Singapore può sorpassare Hong Kong?

La diatriba tra Pechino e Hong Kong sta portando gli investitori esteri sempre più verso Singapore

Negli ultimi anni la pressione di Pechino sulla politica interna di Hong Kong ha generato risvolti evidenti non solo per quanto riguarda il lato politico-amministrativo dell’isola, ma finendo anche per colpire indirettamente la sua economia. Le rivolte ad Hong Kong hanno messo in allerta gli investitori esteri che avrebbero iniziato a reindirizzare sempre di più i propri investimenti verso Singapore, fino a poco tempo fa il secondo maggiore hub finanziario del Sud-Est asiatico. 

La causa scatenante di questo trend è proprio l’influenza politica della Cina su Hong Kong: per la città-Stato infatti sta velocemente svanendo la definizione di “uno Stato, due sistemi” che era stata adottata nel 1997, anno in cui il Regno Unito aveva restituito la sovranità di Hong Kong alla Repubblica Popolare Cinese. 

Proprio il mese scorso l’Heritage Foundation, un think tank americano che si occupa di analizzare i dati di tutti i Paesi del mondo e di stilare le caratteristiche economiche degli stessi, ha deciso di eliminare Hong Kong dalla classifica e i suoi dati non sono più disponibili sul sito dell’associazione: un duro colpo per Hong Kong che dal 1995 al 2019 era considerata dalla fondazione americana come il Paese con l’economia più libera al mondo, luogo ideale per i grandi investitori esteri. 

La scelta deriva dal fatto che Hong Kong sotto il profilo politico-burocratico non è più considerata autonoma e l’associazione ha quindi deciso di unirla ai dati della Cina, posizionata al 107esimo posto tra le economie più libere. Alla luce di questi sviluppi sorride Singapore che, dopo aver scavalcato Hong Kong lo scorso anno, oggi continua a mantenere il primo posto della lista con il punteggio di 89,7, staccando ampiamente la Nuova Zelanda di quasi sei punti. 

Se già nel 2019 vi erano le prime avvisaglie di una possibile crisi economica per Hong Kong sempre più accentuata, la legge draconiana sulla sicurezza nazionale, promulgata da Pechino lo scorso luglio, ha fatto sì che alcune aziende corressero ai ripari verso i lidi di Singapore. Deutsche Bank ad esempio ha affermato l’intenzione di spostare l’ufficio del nuovo CEO dell’area asiatica a Singapore, non ritenendo più Hong Kong un luogo sicuro: la nuova legge sulla sicurezza intaccherebbe infatti due dei pilastri principali su cui si fondava la forza attrattiva dell’economica di Hong Kong ovvero la protezione dei diritti di proprietà e la certezza del diritto. Per tali ragioni un altro fenomeno che si è accentuato negli ultimi due anni è la scelta di molte società di affidarsi a giudici arbitrari in altre città come appunto Singapore o Londra, temendo la poca trasparenza della nuova burocrazia di Hong Kong. 

Anche per l’espansione aziendale, le società guardano più verso Singapore: secondo un’indagine del Financial Times, alcune aziende di credito e banche mostrerebbero sempre più interesse nell’ampliare le proprie filiali a Singapore piuttosto che ad Hong Kong: su Linkedin le posizioni lavorative aperte da UBS e JP Morgan a Singapore sono otto volte maggiori di quelle ad Hong Kong, mentre Credit Suisse e Goldman Sachs hanno raddoppiato la propria campagna pubblicitaria a Singapore. 

Non tutti gli analisti sono però concordi in merito al declino di Hong Kong: il forte interesse dei tycoon e delle aziende cinesi stanno dando nuova linfa all’economia dell’isola.

In ogni modo, con i suoi ottimi risultati in termini di protezione dei diritti di proprietà e dell’integrità governativa, Singapore ha l’occasione di imporsi come principale hub per gli investimenti internazionali nel Sud-Est asiatico. 

Articolo a cura di Alberto Botto

5 anni in 1: Il nuovo e-commerce in ASEAN

Non solo Cina: il fenomeno e-commerce ora abbraccia anche l’ASEAN con un’enfasi particolare sui consumi di tutti i giorni

Negli ultimi mesi abbiamo tutti assistito alla graduale scomparsa di interi settori delle economie tradizionali, mentre altri invece sono cresciuti in modo esponenziale conquistando una posizione di rilievo nei mercati di riferimento. È questo il caso dell’e-commerce e nello specifico dell’e-commerce in Asia.

McKinsey stima che le aziende europee di maggior successo nel 2020 in termini di fatturato sono accomunati da due singoli fattori: focus sull’Asia (+9%) e massicci investimenti sulla costruzione di canali digitali dedicati (+76%).

La Cina è sicuramente il caso-studio più noto. Nel 2020, il Paese del Dragone ha registrato un record assoluto di vendite online: $2.090 trilioni, registrando un incremento del 26% rispetto all’anno precedente. In totale il numero di consumatori attivi ha superato i 900 milioni, su una popolazione totale di poco inferiore a 1,4 miliardi. Negli ultimi mesi l’e-commerce cinese ha però subito profondi cambiamenti riconducibili a due fenomeni distinti.


Il primo è la chiusura dei confini e delle tratte internazionali, che ha portato la popolazione cinese a spendere online entro i confini domestici, ponendo così fine al trend dello ‘shopping tourism’. Questo ha portato ad un sostanziale incremento della spesa online in madrepatria, quota che si attesta ora al 73% contro il 35% del 2019, e il trend si stabilizzerà al 50% per il 2025. Il secondo fattore riguarda l’aumento della spesa da parte delle giovani generazioni, e, in particolare, della Generation Z, nata dopo il 1995, che esercita il proprio accresciuto potere di spesa anche al di fuori dei centri urbani di prima fascia. 

I Gen Z e i Millennnials rappresentano circa 300 milioni di consumatori, non solo oggetto di corteggiamento e contesa da parte delle aziende, ma fautori di una vera e propria rivoluzione nel mondo dell’e-commerce all’insegna della customization e dell’omnicanalità.

La crescita dell’e-commerce nel Sud-Est asiatico, forse meno discussa ma certo altrettanto eclatante, condivide alcune caratteristiche del caso cinese ma presenta anche delle peculiarità. Si stima che la e-conomy in ASEAN sia cresciuta cinque volte più nel 2020 che in un normale anno pre-Covid.

Lo scorso anno la regione, che conta circa 650 milioni di abitanti, ha infatti visto crescere i propri utenti attivi da 360 a 400 milioni. Un consumatore su tre ha acquistato per la prima volta online proprio nel 2020 e se la crescita continuerà a questo ritmo il mercato digitale varrà circa $300 miliardi nel 2025. 

Nel complesso, i Paesi dell’ASEAN e la loro crescita economica travolgente hanno radici profonde nei precedenti investimenti in digitalizzazione e in innovazione dei modelli di business tradizionali: le politiche in questo senso sono riuscite a costruire dei forti pilastri su cui far crescere l’industria digitale nel lungo termine. L’investimento nelle infrastrutture telecomunicative e nell’educazione digitale, in particolare, è stato cruciale per reggere lo shock del Covid-19 e del lockdown. Inoltre, lo sviluppo dei sistemi di pagamento digitali, insieme a piattaforme social conglomerate, hanno permesso anche ai numerosi negozi al dettaglio di accedere alle piattaforme di e-commerce e interfacciarsi con nuovi mercati. Così come accaduto in Cina, molti dei nuovi consumatori digitali provengono dalle zone rurali o poco urbanizzate, e simile è anche la dinamica di attitudine all’unicità, desiderio di confronto con gli altri sui social e forte propensione all’ esperienza di acquisto omnicanale, soprattutto per le giovani generazioni. Il 94% degli internet users del Sud-Est asiatico infine preferiranno comprare online anche dopo la fine della pandemia, una quota impressionante anche rispetto alla Cina (circa il 40%). 

Tra molte somiglianze, c’è però una differenza che rende l’e-commerce ASEAN unico nel suo genere.

Prima del 2020 infatti la maggior parte delle vendite retail avvenivano offline: le economie in via di sviluppo dell’ASEAN sono tradizionalmente ‘comunitarie’, e la componente di contatto fisico giornaliero gioca un ruolo fondamentale e di coesione sociale. In questo senso, il Sud-Est asiatico ha creato un nuovo metodo di fare e-commerce con un’enfasi particolare sul commercio dei cosiddetti beni di prima necessità e tutto quello che ruota attorno ad essi. La spesa online e l’acquisto di cibo a domicilio ad esempio sono cresciuti del 35% fino a toccare i $6 miliardi, il tasso più alto, anche spinto dal desiderio dei consumatori di elevare la qualità dei beni quotidiani acquistati. La chiave, qui, è che gli asiatici sono ora pronti ad acquistare beni di prima necessità online, ma soprattutto e anche beni di alta qualità.

Questi numeri rappresentano un’opportunità irripetibile per l’Italia e il Made in Italy, che, storicamente, ha saputo declinare parole chiave come qualità, ma anche unicità e personalità nella vita di tutti i giorni, attraverso prodotti alimentari o capi di abbigliamento. 

L’e-commerce asiatico è stato la chiave di crescita per le aziende nel 2020, ma il trend sembrerebbe tutt’altro che in declino: sta all’Italia e alle sue aziende sfruttare questo momento, promuovendo un nuovo sistema di export che non solo faciliti un cambiamento degli schemi commerciali tradizionali, ma anche e soprattutto promuova una leadership del Paese nel lungo termine.

In Thailandia mancano i turisti e il baht si deprezza

Non sembra bastare l’intervento pubblico per riscattare l’economia nazionale dalla pandemia

“Una tempesta perfetta sta insidiando il baht thailandese e l’unico gruppo di persone che può salvarlo è bloccato a migliaia di chilometri dalle lounge degli arrivi di Bangkok, Phuket e Chiang Mai”. Così recita l’incipit di un articolo di Bloomberg, che osserva come l’assenza di turisti in Thailandia si sia ben presto tradotta in un deprezzamento della valuta nazionale. Secondo l’autrice, infatti, il baht è attualmente la valuta con le peggiori prestazioni nei mercati emergenti asiatici. Numerosi fattori concorrono a questo ribasso: il disavanzo nella bilancia dei pagamenti, la contestuale ripresa del dollaro e il rimpatrio stagionale dei dividendi da parte di investitori giapponesi. Ma le infauste prospettive sul turismo sono il vero anello debole della ripresa nazionale.

In generale, le economie emergenti del Sud-Est asiatico sono profondamente innestate nelle maglie della globalizzazione, per questo motivo le conseguenze nefaste della crisi da Covid-19 si sono trasmesse velocemente da un Paese all’altro. La regione intera ha fondato la crescita economica degli ultimi decenni su export, attrazione di investimenti diretti esteri e global value chains – ambiti duramente colpiti dalla pandemia. La contrazione del commercio globale ha inciso fortemente sulla stabilità economica dei Paesi dell’area, nonostante l’ASEAN abbia mantenuto tassi di crescita positivi nel 2020. Insomma, il quadro non è dei più rosei: una serie di concause sistemiche affliggono la regione. 

Come sostiene Victoria Kwakwa, Vice Presidentessa della Banca Mondiale per l’Asia orientale e il Pacifico, le performance politico-sanitarie dei Paesi ASEAN sono state tutto sommato lodevoli, ma questo non è abbastanza per quei Paesi che fanno grande affidamento sull’unico settore che non può essere davvero digitalizzato: il turismo. 

L’ASEAN si è impegnato a fare quanto in suo potere per risollevare la situazione. Ha promosso il Development Framework, il Work Plan 2020-2030 e il White Paper per l’implementazione del turismo intra-regionale e internazionale. Ma in Thailandia nel 2019 i servizi legati al turismo avrebbero contribuito al surplus nella bilancia dei pagamenti del 62%, e la situazione è drammaticamente peggiorata da allora. Il deficit del conto corrente registrato nel primo quadrimestre 2021 ha avuto un effetto a catena e ha travolto il baht thailandese, che a marzo è sceso del 3%. Secondo l’economista Prakash Sakpal, esperto di Asia, il disavanzo corrente di $1,7 miliardi nei primi due mesi del 2021 rapportato con l’avanzo di $8,8 miliardi negli stessi mesi del 2020 descrive plasticamente la situazione. La Bank of Thailand aveva sperato che un deprezzamento del baht potesse risollevare l’economia, rendendo più competitive le esportazioni thailandesi e favorendo il turismo. Tuttavia, mentre la gran parte dei Paesi ASEAN ha conosciuto una vigorosa ripresa delle esportazioni dalla metà del 2020, la Thailandia ha mantenuto un trend negativo, declinando del 1,2% su base annua nel febbraio scorso. 

Secondo Forbes, il Paese spera che allentare le restrizioni sul turismo intra-regionale possa incoraggiare le persone a viaggiare di più. Il Center for Economic Situation Administration sta valutando di accogliere visitatori vaccinati senza sottoporli a quarantena per alcune destinazioni, a partire da luglio 2021. Tuttavia, le diverse varianti di Covid-19 potrebbero rallentare ulteriormente la ripresa del turismo, e forse la ripresa per il Paese intero sarà più lenta del previsto. Una rapida distribuzione dei vaccini è cruciale in questo senso, specie per quanto riguarda il turismo internazionale – ecco perché la lentezza dell’Europa, terzo Paese di provenienza dei turisti che visitano la Thailandia dopo Asia orientale e Sud-Est asiatico, non lascia ben sperare.

Il punto della situazione in Myanmar

Il numero delle vittime continua a salire e le sanzioni di UE e USA non bastano a fermare l’escalation di violenza in Myanmar.

Da ormai due mesi il Myanmar è teatro di terribili violenze. Il 1° febbraio le forze armate hanno attuato un colpo di stato, arrestando la leader di fatto Aung San Suu Kyi e i vertici della Lega Nazionale per la Democrazia, partito di maggioranza nel Parlamento, che ha vinto le ultime elezioni nel novembre 2020. Il potere è adesso nelle mani del generale Min Aung Hlaing, mentre Suu Kyi è accusata di brogli e irregolarità. 

L’Assistance Association for Political Prisoners ha dichiarato che, dall’inizio del colpo di stato in Myanmar, almeno 521 civili sono stati uccisi durante le proteste, di cui 141 persone nella sola giornata di sabato 29 marzo, il giorno più tragico finora. La situazione è sempre più grave e l’uso della forza letale contro i civili da parte dell’esercito e delle forze di sicurezza non accenna a fermarsi.

La Giornata nazionale delle Forze Armate è diventata l’ennesimo bagno di sangue con oltre 100 morti, tra cui diversi bambini. L’esercito ha continuato a reprimere le manifestazioni civili a colpi d’arma da fuoco, mentre a Naypyidaw si tenevano le parate militari per commemorare la resistenza contro l’occupazione giapponese durante la Seconda Guerra Mondiale. L’inaudita violenza del “giorno della vergogna” per l’esercito del Myanmar ha infatti scatenato varie reazioni della comunità internazionale. Tom Andrews, relatore speciale ONU per i diritti umani in Myanmar, ha invocato l’urgenza di un summit internazionale, qualora il Consiglio di Sicurezza non potesse agire. Come Stati membri, Russia e Cina potrebbero infatti esercitare il diritto di veto sulle eventuali proposte di intervento volte a ripristinare la democrazia. Entrambe le nazioni erano presenti alla festa delle forze armate, insieme ai rappresentanti militari di Bangladesh, India, Laos, Pakistan, Thailandia e Vietnam; Mosca si è contraddistinta inviando il vice Ministro della Difesa. Tempestiva anche la risposta dei capi di Stato Maggiore della Difesa di 12 Paesi, tra cui l’Italia, che hanno firmato una dichiarazione congiunta per condannare l’uso della forza letale dell’esercito birmano contro persone disarmate, esortando la fine degli attacchi e il rispetto degli standard internazionali di condotta.

Nelle scorse settimane pesanti condanne erano già arrivate dal fronte occidentale. Il 10 febbraio il Presidente Biden aveva annunciato l’imposizione di sanzioni per impedire ai generali birmani di accedere al fondo da loro detenuto negli Stati Uniti, includendo anche il congelamento dei beni USA a beneficio del governo birmano, pur mantenendo il sostegno all’assistenza sanitaria e ai gruppi della società civile. In coordinamento con gli USA, il 22 marzo l’UE ha imposto sanzioni a 11 persone legate al colpo di stato. Il Consiglio d’Europa ha sancito il divieto di viaggio e il congelamento dei beni, unitamente alle precedenti restrizioni relative all’embargo sulle armi e all’esportazione di attrezzature per il monitoraggio delle comunicazioni. Le sanzioni UE hanno colpito il capo della giunta birmana Min Aung Hlain, altri nove alti ufficiali militari e il capo della commissione elettorale. Ciò si configura come l’atto più concreto e ampio dell’Europa nel rimarcare il suo irremovibile sostegno alla transizione democratica del Myanmar. Dopo le orribili violenze dell’ultimo fine settimana, gli USA hanno ha preso in considerazione misure aggiuntive e ordinato la sospensione degli accordi commerciali con il Myanmar, nonché il ritiro del personale non essenziale dell’ambasciata. Le nuove azioni mirano al patrimonio personale della famiglia di Min Aung Hlaing,  incluse le imprese di proprietà statale o delle loro sussidiarie, e conglomerati legati ai militari. 

In relazione all’ambito economico, molti analisti ritengono che la Birmania possa essere in grado di fronteggiare le sanzioni economiche occidentali, dato che la maggior parte degli investimenti  proviene dall’Asia, con Singapore, Cina e Hong Kong in testa. Tuttavia, è atteso un calo significativo degli IDE nei prossimi due anni a causa dei disordini sociali e dell’incertezza politica e dell’impatto delle sanzioni, ma per ora l’impatto sul commercio e sulle esportazioni potrebbe restare contenuto, data la probabile ammortizzazione da altri mercati, in particolare Thailandia e Cina. 

L’ambiziosa transizione tecnologica del Vietnam

Il Vietnam lancia la Strategia nazionale sull’intelligenza artificiale, inaugurando una promettente transizione tecnologica che conferma il suo ruolo di punta tra le economie ASEAN

Il Primo Ministro vietnamita Nguyễn Xuân Phúc ha emanato la Strategia Nazionale su Ricerca, Sviluppo e Applicazione dell’Intelligenza Artificiale (AI) per il 2030. Dopo le straordinarie prestazioni nell’affrontare la crisi sanitaria dovuta alla pandemia, il Vietnam rilancia il suo ruolo nel Sud-Est asiatico, determinato a divenire centro propulsore per l’innovazione e lo sviluppo dell’intelligenza artificiale. Il piano è stato lanciato il 17 marzo 2021 in vista della convocazione dell’Assemblea nazionale – i cui lavori si tengono dal 24 marzo all’8 aprile 2021. L’Assemblea, la prima dopo il 2016, ha l’obiettivo di raccogliere i risultati positivi degli ultimi anni che hanno visto il Vietnam attestarsi tra le economie asiatiche più performanti del 2020, e di rilanciare il programma di sviluppo per i prossimi cinque anni.

La Strategia è infatti in linea con i programmi di modernizzazione annunciati nell’ambito del XIII Congresso del Partito Comunista vietnamita. L’ambizioso programma di sviluppo verrà promosso all’insegna del motto “solidarietà, democrazia, disciplina, creatività e sviluppo”, e la sua implementazione dovrebbe guidare la rotta del Vietnam verso la modernizzazione e la digitalizzazione prefigurate dalla nuova leadership. La promozione del piano Industria 4.0 rientra infatti in un progetto di ampio respiro che coniuga questioni di sviluppo socio-economico e sicurezza ad aspirazioni strategiche di rilevanza globale, oltre che regionale. 

Dal punto di vista della politica interna, l’intelligenza artificiale è considerata, a ragione, una tecnologia chiave per l’aumento della produttività del settore pubblico e per il rafforzamento della sicurezza nazionale. La Strategia si declina perciò in due ordini di obiettivi, quelli di breve termine da implementarsi entro il 2025 e quelli di medio termine per il 2030, anno di celebrazione del centenario del Partito Comunista del Vietnam. La roadmap prevede, tra le altre misure, l’affermazione di 10 marchi e servizi di AI entro il 2030 e la costruzione di tre centri di archiviazione di big data nazionali per uniformare l’accesso di aziende al computing e ad altre prestazioni. Inoltre, nel realizzare questo ambizioso programma, la leadership vietnamita delega a ciascun ministero l’implementazione di varie misure, che spaziano dalle responsabilità tecniche affidate al Ministero della Scienza e della Tecnologia, a quelle riguardanti le risorse umane delegate al Ministero dell’Istruzione e al Ministero dell’Informazione e della Comunicazione: ciascuna articolazione statale trova il proprio posto nella dettagliata Strategia 2030.Quello dell’AI è un settore dall’enorme potenziale per il Vietnam. Secondo la Banca Mondiale, grazie alla sua profonda integrazione con l’economia globalizzata, il Paese ha dimostrato una straordinaria resilienza alle conseguenze economiche del Covid-19, che hanno lasciato in ginocchio molte altre economie internazionali. E’ stato uno dei pochi Paesi a non subire una recessione, avendo vantato un tasso di crescita del PIL che è oscillato tra il 2% e il 3% nel 2020, e per questo è tutt’ora uno dei mercati emergenti più promettenti nel Sud-Est asiatico. Questo rinnovato impegno nel settore dell’intelligenza artificiale conferma il ruolo centrale del Vietnam tra le economie ASEAN, e dimostra come il Paese – la cui leadership ha dato priorità a crescita economica e stabilità –  abbia anche per investitori e imprenditori stranieri un grande potenziale in attesa di essere sviluppato.

Le Filippine, estremo oriente o estremo occidente?

Con l’allentamento delle rigide norme sugli investimenti esteri diretti, il mercato filippino si apre agli investitori stranieri

Le Filippine rappresentano un caso molto particolare nel panorama ASEAN.  L’arcipelago, situato al centro del Mar della Cina, viene geograficamente indicato come “parte dell’Estremo Oriente”. Tuttavia, per la sua storia e le sue origini, sarebbe più opportuno definirlo “Estremo Occidente”. Le Filippine, infatti, oltre a costituire una delle roccaforti contro l’espansionismo cinese nella zona ed una delle basi di sbarramento poste dagli USA nel Pacifico, continuano ad essere una delle più importanti pedine della politica economica occidentale nel Sud-Est asiatico. 

La dicotomia tra Est e Ovest si riflette anche in politica interna. Negli ultimi anni, il Presidente Rodrigo Duterte, ha cercato di aprire sempre di più il mercato interno alle aziende occidentali, spingendo per un allentamento delle rigide regole sugli investimenti diretti esteri (IDE), considerate dall’OCSE, in un rapporto del 2019, tra le più restrittive nel loro genere dell’intero Sud-Est asiatico.

Gli ostacoli agli investimenti esteri nell’arcipelago hanno, infatti, dato vita ad un mercato dominato in diversi settori da grandi conglomerati locali. Ecco perché il Senato filippino è ormai pronto ad adottare, per la fine di maggio, una legislazione che modifica tre leggi – la legge sugli investimenti esteri, la legge sulla liberalizzazione del commercio al dettaglio e la legge sui servizi pubblici – approvate dalla Camera dei rappresentanti del Paese lo scorso anno.

Attualmente, ai sensi della sua Costituzione e delle leggi adottate, le Filippine rimangono un Paese con forti restrizioni agli investimenti stranieri, a cui si aggiungono una serie di limitazioni riguardanti altre aree, come la proprietà privata o il lavoro. A seconda dei settori d’attività, le restrizioni agli investimenti esteri possono essere molto severe, in particolare per aziende con capitale sociale inferiore a 200.000 di dollari. Inoltre, per alcune professioni, l’esercizio di esse da parte di uno straniero è vietato o viene reso molto difficile. Uno straniero o una società con capitale estero non possono possedere più del 40% di un terreno. La quota di corporation che può essere detenuta da stranieri varia in genere dallo 0% al 40%, a seconda del settore in questione, con alcune eccezioni se l’investimento supera determinate soglie. La piena proprietà privata è consentita agli stranieri solo nella vendita al dettaglio, ma vengono imposte pesanti restrizioni sul capitale versato e sugli investimenti, scoraggiandone l’ingresso. Le imprese straniere di solito entrano nel mercato filippino attraverso joint venture con partner locali o catene di franchising, ma spesso emergono le inefficienze del sistema dovute alla mancanza di controllo di gestione e alla maggior protezione di cui godono di solito i concorrenti locali, scoraggiano ulteriormente l’intervento estero. 

Non a caso, secondo la Banca Centrale delle Filippine, gli investimenti diretti esteri netti nel Paese sono scesi a $ 6,5 miliardi nel 2020, segnando il terzo anno consecutivo di calo. Per contrastare il trend, nel giugno 2020, il governo filippino ha annunciato l’approvazione di 12 nuove zone economiche, che saranno gestite dalla Philippine Economic Zones Authority, la più grande Agenzia di investimento del Paese che ha l’incarico di assistere gli investitori stranieri e facilitare le loro operazioni commerciali nel Paese, con il potere di concedere incentivi fiscali e non fiscali. Tuttavia, ai sensi del Corporate Recovery and Tax Incentives for Enterprises Act (CREAT), considerato il più grande programma di stimolo fiscale nella storia del Paese, il Governo ridurrà immediatamente l’aliquota dell’imposta sul reddito delle società dal 30% al 25% e gli incentivi (come le agevolazioni fiscali, il supporto logistico e procedure doganali facilitate) saranno decisi dal Presidente su consiglio del Fiscal Incentives Review Board. Aprire il mercato filippino agli investitori stranieri e ridurre i vincoli burocratici legati al business sono dunque tra le maggiori priorità del governo Duterte. Un traguardo che appare ormai vicino, dopo i falliti tentativi delle precedenti amministrazioni e che sposterà l’asse delle Filippine ancora più verso l’Occidente.

ENRICO LETTA LASCIA IL TESTIMONE A ROMANO PRODI: cambio di Presidenza all’Associazione Italia-ASEAN

COMUNICATO STAMPA

Il Prof. Romano Prodi sostituisce Enrico Letta alla presidenza dell’Associazione Italia-ASEAN. L’ex Presidente della Commissione europea ha accettato l’invito del neosegretario del Partito Democratico a guidare l’associazione da lui fondata nel 2015 per favorire e stimolare le relazioni tra l’Italia e i 10 paesi del Sudest asiatico, nel quadro delle relazioni tra Unione Europea e ASEAN.

Nel suo commiato, il presidente uscente Enrico Letta ha sottolineato che “in questi sei anni di attività, il livello di relazioni politiche ed economiche è cresciuto grazie al lavoro dell’associazione, che si è sviluppato dalle intuizioni di Francesco Merloni – alla guida di uno dei primi gruppi industriali italiani a guardare all’Asia sudorientale – e del Presidente della Repubblica Mattarella, primo capo di stato europeo a visitare il Segretario Generale dell’ASEAN”.

Enrico Letta nel motivare la scelta di Romano Prodi – con esperienze di governo italiane ed europee – ha ringraziato i vice presidenti Romeo Orlandi e Michelangelo Pipan, il tesoriere Oliver Galea, il direttore Valerio Bordonaro e la Segretario Generale Alessia Mosca, che assumerà la carica di Vice Presidente esecutivo.

Il professor Prodi ha accettato con entusiasmo spingendo sulla necessità dell’Italia di rafforzare quelle strutture che si occupano di creare relazioni internazionali economiche e politiche che siano di sistema, informali e profonde.

Il Vicepresidente Pipan conversa con l’Inviata Speciale ONU in Myanmar

In data 26 marzo 2021, il Vicepresidente esecutivo dell’Associazione Italia-ASEAN, Ambasciatore Michelangelo Pipan ha svolto una conversazione con l’Ambasciatrice Christine Schraner Burgener, Inviata speciale delle Nazioni Unite in Myanmar, sugli sviluppi del recente colpo di Stato birmano. Durante la discussione, sono stati toccati diversi temi quali l’impatto del golpe sulla società civile, la reazione della comunità internazionale, l’impatto sulla popolazione di eventuali sanzioni e il futuro degli investimenti esteri nel Paese.

VEDI SUBITO LA CONVERSAZIONE INTEGRALE



Richiamando gli spiacevoli accadimenti del 2018 con il genocidio dei Rohingya, il Vicepresidente Pipan ha posto l’accento su come il recente colpo di Stato rappresenti il culmine di una situazione di instabilità politica, notevolmente alimentata nel corso degli anni. I recenti sviluppi in Myanmar, infatti, riportano dati allarmanti ed è stato chiesto all’Ambasciatrice Schraner Burgener, Inviata speciale delle Nazioni Unite in Myanmar, un parere sull’impatto che l’attuale situazione politica avrà sulla popolazione. In tal senso, l’Ambasciatrice ha sottolineato come l’avvento al governo delle forze armate, i Tatmadaw, abbia rallentato drasticamente il processo di democratizzazione nel Paese e nonostante essi abbiano previsto la realizzazione di una roadmap istituzionale prima di svolgere nuove elezioni, il percorso non sarà affatto semplice. Le forze armate intendono, in primo luogo, procedere all’identificazione e all’arresto dei soggetti legati al governo democraticamente eletto lo scorso novembre e, in secondo luogo, dimostrarne l’illegittimità. In questo contesto, la popolazione è impossibilitata a lavorare e la chiusura delle banche ostacola i cittadini nel poter gestire i propri risparmi, incentivando spostamenti e migrazioni e mettendo a rischio la delicata situazione sanitaria nella regione.

In riferimento a quanto detto, il Vicepresidente Pipan ha rivolto una domanda sulla reazione da parte della comunità internazionale, interrogandosi, inoltre, sulla possibilità di un eventuale rallentamento delle proteste da parte della società civile, come nel caso della Thailandia, che ha assistito a diverse manifestazioni durante lo scorso anno, rallentate poi verso la fine del 2020. Per quanto concerne il primo quesito, l’Amb. Schraner Burgener ha analizzato la reazione delle grandi super potenze, Stati Uniti e Cina, che hanno condannato i recenti sviluppi, invitando tramite dichiarazioni ufficiali a un ritorno allo status quo. In relazione al secondo punto, l’Ambasciatrice ha espresso ottimismo e fiducia sul futuro delle relazioni tra la popolazione locale e le minoranze etniche. In seguito all’esperienza dei Rohingya, infatti, la popolazione birmana ha mostrato maggiore vicinanza e comprensione nei confronti del variegato tessuto etnico del Paese, creando relazioni più solide con altri gruppi armati etnici. Il contesto attuale ha, quindi, promosso un dialogo più aperto sull’adozione di una strategia comune.

Un ulteriore punto di discussione è stato fornito ponendo l’accento sul ruolo assunto dall’ASEAN durante l’attuale emergenza in Myanmar. In tal senso, l’Amb. Schraner Burgerner ha confermato come l’Association stia reagendo in modo inedito rispetto agli schemi del passato, maggiormente improntati invece sul principio di non-interferenza. È stato, infatti, menzionato l’appello fatto dal Presidente indonesiano Joko Widodo a svolgere un vertice dedicato alla risoluzione della crisi in Myanmar e parallelamente sono stati elogiati lo spirito d’iniziativa da parte dei Ministri degli Affari Esteri di alcuni Paesi Membri, quali Indonesia e Singapore. Nonostante, infatti, alcuni Paesi ASEAN siano ancora restii alla possibilità di interferire direttamente a livello istituzionale, come nel caso del Laos e della Thailandia, c’è un forte interesse a mantenere la stabilità socioeconomica, nonché politica, della regione e ad interessarsi direttamente alla grave fase storica vissuta dal Myanmar.

L’ultima domanda del Vicepresidente Pipan, infine, ha evidenziato il ruolo delle sanzioni nella risoluzione delle crisi internazionali e come queste possano impattare l’afflusso di investimenti esteri nel Paese. In tal senso, l’Amb. Schraner Burgener ha osservato che il tipo di sanzioni da applicare dovranno essere mirate e volte ad intaccare i mezzi di sostentamento delle forze armate. La stessa popolazione locale, stando alle parole dell’Inviata speciale, fa appello alla comunità internazionale, richiedendo che i Tatmadaw vengano isolati e privati dei mezzi finanziari dei conglomerati dell’industria mineraria e del settore alberghiero (Myanma Economic Holdings Limited e Myanmar Economic Corporation). L’Amb. Schraner Burgener ha evidenziato, infatti, la necessità di imporre sanzioni che non abbiano ricadute gravi sulla società e che possano promuovere il ritorno in carica del precedente governo di Aung San Suu Kyi. Per quanto concerne, infine, il futuro del commercio, l’Inviata Speciale delle Nazioni Unite auspica un aumento degli investimenti nel Paese, soprattutto per progetti rivolti al potenziamento delle infrastrutture, che si pongano come obiettivo primario il netto miglioramento delle condizioni sociali dei cittadini birmani.

 

L’Indonesia apre agli investimenti esteri

L’Indonesia cambia rotta e apre agli investimenti esteri, nell’ambito delle riforme previste dall’attuazione dell’Omnibus Law

Il 4 marzo 2021 è entrato in vigore il  Decreto Presidenziale 10/2021, anche soprannominato “Lista degli Investimenti Positivi”, che delinea i settori economici aperti agli investimenti. Questo regolamento fa parte dell’attuazione della cosiddetta “Legge Omnibus”, il più grande piano di riforme economiche mai lanciato in Indonesia e sostituisce il Decreto Presidenziale n. 36/2010, che elencava i settori chiusi agli investimenti e quelli aperti a specifiche condizioni. 

Approvata il 5 ottobre 2020, la discussa Omnibus Law (UU 11/2020 Cipta Kerja) mira principalmente a creare nuovi posti di lavoro, incoraggiare gli investimenti nazionali ed esteri, e stimolare l’economia attraverso la semplificazione dei processi  burocratici e la velocizzazione delle decisioni politiche. Tuttavia, forti condanne sono giunte dai sindacati e dalle associazioni per i diritti dei lavoratori, che hanno organizzato massicce proteste per tutto il mese di ottobre, dichiarandosi contrari alla legge per i danni causati ai salari, alla sicurezza del lavoro e all’ambiente, con ulteriore centralizzazione del potere a Jakarta. 

La nuova lista di investimenti ha ridotto in modo significativo il numero di settori completamente chiusi a qualsiasi forma di investimento (estero o locale) e quelli che sono totalmente chiusi o parzialmente aperti a investimenti esteri. Ciò si allinea agli sforzi del governo per contrastare l’impatto della pandemia di Covid-19, incoraggiando l’arrivo di maggiori IDE in Indonesia. Il decreto rappresenta infatti una delle maggiori liberalizzazioni del capitale estero: prima dell’introduzione della Omnibus Law, il Paese non disponeva di un sistema completo per incentivare gli investimenti.

Importanti settori, quali telecomunicazioni, trasporto, energia, distribuzione e servizi edili, che subivano in precedenza forti restrizioni, sono stati aperti agli investimenti esteri e incoraggiati con sgravi fiscali, come la riduzione dell’imposta sul reddito delle società. Ulteriori incentivi comprendono la fornitura di infrastrutture di supporto alle aziende estere, nonché di energia e materie prime, insieme alla semplificazione delle procedure per la concessione di licenze commerciali. Inoltre, gli investimenti esteri nei settori delle start-up tecnologiche nelle Zone Economiche Speciali sono esentati dalla soglia minima di investimento di 10 miliardi di rupie.

I settori economici sono stati suddivisi in 4 categorie principali, ponendo grande enfasi sulla categoria dei settori prioritari, in cui sono state delineate 245 aree di business ora aperte agli investimenti esteri. I settori prioritari includono inoltre alcune industrie strategiche per lo sviluppo economico del Paese, tra cui la lavorazione e la raffinazione del nichel, materiale chiave nelle batterie dei veicoli elettrici. L’Indonesia, sede delle più grandi riserve di nichel del mondo, intende infatti diventare un hub di produzione di batterie per veicoli elettrici, creando una catena di approvvigionamento completa del nichel, dall’estrazione di materie prime alla produzione delle batterie stesse. Tesla ha recentemente avanzato la sua proposta di investimento per aiutare lo sviluppo degli ambiziosi piani indonesiani in questa direzione. 

L’Indonesia lancia quindi un forte messaggio alla comunità economica internazionale, mettendo nero su bianco l’elenco delle nuove opportunità di business. L’apertura agli investimenti esteri sancisce un approccio nuovo e prezioso per il futuro del Paese.

Donne e sostenibilità: un binomio vincente per lo sviluppo

Donne e sostenibilità sono elementi correlati: osservare lo sviluppo del Sud-Est asiatico adottando una prospettiva di genere favorirà la ripresa economica post-pandemica 

L’uguaglianza di genere e il cambiamento climatico sono problematiche endemiche nel Sud-Est asiatico e la pandemia di Covid-19 le ha rese ancor più urgenti. La buona notizia è che l’ASEAN non è sola: l’impegno internazionale sancito dall’Agenda ONU 2030 sistematizza infatti le sfide globali che ci attendono. Tuttavia, le specificità locali giocano un ruolo fondamentale, il Sud-Est asiatico è una delle regioni più colpite dal cambiamento climatico e questo incide sulla marginalizzazione di alcuni gruppi sociali quali persone indigenti e donne – categorie che spesso coincidono

L’ASEAN Gender Outlook pubblicato lo scorso febbraio, encomia gli sforzi compiuti sinora in tema di gender equality, ma sottolinea anche come le conseguenze economiche del Covid-19 possano compromettere questi risultati. Le donne e le ragazze del Sud-Est asiatico sono infatti le categorie le più colpite dalla crisi dovuta alla pandemia. Le discriminazioni sistemiche, storicamente radicate in alcune pratiche culturali e aggravate da altri fattori – come imperativi di crescita economica insostenibili – sono molto influenti sulla condizione femminile di questi Paesi. La diseguaglianza è infatti una questione multidimensionale, per questo è necessario che i governi adottino uno sguardo d’insieme in grado di coglierne la complessità. 

Date le specificità della regione, donne e sostenibilità sono concetti chiave per lo sviluppo. Secondo il rapporto FAO Rural women and girls 25 years after Beijing, il 39% delle donne che vivono in zone rurali è impegnato nel settore agricolo. Come abbiamo già osservato in un precedente articolo il cambiamento climatico colpisce con particolare veemenza i Paesi del Sud-Est asiatico, infierendo duramente sull’agricoltura – settore di punta delle economie regionali. A ciò si aggiunge una progressiva urbanizzazione guidata dalle nuove opportunità di lavoro offerte dallo sviluppo industriale degli ultimi decenni, che ha comportato lo spostamento di gran parte della forza lavoro maschile verso le città, e dunque una conseguente ‘femminilizzazione’ del lavoro agricolo nelle aree rurali. 

Questo scenario descrive plasticamente come le donne impegnate nel settore siano anche i soggetti più esposti agli effetti nefasti del cambiamento climatico. Il quadro si aggrava se consideriamo che a questa crescente presenza delle donne in agricoltura non corrisponde un’analoga ‘femminilizzazione’ della terra e del decision-making. L’85% dei diritti di proprietà sui terreni agricoli appartiene a uomini, ai quali effettivamente spetta l’ultima parola. L’ASEAN Gender Outlook stima che il 24% dei terreni nei Paesi ASEAN siano oggi meno fertili che in passato, e che le donne siano costrette a subire il degrado ambientale senza poter fare nulla, dal momento che non gli è concesso di prendere decisioni circa l’abuso di pesticidi e l’impiego di monocolture.

Adottare una prospettiva di genere nel Sud-Est asiatico significa pertanto includere istanze marginalizzate di vario tipo: dall’attenzione al degrado ambientale allo sviluppo agricolo, dalla crescita economica alla giustizia sociale. In conclusione, tenere conto del binomio donne-sostenibilità può favorire lo sviluppo dell’ASEAN nella fase post-pandemica.

Myanmar: sanzioni UE per il colpo di Stato militare

COMUNICATO STAMPA DEL CONSIGLIO DELL’UNIONE EUROPEA

Oggi il Consiglio ha imposto misure restrittive nei confronti di undici persone responsabili del colpo di Stato militare perpetrato in Myanmar/Birmania il 1° febbraio 2021 e della successiva repressione militare e di polizia contro manifestanti pacifici.

Dieci delle undici persone interessate sono ufficiali del più alto rango delle forze armate del Myanmar/Birmania (Tatmadaw), tra cui il comandante in capo Min Aung Hlaing e il vicecomandante in capo Soe Win. L’undicesima è il nuovo presidente della commissione elettorale dell’Unione, in ragione del ruolo che ha svolto nell’annullamento dei risultati delle elezioni del 2020 in Myanmar/Birmania.

Multilateralismo, digitalizzazione e sostenibilità

L’agenda della nuova strategia UE per il commercio internazionale

Il 18 Febbraio 2021 la Commissione Europea ha pubblicato le linee guida della sua nuova “Strategia per il commercio internazionale”, che determinerà l’approccio dell’Unione verso il commercio con i Paesi terzi negli anni a venire.

Dal documento appare chiaro che la parola d’ordine sarà “autonomia strategica e aperta”. Aperta ad una ripresa economica dalla pandemia di COVID-19, che sia guidata dalla trasformazione green e digitale. Ma aperta anche ad un rinnovato multilateralismo, e soprattutto ad una sostanziale riforma dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC).

La transizione verso un’economia più ecosostenibile è probabilmente la sfida principale. Gli obiettivi posti dal Green Deal europeo, l’insieme di iniziative politiche proposte dalla Commissione per raggiungere la neutralità climatica in Europa entro il 2050, sono ambiziosi, numerosi, e urgenti. Per questo motivo, uno dei primi traguardi da raggiungere attraverso la nuova Strategia sarà quello di rafforzare le clausole di salvaguardia dell’ambiente, già presenti negli accordi di libero scambio che l’UE stringe con i Paesi terzi. Il rispetto di queste clausole sarà monitorato con estrema attenzione, e verrà inasprita la lotta contro il commercio illegale per garantire la protezione dei cittadini, dei lavoratori, e dei coltivatori.

La seconda sfida è quella della rivoluzione digitale. L’UE si è posta come obiettivo l’attuazione di nuove linee guida per il commercio digitale, ovvero quella tipologia di commercio in beni e servizi che viene realizzato ogni giorno attraverso mezzi elettronici. Secondo stime della Commissione Europea, nel 2018 più del 60% del PIL mondiale era rappresentato dalle transazioni digitali, cifre che sono cresciute in maniera esponenziale durante l’epidemia di COVID-19. Tuttavia, la Commissione intende mostrarsi fortemente contraria a quei Paesi che impongono misure sempre più discriminatorie per promuovere la propria competitività digitale a discapito degli altri. Nella nuova Strategia, l’UE spinge verso un maggiore flusso di informazioni digitali tra Paesi, ma nel rispetto delle regole comunitarie sulla protezione dei dati personali. Una delle finalità più ambiziose è quella di vietare la richiesta della localizzazione da app e siti web quando queste non siano strettamente necessarie, in linea con il quadro giuridico dell’UE sulla protezione dei dati personali.

La riforma dell’OMC è indispensabile per raggiungere questi obiettivi. La Strategia della Commissione, infatti, sottolinea il bisogno di inserire delle clausole sulla salvaguardia dell’ambiente non solo nei suoi accordi di libero scambio, ma anche nelle regole generali per tutti i Paesi che vogliano continuare a scambiare merci, beni e servizi in tutto il mondo.

L’OMC, con la nomina della nuova Direttrice Generale Ngozi Okonjo-Iweala lo scorso 1° marzo, ha superato una difficile situazione di stallo riguardante le nomine per l’organo di appello che durava da oltre tre anni, a causa del blocco alle nomine voluto dall’Amministrazione Trump. L’economista nigeriana, prima donna e prima rappresentante africana a ricoprire l’incarico di Direttore Generale, ha ricevuto rinnovato sostegno sia dell’UE sia della Casa Bianca con la nuova Amministrazione Biden. In molti sperano che lei sia la “donna giusta al momento giusto” per porre fine alla disputa commerciale e al crescente protezionismo tra l’Unione e gli Stati Uniti. Ma anche per risolvere la guerra commerciale in atto tra Cina e USA, da quando questi ultimi hanno imposto tariffe “incompatibili” con le norme internazionali ai prodotti cinesi nel 2018. Coadiuvata dalla nuova amministrazione, l’UE si augura di esportare il suo modello di transizione green e digitale anche nell’OMC.

L’obiettivo di porre la propria autonomia strategica al centro, verso un’Unione che da sola è in grado di raggiungere i suoi obiettivi e perseguire la sua agenda globale su multilateralismo, digitalizzazione e cambiamento climatico, è senza dubbio lodevole. È impossibile non notare, tuttavia, la mancanza di una strategia per il giusto rilancio dei rapporti con l’area ASEAN e dell’Asia Pacifico. In modo particolare, le Tigri asiatiche brillano da tempo per i successi raggiunti nello sviluppo digitale e fanno parte di quei Paesi più interessati alla lotta contro il cambiamento climatico, data la loro posizione geografica particolarmente soggetta ai disastri ambientali. L’Europa sta già iniziando a dare maggiore centralità all’Indo Pacifico, ne sono un esempio i vari trattati di libero scambio con Giappone, Vietnam, Singapore e le trattative con Australia, Indonesia e Malesia, oltre alla “Strategia per l’Indopacifico” in corso di sviluppo da parte della Commissione Europea. Tuttavia, un maggiore focus verso quest’area del mondo dal punto di vista commerciale resta cruciale per dare una svolta importante alla nuova strategia europea e rafforzare la posizione dell’UE nell’arena globale.   

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