L’anno del Laos

Come se la sta cavando Vientiane in questi primi mesi da Presidente di turno dell’ASEAN, in attesa del summit in autunno?

Francesco Mattogno

C’è stato un momento, verso fine aprile, nel quale in Laos mancavano contemporaneamente il Presidente e il Primo Ministro. Sembra strano per un Paese che ha la fama di essere “land-locked”, cioè “intrappolato dalla terra”, in quanto unico stato del Sud-Est asiatico a non avere sbocco sul mare. Una condizione che, secondo alcune teorie, renderebbe Vientiane per sua natura meno interessata o toccata dalle questioni internazionali. 

Il 23 aprile, mentre il Presidente Thongloun Sisoulith incontrava a Phnom Penh il Premier cambogiano Hun Manet e il re Norodom Sihamoni, il primo ministro Sonexay Siphandone presenziava all’ASEAN Future Forum, organizzato ad Hanoi. Parlando con l’omologo vietnamita Pham Minh Chinh, Siphandone ha rinnovato l’impegno del Laos a rafforzare la cooperazione con il Vietnam in vari settori, dalla difesa al commercio, passando per infrastrutture, energia, turismo. Il tutto mentre Sisoulith dava il suo sostegno al canale Funan Techo che la Cambogia ha intenzione di far partire dal fiume Mekong, con annesse proteste vietnamite.

Si è trattato di un atto di equilibrismo interessante, che dimostra una certa capacità di iniziativa diplomatica da parte laotiana. Negli ultimi mesi Vientiane si è inserita più spesso del solito negli affari regionali e internazionali, complice il suo ruolo da presidente dell’ASEAN. La presidenza dell’Associazione delle Nazioni del Sud-Est asiatico (ASEAN) è un carica annuale, assegnata a rotazione ai dieci paesi membri del blocco in ordine alfabetico, secondo la lingua inglese. E il 2024 è l’anno del Laos, che presiede l’associazione per la terza volta nella sua storia (dopo il 2004 e il 2016).

Come da tre anni a questa parte, il Laos ha ereditato dal suo predecessore (l’Indonesia) una serie di dossier spinosi lasciati in sospeso. Dalla guerra civile in Myanmar, sulla quale il gruppo non è mai stato in grado di incidere, alle dispute territoriali sul Mar cinese meridionale tra la Cina e cinque Paesi ASEAN (Filippine, Malaysia, Vietnam, Brunei e Indonesia). Questioni a cui si sommano le tensioni tra Pechino e Washington e i conflitti (Ucraina, Gaza) che minacciano di mutare l’ordine internazionale sul quale si è fondata per decenni la crescita economica del Sud-Est asiatico.

Viste le criticità, in questi primi mesi Vientiane ha cercato di promuovere la centralità dell’ASEAN più sul piano economico, che politico. Il Laos è un Paese con un enorme debito pubblico (125% del PIL nel 2023) che nell’ultimo biennio ha seriamente rischiato il default, e che per questo sta usando l’associazione come una rampa di lancio per risollevare lo stato delle finanze statali. Non a caso, nella sua agenda da presidente ASEAN il governo laotiano ha deciso di dare priorità a temi come l’integrazione economica tra i Paesi del blocco, la digitalizzazione, il turismo e la crescita economica sostenibile.

In tutti gli incontri, dalle ministeriali ai vertici con Paesi partner come Australia e Nuova Zelanda, si è parlato di commercio, investimenti e progetti infrastrutturali, senza mai toccare con decisione temi sensibili come la guerra in Myanmar (si è richiesta più volte una generica cessazione delle ostilità) o il Mar cinese meridionale. Quest’ultimo, per esempio, è stato a malapena accennato anche durante l’incontro di inizio aprile tra il Ministro degli Esteri laotiano Saleumxay Kommasith e la controparte cinese Wang Yi, nonostante i due si siano parlati durante uno dei momenti di maggiore tensione nell’area tra Cina e Filippine.

La forte dipendenza economica da Pechino (che detiene metà del debito estero laotiano), a cui si sommano i rapporti ambigui tra il governo del Partito Rivoluzionario del Popolo Lao e la giunta militare birmana, rendevano complicato pensare che il Laos potesse riuscire a incidere davvero sulle principali questioni internazionali laddove Paesi molto più influenti hanno fallito, come l’Indonesia.

Nonostante questo, Vientiane non è rimasta del tutto immobile, soprattutto sul fronte birmano. L’inviato speciale ASEAN per il Myanmar nominato dal Laos a inizio anno, Alounkeo Kittikhoun, ha incontrato immediatamente il leader della giunta militare birmana Min Aung Hlaing (senza però riuscire a parlare con gli oppositori del regime), e Naypyitaw ha mandato per la prima volta dal 2021 un proprio rappresentante non politico a un incontro ASEAN. Quest’ultimo punto è positivo perché rappresenta un passo indietro del regime, che aveva sempre preteso di essere rappresentato da un membro del governo, e sarebbe dovuto proprio ai buoni rapporti tra i due Paesi. Resta da capire se nei prossimi mesi il governo laotiano potrà – e vorrà – fare di più.

L’Indonesia di Prabowo e le sfide della sicurezza regionale

L’approccio di politica estera del nuovo Presidente indonesiano contribuirà a determinare gli equilibri della regione

Di Alessia Caruso

A febbraio del 2024, il Ministro della Difesa indonesiano Prabowo Subianto ha vinto le elezioni presidenziali della più grande democrazia del Sud-Est asiatico. Assumerà formalmente l’incarico da ottobre, prendendo il posto del più volte rivale Joko Widodo. 

La presidenza di Prabowo si apre in un contesto di crescenti tensioni regionali, ponendolo di fronte a una sfida significativa nel posizionamento all’interno dello scacchiere politico. A 72 anni, il neo-eletto Presidente dovrà navigare con abilità in questo panorama geopolitico complesso. Sarà cruciale comprendere quale approccio di politica estera adotterà Prabowo. Le sue decisioni avranno, infatti, inevitabili ripercussioni sul ruolo e sull’equilibrio di potere all’interno dell’ASEAN. 

Negli ultimi anni, la tensione nell’area del Mar Cinese Meridionale è in drastico aumento. Secondo i dati disponibili, negli ultimi anni la spesa militare complessiva dei Paesi della regione è cresciuta del 6,2%, riflettendo la volontà di questi Stati di rafforzare la loro presenza e capacità di proiezione nella zona. Parallelamente, si è assistito ad un’intensificazione delle alleanze strategiche regionali. In particolare, gli Stati Uniti sono diventati sempre più attivamente impegnati, rafforzando i legami politici e militari con alleati come Giappone e Filippine. La combinazione di scontri, gli aumenti della spesa per la difesa e alleanze nella regione evidenzia come il Mar Cinese Meridionale sia diventato uno dei principali teatri di competizione geopolitica tra le grandi potenze nell’Indo-Pacifico. 

In qualità di Paese più popoloso e democrazia più grande del sud-est asiatico, l’Indonesia riveste un ruolo di primaria importanza nel complesso contesto geopolitico del Mar Cinese Meridionale. Mentre la tensione e i conflitti nell’area continuano a inasprirsi, gli occhi sono puntati sull’approccio che l’amministrazione del Presidente Prabowo adotterà per affrontare il contesto regionale sempre più teso.

Già durante il mandato di Widodo, la linea dell’Indonesia nei confronti della Cina è evoluta notevolmente, passando da un atteggiamento proattivo volto a promuovere la pace regionale, a un approccio passivo e non antagonistico, pur mantenendo ferma la difesa dei confini nazionali nell’area delle isole Natuna, territorio indonesiano rivendicato dalla Cina all’interno della sua controversa “Dash line”. Con Widodo, l’interesse a riscattare un ruolo nella bilancia di potere regionale, ha fatto spazio alla volontà di sviluppo delle infrastrutture locali, finanziate in larga parte dalla Cina.

Sebbene sia ancora presto per definire le modalità con cui Prabowo si proporrà nello scenario internazionale, una chiara indicazione è stata data dalla sua visita in Cina, dal 31 marzo al 2 aprile, su invito personale del Presidente Xi Jinping. In questa occasione il Presidente della Repubblica Popolare ha esaltato l’andamento delle relazioni bilaterali fra i due Stati, mentre Prabowo ha rinnovato il suo intento di perseguire la linea cooperativa di Widodo. L’intento è quello di rafforzare i rapporti economici, commerciali e di contrasto della povertà. Si tratta del primo viaggio di Prabowo da Presidente eletto, che decide così di definire fin da subito le priorità del suo mandato. In questa decisione si riflette l’andamento del legame economico costruito negli ultimi decenni fra le due potenze. La Repubblica Popolare è diventata il principale trading partner dell’Indonesia, rappresentando il 40% del suo export e il 55% del suo import, creando in questo modo un indubbio legame di dipendenza economica. La visita testimonia quindi l’importanza che Prabowo intende attribuire alla dimensione domestica ed economica all’interno della sua agenda, continuando la politica di acquiescenza del predecessore. La relazioni instauratasi fra i due Stati sembra a tutti gli effetti un accordo di mutuo scambio, tale per cui l’Indonesia assicura i propri interessi economici, mentre la Cina si assicura il tacito consenso della nazione più popolosa del Mar Cinese Meridionale, in un contesto in cui i rapporti bilaterali diventano sempre più determinanti. Nel descrivere i suoi rapporti di sicurezza e difesa con la Cina, Prabowo descrive la Repubblica Popolare come partner chiave nel garantire stabilità e pace alla regione. Così facendo, il generale indonesiano sembra ben disposto a cedere alla Cina il controllo della linea di sicurezza e difesa regionale, abdicando consapevolmente alla condanna delle scorrerie militari nelle acque territoriali di altri stati membri dell’ASEAN. Tuttavia, il rischio di questa strategia di passivismo securitario è quello che l’Indonesia abidichi del tutto al ruolo politico che le spetterebbe all’interno dell’equilibrio di forze della regione. Ruolo che prima della Presidenza di Widodo, l’Indonesia era ampiamente impegnata a riscattare. 

Importanti sono le implicazioni per la tenuta dell’ASEAN. Il rischio è infatti che l’incapacità, così come la mancanza di volontà, di prendere una posizione all’interno del dibattito regionale, contribuisca alla frammentazione della volontà politica, con il conseguente risultato che la regione diventi sempre più terreno di gioco per la rivalità fra Stati Uniti e Cina. L’assenza di posizionamento strategico della principale democrazia dell’ASEAN, in un contesto teso come quello del Mar Cinese Meridionale, rappresenta di per sé una presa di posizione a favore di una frammentazione sempre crescente.

In conclusione, il modo in cui il nuovo Presidente indonesiano saprà bilanciare gli interessi domestici, regionali e globali sarà cruciale per definire il futuro posizionamento dell’Indonesia nello scacchiere asiatico e le conseguenti ripercussioni sulla coesione dell’ASEAN.

“Eviteremo conflitti e blocchi commerciali”

Pubblichiamo qui stralci degli interventi del Dr. Ng Eng Hen, ministro della Difesa di Singapore, allo Shangri-La Dialogue

Dobbiamo e possiamo evitare un conflitto fisico in Asia. Né noi nel mondo potremmo sopportare un altro choc geopolitico dopo la guerra in Ucraina e quanto sta accadendo in Medio Oriente. E mi sento di poter dire che uno degli stati d’animo prevalenti tra i ministri e i funzionari presenti al dialogo di quest’anno, rispetto a quello dell’anno scorso, è che ciò che è accaduto in Europa e in Medio Oriente “non deve accadere in Asia”. Stiamo imparando lezioni importanti da compiere o non compiere osservando quanto accade. (…) Direi che si è rafforzata la determinazione affinché il conflitto non debba verificarsi in Asia. Stati Uniti e Cina sono attori predominanti e il loro rapporto influenzerà il futuro dell’Asia-Pacifico. Dallo Shangri-La Dialogue dell’anno scorso, ci sono stati segnali positivi. Joe Biden e Lloyd Austin hanno chiarito che gli Usa vogliono la competizione ma non un conflitto. E in questi giorni il Segretario della Difesa ha sottolineato che una guerra non è né imminente né inevitabile. Xi Jinping ha garantito che non vuole sfidare il ruolo degli Stati Uniti e che non vuole una nuova guerra fredda. (…) Ma in questo flusso di eventi che vede anche segnali di scontri commerciali, è importante aumentare il dialogo ai massimi livelli. Commercio e sicurezza sono due facce della stessa medaglia. L’architettura di sicurezza regionale lascia credere ai Paesi che hanno bisogno di nuove iniziative di deterrenza, ma non bisogna dimenticare del ruolo fondamentale delle rassicurazioni. Nonostante la loro rivalità strategica, sia gli Stati Uniti che la Cina sono fondamentali per l’economia globale, da cui tutti dipendono. (…) Washington e Pechino non hanno bisogno di una terza parte che medi tra loro e dubito anche che una terza parte possa aiutarli. Devono e possono affrontare la questione da soli. Noi, inteso come Singapore e come ASEAN, possiamo favorire l’aumento della cooperazione tra i vari attori regionali e internazionali. Siamo come gli hobbit ne “Il Signore degli Anelli”: l’ASEAN dovrebbe tenere l’anello perché le grandi potenze lo bramano troppo. Noi siamo votati alla neutralità e alla prosperità. Anche se ogni tanto abbiamo delle dispute tra di noi, le risolviamo in modo pacifico. Si guardi agli accordi tra Malesia, Indonesia e Vietnam sul Mar Cinese Meridionale. (…) Il nostro approccio è quello di convincere le potenze, siano esse grandi, medie o di altro tipo, che è nel loro interesse collettivo avere un sistema che protegga i diritti delle potenze grandi e piccole. Un sistema inclusivo per evitare alleanze militari e blocchi commerciali.

ASEAN e Giappone uniti per la sostenibilità

I Paesi del Sud-Est asiatico rafforzano la cooperazione in materia di ambiente e innovazione tecnologica. Uno sviluppo molto importante

Di Walter Minutella

In un mondo che evolve rapidamente verso la sostenibilità e la sofisticazione tecnologica, l’ASEAN e il Giappone hanno intrapreso numerose iniziative collaborative mirate a promuovere la crescita economica, la sostenibilità ambientale e l’innovazione tecnologica. 

Durante una significativa visita a Hekinan City, nella Prefettura di Aichi, in Giappone, Dr. Kao Kim Hourn, Segretario Generale dell’ASEAN, ha esplorato la Centrale Termoelettrica di Hekinan e il sito di costruzione del Combustibile Termico a Base di Ammoniaca gestito dalla Japan’s Energy for a New Era, Inc. (JERA). Accompagnato dal Presidente e Direttore di JERA, Hisahide Okuda, Dr. Kao ha osservato da vicino i progetti innovativi della struttura, che includono una dimostrazione pionieristica mirata a raggiungere zero emissioni di carbonio attraverso la co-combustione di carbone e ammoniaca. Questa tecnologia potrebbe rendere la centrale di Hekinan la prima al mondo su larga scala a utilizzare questa soluzione, segnando un passo significativo verso la neutralità carbonica.

L’impegno dell’ASEAN a collaborare con il Giappone in tali iniziative verdi sottolinea una visione condivisa per un futuro sostenibile. Diversificare le fonti di energia per includere l’ammoniaca e l’idrogeno è un componente critico di questa strategia, riflettendo un sforzo concertato per ridurre le impronte di carbonio garantendo al contempo forniture elettriche stabili a regioni come Chubu e oltre.

La strategia proposta da Giappone e ASEAN si concentra su diverse aree chiave per rafforzare la loro competitività nel mercato dei veicoli elettrici. Innanzitutto, un impegno significativo viene dedicato alla formazione del personale, con il Giappone che intende stanziare 140 miliardi di yen (circa 900 milioni di dollari) per migliorare le competenze tecniche dei lavoratori nelle tecnologie digitali presso fabbriche e fornitori di componenti. Questo investimento mira a potenziare l’efficienza e la qualità della forza lavoro, contribuendo alla sostenibilità della produzione.

Un’altra area fondamentale della strategia è la decarbonizzazione della produzione. Utilizzando tecnologie giapponesi avanzate, verranno misurate le emissioni di anidride carbonica e promosse soluzioni per il passaggio a fonti di energia rinnovabile nei processi produttivi. Questa iniziativa è in linea con gli sforzi globali per mitigare il cambiamento climatico e ridurre l’impronta di carbonio industriale.

L’approvvigionamento di risorse minerali essenziali per le batterie dei veicoli elettrici è un altro pilastro della strategia. Gli sforzi congiunti si concentreranno sull’ottenimento di materiali rari e sulla ricerca di metodi di riciclaggio, garantendo così un approvvigionamento stabile e sostenibile di componenti cruciali.

Allo stesso modo, anche gli investimenti in campi di nuova generazione, come i biocarburanti, rappresentano un’ulteriore area di interesse. Particolare attenzione verrà rivolta allo sviluppo di biocarburanti derivati da olio da cucina usato, un’iniziativa che non solo diversifica le fonti di energia ma supporta anche la trasformazione dei rifiuti in risorse energetiche.

Infine, una campagna di informazione globale è prevista per sensibilizzare i consumatori sulle caratteristiche ecologiche dei veicoli prodotti nell’ASEAN. Questo sforzo mira a incrementare le esportazioni facendo leva sull’attenzione dei consumatori internazionali verso pratiche e prodotti sostenibili.

Nello stesso giorno, Dr. Kao ha visitato le strutture all’avanguardia della DENSO Corporation ad Aniyo City, in Giappone. Questa visita è stata fondamentale per mostrare i recenti progressi di DENSO nella tecnologia dei veicoli elettrici, nei sistemi di guida autonoma e nelle pratiche di produzione sostenibile. La visita ha evidenziato il potenziale per la collaborazione tra ASEAN e Giappone nell’affrontare le sfide in evoluzione dell’industria automobilistica, in particolare per quanto riguarda la sostenibilità ambientale e l’innovazione tecnologica.

Durante la visita, si sono svolte discussioni sulle potenziali partnership e collaborazioni mirate a migliorare la sostenibilità e i progressi tecnologici del settore automobilistico. Questo si allinea con le iniziative più ampie ASEAN-Giappone per promuovere soluzioni automobilistiche più verdi ed efficienti di fronte alle crescenti preoccupazioni ambientali.

L’urgenza di questa strategia congiunta nasce anche dalla rapida espansione dei produttori di veicoli elettrici cinesi nel Sud-est asiatico, che guadagnano rapidamente terreno. Di conseguenza, Giappone e ASEAN stanno sviluppando una strategia comune per rafforzare la loro competitività per riuscire a contrastare il dominio cinese del settore attraverso una collaborazione rafforzata nella produzione e nella vendita di automobili nella regione.

Ad esempio, sussidi e agevolazioni fiscali in Thailandia hanno permesso a compagnie cinesi come BYD di dominare il mercato, con l’85% degli EV venduti in Thailandia lo scorso anno di produzione cinese. La strategia congiunta tra ASEAN e Giappone punta a riconquistare quote di mercato sfruttando il know-how tecnologico giapponese e le capacità produttive dei paesi ASEAN.

Attualmente, l’ASEAN ospita impianti di produzione di numerosi grandi produttori di automobili giapponesi, tra cui Toyota Motor e Honda Motor. Questi produttori assemblano oltre tre milioni di veicoli all’anno nei paesi ASEAN, rappresentando l’80% della produzione automobilistica totale della regione. La strategia congiunta proposta dovrebbe essere formalizzata durante il prossimo incontro tra i ministri economici di Giappone e ASEAN a settembre.

Oltre ai legami economici, programmi educativi, eventi culturali e la popolarità dell’intrattenimento giapponese hanno favorito connessioni interpersonali più profonde. Le imprese giapponesi assumono sempre più talenti del Sud-est asiatico, riflettendo una relazione più integrata e reciprocamente vantaggiosa.

Negli ultimi anni, ASEAN e Giappone hanno collaborato su iniziative di stabilità regionale e integrazione economica, come l’Accordo Globale e Progressivo per il Partenariato Trans-Pacifico (CPTPP) e il Partenariato Economico Regionale Globale (RCEP). L’approccio discreto e consensuale del Giappone alla diplomazia ha facilitato queste collaborazioni, assicurando che gli interessi delle nazioni del Sud-Est asiatico siano adeguatamente rappresentati. 

La partnership ASEAN-Giappone è una testimonianza del potere della collaborazione nell’affrontare le sfide globali. Dai progetti pionieristici per la neutralità carbonica al contrasto del dominio dei veicoli elettrici cinesi, questa alleanza è pronta a guidare significativi progressi nella sostenibilità e nell’innovazione tecnologica. Continuando a investire nell’istruzione, nella crescita reciproca e nella stabilità regionale, ASEAN e Giappone possono forgiare un futuro economicamente prospero, ecologicamente sostenibile e tecnologicamente avanzato.

La Thailandia chiede l’ingresso nei BRICS

Il governo di Bangkok ha deciso di aderire al sempre più nutrito gruppo guidato dalle economie emergenti

Il Sud-Est asiatico è pronto a fare il suo ingresso ufficiale nei BRICS. Il 28 maggio, il governo thailandese ha approvato la presentazione di una lettera di intenti per l’adesione alla piattaforma multilaterale guidata dalle economie emergenti. Se la richiesta sarà approvata, come tutto lascia intendere, la Thailandia diventerà il primo membro del gruppo proveniente dall’area ASEAN. I BRICS erano inizialmente composti da Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica, ma a partire dal 1° gennaio 2024 hanno aderito altri cinque Paesi: Egitto, Etiopia, Iran ed Emirati Arabi Uniti. La Thailandia è attualmente inserita nella lista dei 15 Paesi che verranno presto presi in considerazione per l’ammissione. La decisione presa da Bangkok dovrebbe accelerare l’iter in vista del prossimo summit, in programma a ottobre a Kazan, Russia. “L’adesione ai BRICS rafforzerà il ruolo della Thailandia come leader tra i Paesi in via di sviluppo”, ha dichiarato Chai Wacharonke, portavoce del governo, in una conferenza stampa organizzata per annunciare il passo formale. La lettera delinea decine di vantaggi per Bangkok nell’adesione ai BRICS, uno dei quali è la possibilità di collaborare con altri Paesi del Sud globale per rafforzare la propria presenza sulla scena mondiale. La Tailandia sta d’altronde cercando di inquadrare le sue mosse di politica estera come parte di un più ampio approccio diplomatico proattivo che enfatizza il coinvolgimento di istituzioni come i BRICS e l’OCSE. Non tanto come un atto di bilanciamento tra grandi potenze, ma per promuovere i propri interessi economici e coltivare legami con una più ampia cerchia di Paesi sviluppati e in via di sviluppo. L’iniziativa thailandese è un segnale interessante perché mostra il dinamismo del cosiddetto “Sud globale”, con i Paesi emergenti impegnati a rafforzare diverse piattaforme multilaterali. Mentre Bangkok ufficializza l’intenzione di entrare nei BRICS, infatti, l’Indonesia fa passi altrettanto decisivi per l’ingresso nell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE). L’Indonesia, che già fa parte del G20 in rappresentanza dell’ASEAN, è il primo Paese del Sud-Est asiatico a chiedere formalmente di discutere l’adesione. Nei giorni scorsi, Mathias Cormann, Segretario dell’OCSE, è stato in visita a Giacarta per dare un’accelerata al processo destinato a portare lo status del Paese a quello di una piena adesione. Cormann ha incontrato il Presidente uscente Joko Widodo per discutere i prossimi passi da compiere. Giacarta mira a ottenere la piena adesione entro tre anni.

Hong Kong e Singapore: modelli di sviluppo e competizione economica

Il modello economico singaporiano è più resiliente e complicato da replicare, poiché si basa su caratteristiche uniche

Di Francesca Leva

La competizione tra Hong Kong e Singapore non è un fenomeno meramente regionale, ma piuttosto globale. Le due città, rinomati centri finanziari e commerciali, non sono solo rivali, ma riflettono altresì lo slancio economico dell’Asia. Sia Hong Kong sia Singapore ospitano alcune delle migliori università, hanno eccellenti infrastrutture e reti trasporto e attraggono turisti da tutto il mondo. In termini di business, sia Singapore sia Hong Kong hanno un sistema legale e fiscale snello, plurime opportunità di investimento e settori estremamente dinamici. Storicamente, sia Hong Kong sia Singapore sono state feroci rivali, ognuna avvantaggiata dalle proprie peculiarità. Tuttavia, a seguito dello scoppio della pandemia e delle rispettive misure governative, è nato un acceso dibattito circa la possibilità che l’età d’oro di Hong Kong stia tramontando a favore di Singapore.

 Hong Kong è rinomata per essere un’economia di libero mercato guidata da commercio internazionale e finanza, dove laissez-faire da parte del governo e tasse molto basse hanno positivamente favorito l’ambiente business.  A Hong Kong solo i guadagni generati entro la giurisdizione sono tassabili, la massima imposta sui redditi d’impresa è del 16.5% e il sistema legale è particolarmente flessibile. Parallelamente, Singapore è stata classificata come il posto più semplice dove fare business, ed è peraltro ritenuta una meta priva di corruzione. Nonostante l’imposta sui redditi d’impresa sia leggermente più alta – 17%- Singapore può altresì contare su un robusto sistema legale e una forza lavoro qualificata ed efficiente. In termini di investimenti, Hong Kong possiede uno dei più ampi stock market ed è, infatti, divenuta un importante hub IPO. Considerando lo stretto contatto con la Cina, Hong Kong origina ed intermedia 2/3 degli investimenti diretti esteri e degli investimenti in uscita da e per la Cina, ed è infatti diventata il più grande offshore hub di Renminbi al mondo. Singapore, dall’altro lato, è famosa per le generose sovvenzioni, prestiti ed incentivi che non mancano di attrarre numerose startups, angeli investitori e venture capitalists.

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Gli sviluppi recenti ad Hong Kong hanno altresì aperto nuovi spazi di competizione: in primo luogo, Hong Kong è dominata da oligopoli e cartelli, soprattutto nel settore di costruzioni, energia e supermercati, mentre Singapore è considerata più innovativa e diversificata. Inoltre le misure pandemiche – che hanno bruciato la maggior parte delle riserve fiscali – e un mercato del lavoro in crisi hanno portato circa 200.000 expats a lasciare Hong Kong: simultaneamente, Singapore ha visto un aumento nel numero di professionisti stranieri del 16%. Contestualmente alla diminuzione del 5%del numero di compagnie straniere a Hong Kong, tuttavia, le aziende cinesi che si sono recentemente rilocalizzate sull’isola sono aumentate del 18%, dando forse vita a un nuovo fenomeno. Come conseguenza della divergenza economica di cui sopra, al 2022 il PIL di Singapore era 1,7 volte superiore a quello di Hong Kong.

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Singapore presenta a sua volta delle problematiche, quali l’utilizzo sempre maggiore della pensa capitale, l’assenza di società civile, nonché’ prezzi degli immobili e costo della vita crescentemente proibitivi. La continua competizione tra i due centri ha inoltre cominciato a coinvolgere la vita sociale e culturale: online è facile imbattersi in dibattiti circa quale delle due città abbia il miglior cibo, la migliore vita notturna, o i migliori paesaggi.

L’aspetto interessante dietro questa competizione, tuttavia, non è quale sia il PIL più alto o chi abbia livelli maggiori di FDI. È piuttosto una tematica di modelli di sviluppo ed economici differenti, che a loro volta impattano sul modo in cui Hong Kong e Singapore sono soggetti e rispondono ai pattern mutevoli della globalizzazione. Le policies adottate a Hong Kong si sono sempre più focalizzate sul rendere l’isola un ponte verso la Cina, integrandola progressivamente con l’ economia cinese. E’ a tal proposito di rilievo menzionare che il 77% delle compagnie quotate in borsa a Hong Kong provengono dalla Cina. Hong Kong si e’ sviluppata come un’economia ad alta intensità di conoscenza focalizzata sui suoi settori di punta, ossia servizi business e finanziari, che la rendono fortemente dipendente da iniezioni di capitale estero. Dall’altro lato, Singapore ha investito massivamente in ricerca e sviluppo, capitale umano e diversificazione industriale. A Singapore le multinazionali hanno un ruolo fondamentale nello sviluppo locale, attraendo talenti ed ampliando il range delle opportunità: l’economia locale è infatti più diversificata, basandosi su settori manifatturiero, servizi finanziari, dell’informazione, tech e della comunicazione. Infine, contrariamente ad Hong Kong, Singapore – uno dei membri fondatori dell’ASEAN – fa da ponte verso il sud-est asiatico, beneficiando da basse barriere commerciali e distanziandosi dalla competizione tra Cina e Stati Uniti.

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Generalmente, il focus di Hong Kong sul proprio vantaggio competitivo la espone maggiormente ai flussi commerciali e alle traiettorie della globalizzazione, in quanto le sue i settori e i servizi possono essere replicati altrove e a costi inferiori, tra cui in Cina. Al contrario, il modello economico singaporiano è molto più resiliente e complicato da replicare, poiché si basa su caratteristiche uniche, punti di forza intrinsecamente legati all’economia locale e progressi in ricerca e sviluppo stratificati, che rendono la città più resistente a traiettorie economiche sfavorevoli.

Nuovi orizzonti di cooperazione tra Italia e Thailandia

Il bilancio della visita a Roma del premier thailandese Srettha Thavisin

Di Alice Freguglia

Il 21 maggio 2024 Palazzo Chigi ha ospitato il Primo Ministro thailandese Srettha Thavisin, in visita alla Presidente del Consiglio Giorgia Meloni. Infrastrutture, digitalizzazione, energia e promozione del turismo sono stati i temi maggiormente trattati dai due leader, nell’ottica di promuovere i rapporti bilaterali in favore di una maggiore coesione socio politica e con l’obiettivo di garantire il pieno sviluppo di entrambi i Paesi.

Già l’anno scorso, nel 2023, in occasione del 155esimo anniversario delle relazioni diplomatiche tra Italia e Thailandia, le Camere di Commercio di entrambe le nazioni hanno sottoscritto un memorandum di intesa, promosso dal Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale e da Unioncamere, il quale ha rafforzato ulteriormente i legami economici e commerciali, oltre a sottolineare l’importanza della Thailandia come partner. Con una popolazione giovane e in costante crescita, infatti, il territorio thailandese rappresenterebbe davvero un’importante risorsa per l’economia italiana, in grado di offrire notevoli opportunità per le imprese, come sottolineato anche dallo stesso Andrea Prete, Presidente di Unioncamere.

La Thailandia, infatti, in quanto cuore politico dell’ASEAN, rappresenta un punto d’ingresso naturale per le aziende italiane che desiderano accedere ai mercati del Sud-Est asiatico, un’area che, oltre a comprendere più di 600 milioni di persone, possiede un interessante potenziale di mercato. Notevole, infatti, è il volume degli scambi Roma — Bangkok, il quale nel 2023 ha raggiunto un valore di circa 4 miliardi di euro, con un export italiano di 1,9 miliardi e un import di oltre 2,1, rappresentando un mercato alleato e affidabile, fonte di stabilità economica e politica.

“Intendiamo discutere della cooperazione con l’ltalia, che si tratti di commercio e investimenti, agricoltura, moda o energie rinnovabili. Così come di turismo. Infatti, più di 190.000 italiani vengono in Thailandia ogni anno”. Sono queste le parole del leader thailandese, preludio di un incontro successivamente definito ‘soddisfacente’ da parte di Giorgia Meloni, nel quale l’ItaIia ha promosso e rafforzato le sue relazioni internazionali con il partner.

L’ampliamento e il miglioramento degli spostamenti all’interno del territorio, infatti, rappresenta uno degli obiettivi chiave di politica interna per la Thailandia, e quale esempio migliore dal quale prendere ispirazione se non l’ItaIia? Il nostro Paese, infatti, vanta alcune delle aziende di maggiore spicco e riconoscimento mondiale per quanto riguarda qualità e innovazione. Il timbro Made in Italy, infatti, si può apporre su numerosissimi progetti di grande scala, come la rete di alta velocità ferroviaria, ma anche sulla costruzione e gestione di opere civili quali ponti, strade, porti e aeroporti.

Allo stesso modo, anche recenti iniziative come il PNRR, Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, focalizzato sulla realizzazione di importanti investimenti volti a garantire una maggiore digitalizzazione della pubblica amministrazione e a sostenere le industrie italiane, costituisce un imprinting esemplare per la Thailandia che, a suo modo, con l’implementazione del cosiddetto piano ‘Thailand 4.0’ mira a realizzare un’economia basata sulI’innovazione e la tecnologia.

Anche l’ambiente verrà positivamente influenzato da questo rafforzamento dei rapporti italo-thailandesi. In particolar modo, l’esperienza maturata daII’Italia in merito alle energie rinnovabili rappresenterebbe un significativo ‘know how’ per la Thailandia, la quale potrebbe non solo prendere spunto dalle tecnologie adottate per far fronte all’emergenza del surriscaldamento globale, ma anche contare su preziosi investimenti che gli permetterebbero di sfruttare al massimo il proprio potenziale naturale.

Se c’è qualcosa che accomuna, però, queste due realtà apparentemente distanti è, sicuramente, la bellezza che ogni anno attira milioni e milioni di turisti, amanti sia della pizza che del pad thai. Rafforzare le relazioni commerciali, infatti, sarà in grado di garantire anche un maggiore afflusso di ospiti e visitatori in entrambi i territori, una fonte economica importantissima, soprattutto per due Paesi che dal punto di vista storico, naturalistico e monumentale, hanno molto da offrire agli occhi di chi li guarda con curiosità e desiderio di ampliare i propri orizzonti.

Srettha Thavisin, inoltre, sembrerebbe aver convinto anche Giorgia Meloni riguardo al desiderio di adesione della Thailandia all’interno deIl’OCSE, l’Organizzazione per la Cooperazione e Io Sviluppo Economico. Fondata nel 1961, l’OCSE rappresenta una piattaforma a disposizione dei governi per discutere e coordinare politiche economiche e sociali. Gli Stati membri collaborano su questioni come la crescita economica, l’occupazione, l’educazione, l’innovazione e il commercio, con l’obiettivo di creare un’economia globale più forte e sostenibile. Entrare a farne parte, quindi, eleverebbe notevolmente lo status del Paese, permettendo alla Thailandia di farsi riconoscere sul piano internazionale e di usufruire di uno scambio di conoscenze socioeconomiche che le permetterebbero di promuovere un migliore dialogo politico e di cooperazione economica.

A tal proposito, inoltre, sembrerebbe che Giorgia Meloni abbia accettato l’invito da parte del Primo Ministro Thavisin di recarsi in Thailandia, significativo passo avanti nella cooperazione bilaterale tra i due Paesi, oltre che conferma dell’impegno italiano nelI’aprire la strada a ulteriori discussioni e collaborazioni su temi strategici.

Singapore, il meglio deve ancora venire

Pubblichiamo qui uno stralcio del discorso di insediamento di Lawrence Wong, il nuovo Primo Ministro della città-stato

La giornata di oggi segna una pietra miliare significativa: un passaggio di testimone, non solo tra gruppi dirigenti, ma anche tra generazioni diverse. Sono il primo Primo Ministro di Singapore ad essere nato dopo l’indipendenza. Anche quasi tutti i miei colleghi del team sono nati dopo il 1965. La storia della mia generazione è la storia della Singapore indipendente. Le nostre vite testimoniano i valori che hanno forgiato la nostra nazione: Incorruttibilità, meritocrazia, multirazzialità, giustizia e uguaglianza. Questi principi sono profondamente radicati in tutti noi. Comprendiamo l’importanza vitale di una buona leadership, della stabilità politica e della pianificazione a lungo termine. Noi stessi siamo i beneficiari delle politiche fantasiose dei nostri padri fondatori, perseguite con determinazione e pazienza per decenni. Plasmati da queste esperienze, il nostro stile di leadership sarà diverso da quello delle generazioni precedenti. Guideremo a modo nostro. Continueremo a pensare con coraggio e a pensare lontano. Sappiamo che c’è ancora molto da fare, perché la storia della nostra isola-nazione continua a svolgersi. Ci sono ancora molte pagine da scrivere. E i capitoli più belli della nostra storia di Singapore ci aspettano. (…) La posizione di Singapore è forte. Ma il mondo intorno a noi è in continua evoluzione. Per trent’anni, dalla fine della Guerra Fredda, abbiamo goduto di una pace e di una stabilità senza precedenti nell’Asia Pacifica. Purtroppo, quell’epoca è finita. Le grandi potenze sono in competizione per dare forma a un nuovo ordine globale, ancora non definito. Dobbiamo prepararci a queste nuove realtà e adattarci a un mondo più disordinato, più rischioso. (…) Oggi Singapore si trova a un livello economico elevato rispetto alla maggior parte degli altri Paesi. Secondo gli standard internazionali, abbiamo costruito sistemi eccellenti di istruzione, alloggi, assistenza sanitaria e trasporti. Ma le circostanze stanno cambiando, la tecnologia avanza e la popolazione invecchia rapidamente. Non possiamo quindi permetterci di andare avanti a tentoni. Dobbiamo continuare a fare del nostro meglio per migliorare, aggiornare e trasformare Singapore. Sono convinto che possiamo e dobbiamo fare meglio. Come singaporiani, sappiamo tutti cosa significa superare le aspettative, andare oltre quello che gli altri pensano che siamo in grado di fare, o anche quello che noi stessi pensavamo di poter fare. Quando il gioco si fa duro, non crolliamo. Andiamo avanti, con fiducia nei nostri concittadini e nel futuro di Singapore.

Qui il discorso integrale

La Thailandia cambia idea sulla cannabis

A due anni dalla depenalizzazione, la Thailandia potrebbe inserire nuovamente la cannabis nella lista degli stupefacenti, smantellando un settore potenzialmente da miliardi di dollari

Di Francesco Mattogno

La depenalizzazione del consumo di cannabis a basso contenuto di tetraidrocannabinolo (THC), ufficializzata il 9 giugno 2022, rientra senza dubbio tra le tante contraddizioni che caratterizzano la Thailandia. Il contesto politico nel quale due anni fa Bangkok decise di allentare la repressione della marijuana, trasformando la Thailandia nel primo Stato asiatico a permetterne l’uso ricreativo, era quello del governo di Prayut Chan-o-cha, con una forte componente militare e una serie di partiti civili. Il più grande di questi era il Bhumjaithai (BJT) dell’allora vicepremier e ministro della Salute, Anutin Charnvirakul, tra i maggiori sostenitori della depenalizzazione della marijuana in Thailandia.

Dopo averlo promesso in campagna elettorale, nell’estate del 2022 Anutin è riuscito a convincere gli alleati e a ottenere una larga maggioranza in parlamento per portare alla rimozione della cannabis a basso contenuto di THC dalla lista delle sostanze stupefacenti. Una vittoria che, a distanza di poco meno di due anni, potrebbe essere cancellata da un nuovo governo, questa volta a trazione civile, del quale lui stesso è vicepremier e ministro degli Interni. 

Attraverso un post su X, l’8 maggio il primo ministro thailandese, Srettha Thavisin, ha annunciato di voler reinserire la marijuana a basso contenuto di THC nella lista degli stupefacenti. La cannabis non sarebbe considerata una droga pesante come eroina o cocaina, ma tornerebbe a esserne illegale la coltivazione, la vendita e il possesso, con pene fino a 15 anni di carcere. Srettha e il suo partito, il Pheu Thai, avevano promesso di reprimere il consumo di marijuana già in campagna elettorale, e lo stesso avevano fatto tutti i grandi partiti, compreso il progressista Move Forward e in parte anche il BJT di Anutin, che sosteneva di volerne rafforzare la regolamentazione.

Secondo quanto annunciato, l’uso medico della cannabis resterà legale e la repressione si limiterà al consumo ricreativo, cioè il vero oggetto di quella che Srettha ha definito essere una «guerra alle droghe», che prevede misure anche contro altre sostanze, molto più pericolose della marijuana. Tecnicamente, la depenalizzazione del 2022 è arrivata a seguito di un’ordinanza del ministero della Salute che si è limitato a inserire la canapa all’interno delle “erbe controllate”: non si è trattata di una vera e propria legge, e questo si è rivelato essere il suo più grande problema.

Al di là di alcune indicazioni minime (come la necessità di una licenza per la coltivazione, il divieto di fumare in pubblico o di vendita ai minori di vent’anni), l’uso ricreativo della cannabis non è mai stato davvero regolamentato, ed è diventato tollerabile solo a seguito di un vuoto normativo. Un vuoto dovuto anche al fatto che, nei mesi successivi alla depenalizzazione, il parlamento ha cambiato idea sulla questione, non permettendo di trasformare in legge le diverse bozze presentate da Anutin. Una legge avrebbe rafforzato i controlli e la solidità normativa del consumo legalizzato di cannabis, che oggi sarebbe risultato più difficile da rovesciare.

Mentre i partiti litigavano sulla questione, poi accantonata con l’inizio della campagna elettorale per le elezioni del maggio 2023, in due anni sono nati circa 8 mila negozi in tutto il Paese per la vendita al pubblico di infiorescenze, oli o altri prodotti a base di canapa, e oltre 1 milione di thailandesi hanno richiesto e ottenuto le licenze per la coltivazione. Nonostante sia teoricamente legale solo la vendita di marijuana con un contenuto di THC inferiore allo 0,2% (simile alla “cannabis light” in Italia), la mancanza di una legge ha reso possibile anche il commercio di cannabis a un livello normale di THC, ovvero il principio attivo che rende psicotropo il consumo di erba. Le infiorescenze con bassissima percentuale di THC non hanno però alcun effetto alterante. Parlare di “guerra alle droghe” sarebbe dunque in questo caso non del tutto appropriato.

Lo affermano anche diverse associazioni thailandesi a sostegno della legalizzazione della cannabis, che hanno chiesto al governo di portare delle prove scientifiche a sostegno del fatto che la marijuana sia più dannosa di alcol e sigarette. A due anni dalla depenalizzazione, l’industria della coltivazione e vendita dei prodotti a base di canapa si è ormai consolidata come una realtà importante all’interno del sistema economico thailandese: un divieto metterebbe in ginocchio migliaia di piccoli imprenditori e lavoratori.

Secondo le stime, il settore potrebbe arrivare a valere 1,2 miliardi di dollari nel 2025, per superare i 9 miliardi entro il 2030. La “guerra alla droga” rischierebbe di consegnare nuovamente questo enorme mercato nelle mani della criminalità organizzata, ma Srettha non sembra propenso a tornare indietro. Il Primo Ministro ha detto al suo nuovo ministro della Salute, Somsak Thepsutin, che ha 90 giorni di tempo per presentare dei progressi a riguardo. A eccezione degli usi medici, consumare cannabis in Thailandia potrebbe tornare a essere illegale entro la fine del 2024.

Crisi in Myanmar: prospettive per la pace nel Sud-Est asiatico

Più di 2,6 milioni di persone sono sfollate in questo momento. Le ultime novità sul conflitto civile birmano

Di Luca Menghini

Ad oggi, il Myanmar si trova coinvolto in un conflitto complesso e brutale che sta avendo un impatto significativo nel Sud-Est asiatico. La giunta militare del Myanmar, attraverso il suo esercito, il Tatmadaw, sta avendo molte difficoltà nel mantenere il controllo del paese alla luce della crescente resistenza dei vari gruppi etnici insorgenti e delle forze a favore della democrazia. Questa guerra sta avendo effetti profondi, influenzando la stabilità regionale, i diritti umani e le relazioni internazionali.

Il conflitto in Myanmar si è intensificato a seguito del colpo di stato militare del 1 febbraio 2021, che ha rovesciato il governo democraticamente eletto guidato da Aung San Suu Kyi. Il colpo di stato ha provocato diffuse proteste e la nascita di un movimento di resistenza armata in espansione. Le organizzazioni armate etniche (Ethnic Armed Organizations, EAOs) e le nuove Forze di Difesa Popolare (People’s Defense Forces, PDFs) si sono unite contro la giunta militare.

Il Tatmadaw sta subendo numerose battute d’arresto, perdendo diversi territori chiave, in particolare nello stato del Rakhine, dove l’Arakan Army ha fatto sostanziali avanzamenti. Questa perdita ha costretto i militari a ricorrere a misure disperate, inclusa la coscrizione forzata dei maschi di etnia Rohingya. Queste nuove reclute, spesso costrette a combattere sotto minaccia, sono mandate a combattere in una guerra che ha già devastato le loro comunità.

I Rohingya sono stati sottoposti a una severa persecuzione per decenni da parte del governo del Myanmar, con la repressione del 2017 che ha portato all’accusa di genocidio. Ora, si trovano intrappolati tra la giunta militare e gli insorti. Il reclutamento forzato dei Rohingya non mostra solo la disperazione del Tatmadaw, ma esaspera la tensione e rischia di alimentare ulteriormente i conflitti etnici.

L’importanza strategica del Myanmar è evidente vista la sua posizione, che fa da ponte tra l’Asia meridionale e il Sud-Est asiatico. Il conflitto impatta le tradizionali rotte commerciali della regione e le dinamiche di sicurezza. L’ASEAN, che tradizionalmente adotta una politica di non interferenza, sta trovando difficile e complesso mantenere una stabilità regionale. Gli stati membri sono infatti preoccupati per quanto riguarda la crisi umanitaria e il potenziale che ha il conflitto di diffondersi nei paesi confinanti.

Le due potenze asiatiche, Cina e India, hanno entrambe interessi significativi in Myanmar e stanno navigando in un complesso scenario geopolitico. La Cina, in particolare, ha investito in maniera massiccia nel China-Myanmar Economic Corridor, cruciale per la sua Belt and Road Initiative. Ogni instabilità è quindi fonte di grandi preoccupazioni per questi progetti, portando la Cina a facilitare un canale diplomatico per mitigare gli effetti economici negativi del conflitto.

La situazione umanitaria del Myanmar è molto grave. Più di 2,6 milioni di persone sono sfollate in questo momento e l’abuso dei diritti umani è rampante e diffuso. La comunità internazionale, incluse le Nazioni Unite, ha condannato le violenze e chiesto di inasprire le sanzioni. Nell’aprile del 2024, l’Unione Europea ha rinnovato le sanzioni al Myanmar, che includono anche 19 individui legati alla giunta militare. Questa azione si allinea alle azioni di Paesi come gli Stati Uniti, che continuano a pressare la giunta militare attraverso pressioni economiche e diplomatiche.

Nonostante questi tentativi, gli interessi geopolitici complicano l’unità della risposta internazionale. Il risultato del conflitto infatti rimane incerto. La presa sul potere del Tatmadaw sta diminuendo, ma le forze di opposizione hanno delle sfide nel coordinarsi e nel trovare le risorse economiche per portare avanti la lotta al regime. Le possibilità di un accordo che possa essere negoziato sembrano distanti e il rischio che vi sia una prolungata guerra civile è molto alto.

La situazione in Myanmar richiede molta attenzione. Come il conflitto evolverà avrà un impatto significativo sulla stabilità regionale e sulle vite di milioni di persone. L’ASEAN e, più in generale, la comunità internazionale devono navigare una crisi complessa, bilanciando gli interessi geopolitici con il bisogno urgente di pace e di aiuti umanitari.

Il futuro del Myanmar passa dalla risoluzione del conflitto. La strada verso la pace è costellata di sfide, ma rimane essenziale per la stabilità e la prosperità del Sud-Est asiatico. La comunità internazionale deve continuare a mettere pressione affinché ci sia una soluzione pacifica e giusta, nella quale tutte le voci del Myanmar vengano ascoltate e rispettate. Inoltre, il recente coinvolgimento dei volontari stranieri e il supporto internazionale per il movimento di resistenza sottolineano la dimensione globale del conflitto, evidenziando il bisogno urgente di un approccio più coordinato e inclusivo dal punto di vista internazionale per riportare la pace e risolvere il conflitto.

Tech, perché si investe in ASEAN

L’analisi di Gregory B. Poling e Japhet Quitzon per il Center for Strategic and International Studies

I 10 membri dell’Associazione delle Nazioni del Sud-Est Asiatico (ASEAN) costituiscono il mercato online in più rapida crescita al mondo, con 125.000 nuovi utenti internet al giorno. I giganti tecnologici statunitensi sono consapevoli dell’importanza strategica del Sud-Est asiatico e stanno rafforzando la loro presenza nella regione con ingenti investimenti promessi da Apple, Microsoft e Amazon nelle ultime settimane. 

A metà aprile, Tim Cook, CEO di Apple, ha compiuto un viaggio in Vietnam, Indonesia e Singapore. Ha annunciato un’espansione programmata di 250 milioni di dollari del campus dell’azienda a Singapore, che, secondo quanto riferito, si concentrerà sull’intelligenza artificiale. Cook ha inoltre dichiarato che Apple intende aumentare gli investimenti in Vietnam ed esplorare le opportunità di produzione in Indonesia.

Poco dopo, il CEO di Microsoft Satya Nadella ha visitato Indonesia, Malesia e Thailandia dal 30 aprile al 2 maggio. Nella sua prima tappa a Giacarta, ha annunciato l’intenzione di investire 1,7 miliardi di dollari in quattro anni in architetture cloud e AI in Indonesia, il più grande investimento nei 29 anni di presenza dell’azienda nel Paese. Il giorno successivo ha dichiarato che Microsoft aprirà il suo primo centro dati in Thailandia, sulla base di un accordo con il governo thailandese per la fornitura di infrastrutture cloud e AI. 

Nadella si è poi recato in Malesia, dove ha annunciato l’intenzione di investire 2,2 miliardi di dollari in infrastrutture di cloud computing e intelligenza artificiale nei prossimi quattro anni. Microsoft collaborerà con il governo malese per potenziare le sue capacità di cybersecurity e fornirà formazione sull’intelligenza artificiale a 200.000 persone nel Paese. Nadella ha inoltre dichiarato che Microsoft si impegna a fornire formazione sulle competenze di intelligenza artificiale a 2,5 milioni di persone in tutta la regione, in particolare in Indonesia, Malesia, Filippine, Thailandia e Vietnam.

Infine, il 7 maggio, Amazon Web Services (AWS) ha impegnato 9 miliardi di dollari per espandere la propria infrastruttura cloud a Singapore. Gli investimenti saranno destinati alla costruzione, al funzionamento e alla manutenzione di centri dati nella città-stato nei prossimi cinque anni. Come Microsoft, AWS sta collaborando con il governo di Singapore per creare un programma per 5.000 persone all’anno per espandere le capacità di ricerca e sviluppo.

Le aziende tecnologiche statunitensi stanno scommettendo molto sulle future economie digitali del Sud-Est asiatico. Così facendo, daranno impulso alle economie regionali e ai propri profitti. Inoltre, cercheranno di dare forma alle regole sulla governance dei dati e sull’IA mentre i governi regionali sono alle prese con il futuro digitale, comprese le visioni concorrenti sostenute da Cina, Europa e Stati Uniti.

ASEAN e Taiwan nell’era Lai

L’insediamento del nuovo presidente Lai Ching-te a Taipei e le possibili ripercussioni economiche e politiche nel Sud-Est Asiatico

Di Luca Menghini

Il 20 maggio, Lai Ching-te diventerà ufficialmente il nuovo presidente di Taiwan. Questo evento sarà di grande rilievo non solo per l’isola ma anche per il contesto geopolitico dell’intero Sud-Est asiatico. Taiwan si sta infatti preparando a un cambiamento significativo con l’insediamento del leader del Partito Progressista Democratico (DPP), noto per le sue inclinazioni verso l’indipendenza dell’isola dalla Cina. Lai ha ottenuto il 40,1% dei voti, superando i candidati del Kuomintang (KMT) e del Taiwan People’s Party (TPP). Nonostante la vittoria del DPP, il partito ha perso il controllo dell’assemblea legislativa, costringendo il nuovo presidente a cercare un consenso più ampio che lo porterà a moderare le sue politiche più estreme.

La perdita della maggioranza parlamentare potrebbe essere vista dall’ASEAN come un elemento di stabilità, in quanto potrebbe mitigare le politiche di Lai, riducendo così le tensioni nello Stretto di Taiwan. Questa area è di vitale importanza strategica, essendo un corridoio marittimo cruciale per il commercio globale. L’ASEAN, che tradizionalmente segue una politica di non interferenza e di consenso, ha reagito all’elezione di Lai con cautela. I Paesi membri, posizionati in una regione incrociata da svariate rotte commerciali e sfere di influenza di grandi potenze, cercano di mantenere un equilibrio per evitare conflitti. La stabilità dello stretto è essenziale non solo per la sicurezza regionale ma anche per l’economia globale.

Durante il periodo che ha preceduto le elezioni, le tensioni tra Taiwan e Cina sono cresciute, specialmente durante la presidenza di Tsai Ing-wen, che ha cercato di rafforzare i legami con gli Stati Uniti. La Cina ha risposto aumentando la pressione militare e diplomatica sull’isola, che considera una provincia ribelle da dover riunificare in futuro. Se la reazione dell’ASEAN e della maggioranza dei suoi paesi membri all’elezione di Lai è stata generalmente contenuta, con la maggior parte dei paesi che hanno evitato di prendere posizioni forti pubblicamente, lo stesso non si può dire per il presidente filippino Ferdinand Marcos Jr. Marcos è stato l’unico leader a distaccarsi da questa linea, esprimendo pubblicamente congratulazioni a Lai e riferendosi a lui come presidente, sottolineando la speranza di una collaborazione stretta e il rafforzamento degli interessi reciproci. Questa mossa non è stata vista favorevolmente dalla Cina, che, rivendicando Taiwan come parte del suo territorio, non riconosce a Lai il titolo di presidente. Ancora più critica è stata la reazione della Cina alle congratulazioni estese dagli Stati Uniti attraverso il Segretario di Stato Antony Blinken, accusando il governo statunitense di inviare “un segnale gravemente sbagliato alle forze separatiste per l’indipendenza di Taiwan”.

Sul fronte economico, la politica del Nuovo Corso verso il Sud, avviata dall’ex presidente Tsai Ing-wen a partire dal 2016, ha avuto l’obiettivo di ridurre la dipendenza economica di Taiwan dalla Cina, promuovendo la cooperazione economica con 18 paesi, inclusi i membri dell’ASEAN, sei stati del Sud Asia, l’Australia e la Nuova Zelanda. Questa iniziativa ha cercato di incentivare la cooperazione economica e commerciale, oltre allo scambio di talenti e risorse. Tuttavia, nonostante gli sforzi, le reazioni sono state miste, influenzate anche dalla cautela dei vari governi che cercano di non irritare la Cina. Il ministro degli Affari Economici di Taiwan, Wang Mei-hua, ha indicato come nel 2022 gli investimenti delle aziende taiwanesi nel Sud-Est e nel Sud Asia abbiano superato gli investimenti in Cina, raggiungendo i 5,2 miliardi di dollari. Questo incremento è stato spinto dalle tensioni commerciali tra Stati Uniti e Cina, ma la vicinanza geopolitica alla Cina continua a rappresentare un ostacolo significativo per un’espansione più libera delle relazioni commerciali di Taiwan.

Adesso, con l’insediamento di Lai, si prevede che l’impegno di Taiwan verso il Sud-Est asiatico continui ad aumentare e anzi si intensifichi ulteriormente, con una particolare attenzione alla cooperazione nell’industria ad alta tecnologia. Tuttavia, la crescente influenza della Cina nella regione rappresenta una sfida imminente. Un sondaggio recente ha evidenziato che la maggior parte dei paesi del Sud-Est asiatico favorisce la Cina rispetto agli Stati Uniti. La complessa situazione richiederà infatti a Lai di bilanciare attentamente la promozione degli interessi economici di Taiwan con la necessità di navigare le sensibilità politiche e diplomatiche del Sud-Est asiatico.

In conclusione, l’insediamento di Lai Ching-te come presidente di Taiwan rappresenta un momento significativo per la politica dell’isola. Confrontato con la perdita della maggioranza parlamentare e le crescenti tensioni con la Cina, Lai dovrà navigare un contesto geopolitico di crescente complessità, cercando di bilanciare le aspirazioni indipendentiste del suo partito con la necessità di mantenere stabilità e rapporti pacifici nella regione. Le sue politiche, in particolare il rafforzamento delle relazioni con i paesi del Sud-Est asiatico e oltre, saranno cruciali per la sicurezza e il progresso economico di Taiwan. In questo delicato equilibrio, la capacità di Lai di attuare una diplomazia efficace e di promuovere una crescita economica sostenibile, pur gestendo le pressioni esterne, definirà il successo del suo mandato e potenzialmente influenzerà l’ordine regionale del Sud-Est asiatico per gli anni a venire.

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