La transizione energetica passa per i sistemi smart

L’intenzione per l’integrazione di soluzioni rinnovabili e più sostenibili c’è, ma potrebbe non essere abbastanza: per far fronte alla complessità nella gestione della rete energetica del futuro, l’APAC non potrà fare a meno di sistemi di controllo smart che operino tra fornitura, rete, domanda e stoccaggio, rendendo il processo più efficiente, affidabile e sicuro attraverso l’interconnessione.

Articolo a cura di Fabrizia Candido

Nella regione dell’Asia-Pacifico, anche nota come APAC, risiede il 60% della popolazione mondiale (circa 4,3 miliardi di persone) e viene prodotta circa la metà delle emissioni mondiali di anidride carbonica. La regione, oltre a Cina, India e Giappone (tre dei sei Paesi maggiormente responsabili per le emissioni di CO2) ospita alcune delle economie in più rapida crescita al mondo. Entro il 2040 si prevede infatti che la domanda di energia da combustibili dell’APAC raggiungerà i 43.6 petawatts, con una domanda globale che raggiungerà i 197.8 petawatts. Il bisogno di svincolare la crescita economica dalle emissioni di gas serra è dunque urgente. 

Per accelerare il passaggio a un approvvigionamento energetico diffuso, accessibile e a basse emissioni di carbonio, è necessaria una maggiore ottimizzazione di ogni aspetto del sistema energetico, nonché maggiore coordinamento e cooperazione tra ogni componente. Ciò richiede una migliore comprensione e migliori meccanismi per monitorare e controllare le modalità in cui reti elettriche, edifici, impianti industriali, reti di trasporto e altri settori ad alta intensità energetica si integrano e interagiscono tra loro.

Il futuro sistema energetico ospiterà più energia da generatori intermittenti (i pannelli solari producono energia solo quando splende il sole e le turbine eoliche solo quando soffia il vento), e sarà più decentralizzato: ci saranno molti più asset fisici collegati alla rete di produzione e a quella di distribuzione, dove i flussi di energia diventeranno sempre più dinamici e multidirezionali. La complessità del sistema di alimentazione aumenterà in modo significativo. Ciò potrebbe mettere a rischio la stabilità e le prestazioni della rete, portando a problemi come squilibri di frequenza, blackout, brownout e sovraccarico di capacità. Senza dati in tempo reale, analisi avanzate e automazione, i più complessi sistemi energetici del futuro diventeranno praticamente impossibili da gestire.

È qui che entra in gioco la digitalizzazione, con raccolta e analisi di dati, intelligenza artificiale e apprendimento automatico. L’aggiunta di enormi quantità di fonti variabili di energia ha creato la necessità di sistemi di controllo smart che operino tra fornitura, rete, domanda e stoccaggio, rendendo il tutto più efficiente, affidabile e sostenibile attraverso l’interconnessione. 

Più nello specifico, la crescente ricchezza di informazioni generata sui consumi energetici e sui modelli di produzione può essere utilizzata per pianificare al meglio la trasformazione del settore, sia a livello macro che micro: il monitoraggio e l’analisi dei dati consentono una migliore capacità predittiva della produzione di energia rinnovabile, consentendo l’ottimizzazione dell’intera filiera. Utilizzando i dati raccolti da varie fonti, come dati sul consumo di elettricità, dati sul prezzo dell’elettricità e dati meteorologici, l’intelligenza artificiale può inoltre essere impiegata per riconoscere modelli e/o fornire previsioni probabilistiche circa capacità produttiva, domanda o penuria di energia. 

In breve, la digitalizzazione offre l’opportunità di sfruttare la disponibilità di dati per ottimizzare la transizione energetica.

Nel 2020, l’Australia ha lanciato il suo Distributed Energy Resource Register, un registro che fornisce un database di informazioni sui dispositivi DER (Distributed Energy Resources) installati nel mercato nazionale dell’energia elettrica. Il registro raccoglie informazioni fondamentali per il programma DER dell’operatore del mercato energetico australiano (AEMO). L’interconnessione tra i dispositivi DER e il registro consente ad AEMO di gestire al meglio la rete elettrica e garantire energia affidabile, sicura e conveniente per tutti i clienti.

Un altro esempio di digitalizzazione al servizio dell’ottimizzazione energica proviene dall’India: il governo indiano ha sviluppato l’India Energy Dashboards (IED), un portale open source che raccoglie dati e rapporti mensili sull’uso di elettricità, petrolio e gas naturale del Paese. Il governo indiano ha anche creato la Building Energy Efficiency Program Dashboard, con l’obiettivo di incoraggiare l’utilizzo di dispositivi ad alta efficienza energetica nelle strutture residenziali sensibilizzando i consumatori. Il database online mostra in tempo reale il numero di luci installate per regione, insieme ai rispettivi risparmi annuali sui costi, riduzioni annuali di CO2 e picchi di domanda evitati.

Ancora, dal 2013 anche il governo cinese ha prioritizzato i sistemi di monitoraggio energetico online. Gli edifici del settore pubblico a tutti i livelli di governo hanno implementato tali sistemi per ottenere dati in tempo reale, consentendo l’automazione della gestione dell’energia e un metodo trasparente per valutare l’efficienza energetica delle strutture. La maggior parte dei sistemi di monitoraggio energetico online per il settore pubblico cinese sono attualmente sistemi decentralizzati. Ad esempio, il governo locale di Hangzhou, insieme ad Alibaba Group, ha implementato il progetto City Brain per migliorare l’efficienza energetica dei trasporti. Nell’ambito del progetto, una piattaforma cloud acquisisce immagini dalle telecamere stradali interconnesse, le traduce in dati sul traffico, analizza i risultati e fornisce le soluzioni più efficienti tramite algoritmi, reindirizzate poi a strumenti smart quali i semafori intelligenti. Ciò ha permesso di ridurre la congestione da traffico nella città di Hangzhou del 10%, con conseguenze sul livello di inquinamento e sull’uso di combustibile.

Infine, su scala più ampia, il governo di Singapore ha recentemente completato un modello digitale in scala reale dell’intera città, Virtual Singapore, che include repliche digitali 3D di ogni edificio della città. Per gli urbanisti focalizzati sull’efficienza energetica, la città gemella digitale offre la capacità di simulare con precisione come i nuovi sviluppi e i cambiamenti di pianificazione nella città potrebbero influenzare una serie di indicatori relativi all’energia, tra cui l’irraggiamento solare, i flussi di traffico stradale e pedonale, il riscaldamento e il raffreddamento e altri fattori. Dati i limiti dimensionali della città, il modello digitale fornisce un sistema estremamente utile per testare gli interventi di pianificazione nel mondo reale.

In conclusione, la regione APAC ha compreso che nella rotta verso il mastodontico obiettivo della transizione energetica, non si potrà fare a meno delle molteplici e diversificate soluzioni smart che la digitalizzazione e la disponibilità di dati rendono possibili.

Nusantara, la nuova Giacarta in Borneo

Il governo indonesiano ha ufficialmente deciso che, a partire dal 2024, la nuova capitale sarà trasferita in Borneo e prenderà il nome di Nusantara, con la speranza di alleviare la congestione e il sovraffollamento dell’attuale capitale sull’isola di Giava.

La notizia che l’Indonesia avrebbe trasferito la sua capitale dalla congestionata megalopoli di Giacarta non è nuova. Se ne parla infatti già dal 2017, quando il presidente Joko Widodo aveva espresso la sua preoccupazione per il futuro della città che, con i suoi 10 milioni di persone, da anni soffre di sovrappopolazione, inondazioni, inquinamento e sta sprofondando a causa dell’eccessiva estrazione delle acque sotterranee.  La maggior parte dell’attività economica indonesiana si concentra infatti nell’isola di Giava, dove si trova l’attuale capitale. Sono state inizialmente presentate due proposte alternative per risolvere tali problemi: spostare del tutto la capitale creando una città pianificata completamente nuova, simile al trasferimento della capitale brasiliana da Rio de Janeiro alla città pianificata di Brasilia nel 1960 o mantenere Giacarta come capitale ufficiale, ma creare un centro amministrativo separato, seguendo l’esperimento della Malesia quando spostò il suo centro amministrativo federale a Putrajaya.

La decisione ufficiale è poi arrivata nell’aprile 2019, con l’annuncio che Giacarta non sarebbe più stata la capitale dell’Indonesia, con un piano di 10 anni per trasferire tutti gli uffici governativi in una nuova capitale. Quest’ultima sarà situata nel Borneo, a cavallo tra due distretti: Penajam Paser Utara e Kutai Kertanegara nella provincia di East Kalimantan, a due ore di volo da Giacarta. La capitale sarà costruita su 180.000 ettari di terra già di proprietà del governo, minimizzando così il costo di acquisizione del suolo. La zona è stata scelta per due motivi principali. Prima di tutto, grazie alle condizioni geologiche favorevoli, che rendono terremoti, inondazioni ed eruzioni vulcaniche meno frequenti. Il secondo motivo è per ragioni politico-economiche. Infatti, il governo vorrebbe rallentare il crescente divario economico tra Giava e le altre isole dell’arcipelago. Ad oggi infatti, il 54% degli oltre 260 milioni di abitanti dell’Indonesia risiede a Giava e il 58% del prodotto interno lordo del Paese è prodotto su quest’isola, nonostante sia la più piccola delle cinque isole principali dell’Indonesia.

La nuova capitale si chiamerà Nusantara, letteralmente “arcipelago” in Bahasa Indonesia. Per quanto riguarda le tempistiche, nonostante alcuni ritardi causati dalla pandemia da COVID-19, si stima che la nuova città sarà operativa nel 2024, anno in cui il presidente Widodo terminerà il suo secondo mandato quinquennale. Il ministero della pianificazione dello sviluppo nazionale ha stimato che il trasferimento costerà circa 466 trilioni di rupie indonesiane (circa 32,7 miliardi di dollari), con il governo che intende coprire il 19% del costo. Il resto dovrebbe provenire principalmente da partenariati pubblico-privati, così come da investimenti diretti delle imprese statali e del settore privato. Secondo alcune stime, circa un milione e mezzo di persone potrebbero trasferirsi da Giacarta alla nuova capitale. Molte agenzie governative ovviamente si trasferiranno, ma la banca centrale e altre agenzie economiche rimarranno a Giacarta.

Vista l’enorme portata del progetto, la nazione è ancora divisa sulla necessità del trasferimento. I sostenitori condividono le preoccupazioni del presidente sul peggioramento della congestione del traffico di Giacarta, l’inquinamento dell’aria, la subsidenza e gli alti prezzi delle proprietà – così come la necessità di far ripartire l’economia nelle parti orientali del Paese, meno sviluppate. D’altra parte, critici sostengono che è mancata un’adeguata consultazione pubblica sul progetto, mentre alcuni ambientalisti temono che la mossa possa accelerare la distruzione delle foreste che ospitano oranghi, orsi e scimmie dal naso lungo, oltre ad aumentare l’inquinamento, vista la situazione già compromessa a causa delle miniere di carbone e delle industrie che producono olio di palma. Per tutta risposta, il governo ha assicurato che il piano è di mantenere la città compatta, in modo da non danneggiare le foreste pluviali tropicali circostanti e che la metà dei 180.000 ettari totali assegnati saranno destinati a “spazio verde”.
Nel frattempo, preoccupa anche l’impatto che questo megaprogetto avrà sul debito pubblico indonesiano, che sebbene sia tra i più bassi tra i paesi dell’ASEAN, è aumentato di quasi 10 punti percentuali negli ultimi due anni.

Il Myanmar divide l’ASEAN

Il Myanmar promette di essere ancora al centro delle dinamiche del Sud-Est asiatico nel corso del 2022. Con l’acuirsi delle lacerazioni interne e in assenza di un governo nazionale riconosciuto, la recente visita del Primo Ministro cambogiano Hun Sen ha dato fuoco alle polveri

Articolo a cura di Tommaso Grisi

Il Myanmar continua a far parlare di sé. A seguito del golpe che ha destituito il governo di Aung San Suu Kyi, il rapporto da tenere nei confronti della giunta militare ha creato non pochi problemi alle diplomazie del Sud-Est asiatico e del resto del mondo. Se da un lato era prevedibile la presa di posizione dei Paesi occidentali, con Stati Uniti e Unione Europea che hanno adottato fin dal primo momento sanzioni economiche verso la giunta, è sull’ASEAN che ad oggi sono rivolti gli interrogativi maggiori. L’organizzazione del Sud-Est asiatico sembra essere infatti l’unico attore in grado di poter esercitare una seria pressione sul Paese, vista l’inefficacia delle misure economiche adottate e l’impossibilità di intervento da parte delle Nazioni Unite, dove Cina e Russia hanno posto il veto in seno al Consiglio di Sicurezza. Consapevole di questo anche il Segretario di Stato americano Antony Blinken, che lo scorso dicembre ha condotto una missione diplomatica nel Sud-Est asiatico esprimendo ai leader dei Paesi partner forti preoccupazioni per quanto sta avvenendo in Myanmar.

Dal canto loro, i Paesi Membri dell’ASEAN hanno già dichiarato di non voler seguire la via delle sanzioni economiche e di voler prediligere un approccio più morbido, ma costruttivo. È in quest’ottica che in un primo momento era stato redatto un piano in cinque punti che mirava a fornire aiuti umanitari alla popolazione e ad instaurare un dialogo politico tra le parti.

Le divisioni tra gli Stati membri e la mancanza di collaborazione delle parti coinvolte hanno però portato a un nulla di fatto, con le cancellerie della regione indecise sul da farsi. Nonostante la comune volontà di portare al più presto il Paese in una condizione di maggiore stabilità, infatti, rimangono diversi nodi da sciogliere all’interno dell’organizzazione a cominciare dal riconoscimento o meno del ruolo di governo assunto dalla giunta militare, attualmente esclusa dalle riunioni dell’ASEAN, e dalla necessità di rivedere il tradizionale principio di non ingerenza che ha sino ad oggi guidato l’azione degli Stati Membri.

A tal riguardo, significativa è stata la visita del Primo Ministro cambogiano Hun Sen, che è stata oggetto di forti critiche. L’accusa, portata avanti dagli oppositori alla giunta, è di voler legittimare il regime instaurato, soprattutto alla luce del fatto che lo stesso Hun Sen abbia assunto il potere in Cambogia con un colpo militare nel 1997. La questione assume ancor più rilevanza considerando la doppia veste con cui il Primo Ministro si è trovato a far visita alla giunta, ovvero di Presidente di turno dell’ASEAN e di primo capo di governo a recarsi nel Paese dal momento in cui i militari hanno assunto il potere. Questo non costituisce di certo una novità per il Primo Ministro cambogiano, dal momento che già in passato era stato criticato per aver assunto posizioni troppo aperturiste nei confronti della giunta burmese, in particolar modo dopo aver proposto di estendere l’invito di partecipazione agli incontri dell’ASEAN anche ai responsabili del golpe. Nonostante ciò, il Primo Ministro cambogiano sembra intenzionato a proseguire su questa strada, avendo nominato il suo Ministro degli Esteri, Prak Sokhonn, nuovo inviato speciale in rappresentanza dell’ASEAN presso il Myanmar.

Proprio l’esclusione dalle riunioni dell’ASEAN potrebbe in effetti rappresentare un punto su cui far leva. L’accesso alle riunioni dei governi del Sud-Est asiatico costituirebbe un riconoscimento di fatto per la giunta militare, fondamentale per potersi interfacciare da pari a pari con gli altri Paesi della regione. Ed è proprio su questo punto che sembra giocarsi la credibilità dell’ASEAN. Qualora l’organizzazione dovesse cedere alle pressioni della giunta, infatti, sarebbe impossibile non subire un duro colpo alla propria immagine internazionale, dato che già negli scorsi mesi non sono mancate tensioni tra gli Stati membri proprio in riferimento alla questione birmana.

Ad oggi si pongono in forte contrasto con le posizioni della Cambogia i governi di Malesia e Indonesia, che hanno osservato con malumore la visita di Hun Sen nel Paese, affiancati da Singapore, mentre a suo supporto si sono schierati i rappresentanti di Laos, Thailandia e Vietnam. Insomma, le crepe interne all’organizzazione sembrano approfondirsi.

Il ruolo dei Paesi asiatici nelle supply chains “democratiche”

Mentre la tensione tra le due grandi potenze del Pacifico – USA e Cina – aumenta, le catene del valore dell’economia globalizzata sembrano sempre più fragili e i rapporti di interdipendenza economica tra i due rivali più scomodi. Washington ha bisogno dei suoi alleati asiatici per creare supply chain più resilienti e “democratiche”. Ma con quali effetti sulla regione?

Gli osservatori più preoccupati la chiamano già “nuova guerra fredda”. E, in effetti, la guerra commerciale combattuta tra Stati Uniti e Cina si sta ingarbugliando sempre di più. Se le tensioni tra i due Paesi, qualche anno fa, apparivano collegate quasi esclusivamente all’impatto dell’export di Pechino sull’economia americana, la narrazione di questo confronto ha assunto di recente toni più accesi. La competizione non sembra più solo tra due modelli economici, ma tra due modelli politici. Siamo davvero di fronte a una seconda guerra fredda? Anche accettando questa lettura, non la si sta combattendo con le armi della prima. Nel mondo globalizzato, il terreno di scontro per le superpotenze sono le catene di approvvigionamento e di valore globali. L’influenza sui Paesi terzi si esercita con gli investimenti nelle infrastrutture e con lo sviluppo di nuove partnership commerciali. Lo scontro ideologico, in fondo, rimane innanzitutto uno scontro economico, anche se raccontato in modo diverso. 

In questi ultimi anni, i consumatori – e i loro governi – si sono accorti di quanto fragili siano le catene di approvvigionamento globali per certi beni. Il caso più emblematico è la crisi dei superconduttori, componenti essenziali per molti settori e asset strategico nell’epoca digitale, la cui produzione avviene in larghissima parte in Asia. La questione è tanto seria da diventare politica. Stati Uniti e Unione Europea non si vogliono limitare a rafforzare le supply chain: intendono affermare la propria sovranità digitale, spostando parte della produzione di chip nel proprio territorio. Mentre Bruxelles mantiene una posizione conciliante con Pechino, Washington è decisa a promuovere catene di approvvigionamento “democratiche”. Nel concreto, dipendere meno dalla Cina e fare più affidamento sui partner che condividono lo stesso modello politico. Per l’amministrazione Biden, una rinnovata “alleanza delle democrazie” è essenziale per realizzare i propri obiettivi di politica estera.

Ma quali sono i partner “democratici” con cui collaborare? A inizio anno, il premier britannico Boris Johnson aveva proposto di trasformare il G7 che stava presiedendo in un D10, un summit delle dieci principali democrazie mondiali, coinvolgendo India, Corea del Sud e Australia – tre paesi dell’Asia-Pacifico. La lista degli invitati era ben più lunga per il Summit for Democracy organizzato dalla Casa Bianca tra l’8 e il 10 dicembre. Questi esercizi presentano sempre lo stesso problema a chi li organizza: non sempre un Paese formalmente libero e democratico lo è anche nella sostanza. La scelta di chi ammettere o meno nel club potrebbe sollevare qualche perplessità. Inoltre, come già ricordato, i Paesi UE cercano di distendere i rapporti con Pechino e vogliono evitare iniziative che potrebbero essere percepite come “alleanze anticinesi”.

Tornando all’esempio dei semiconduttori, Washington intende riorganizzare le proprie catene di approvvigionamento facendo maggiore affidamento sui suoi alleati in Asia orientale. Alcuni già giocano un ruolo importante nel settore – come Corea, Giappone e Taiwan, partner fondamentali per raggiungere gli obiettivi dell’ordine esecutivo del presidente Biden sulle supply chain –, altri sono attori emergenti, come i Paesi ASEAN – gli States intendono investire ingenti risorse per rafforzare la cooperazione con il blocco. La Malesia è un produttore importante di chip ed è stata invitata al summit globale delle democrazie. L’Indonesia è riconosciuta dai suoi partner come una delle più grandi democrazie ed economie al mondo e ha il potenziale per inserirsi maggiormente nelle catene del valore mondiali. Occorre però stare attenti ai rischi della creazione di un “club delle democrazie”. Qualche Paese ASEAN potrebbe non apprezzare il fatto di essere lasciato fuori. È il caso di Singapore, escluso dal summit organizzato a Washington ed entrepôt strategico nel mercato mondiale dei chip.

Gli Stati Uniti vogliono collaborare con i propri alleati per ridurre la dipendenza dai prodotti cinesi non soltanto con riferimento ai semiconduttori. Terre rare, batterie ad alta capacità, forniture mediche e militari. Sono molti i settori che verranno gradualmente influenzati dalla nuova dottrina americana. Un altro terreno di confronto con Pechino sono gli investimenti infrastrutturali nei Paesi terzi. La Belt and Road Initiative è una delle bandiere della politica estera cinese e uno strumento formidabile di influenza. USA e UE hanno proposto le loro alternative, rispettivamente la Build Back Better World (B3W) Initiative e il piano strategico Global Gateway. I due nuovi piani di investimento avranno sicuramente tra i propri beneficiari i Paesi dell’Asia più bisognosi di infrastrutture, la cui mancanza rappresenta uno dei principali colli di bottiglia per il loro sviluppo economico. Per Washington, la presenza cinese nelle reti infrastrutturali va tenuta sotto controllo non solo all’estero, ma anche dentro i propri confini, come abbiamo visto con l’esclusione di Huawei dallo sviluppo della rete 5G.

Riuscirà Washington a riforgiare le catene di approvvigionamento globali con una tempra più resiliente e “democratica”? Senza dubbio la politica degli Stati Uniti favorirà le aziende dei loro partner asiatici, che esporteranno nel mercato statunitense una maggiore quantità di beni sostituendo i loro concorrenti cinesi. Allo stesso tempo, rimane incerto valutare le conseguenze di questa strategia negli altri mercati. Le altre democrazie ridurranno effettivamente la loro dipendenza dalle merci cinesi? Non tutti gli alleati di Washington condividono la linea dura rispetto Pechino – Europa in primis – e per i Paesi asiatici potrebbe essere difficile e dannoso ridurre i propri legami commerciali con il vicino. In questo caso, potrebbero non essere così entusiasti di seguire la leadership americana.

Myanmar, il futuro dopo il golpe

Il 1° febbraio 2022 saranno passati 365 giorni dal colpo di stato che ha riportato Naypyidaw sotto il controllo della giunta militare. Le prospettive per il paese che rappresenta un dilemma per il Sud-Est asiatico. Dal mini e-book di China Files “In Cina e Asia 2022”, realizzato in collaborazione con Associazione Italia-ASEAN

È un giorno qualunque di dicembre 2021. Digitando sulla barra di ricerca “Myanmar 2022” tra i risultati tre riguardano una possibile riapertura per il turismo, altri 3 riprendono l’allarme Onu sull’escalation della crisi umanitaria. Questa schizofrenia di immagini rafforza l’incertezza sul futuro del Myanmar, che a quasi un anno dal golpe si trova cristallizzato in un conflitto sociale (e armato) che sembra destinato a continuare. Il 1° febbraio 2022 saranno passati esattamente 365 giorni dalla deposizione del governo eletto ad opera del Tatmadaw, l’esercito nazionale.

Crisi umanitaria

Il programma per lo sviluppo delle Nazioni Unite (UNDP) ha rilevato un netto arretramento delle condizioni di vita dei cittadini birmani dall’arrivo del generale Min Aung Hlaing al governo. Secondo una sua indagine, quasi la metà dei cittadini birmani (46,3%) potrebbe finire sotto la soglia di povertà entro la fine del prossimo anno. Per la popolazione urbana significherebbe un picco di residenti poveri tre volte superiore ai valori del 2019 (37,2% contro il precedente 11,3%).  Su 1200 famiglie intervistate, quasi la metà afferma di aver esaurito i risparmi. Il 68% sta stringendo la cinghia sul consumo di cibo, il 65,5% ha chiesto dei prestiti ai propri cari, altri a strozzini o istituti di credito. In poche parole: la doppia emergenza Covid19-golpe sta riportando il paese indietro al 2005, azzerando i risultati politici e socioeconomici degli ultimi 16 anni. 

A questa situazione si aggiunge la grave situazione del settore sanitario, che già prima del 2021 non godeva di buona salute. A oggi gli interessi della dirigenza militare sono lontani dai servizi per la cittadinanza, con il risultato che molte strutture mediche rimangono senza personale – fattore dovuto anche al movimento di disobbedienza civile, che rifiuta di lavorare per un governo che non riconosce. A oggi il 74% delle spese mediche sono ancora a carico dell’individuo: il Myanmar è il paese Asean con la spesa privata per le cure pro capite più alta.

Infine, non è meno preoccupante la continuità della violenza interna tra gruppi etnici e forze armate. Da un lato i giovani si sono uniti al movimento di disobbedienza civile, altri hanno raggiunto gli eserciti etnici per ricevere una formazione militare. Il Tatmadaw, a sua volta, ha riesumato l’addestramento obbligatorio per i figli dei soldati dai 14 anni in su, nonostante i trattati firmati con l’Onu per ostacolare l’arruolamento dei bambini-soldato. La partecipazione agli addestramenti è oggi estesa anche alle mogli del personale militare.

Stagnazione economica e politica

La situazione economica non è buona a livello nazionale, nonostante c’era chi sperava in una prima fase di caos seguita da una lenta stabilizzazione degli affari. Il pil pro capite sta tornando a decrescere ai livelli precedenti alle prime elezioni libere del 2015. La moneta locale, il kyat, ha perso più del 60% del suo valore rispetto al dollaro Usa. Nel frattempo, i prezzi aumentano e la carenza di benzina ha già portato alla chiusura temporanea di molte stazioni. L’International Food Policy Research Institute prevede un calo nell’acquisto di fertilizzanti durante la stagione dei monsoni, con gravi conseguenze per la produzione agricola. I commerci rallentano, e le restrizioni lungo i confini dovute all’emergenza sanitaria non fanno che contribuire allo stop alle attività. La giunta ha già ristretto le importazioni dei beni considerati “non essenziali”, mentre altri beni come i prodotti farmaceutici stanno diventando sempre più costosi e difficili da reperire.

In un clima di grave assenza di governance è probabile una concentrazione del potere economico in mano al Tatmadaw e alle milizie etniche nelle loro aree di influenza. Ritorna lo spettro, mai veramente scacciato, dei traffici illeciti legati al contrabbando di droghe, pietre preziose, legname e metalli. E del traffico di esseri umani: secondo il Global Slavery Index nel 2018 almeno 575 mila cittadini birmani vivevano in condizioni di schiavitù, una cifra che potrebbe tornare a crescere a causa dei crescenti debiti personali. 

Relazioni internazionali

Il Myanmar oggi sembra un paese sempre più isolato, un’immagine che risuona familiare con quella di soli pochi anni fa. Le compagnie straniere stanno lentamente lasciando il paese, come nel caso del gigante delle telecomunicazioni norvegese Telenor, il grossista tedesco Metro e la British American Tobacco. Non tutta l’economia è congelata. Nonostante le sanzioni contro individui e organizzazioni legate al Tatmadaw, alcuni grandi flussi di capitale continuano a portare armi e finanziamenti alle forze armate birmane. Come denuncia il gruppo Justice for Myanmar, sono ancora tante le aziende che vendono armi e sistemi di sorveglianza all’esercito birmano (Italia inclusa). 

Mentre la risposta delle potenze occidentali – soprattutto Usa, Ue, Australia e Canada – rimane sulle corde delle restrizioni economiche, l’Asean fatica ancora a trovare la sua posizione. O, meglio, rimane aperta alle trattative. Dopo una prima fase di dialogo con il generale Min Aung Hlaing, anche il gruppo ha interrotto i contatti: la giunta non ha mantenuto la promessa di aderire ai cinque punti richiesti dall’Associazione, ed è quindi isolata anche tra i vicini (tra cui “cessare immediatamente la violenza nel paese”). L’arrivo della Cambogia alla presidenza, però, potrebbe normalizzare i rapporti aumentando l’engagement con la giunta militare. Il primo ministro cambogiano Hun Sen si è espresso in difesa di Naypyidaw: “Secondo la carta dell’ASEAN, nessuno ha il diritto di espellere un altro membro”. Dopo la visita di inizio gennaio potrebbero seguire altri tentativi di dialogo. Negli stessi giorni delle dichiarazioni di Hun Sen è arrivata la condanna ufficiale di Aung San Suu-Kyi a quattro anni di carcere. La strada per il ritorno alla democrazia, ancora una volta, è lontana.

India e Cina: rivoluzione (e competizione) solare

Nuova Delhi e Pechino non si contendono solamente i mercati di sbocco dei propri moduli solari: i loro bassi costi di produzione di energia solare, se abbinati a capacità di interconnessione, possono trasformare la Tigre e il Dragone in degli “elettrostati” a tutto tondo

Articolo a cura di Marco Dell’Aguzzo

Mukesh Ambani è il decimo uomo più ricco al mondo e primo nella classifica dei miliardari d’Asia. Il suo patrimonio è legato alle fortune di Reliance Industries, il conglomerato indiano famoso soprattutto per la petrolchimica: gas e greggio, quindi. Ma anche Reliance, come quasi tutti i grandi nomi del settore degli idrocarburi, ha sposato la transizione energetica e annunciato di voler arrivare all’azzeramento netto delle sue emissioni di carbonio entro il 2035. Le frasi parlano da sole, non serve aggiungere molto altro: è evidente che dietro ai progetti climatici delle grandi industrie e dei grandi paperoni non ci sia soltanto la volontà di partecipare al “salvataggio della Terra”, ma soprattutto quella di riaffermare la propria presenza economica in un mondo che cambia. E che, nel corso di questo cambiamento, brucerà sempre meno combustibili fossili e utilizzerà sempre più fonti rinnovabili. Siamo noi a dare un abito politico all’energia. Ma nella mente di un imprenditore che pensa a vendere, al netto della profittabilità, un barile di petrolio non è troppo diverso da un pannello solare.

Il 10 ottobre Reliance ha fatto sapere di aver acquistato, dalla compagnia chimica cinese Bluestar, un’azienda norvegese che realizza pannelli solari al prezzo di 771 milioni di dollari. Un paio di giorni dopo, con 28 milioni ha acquisito le tecnologie di una società tedesca che produce wafer (semiconduttori) per le celle fotovoltaiche. Entro tre anni – questi sono i piani – Reliance avrà investito 10,1 miliardi in energie pulite; al 2030 disporrà di una capacità solare di almeno 100 gigawatt, pari all’intero installato rinnovabile dell’India oggi.

Il governo di Nuova Delhi vuole che, per la fine del decennio, le rinnovabili tutte arrivino a 450 GW. Il potenziale solare, in particolare, è alto, ma attualmente da questa fonte si genera solo il 4 per cento dell’elettricità utilizzata sul territorio nazionale. La quota del carbone, di contro, è enorme, superiore al 70 per cento. Non sarà così per sempre, però. A dirlo non è un giovane attivista dei Fridays for Future ma il presidente della compagnia mineraria statale Coal India, quella che in assoluto estrae più carbone al mondo. È un settore che andrà a rimpicciolirsi nel giro di venti-trent’anni, afferma Pramod Agrawal, per fare spazio al solare: Coal India pensa appunto di entrare nel business dei wafer per il fotovoltaico, facendo leva sul fatto che dalle fabbriche indiane escono sì celle e moduli, ma non questi semiconduttori essenziali.

La competizione è appena iniziata. Perché lo scopo di Coal India è anche quello di Reliance, che mira a fare del paese un grande polo manifatturiero di pannelli solari economici ma efficienti, capaci di conquistare la fetta di mercato della Cina (ora la più grande, nettamente): si comincia con una “gigafactory fotovoltaica integrata” da 4 GW all’anno, che diventeranno 10. L’appetito di Ambani è condiviso pure da Gautam Adani, il miliardario presidente del Gruppo Adani, società che si occupa di commercio di carbone ma che passerà ad aggiungere milioni di watt rinnovabili anno dopo anno. Il governo partecipa a questo sforzo industriale alzando barriere all’ingresso di moduli e celle solari dall’estero, con dazi rispettivamente del 40 e del 25 per cento a partire dal prossimo aprile.

La maggior parte degli apparecchi per il fotovoltaico arrivano in India dalla Cina. Che, seppur forte del suo vantaggio, non si limita a guardare le mosse della rivale regionale, ma cerca anche lei di cavalcare la rivoluzione globale della sostenibilità. Il mese scorso il presidente Xi Jinping ha annunciato che nel paese è iniziata la costruzione, in un deserto non meglio definito, di un mega-progetto rinnovabile, la cui prima fase (100 GW) supera l’intera capacità a vento e sole dell’India. Per arrivare però alla neutralità carbonica entro il 2060, come dice di volere, il più grande emettitore di gas serra al mondo dovrà riuscire ad allentare la dipendenza dal carbone. Similmente al caso indiano, il solare può essere un sostituto efficace. Anche perché – secondo uno studio delle università di Tsinghua, Nankai, Renmin e Harvard – al 2023 i prezzi delle due fonti saranno simili in tutto il paese: nelle zone settentrionali e orientali il pareggio verrà raggiunto già nel 2021; mentre nel centro, nel sud e nel nord-ovest nel 2023. Se abbinato a sistemi di stoccaggio, poi, il solare potrebbe consentire di soddisfare oltre il 40 per cento del fabbisogno elettrico del paese entro il 2060, senza compromettere la stabilità della rete e a un costo di nemmeno 2,5 centesimi di dollaro al kilowattora.

Le tariffe dell’energia solare in India sono già molto economiche: nello stato centro-occidentale del Gujarat, ad esempio, sono scese sotto le due rupie al kilowattora (circa 2,6 centesimi di dollaro) e potrebbero dimezzarsi entro il 2030. Per quella data, la società di consulenza Wood Mackenzie stima che lo spicchio del carbone nel mix sarà del 50 per cento e che costruire nuove centrali alimentate con questo combustibile sarà più caro del 25 per cento rispetto agli impianti solari. L’Agenzia internazionale dell’energia dice che nel 2040 – tra soli diciannove anni – le quote di carbone e sole saranno uguali e che la nazione potrà fare affidamento su una nuova capacità di batterie da 140-200 GW.

Tempi stretti ma numeri enormi, come le ambizioni. India e Cina non si contendono solamente i mercati di sbocco dei propri moduli solari: i loro bassi costi di produzione di energia solare, se abbinati a capacità di interconnessione, possono trasformare la Tigre e il Dragone in degli “elettrostati” a tutto tondo, capaci di generare ed esportare grandi quantità di elettricità pulita ed economica in Asia. Nuova Delhi sta già costruendo infrastrutture di rete con il Bangladesh e il Nepal; nel 2016 Pechino ha istituito la GEIDCO per arrivare fino all’Africa e all’America del sud. Non è detto che questi desideri si realizzeranno; siamo ancora nello spazio del possibile: per affermarsi all’estero, le due potenze vicine dovranno innanzitutto riuscire a soddisfare le necessità interne. Ma l’energia, rinnovabile o fossile che sia, si conferma una questione di potenza geopolitica.

Filippine, ritorno al futuro: Marcos Jr dopo Duterte?

A maggio sono in calendario le attese elezioni presidenziali nell’arcipelago del Sud-Est asiatico, strategico nella contesa tra Stati Uniti e Cina. Manila cerca di dare un volto al dopo Duterte, anche se la figlia Sara potrebbe occupare un posto di primo piano al fianco di un altro figlio, quello dell’ex dittatore che controllò il Paese tra il 1972 e il 1986. Dal mini e-book di China Files “In Cina e Asia 2022”, realizzato in collaborazione con Associazione Italia-ASEAN.

Articolo a cura di Luca Sebastiani

Ex pugili, figli di dittatori e presidenti, attivisti e attori. La corsa alla presidenza delle Filippine che si terrà il 9 maggio 2022 è accesissima. La popolazione del paese del Sud-Est asiatico il prossimo anno andrà alle urne per decidere chi governerà per i prossimi anni, sia a livello nazionale che locale. In tutto, gli aventi diritto di voto saranno circa 67 milioni, per una tornata elettorale particolarmente importante. L’attesa è molto alta per la corsa alla successione di Rodrigo Duterte, presidente dal 2016 a cui la Costituzione nega la possibilità di ricandidarsi e che quindi ha ripiegato sulla candidatura per un posto al Senato.

I pretendenti

Al momento più di 90 candidati si sono presentati con la speranza di ricoprire la carica più alta delle Filippine. Il favorito dai sondaggi è per ora Ferdinand “Bongbong” Marcos Jr., figlio del defunto omonimo dittatore Ferdinand Marcos, che controllò il paese tra il 1972 e il 1986. Marcos, senatore fino al 2016, corre con il partito Pfp (Partido Federal ng Pilipinas) e, in caso di una sua vittoria, gli analisti ritengono possa verificarsi una sostanziale continuità con Duterte (nonostante quest’ultimo non lo appoggi). Tra l’altro, come sua vicepresidente, si dovrebbe candidare la figlia maggiore dello stesso Duterte, Sara, che dopo mesi di indiscrezioni su una sua discesa in campo per succedere al padre, ha deciso di sostenere Marcos. Un’intesa che potrebbe rafforzare l’asse tra due delle dinastie politiche più importanti delle Filippine ed esponenti del nord e del sud del paese. Il cambio di passo più evidente potrebbe verificarsi in politica internazionale, con un maggior equilibrio delle Filippine tra Cina e Stati Uniti, rispetto a quanto avvenuto con Duterte, più proteso verso Pechino, soprattutto nella prima parte del suo mandato.

La principale sfidante di Marcos Jr sembrerebbe poter essere l’attuale vicepresidente Leni Robredo, un’attivista per i diritti civili che punta a intercettare il voto di chi vuole un forte cambiamento dopo gli ultimi anni. Si tratta di una figura contrapposta rispetto a quella di Duterte e contraria alla violenta “guerra alla droga” condotta dal presidente, in cui sono state uccise migliaia di persone dalle forze di polizia (più o meno regolari) con omicidi extragiudiziali. Robredo ha dichiarato, in modo diplomatico, che in caso di vittoria collaborerà con la Cina solo nelle aree e nei dossier dove non ci sono tensioni esistenti, sottintendendo comunque l’importanza dei rapporti commerciali con Pechino. A correre per la presidenza anche il senatore Panfilo Lacson, già capo della polizia delle Filippine, e l’ex ministro della Difesa Norberto Gonzales.

Tra i nomi di peso presenti ai nastri di partenza c’è quello del sindaco di Manila, l’ex attore Francisco “Isko Moreno” Domagoso, che spera nel sostegno ufficiale di Duterte, ma anche Manny Pacquiao, tra i più grandi pugili di tutti i tempi e attualmente senatore, che ha deciso di candidarsi alla presidenza dopo aver appeso i guantoni al chiodo a settembre. Negli scorsi mesi Pacquiao si è scontrato in maniera aspra con Duterte – nonostante siano entrambi esponenti del Pdp-Laban (Partido Demokratiko Pilipino-Lakas ng Bayan) – criticandolo per l’approccio troppo accondiscendente con Pechino. La sua campagna elettorale si baserà sulla lotta alla corruzione nel paese e un atteggiamento più intransigente con la Cina. Insieme a loro sono decine i candidati, alcuni inevitabilmente in cerca di visibilità e notorietà in un paese duramente colpito dalla pandemia e con l’economia in difficoltà.

L’equilibrio tra Stati Uniti e Cina

A prescindere dalle priorità di politica interna su cui i diversi candidati discuteranno da qui fino alle elezioni, emerge con forza un tema cardine del prossimo futuro per le Filippine: il proprio posizionamento nella contesa tra Cina e Stati Uniti. Il Covid-19 ha accelerato il processo competitivo tra le due potenze, evidenziando la centralità strategica della regione indo-pacifica. Dall’inizio della presidenza di Duterte i rapporti economici e politici tra Manila e Pechino sono andati via via rafforzandosi, indebolendo di conseguenza l’intesa con gli Usa dell’allora presidente Donald Trump. Una tendenza durata fino allo scontro diplomatico della scorsa primavera quando le Filippine e la Cina sono arrivate ai ferri corti a causa della vicenda delle isole Spratly/Kalayaan, storica controversia territoriale tra i due paesi.

In quell’occasione Pechino inviò più di 200 pescherecci nelle acque dell’atollo Juan Felipe (o “Whitsun Reef” per usare il nome internazionale), definite vere “milizie marittime” da parte delle Filippine. Il rifiuto cinese di abbandonare le acque fece salire la tensione. Per Manila fu una chiara manifestazione delle volontà cinesi di occupare territori in quella zona, tanto che il ministro degli Esteri delle Filippine, Teodoro Locsin Jr. reagì rivolgendosi ai cinesi con parole molto dure: “Get the fuck out”. Nonostante queste dichiarazioni, Duterte ha sempre cercato di tenere basso il livello di tensione con la Cina. D’altronde da Pechino giungevano milioni di dosi di vaccino essenziali per il paese. Anche a novembre è avvenuto un incidente nel Mar cinese meridionale, con le navi della Repubblica Popolare che hanno sparato colpi di avvertimento vicino a imbarcazioni delle Filippine.

Gli Stati Uniti hanno subito sfruttato la questione per dare il pieno sostegno a Manila, cercando di ampliare la distanza tra le Filippine e Pechino. Per Washington l’arcipelago è fondamentale, visti la vicinanza geografica con Taiwan e il legame storico che lega gli Usa e Manila. Anche per questo che con Joe Biden alla Casa Bianca, l’amministrazione americana si è mostrata più attenta verso il paese del Sud-Est asiatico, che dopo le ripetute dichiarazioni in senso contrario ha rinnovato il Visiting Forces Agreement.

Le recenti tensioni con la Cina hanno scaldato gli animi della popolazione delle Filippine, che potrebbero ricordarsene quando si recheranno alle urne. Sebbene, non ci siano tra i principali pretendenti, candidati che sono dirette espressioni di Pechino o Washington, è certo che in questi mesi di campagna elettorale verrà dedicato ampio spazio alle relazioni del paese asiatico con le due superpotenze. E nel frattempo Cina e Stati Uniti osservano.

 

La scommessa della finanza decentralizzata nel Sud-Est: un “gioco da ragazzi”?

La trasformazione digitale sta rivoluzionando il mondo della finanza e aprendo a nuove opportunità di guadagno. Nel contesto ASEAN, investire diventa un’operazione particolarmente facile e divertente e alla portata di tutti, vista anche la diffusa familiarità con il mondo dei videogiochi e con gli strumenti tecnologici.

Nel Sud-Est asiatico, la diffusione delle criptovalute cresce di pari passo con la ludicizzazione delle piattaforme di trading. L’incontro di queste due tendenze dà vita a piattaforme di finanza decentralizzata (DeFi) che riescono a trasformare le “fredde e noiose attività finanziarie in divertenti avventure comuni che assomigliano alle esperienze di gioco con cui i giovani investitori asiatici hanno dimestichezza”.

La sinergia tra l’industria del gaming e il mondo della finanza digitale si è finora mostrata particolarmente vincente in Asia, data anche la centralità che entrambi i settori ricoprono nell’economia del continente. Grazie alla decentralizzazione e alla trasparenza tipica della tecnologia blockchain, la cripto-finanza si presenta agli occhi degli investitori più giovani come un’alternativa più equa e accessibile rispetto alla finanza tradizionale. Inoltre, spesso le piattaforme sono pensate per rendere il trading sempre più simile a un videogioco, che lascia intravedere la possibilità di arricchirsi con semplici e divertenti operazioni.

Axie Infinity, sviluppato dallo studio vietnamita Sky Mavis, è tra i giochi play-to-earn più popolari: durante la scorsa estate, il volume storico delle transazioni ha superato il miliardo di dollari, mentre la piattaforma raggiungeva la quota di un milione di utenti attivi al giorno (DAU). L’ecosistema, che si appoggia sulla tecnologia blockchain di Ethereum e si basa su token non fungibili (NFT), coinvolge i giocatori in attività di mining, offrendo sostanzialmente la possibilità di convertire la moneta virtuale accumulata in guadagni reali.

Queste caratteristiche hanno reso Axie Infinity attrattivo non solo per i giovani nativi digitali, ma anche per i lavoratori precari, per i quali le operazioni mining diventano quindi non solo un passatempo proficuo ma anche una vera e propria attività remunerativa che garantisce una certa stabilità economica. Basti pensare che per un cittadino delle Filippine dedicare quotidianamente un tempo minimo di due ore a sviluppare e sostenere l’economia virtuale del gioco può avere un impatto significativo nella vita reale, arrivando a fruttare quasi il doppio di un salario medio mensile. Lily Z. King, CEO di Cobo, società di gestione patrimoniale e custode di criptovalute con sede a Singapore, ha osservato che “per i suoi 2 milioni di utenti, il gioco è già diventato un luogo di lavoro, una banca e un mercato azionario”. 

L’Indonesia è un altro Paese ASEAN in cui parte della popolazione fa affidamento sulla DeFI gamificata per coprire le spese quotidiane. Del milione di utenti che usufruiscono dei servizi di intrattenimento e asset digitali offerti dalla singaporiana Digital Entertainment Asset, circa la metà sono indonesiani, in quanto le criptovalute guadagnate durante le sessioni di gioco online sono facilmente convertibili nella valuta locale, passando per exchange come Indodax. 

La recente tendenza alla gamification della finanza digitale sembra portare con sé una serie di vantaggi, tra cui l’inclusione nel mondo finanziario di sempre più ampi e variegati settori della società. Tuttavia, alcuni osservatori sottolineano i potenziali rischi di un sistema che fa leva sul coinvolgimento emotivo e la cui dimensione ludica può facilmente sfociare in dipendenza, soprattutto per i più giovani e inesperti. La semplificazione e la natura open-source delle tecnologie blockchain non impediscono infatti che gli utenti possano incorrere in gravi perdite derivanti dai rischi tipici del settore, quali l’estrema volatilità e il pericolo bolle speculative, mentre gli alti rendimenti non si accompagnano a garanzie come quelle offerti da banche e conti di investimento tradizionali. 

Per questi motivi, le autorità sono chiamate ad investire nell’educazione finanziaria, assicurandosi di fornire alla popolazione gli strumenti e le conoscenze per evitare che il tentativo di restare al passo con la trasformazione digitale e l’innovazione tecnologica si trasformi in un gioco pericoloso. Ad aprile, un gruppo di associazioni di blockchain australiane e del Sud-Est asiatico hanno firmato un Memorandum of Understanding dando vita all’Asean Blockchain Consortium (ABC), la prima collaborazione tra attori del settore mirata a promuovere la formazione sul tema, oltre a proporre collaborazioni transfrontaliere e con le autorità di regolamentazione per garantire la conformità legale dei regolamenti e incentivare l’adozione della tecnologia.

La tecnologia blockchain e i mercati dei crypto-asset si avviano a rivoluzionare i paradigmi del settore, rendendo la finanza più coinvolgente e inclusiva. Come ha osservato in occasione della firma dell’accordo Chia Hock Lai, co-presidente della Blockchain Association Singapore (BAS), tutti gli attori in gioco hanno il compito di “supportare la crescita del settore ad un ritmo sano e sostenibile, fornendo allo stesso tempo spazio per l’innovazione”.

Gli interessi della Russia nei Paesi ASEAN

La Russia sta porgendo sempre più attenzione al Sud-est asiatico, intensificando la cooperazione con i paesi ASEAN su vari fronti.

Dal 2 al 4 dicembre 2021 si è svolta la prima esercitazione navale congiunta tra la Marina Russa e quella dei paesi dell’ASEAN, in acque indonesiane, lungo lo Stretto di Malacca, una delle rotte marittime più importanti del mondo. Per l’esercitazione Indonesia, Thailandia, Singapore, Vietnam, Malesia, Myanmar e Brunei hanno messo in campo le loro navi da guerra o i loro aerei militari, mentre le Filippine si sono limitate ad assistere all’esercitazione come osservatore virtuale. Questa è la prima esercitazione congiunta tra i paesi dell’ASEAN e la Russia. D’altra parte, singoli Stati come l’Indonesia nel 2020 e il Laos nel 2019 hanno già portato a termine esercitazioni militari con Mosca. Infatti, il legame tra Russia e alcuni Paesi dell’ASEAN in tema di difesa e sicurezza sembra essere piuttosto solido. Basandosi sui dati per il periodo dal 1999 al 2019 Mosca risulta essere la prima esportatrice di armi per i Paesi del Sud-Est asiatico; il 26% di tutte le importazioni di armi nei paesi ASEAN risultano fornite dalla Russia, mentre il 20% dagli Stati Uniti, secondo un report stilato dallo Stockholm International Peace Research Institute.

In generale, bisogna sottolineare che i Paesi dell’ASEAN hanno interesse ad avere un ampio portfolio di fornitori in modo da rimarcare la loro politica di non allineamento e per non rischiare di avere una cattiva relazione con altri stati fornitori. Connie Rahakundini Bakrie, un’analista militare indonesiana dell’Istituto di Studio sulla difesa e sicurezza, ha descritto l’esercitazione congiunta tra Mosca e i paesi dell’Associazione delle Nazioni del Sud-Est asiatico come un ulteriore segnale di non allineamento del blocco ASEAN. Infatti, durante gli anni questi Stati hanno cercato di costruire una politica per cui non debbano prendere né le parti della Cina, stato a cui sono legati da stretti legami economici, né le parti degli Stati Uniti, che sono sicuramente una garanzia contro qualunque possibile disputa data dal potere crescente di Pechino. Con l’eccezione di Laos, Cambogia e Myanmar, che sono molto più legati alla Cina, gli altri Paesi dell’ASEAN stanno tessendo dei forti legami con i paesi occidentali.

Questa politica estera dei Paesi ASEAN sembra far comodo anche alla Russia, la quale sta porgendo sempre più attenzione al Sud-Est asiatico, tanto che nel 2018 la relazione tra Mosca e i Paesi dell’ASEAN è passata ad essere definita come un “partenariato strategico”. Inoltre, il 28 ottobre 2021 si è tenuta in videoconferenza il quarto Summit ASEAN-Russia per festeggiare il trentesimo anniversario delle relazioni tra Mosca e i paesi dell’ASEAN. Questo summit ha avuto anche come risultato la stesura di documenti atti a sviluppare un piano di azione per implementare il loro partenariato strategico. Come affermato da Richard Heydarian, professore di Storia e Scienze Politiche presso l’Università Politecnica delle Filippine, la Russia molto probabilmente vede il Sud-Est asiatico come un terreno strategico per promuovere un ordine globale multipolare e non uni o bi-polare. Da un lato, infatti, Mosca vuole certamente compromettere lo status globale di cui godono gli Stati Uniti, ma questo ovviamente non significa che la Russia voglia lasciare libero spazio all’ascesa della Cina, lasciando che quest’ultima controlli delle regioni che ad ora si dichiarano non allineate, come il Sud-Est asiatico.

Lo stato appartenente all’ASEAN, a cui la Federazione Russa è più legata è sicuramente il Vietnam. L’amicizia tra i due paesi è stata anche dimostrata dalla visita del presidente del Vietnam Nguyễn Xuân Phúc in Russia dal 29 novembre al 2 dicembre 2021. I leader dei due Paesi durante questa visita hanno rilasciato una dichiarazione di visione congiunta sul partenariato strategico globale Vietnam-Russia fino al 2030 e inoltre hanno espresso il desiderio di voler incrementare la loro collaborazione in materia di sicurezza e di difesa ed inoltre di voler rafforzare i loro legami commerciali e di investimento. Il legame tra Hanoi e Mosca deriva soprattutto dalle affini vedute politiche dei due Paesi durante il periodo della guerra fredda. Il Vietnam, infatti, ha un’importanza strategica per la Russia poiché funge da ponte tra Mosca e il blocco ASEAN. Dall’altra parte, il Vietnam probabilmente spera che la Russia possa in qualche modo arginare le pretese della Cina nel Mar Cinese meridionale. Probabilmente però difficilmente Mosca sacrificherebbe i suoi rapporti con la Cina per il Vietnam.

Richard Heydarian, inoltre fa una considerazione molto interessante sui legami tra Russia e Paesi ASEAN. Mosca, infatti, ha un’altra fonte di attrazione per questi Paesi: l’ideologia. La politica che Putin rappresenta in realtà risulta molto attraente per alcuni leader del Sud-Est asiatico che non si riconoscono del tutto nei sistemi democratici degli Stati Uniti e dell’Unione Europea. In un certo senso la politica autoritaria, nazionalista e populista di Putin sembra esercitare una sorta di soft power su alcuni membri dell’ASEAN. Da ultimo, la Russia ha anche applicato la cosiddetta diplomazia dei vaccini su molti paesi del sud est asiatico. I Paesi ASEAN, infatti, hanno molto apprezzato l’intervento della Russia in risposta alla pandemia COVID-19, anche attraverso la distribuzione nell’area del vaccino “Sputnik V” e la formazione di esperti sanitari, invocando il rafforzamento degli impegni ASEAN-Russia per garantire l’effettiva attuazione delle strategie di ripresa post-pandemia.  

RCEP, al via l’accordo che promette l’integrazione asiatica

Il 1°gennaio 2022 entrerà ufficialmente in vigore la Regional Comprehensive Economic Partnership (RCEP), un accordo che porta con sé grandi aspettative per il processo di integrazione asiatica. Ecco di cosa si tratta

Tutto pronto per l’entrata in vigore del Regional Comprehensive Economic Partnership (RCEP) per il 1°gennaio 2022. Si tratta del più grande accordo commerciale della storia al di fuori dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC), che coinvolge 16 paesi della regione asiatica. Al momento del lancio ufficiale saranno però 10 le nazioni coinvolte dalle nuove misure, mentre 5 devono ancora ratificare l’accordo all’interno dei propri meccanismi legislativi. A partire da gennaio saranno incluse nel RCEP 6 nazioni ASEAN: Singapore, Brunei, Thailandia, Laos, Cambogia e Vietnam. Insieme a loro entrano Cina, Giappone, Nuova Zelanda e Australia. Per la Corea del Sud, infine, bisognerà attendere la sessione plenaria dell’Assemblea nazionale per ufficializzare l’ingresso nell’accordo.

Sul potenziale del Rcep sono state già spese molte parole, tanto quanto sono alte le aspettative. Un trattato di questa portata non potrà che accelerare l’integrazione economica della regione, facendo incontrare realtà economiche, politiche e sociali molto diverse tra loro. IL RCEP coprirà un mercato di 2,3 miliardi di persone, con un valore della produzione che supera i 26 trilioni di dollari: si tratta di circa il 30% della popolazione mondiale e oltre un quarto delle esportazioni esistenti sui mercati globali.

I punti dell’accordo

Il RCEP mira ad abbattere le barriere tariffarie fino al 90% tra i paesi aderenti nell’arco di 20 anni. Per la Cina e i paesi ASEAN significherà un rafforzamento dell’Accordo di libero scambio (ALS) già in vigore, riducendo il 70% delle tariffe sui beni importati dal Sudest asiatico, mentre Brunei, Singapore, Thailandia e Vietnam elimineranno circa il 75% delle tariffe sui prodotti importati dalla Cina. Il tutto correlato da uno sforzo di semplificazione e accelerazione delle pratiche amministrative legate agli scambi commerciali tra i paesi RCEP. Questo passaggio punterà sulla crescita delle competenze in ambito digitale dei paesi coinvolti, ma anche sull’armonizzazione di dati, documenti e comunicazioni.

Il secondo aspetto più rilevante dell’Accordo regionale riguarda l’abbattimento delle cosiddette misure non tariffarie (NTM), ovvero tutte quelle limitazioni alle importazioni legate – per esempio – agli standard di qualità e di sicurezza di una determinata industria. Si tratta di un punto importante, che insieme al vincolo della trasparenza facilita le transazioni internazionali lungo la supply chain. Un esempio è quello del Vietnam, che importa una parte significativa di componenti ad alta tecnologia da Cina e Corea del Sud: questo tipo di trattative sono continuamente soggette a procedure di conformità che fanno lievitare i prezzi sia dei materiali che dell’output finale, mentre l’assenza di standard uniformi ostacola l’inserimento del prodotto sui mercati internazionali. Costi tutt’altro che irrisori, in quanto chiedono un’analisi molto approfondita e aggiornata dei requisiti normativi del partner commerciale, e l’adozione di nuovi strumenti e competenze certificati. Con l’arrivo del RCEP, questo processo viene adottato in una soluzione unica a livello nazionale, con le autorità competenti che hanno lavorato per applicare le misure necessarie ad uniformare i regolamenti nazionali con quelli previsti dall’accordo.

L’integrazione digitale è uno dei passaggi dell’accordo più innovativi nel panorama degli ALS. I paesi aderenti promettono creare maggiori opportunità per le piccole medie imprese nel settore e-commerce, oltre a fornire loro maggiori competenze digitali per facilitare gli scambi sul mercato internazionale. Secondo un sondaggio del 2021 del World Economic Forum, l’87% dei dirigenti di PMI ASEAN conta sulla digitalizzazione come uno strumento importante per superare la crisi economica. Nei piani del RCEP questa evoluzione dovrà passare attraverso canali nuovi, dove dovranno avvenire le transazioni monetarie e lo scambio di documenti e atti amministrativi. Da qui nasce l’opportunità di scambiare tecnologie ed expertise utile con più facilità: le aziende di Singapore, paese che eccelle nell’indice di competenze digitali globale (DSGI) (con un punteggio di 7.8), possono contribuire allo sviluppo tecnologico di partner ancora distanti dall’upgrade tecnologico soft e hard (come la Cambogia, che ha solo 2,8 di DSGI).

Le prospettive 

Il RCEP viene lanciato in un momento storico difficile, dove lo sviluppo economico deve fare i conti con le ondate di contagi Covid. Ogni processo di integrazione economica su larga scala richiede diversi anni prima di mostrare i primi risultati concreti. L’accordo offre ai paesi più avanzati l’opportunità di ridurre i costi lungo la supply chain, mentre ai paesi in via di sviluppo permette di importare più facilmente alcune tecnologie sofisticate e know how. Sia gli investitori asiatici che le aziende estere inserite sul mercato RCEP potrebbero vedere ampliato il ventaglio di opportunità di crescita, sia in termini di acquisti che di vendita di beni e servizi.

Le promesse dell’accordo sono integrazione commerciale, razionalizzazione tariffaria, liberalizzazione economica, rivitalizzazione delle PMI, accessibilità al mercato e beneficio reciproco tra pari. Ciò non elimina per intero il rischio che alcuni paesi possano approfittare dell’accordo per inserirsi nelle zone grigie delle normative nazionali, soprattutto laddove viene meno la tutela verso le PMI. Il tempo delle disquisizioni è giunto al termine per (quasi) tutti i paesi: saranno le azioni dei prossimi anni a dimostrare il potenziale del RCEP tanto per i privati, quanto per la cooperazione internazionale.

Quale sarà il futuro dell’economia ASEAN nel 2022?

Negli anni precedenti alla pandemia da Covid-19, i Paesi ASEAN concorrevano per diventare la quarta potenza economica mondiale entro il 2030 ma i vari lockdown, le ondate e i milioni di contagi rischiano di mettere in stand-by questo grande obiettivo.

L’Asia da millenni stupisce e meraviglia l’Occidente con nuove scoperte e grandi passi avanti in campi nei campi della tecnologia e dell’economia. In questo preciso momento storico le aspettative che tutto il mondo, ma in primis i vari Paesi ASEAN, ripongono sulla rinascita asiatica stanno tardando a concretizzarsi ma questo non significa che non si materializzeranno. Secondo i dati elaborati da Oxford Economics, il prolungarsi della pandemia sta solo ritardando la ripartenza dei Paesi ASEAN. Nel primo trimestre del 2021 Indonesia, Thailandia e Filippine, le tre maggiori economie del Sud-Est asiatico, si sono trovate costrette ad attuare diverse misure di contenimento per far fronte a nuove ondate di contagi, registrando rispettivamente una contrazione dello 0,7%, 2,6% e 4,2% del Pil rispetto allo stesso periodo del 2020. Se dunque gli analisti hanno rivisto al ribasso le previsioni di crescita del blocco per l’anno corrente, dal 5,5% al 4,9%, i segnali positivi che arrivano dal commercio globale e il graduale ritorno degli investimenti suggeriscono una ripresa ancora più forte nel 2022 (+6,5%).

Per la maggior parte dei Paesi ASEAN, il secondo trimestre del 2020 è stato il primo periodo in cui si è fatta sentire l’influenza della pandemia. Proprio per questo motivo, sarà più facile per le economie regionali registrare una crescita annua nel trimestre in corso. Tuttavia, il futuro è ancora avvolto nell’incertezza a causa del recente peggioramento del virus in tutta la regione. Le restrizioni hanno rallentato la spesa per consumi privati, che è scesa dello 0,5% su base annua nel primo trimestre, superando la crescita dello 0,9% registrata nel quarto trimestre del 2020.

Il progresso dei programmi di vaccinazione in ogni Paese avrà un impatto sulla spesa delle persone. Il 5 maggio di quest’anno, la Bank of Thailand ha fatto proiezioni economiche basate su determinati scenari: se entro la fine del 2021 verranno distribuite 100 milioni di dosi di vaccini per ottenere l’immunità di gregge entro il primo trimestre del 2022, l’economia crescerà del 2,0% nel 2021 e del 4,7% nel 2022. Un ritardo nel raggiungimento dell’immunità di gregge fino al terzo trimestre del 2022 ridurrebbe la crescita economica della regione all’1,5% nel 2021 e al 2,8% nel 2022. Se ci vorrà fino all’ultimo trimestre del 2022, l’economia crescerà solo dell’1,0% e dell’1,1%, secondo le proiezioni della banca.

Durante il primo trimestre, la Thailandia è stata colpita dalla seconda e dalla terza ondata del virus. La seconda ondata, che si è evoluta a metà dicembre ed è durata fino all’inizio di febbraio, ha portato a orari di apertura più brevi, alla chiusura di attività come bar, pub con karaoke e centri massaggi nell’area metropolitana di Bangkok. Dopo le proteste del settore della ristorazione, il governo ha iniziato a consentire l’accesso ai servizi di ristorazione anche nelle province più colpite. Tuttavia, le entrate dei ristoranti sono rimaste basse, poiché la capacità di posti a sedere è limitata al 25%. Le restrizioni hanno rallentato la spesa per consumi privati, che è scesa dello 0,5% su base annua nel primo trimestre, superando la crescita dello 0,9% registrata nel quarto trimestre del 2020. La mancanza di turisti non ha aiutato l’economia. Sebbene il governo thailandese sia desideroso di aprire il Paese vista la dipendenza dal turismo, le ondate di virus hanno interrotto i flussi di visitatori. Le esportazioni di servizi, che includono la spesa dei non residenti come i turisti, sono diminuite del 63,5% nei tre mesi conclusi a marzo. Le esportazioni di merci sono cresciute per la prima volta in quattro trimestri, registrando un aumento del 3,2%.

La Malesia era sulla buona strada per soddisfare le previsioni ufficiali di crescita dal 6% al 7,5 per cento fino a quando la pandemia di coronavirus ha colpito nel marzo 2020. Ciò nonostante, il Paese ha continuato e continua a lavorare per raggiungere la prevista crescita del prodotto interno lordo (PIL) compresa tra il 6,0 per cento e il 7,5% nel 2021. La strategia futura del governo malese prevede una maggiore attenzione ai settori economici più colpiti dalla pandemia di coronavirus come il turismo e il commercio al dettaglio. Kuala Lumpur aspetterà che la ripresa prenda piede prima di considerare eventuali nuove tasse. Poiché l’obiettivo è quello del rilancio dell’economia, questo sarà possibile solo attraverso un equilibrio tra l’iniezione fiscale a breve termine e il consolidamento fiscale a medio e lungo termine.

Nelle Filippine, il governo ha parlato del potenziale del Paese di tornare a un rapido tasso di crescita, aiutato dalla spesa pubblica e da un’eventuale fine ai blocchi. Il Pil è sceso del 4,2 per cento nel trimestre di marzo rispetto a un anno prima. L’economia filippina si è ridotta più del previsto nel primo trimestre, anche se lo slancio sequenziale ha mostrato che era in corso una ripresa e ha suggerito che la banca centrale manterrà i tassi ai minimi storici. Anche l’economia è migliorata su base sequenziale, con la produzione in aumento dello 0,3 per cento rispetto ai tre mesi precedenti su termini destagionalizzati per segnare la sua terza crescita consecutiva trimestre su trimestre. Manila sta combattendo uno dei peggiori focolai di coronavirus dell’Asia con oltre un milione di casi registrati e oltre 18.000 morti. Una nuova ondata di infezioni a partire da marzo aveva indotto la re-imposizione di limiti alla mobilità più severi, ma i nuovi casi giornalieri sono diminuiti rispetto al picco.

Un esempio di strategia di contenimento del Covid-19 di successo e di ripresa economica efficace è sicuramente quello del Vietnam. Con uno dei più bassi casi di casi e decessi al mondo, il viaggio del Vietnam contro il COVID-19 si è distinto nel Sud-Est asiatico e in tutto il mondo. Al governo è stato ampiamente attribuito il successo del Paese nel tenere sotto controllo i tassi di trasmissione di COVID-19 grazie al suo rapido processo decisionale, all’efficacia dei messaggi sulla salute pubblica e alla tracciabilità dei contatti aggressiva, sebbene non senza critiche. Ma, come in altri Paesi, le restrizioni ai movimenti e le misure di allontanamento sociale per ridurre la diffusione di COVID-19 hanno influito sul sostentamento delle persone. Alcune famiglie si sono affidate agli aiuti per le loro necessità di base. Altri, come i lavoratori informali che non erano in grado di presentare la documentazione per accedere agli aiuti del governo, si sono affidati alla carità per l’assistenza. Diverse organizzazioni sociali vietnamite che lavorano con le comunità rurali svantaggiate, hanno fornito pacchi alimentari e prestiti alle famiglie del Vietnam centrale, dove il sostentamento è garantito attraverso il lavoro agricolo. Il governo ha stanziato 62 trilioni di dong vietnamiti, circa 2,6 miliardi di dollari, per l’assistenza sociale, ma l’aiuto era in gran parte inaccessibile a coloro che non avevano documentazione legale o che lavoravano nel settore informale. Sono molte le comunità che non hanno ancora ricevuto aiuti dal programma del governo. La narrativa dell’esecutivo non fa discriminazioni, ma alcuni dei suoi regolamenti e condizioni pongono inevitabilmente degli ostacoli ad alcuni membri della popolazione. Hanoi dovrà, quindi, lavorare per garantire una migliore inclusione sociale se vorrà mantenere il titolo di “economia di successo” tra i Paesi ASEAN.

Le stime della Banca Mondiale

La ripresa economica dell’Asia-Pacifico rischia una battuta d’arresto a causa della diffusione della variante Delta del coronavirus e dello stress protratto a carico di imprese e famiglie, che si tradurranno probabilmente in un rallentamento della crescita economica e in un ulteriore aumento delle diseguaglianze. È l’analisi formulata dalla Banca mondiale nel suo ultimo aggiornamento sull’economia regionale. La Banca ha rilevato un rallentamento dell’attività economica a partire dal secondo trimestre 2021, e ha conseguentemente rivisto al ribasso le previsioni di crescita per la maggior parte delle economie della regione. Mentre la previsione di crescita del Pil cinese viene innalzata rispetto alle previsioni di aprile dall’8,1 all’8,5 per cento, il resto della regione crescerà in media quest’anno del 2,5 per cento, quasi due punti percentuali in meno rispetto alla precedente proiezione dell’organizzazione.

Tra le economie che scontano la riduzione più marcata delle previsioni di crescita figurano quelle del Sud-Est asiatico precedentemente citate: per la Thailandia, la Banca Mondiale prevede ora una crescita di appena l’uno per cento nel 2021, contro il 3,4 per cento previsto ad aprile. Il Vietnam, dove la pandemia ha colpito con durezza i principali centri economici e produttivi, vede ridursi la stima di crescita del Pil per l’anno corrente dal 6,6 per cento al 4,8 per cento, e sconta una riduzione simile anche la Malesia: dal 6 al 3,3 per cento. Più contenuto l’aggiustamento operato dalla Banca mondiale alle previsioni dell’Indonesia, che quest’anno potrebbe crescere del 3,7 per cento (ad aprile la stima era del 4,4 per cento).

Per concludere, si può affermare che la ripresa economica globale continua, ma con un divario sempre più ampio tra le economie avanzate e molti dei mercati emergenti e in via di sviluppo. Le prospettive di crescita per le economie avanzate quest’anno sono migliorate di mezzo punto percentuale, ma ciò è compensato da una revisione al ribasso per i mercati emergenti e le economie in via di sviluppo, guidata da un significativo declassamento della crescita per i Paesi emergenti dell’Asia.

Eni e la transizione energetica nell’Asia Pacifico

Abbattere l’impronta carbonica in una regione che ha fame di energia 

Articolo a cura di Davide Tramballi

Institutional Support for Business Development MENA & APAC, Public Affairs, Eni

Sulla scia della COP-26, gli obiettivi net zero si stanno diffondendo in tutta l’Asia. Cina, India e Indonesia hanno rilanciato i propri impegni; più di 4 miliardi di persone, circa il 60% della popolazione globale, ora vivono in Paesi che hanno dichiarato ambiziosi obiettivi net zero. Questa situazione ha implicazioni importanti per i mercati dell’energia e per il loro futuro sviluppo. In primo luogo, il target net zero sta diventando una priorità per le nazioni in via di sviluppo; questa non è più una caratteristica esclusiva dei paesi OCSE. In secondo luogo, le nazioni asiatiche più grandi stanno aumentando la pressione sulle nazioni relativamente “piccole” della regione per fare significativamente di più e meglio. In terzo luogo, gli obiettivi net zero si stanno configurando come una necessità economica per i Paesi dell’area, dato che hanno il più grande deficit energetico di tutte le regioni del mondo, aggravato dalla necessità di un’immediata riduzione dell’inquinamento condivisa da quasi tutte le principali città asiatiche. In ultimo luogo, i Paesi asiatici (specialmente nel Sud-Est del continente) stanno facendo sempre più leva sugli impegni verso il net zero per attrarre investimenti, che sono e saranno determinanti per permettere alle nazioni asiatiche di aumentare la capacità di generazione da fonti rinnovabili. 

In generale, soprattutto nell’area Asia-Pacifico, gli obiettivi net zero sono controbilanciati dagli importanti bisogni energetici delle rispettive economie e popolazioni in rapida crescita, che hanno trasformato la regione nel più grande emettitore di CO2 del mondo (con circa la metà di tutti i gas climalteranti globali) e si prevede che guideranno il 60% della crescita totale della domanda energetica globale da qui al 2040. I primi tre fattori che contribuiscono alle emissioni di CO2 sono la produzione di elettricità e calore, la produzione e il trasporto, in larga parte come risultato della crescente urbanizzazione in Asia. In particolare la Cina e il Sud-Est asiatico mostrano la domanda di energia in più rapida crescita a livello globale, domanda che fin dai primi anni 2000 è stata soddisfatta per oltre il 90% dai combustibili fossili. Per permettere ai paesi asiatici di raggiungere il livello di crescita richiesto, i combustibili fossili sono destinati a rimanere un pilastro dell’approvvigionamento nei prossimi decenni. Secondo lo scenario target del 6° Asean Energy Outlook, pubblicato a novembre 2020 e da rivedere alla luce degli sviluppi del 2021 (compresi i risultati della COP26), la capacità di generazione da energia a carbone è destinata ad aumentare da 103 gigawatt (GW) nel 2020 a 207 GW nel 20401.

Guardando a queste tendenze, le tecnologie e il know-how che Eni ha sviluppato nel proprio percorso di innovazione stanno chiaramente emergendo come una risposta efficace alle esigenze di transizione energetica dell’area Asia Pacifico. In primo luogo, mentre i Paesi della regione iniziano a eliminare gradualmente il carbone dal loro mix energetico, in linea con una delle principali priorità della COP26, i progetti LNG-to-power si sono moltiplicati nella regione, incentivando la domanda di gas dal settore energetico. Eni mira ad aumentare la produzione locale di gas naturale in quest’area e a commercializzare volumi crescenti di gas naturale liquefatto (GNL) in sostituzione del carbone. Questo aspetto sarà cruciale per ridurre le emissioni dei Paesi dell’area APAC, permettendo al contempo di soddisfare la loro crescente domanda di energia2. Parallelamente, Eni intende fare leva sulla propria esperienza nelle fonti di energia rinnovabili come il solare e l’eolico, al centro della strategia dell’azienda con un aumento previsto a 60 GW nella propria capacità installata globale entro il 2050, per sostenere gli ambiziosi obiettivi di elettrificazione dei paesi dell’area APAC. L’elettrificazione è fondamentale anche per rendere la mobilità sempre più sostenibile, ma non è una soluzione sufficiente o abbastanza rapida per decarbonizzare il settore dei trasporti. A questo proposito, la leadership di Eni nella produzione e commercializzazione di biocarburanti avanzati rappresenta una soluzione immediata e complementare, promuovendo anche progetti di economia circolare basati sul riutilizzo degli scarti alimentari e agricoli attraverso filiere ecosostenibili. Il carburante Eni Biojet, che conterrà il 100% di componente biogenica e potrà essere combinato con il carburante convenzionale fino a un mix del 50%, giocherà un ruolo importante per soddisfare la domanda di carburante sostenibile per l’aviazione (SAF) che viene dai mercati in rapida crescita dell’aviazione regionale. La cattura, l’utilizzo e lo stoccaggio dell’anidride carbonica (meglio conosciuta con l’acronimo CCUS) potrebbe essere un altro strumento chiave per la decarbonizzazione dei sistemi energetici regionali e un primo abilitatore dell’economia dell’idrogeno, sbloccando la produzione di idrogeno low carbon a costi accessibili nel breve termine.

I Paesi più rilevanti di presenza Eni nell’Asia-Pacifico

Eni è presente in tredici paesi asiatici con attività che coprono l’intera catena del valore dell’energia. In linea con la strategia dell’azienda, anche in Asia le operazioni stanno progressivamente combinando i tradizionali progetti oil&gas con iniziative di transizione energetica – in vista della totale decarbonizzazione dei prodotti e dei processi Eni entro il 2050. Lo dimostrano gli sforzi che Eni sta portando avanti in alcuni dei più importanti paesi della regione.  

L’Indonesia è uno dei “giganti” dell’area APAC, e il suo recente obiettivo net zero al 2060 è stato una svolta nella regione. Tuttavia, questo si scontra con l’importante produzione ed esportazione di carbone dell’Indonesia (specialmente verso la Cina), e con la pianificata aggiunta di 33.000 MW alla produzione elettrica del Paese, la cui probabile eliminazione apre una significativa finestra di opportunità per gli sviluppi del gas naturale, insieme alle tecnologie di decarbonizzazione CCUS. Eni è ben posizionata per contribuire efficacemente a questi obiettivi, in quanto possiede già un totale di 12 blocchi esplorativi e produttivi di gas naturale. La società produce gas dal giacimento Jangkrik dal 2017 e dal giacimento Merakes dall’aprile 2021, rifornendo il mercato interno indonesiano e il portafoglio GNL di Eni: la maggior parte del gas viene liquefatto nell’impianto di Bontang e venduto alla società Pertamina con contratti a lungo termine, sostenendo in modo decisivo lo sviluppo dell’Indonesia e gli ambiziosi obiettivi di uscita dal carbone. Negli ultimi anni, Eni e Pertamina hanno anche esplorato nuove opportunità di cooperazione nella bioraffinazione, nell’economia circolare, nei prodotti a basso contenuto di carbonio, nella gestione dei rifiuti, nelle biomasse e nell’R&D.

Il Vietnam è un altro paese chiave nella strategia asiatica di Eni. L’azienda ha fatto una significativa scoperta di gas e condensati nell’offshore del Paese nel 2019, scoprendo risorse che potenzialmente giocheranno un ruolo cruciale nel ridurre la dipendenza dal carbone del Paese, sempre più in contrasto con il suo impegno net zero al 2050, garantendo al contempo la sua crescente domanda di energia. Inoltre, l’azienda ha discusso nuovi potenziali sviluppi negli ambiti delle rinnovabili, della filiera dei biocarburanti e di altri progetti ambientali.   

L’Australia rappresenta un altro esempio di integrazione della produzione di gas con i processi di decarbonizzazione e le rinnovabili. Eni opera nell’offshore nord-occidentale del Paese dai primi anni 2000, con attività incentrate sull’esplorazione e produzione di gas naturale. Nel 2019-2020 Eni ha acquisito tre impianti fotovoltaici per una capacità totale di quasi 60 MW nel Territorio del Nord, che rappresentano il suo ingresso nel mercato australiano delle rinnovabili. Inoltre, a maggio 2021, la società ha firmato un MoU con Santos per migliorare la cooperazione nello sviluppo di un impianto di cattura e stoccaggio/utilizzo della CO2 (CCUS) nell’area di Darwin, al servizio non solo degli asset di proprietà delle due società ma aperto a qualsiasi progetto di terzi interessati, con l’obiettivo a lungo termine di facilitare la creazione di un hub per la gestione della CO₂ nel Territorio del Nord in Australia.

Come maggiore emettitore mondiale di gas serra, i piani energetici della Cina e gli obiettivi net zero rimangono fondamentali per il successo dei processi globali di decarbonizzazione e transizione energetica. Gli impegni presi dal presidente Xi e sanciti dal 14° piano quinquennale (2021-2025) sono ambiziosi3, e devono essere conciliati con le enormi esigenze energetiche di un’economia dinamica, oltre che con l’eccessiva dipendenza del Paese dal carbone – soprattutto nel settore industriale, dove le grandi imprese statali (come il colosso China Energy Investment Corporation, il più grande produttore di carbone al mondo e generatore di energia a carbone) rappresentano circa il 65% delle emissioni totali di carbonio della Cina. La necessità di tagliare drasticamente la generazione a carbone e quindi aumentare la dipendenza dalle energie rinnovabili e dal gas naturale apre diverse opportunità nel settore energetico cinese in rapida evoluzione. Eni ha rafforzato la propria posizione nel Paese fin dal 1984 e oggi ha una presenza integrata nell’esplorazione e produzione oil&gas, nella fornitura di GNL, nelle tecnologie di raffinazione e nel trading di greggio e prodotti chimici. A dicembre 2020, la società ha firmato con l’International Cooperation Center della National Development and Reform Commission (ICC-NDRC) un accordo per promuovere la collaborazione nella transizione energetica, concentrandosi sulle fonti di energia a basso contenuto di carbonio, sulle tecnologie avanzate e sulle iniziative di economia circolare.

Il XXI secolo è stato definito da molti esperti come il “secolo asiatico” e il modo in cui i paesi dell’area APAC affronteranno la sfida energetica sarà decisivo per la transizione energetica globale. Tenendo questo a mente, negli ultimi anni Eni ha costruito una presenza integrata nel cuore di questa regione chiave per l’energia, con un forte impegno a diversificare le fonti di energia e a sostenere la crescita economica. Guardando al futuro, l’azienda sta cercando di rafforzare ulteriormente la propria presenza, facendo leva sulle proprie tecnologie proprietarie e sulle soluzioni di decarbonizzazione per aiutare i Paesi dell’area nel loro percorso verso un’energia più sicura e sostenibile per tutti.

 

Note

1 Il 60 Outlook, pubblicato a novembre 2020, è stato integrato nel 2021 dall’ASEAN Plan of Action for Energy Cooperation, Phase II 2021-2025, affermando che: “Tenendo conto della pandemia COVID-19, le proiezioni ACE indicano che l’approvvigionamento totale di energia primaria regionale (TPES) potrebbe diminuire leggermente del 3% nel 2040 nello stesso scenario di riferimento” (pag.1)

2 Develoments in Asia Downstream LNG, Wood Mackenzie, Dec.2021

3 Picco delle emissioni di COprima del 2030; neutralità carbonica prima del 2060; https://racetozero.unfccc.int/chinas-net-zero-future/ 

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