia dell’indipendenza.

Da allora l’esercito è parte integrante della storia e dell’identità nazionale. Non bisogna dimenticare poi che, sebbene la stragrande maggioranza della popolazione sia di fede buddista, la Birmania è uno stato non solo multireligioso, ma anche multietnico e plurilinguistico, con assetto federale, con spinte autonomistiche – e anche secessionistiche – che hanno consentito alle forze armate di presentarsi come i garanti dell’unità nazionale.

Altro punto di analisi da non trascurare è che la transizione alla democrazia non è avvenuta per una sconfitta della giunta militare, ma con un processo octroye’ dalle autorità militari che hanno accettato la formazione di un governo civile e l’avvio di una transizione democratica in cambio di una riserva del 25% dei seggi parlamentari e del mantenimento di tre ministeri chiave: difesa, interni e appunto coesione nazionale. Processo che sia la comunità internazionale, sia Aung San Suu Kyi hanno accettato scommettendo sul fatto che la gradualità della transizione avrebbe via via ridotto il peso dei militari e favorito una completa e compiuta democratizzazione del Paese. I fatti di queste settimane hanno spezzato quel disegno. Ed è difficile credere che al termine dello stato d’emergenza, ovvero tra un anno, si ritorni ad una dinamica democratica.

Aung San Suu Kyi governa dal 2015 e ha dovuto affrontare il problema dei Rohingya. Su quest’ultimo tema è stata molto criticata dalla comunità internazionale e ha perso credibilità (anche alla luce del suo essere stata un campione dei diritti per il quale aveva vinto il Nobel). Può aver messo da parte i principi per agire in modo realista? Ovvero sacrificare qualcosa per mostrarsi in grado di governare il Paese e quindi essere un attore politico responsabile agli occhi dei militari? Alla fine si può dire che la sua azione non abbia pagato e ne sia uscita screditata?

Aung San Suu Kyi, liberata a fine 2010, è entrata in Parlamento con le elezioni suppletive del 2012 in cui si rinnovarono 42 seggi, la gran parte conquistati dall’NLD. Successo replicato alle elezioni del 2015 che diedero alla Lega Nazionale per la Democrazia una larga maggioranza assoluta che le consenti di formare il primo governo democratico e avviare una transizione che ha liberato tutti i detenuti per ragioni politiche, abolire ogni forma di censura, aprire il Paese a investimenti stranieri, modernizzare il Paese e concludere accordi di pacificazione e autonomia con le minoranze etniche. La repressione dei Rohingya è stata una iniziativa dei generali che, sfruttando la generale ostilità della popolazione birmana verso i Rohiynga, ha fatto fare ad Aung San Suu Kyi la parte del carnefice quando invece l’azione dei militari è stata da lei totalmente subita. Come abbiamo visto, secondo la Costituzione birmana i ministeri della difesa e degli interni, non rispondono al Parlamento ma alle gerarchie militari. Contrastare apertamente i generali voleva dire opporsi a un sentimento diffuso di ostilità verso i Rohingya presente nell’opinione pubblica nazionale; non contrastare i generali ha voluto dire opporsi a un sentimento diffuso nell’opinione pubblica internazionale giustamente sensibile alla tutela delle minoranze e dei diritti umani. La prudenza manifestata da Aung San Suu Kyi in quel frangente non è frutto di cinismo o insensibilità, ma della consapevolezza di stare dentro a un processo difficile e incompiuto che come tale conosce dei rallentamenti, ma del quale non si può abbandonare la guida. Questa complessità è stata del tutto sottovalutata in Occidente che ha assunto posizioni che hanno avuto l’unico effetto di indebolire Aung San Suu Kyi.

E quindi la severità dell’Occidente è stata controproducente?

Sì. La scelta del Parlamento Europeo di ritirare il Premio Sacharov all’esponente politica birmana è stata una decisione moralistica e profondamente impolitica, assunta senza valutarne le conseguenze. Max Weber ci aveva ammonito da questo rischio. La politica non può essere guidata soltanto dall’etica della testimonianza, che valuta solo la mera coerenza dei principi. In politica vale l’etica della responsabilità che non si ferma alla coincidenza tra scelte e valori, ma si interroga sulle conseguenze di quelle scelte. Ora non vi è dubbio che aver voluto “punire” la prudenza di Aung San Suu Kyi è stata letta dai generali come una forma di isolamento internazionale della Lady, contro la quale dunque si poteva agire. E se il colpo di stato ha una connessione con la vicenda Rohingya, non è per la “prudenza” di Aung San Suu Kyi, ma per il fatto che il generale a capo del golpe sia sotto inchiesta da parte del tribunale penale internazionale per i diritti umani proprio perché ritenuto responsabile della repressione dei Rohingya.

Dalla sua esperienza di inviato in Myanmar cosa ha capito della politica e società locale? Ritiene che il Paese sia pronto per una democratizzazione? Ci sono le basi e se si quanto sono solide per una democrazia?

I militari hanno tenuto per 60 anni la popolazione in uno stato di oppressione politica e di arretratezza economica e culturale. Ad esempio il sentimento ostile nei confronti dei Rohingya, su cui come abbiamo visto hanno speculato i generali, è un segno di arretratezza. Ma non ci si può fermare solo al dato negativo. Le conquiste democratiche e civili avvengono per tappe e dentro un processo. La mia esperienza mi dice che il Paese è pronto all’apertura al mondo e alla democratizzazione. E ha dato ampiamente prova di questa maturazione democratica alle ultime elezioni, quelle dell’8 novembre quando il percorso intrapreso dalla Lega Democratica di Aung San Suu Kyi è stato fortemente confermato da una grande maggioranza della popolazione e le manifestazioni di piazza di questi giorni che sfidano il regime militare dicono bene di questa maturazione e di questa consapevolezza acquisita.

 Che influenza può avere l’ASEAN? Sappiamo che uno dei principi dell’ASEAN è proprio quello di non interferenza negli affari degli Stati membri, ma è una politica che potrebbe cambiare? Potrebbe l’ASEAN “suggerire” un ritorno al processo democratico? In fondo il Paese era stato criticato per l’affare Rohingya e molti Stati (Indonesia in primis) si erano spesi per la democratizzazione in passato.

Il principio della non interferenza negli affari degli altri Stati in Asia è una regola applicata da tutti i governi. Nonostante ciò, agire sui Paesi asiatici è indispensabile, puntando sia sui vicini della Birmania, sia sull’ASEAN, l’istituzione multilaterale nel Sud-Est asiatico. E l’Associazione di amicizia Italia-ASEAN può avere un ruolo importante da svolgere. La Birmania si trova a un bivio. Essere attratta nell’orbita cinese con un ruolo di sparring partner sostanzialmente subalterno, oppure tuffarsi convintamente nel partenariato dell’Indo-Pacifico, dove sarebbe un soggetto alla pari con tutti gli altri. L’ASEAN è un esempio di multilateralismo economico che vuol dire pace e apertura. Certo abbiamo visto che cooperazione economica non porta immediatamente alla democrazia e allo stato di diritto. Ma i mercati aperti, se non sono una condizione sufficiente, sono comunque una condizione necessaria e propedeutica a qualsiasi sviluppo in senso dell’ampliamento delle libertà civili e politiche delle popolazioni di tutti i Paesi del mondo. Compresa ovviamente quella del Myanmar.  

Che ruolo possono giocare l’UE, gli USA con il nuovo Presidente Biden e la comunità internazionale in generale per favorire la democrazia e fare pressione sui militari?

Dobbiamo considerare che l’80 % degli scambi del Myanmar avvengono con i Paesi vicini, in gran parte con la Cina e l’ASEAN. Mentre con l’Europa e gli USA l’interscambio rappresenta meno del 20%. Ergo una classica risposta occidentale come le sanzioni avrebbe un’incidenza limitata e peraltro in Asia nessun Paese adotta misure sanzionatorie. Anche qui ritorna la distinzione weberiana tra etica della testimonianza e etica delle responsabilità. La storia ci insegna che le conseguenze di comportamenti sanzionatori da parte della comunità internazionale hanno spesso come conseguenza il consolidamento dei regimi autoritari e repressivi e non il loro indebolimento. Per questo ciò che possono fare l’Unione Europea e gli USA è intraprendere una diplomazia triangolare che agisca sia su organismi multilaterali come l’ASEAN, sia sull’influenza della Cina e di alcuni Paesi della regione. Ricordo bene che nel 2010-11 nello smuovere i militari birmani ad accettare la transizione ebbe un ruolo importante l’Indonesia. 

Where China meets India: quanto pesa la geopolitica nei destini del Myanmar? 

Come si evince da questa sua citazione, che è il titolo di una importante pubblicazione del politologo Thant Myint-U uscita proprio 10 anni fa, la Birmania è l’unico Stato del Sud-Est asiatico che confina e per un lungo tratto, sia con la Cina che con l’India. Questo conferisce al Paese un’importanza geopolitica e geoeconomica fondamentale. Se pensiamo alle tensioni geopolitiche che attraversano il Mar Cinese Meridionale e che contrappongono la Cina ora a Taiwan, ora alle Filippine, ora all’Indonesia, è facile vedere come la Birmania abbia per la Cina un interesse strategico essendo la via più diretta per accedere all’Oceano Indiano, senza dover passare attraverso il Mar Cinese Meridionale e soprattutto lo stretto di Malacca. Non solo, ma la Cina è il principale partner commerciale della Birmania e ha programmato grandi investimenti infrastrutturali nel Paese. E la Birmania è inserita nei percorsi della nuova Via della Seta. Del resto non è certo passata inosservata la visita del Ministro degli Esteri cinese Wang Yi in Birmania pochi giorni prima del golpe, segno di un’attenzione speciale che Pechino ha dimostrato e continua a dimostrare per i destini del Myanmar. È proprio perché la Cina ha interesse a una Birmania stabile, bisogna convincere Pechino che una Birmania sotto il tallone dei generali rischia di essere assai meno stabile di una Birmania democratica. Così come in questi anni di apertura è cresciuta la presenza dell’India. Non va mai dimenticato che la Birmania è ricca di risorse naturali: è seduta su una gigantesca nuvola di gas; gode di consistenti risorse idriche che gli consentirebbero un’agricoltura fiorente; è leader nelle gemme preziose; beneficia del miglior tek per le costruzioni navali; è ricco di molte materie prime.  È importante che anche l’Occidente mostri un’attenzione all’altezza della situazione e usi la leva degli investimenti per impedire una involuzione autoritaria della Birmania.

Intervista a cura di Niccolò Camponi 

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