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Covid: Asia ed Europa nel terzo anno pandemico

Se c’è una lezione che abbiamo imparato negli ultimi due anni è che il Sars-Cov-2 non ha confini, nazionalità o colore politico. Ma non i governi che cercano di contenerlo. Una panoramica su come le due regioni affrontano il virus oggi.

Un problema, ma tante misure diverse. Una strategia “casi-zero” e decine di sfumature della “convivenza con il virus”. Tante, quanto diversi sono i protocolli, le procedure, la burocrazia e la mobilitazione di forza umana nella lotta al Covid-19. Sono passati quasi due anni dall’allarme ufficiale dell’Organizzazione mondiale della sanità (OMS), mercoledì 11 marzo 2020, e ora il mondo si prepara a entrare nel terzo anno pandemico. Allora le risposte dei governi avevano già preso strade differenti, così come sono stati vari gli effetti socioeconomici causati dalle strategie nazionali. La complessità della questione ha presto abbassato le difese immunitarie delle relazioni che tenevano in funzione le strutture sociali, economiche, sanitarie e politiche di tutti i paesi al mondo. E l’emergere di nuove varianti continua a richiedere un aggiustamento costante delle strategie di contenimento del virus. Cosa sta accadendo tra due universi simili, ma altrettanto diversi come quello europeo e quello asiatico?

I dati

Secondo i dati del Johns Hopkins Institute, durante il mese di gennaio il Covid-19 ha provocato la morte di oltre cinque milioni e mezzo di persone nel mondo. Sugli oltre 350 milioni di casi registrati, la maggior parte sembra addensarsi intorno alla regione europea e nordamericana, con il caso dell’India ad alzare la media regionale dell’Asia. Bisogna precisare, però, che nell’area asiatica i casi di Covid-19 confermati sarebbero di gran lunga inferiori rispetto alle cifre ufficiali. Il gruppo di ricerca OCTA a gennaio ha fatto una stima dei casi Covid-19 a Manila di 6-15 volte superiore a quanto riportato dalle autorità. Un altro esempio noto è quello dell’India, dove i casi reali della seconda ondata (primavera 2021) sarebbero stati quindici volte maggiori rispetto ai dati ufficiali, complici l’ampiezza della popolazione e del territorio uniti alla mancanza dei servizi di tracciamento e cura adeguati.

Le strategie

La Cina è oggi l’unico grande paese a perseguire la strategia “casi zero”: una sfida resa ancora più complessa dalla coincidenza tra vacanze per il nuovo anno lunare (1-11 febbraio), Olimpiadi invernali di Pechino (4-20 febbraio) e l’arrivo della variante Omicron (registrato il 14 gennaio a Tianjin, circa 100 km a Est di Pechino). I protocolli sono pressoché invariati dal 2020: un solo caso di trasmissione locale è sufficiente ad attivare il meccanismo di emergenza locale, che prevedere test di massa, limitazioni agli spostamenti e lockdown localizzati finché le autorità non lo ritengono opportuno. A sostenere questa strategia rimane valido il sistema di tracciamento validato da un QR code personale, che può segnalare l’appartenenza del soggetto a un’area a rischio e ostacolarne gli spostamenti o l’accesso a luoghi “a rischio” come le stazioni ferroviarie. In alcune città le autorità hanno chiesto ai cittadini di rimanere a casa durante le vacanze del capodanno lunare (periodo che registra il record di “maggiore migrazione umana” al mondo), mentre in altre sono stati fatti degli screening di massa preventivi.

Questo non significa che la popolazione cinese stia vivendo serenamente le restrizioni. Lo stesso Quotidiano del popolo (renmin ribao) sembra avere ora un approccio ambivalente, più attento a disinnescare il sentiment della popolazione. Il dito rimane puntato soprattutto contro le autorità locali e i contagi “importati”: non più solo la catena del freddo e il virus che viaggia sui prodotti congelati, ma anche pacchi postali o animali da compagnia.

Il resto dei paesi asiatici si è avvicinato a misure di convivenza con il virus simili a quelle europee, ma in molti paesi non manca una certa attenzione alle strategie quotidiane di prevenzione: mascherine, pulizia delle mani e auto-isolamento. Non per niente il 2020 era stato l’anno dell’ “Asia virtuosa”, che aveva saputo contenere il virus in virtù di un meccanismo di risposta già allenato dalla Sars del 2003, dall’influenza H1N1 del 2009 e dalla Mers del 2015. Le regole erano in qualche modo già chiare (se non date per scontate) e le autorità sanitarie già preparate allo stato di emergenza epidemica. Ciò non esclude che la Sars-Cov-2 abbia messo in difficoltà anche i paesi più preparati, soprattutto con il persistere di nuove varianti più contagiose.

Per questo motivo, in tutta l’Asia rimangono valide le limitazioni agli ingressi, che nella maggior parte dei casi vengono riservati ai ricongiungimenti famigliari o per questioni lavorative. Tutti gli arrivi dall’estero vengono, solitamente, soggetti a una quarantena che può andare dalle due settimane a pochi giorni, sempre a seconda della politica locale. I paesi più penalizzati dal blocco agli spostamenti hanno ridotto le misure di controllo in modi differenti: in alcuni casi la garanzia è un ciclo vaccinale completo, in altri il basso tasso di contagi del paese di provenienza – in alcuni casi eliminando completamente la quarantena come accade nelle cosiddette “travel bubble”. In alcuni casi un QR code conferma l’immunità del soggetto e permette di accedere ad alcuni luoghi. Tutte strategie che anche i paesi europei hanno messo in atto con l’obbiettivo di facilitare gli spostamenti nell’area Schengen, anche se l’arrivo della variante Omicron sta – ancora una volta – dividendo i governi sulla necessità o meno di reintrodurre la quarantena per i soggetti vaccinati.

I vaccini

Vaccinare i cittadini è diventato prioritario per tentare una soluzione meno sacrificante degli interessi economici e politici nella maggioranza dei paesi al mondo. Anche nel Sudest asiatico iniziano a essere approvate le pillole antivirali per uso emergenziale, mentre in altri è iniziata la produzione di questi farmaci in loco: uno degli ultimi casi riguarda il Laos, che ha ottenuto insieme ad altri paesi in via di sviluppo la licenza per produrre il Molacovir.

Mentre l’Unione Europea spingeva per vaccinare più individui possibile, anche il continente asiatico ha cercato di spostare l’attenzione dai lockdown alle inoculazioni di siero anti-Covid. Ciò è avvenuto (e sta avvenendo) con una velocità minore. Prendiamo due tra le nazioni con il più alto tasso di contagi nella rispettiva regione di appartenenza. Dall’inizio della pandemia la Francia ha registrato oltre 15 milioni di casi e oltre 125.400 morti su 65.449.748 milioni di abitanti, mentre il 74,7% della popolazione ha completato il ciclo vaccinale. L’Indonesia ha segnalato oltre 4 milioni di casi, ma 144.20 morti su una popolazione di oltre 278 milioni di abitanti, di cui 44,3% sono vaccinati con due dosi. Qui la campagna vaccinale è stata sostenuta soprattutto dai sieri cinesi, mentre un’altra parte delle forniture arriva dal meccanismo di distribuzione globale COVAX.Dopo l’ostacolo dell’accessibilità “nazionale” nella distribuzione globale dei vaccini, rimane la variabile della capacità di distribuzione “locale”. Sempre l’esempio dell’Indonesia torna utile per spiegare quanto sia complesso organizzare una strategia di distribuzione dei vaccini a livello locale che tenga conto delle effettive risorse umane schierate sul campo. Un problema che appartiene anche alle aree rurali della Cina continentale, ma dove esiste una maggiore capacità di mobilitazione delle risorse, pur con i suoi difetti che variano caso per caso: è quanto accaduto a Xi’An, dove la gestione “disordinata” dell’emergenza ha spinto Pechino a punire le figure responsabili della strategia di contenimento del virus. Anche Giappone e Corea del Sud hanno saputo ottenere dei risultati positivi dalle campagne di vaccinazione, ma non è completamente escluso un altro problema: il rifiuto del vaccino. Nonostante sia l’Europa orientale a registrare uno dei maggiori tassi di rifiuto del vaccino anti-Covid, anche in Asia si sono registrate delle sacche di resistenza alle politiche sanitarie. Nelle Filippine il presidente Rodrigo Duterte ha minacciato di “dare la caccia” ai non vaccinati, mentre in Myanmar il rifiuto del vaccino è diventata una forma di resistenza passiva al regime e manifestazione di protesta contro la Cina (accusata di sostenere la giunta militare e principale fornitore di vaccini nell’area).

Il metaverso prolifera in ASEAN: il ruolo della Generazione Z

La trasformazione digitale ha investito la vita quotidiana degli abitanti della regione del Sud-est asiatico. Qui utenti, creatori di contenuti, investitori, imprese e celebrità si ritrovano incredibilmente vicini, condividendo gli stessi spazi virtuali. Fondamentale è il ruolo della Generazione Z nell’esplorare e diffondere nuove modalità di interazione che coniugano il business, l’intrattenimento e la promozione di valori inclusivi.

Il metaverso è senza dubbio uno dei temi più caldi del momento. L’idea di un mondo digitale parallelo quasi indistinguibile dalla realtà e abitato da avatar era già stata intravista da Neal Stephenson nell’allora futuristico romanzo di fantascienza Snow Crash, pubblicato nel 1992. Il recente annuncio di Mark Zuckerberg del rebranding di Facebook è bastato a mettere in luce che più di una strategia aziendale, il desiderio di scommettere sulla realtà virtuale e aumentata riflette una tendenza avviata e già in crescita. Secondo le stime di Bloomberg Intelligence, si tratta di un mercato che si avvia a raggiungere un valore di 800 miliardi di dollari entro il 2024.

Intravedendo questo potenziale, sono diverse le imprese dell’area ASEAN che si stanno impegnando a riadattarsi al metaverso, offrendo un’alternativa virtuale di servizi ed esperienze tipicamente fisiche. Il progetto “Metaverse Thailand” promossa da A-Plus è uno dei tanti esempi: la società fintech di Singapore ha lanciato una piattaforma operante sulla giovane blockchain Binance Smart Chain (BSC) in cui è possibile scegliere terreni da una mappa reale della zona Ekamai di Bangkok, acquistarli e usarli per sviluppare immobili virtuali.

Ma l’ASEAN offre un terreno particolarmente fertile per lo sviluppo delle tecnologie immersive non solo per via degli ingenti investimenti, ma anche grazie all’elevato tasso di penetrazione di Internet e alla propensione generalmente positiva della Generazione Z nei confronti della digitalizzazione e della progressiva virtualizzazione delle proprie vite reali. Uno studio condotto da Milieu Insight tra 6000 partecipanti provenienti sei Paesi (Singapore, Malesia, Thailandia, Indonesia, Filippine e Vietnam) mostra come a prevalere nella regione del Sud-Est asiatico sia una percezione ampiamente positiva del trend: interesse ed entusiasmo sono tra le emozioni maggiormente associate al metaverso. Tra le ragioni, la maggior parte degli intervistati ha sottolineato che rappresenta “un progresso nell’interazione sociale umana” e che “facilita più efficienti opportunità sociali”.

Alcuni tra i fenomeni che stanno emergendo ultimamente nel resto del mondo sono infatti già pratiche affermate nella regione del Sud-Est asiatico. Qui i nativi digitali interagiscono quotidianamente con i propri virtual idol, monetizzano il tempo trascorso giocando online e socializzano in mondi virtuali attraverso avatar 3D sempre più personalizzabili. La sudcoreana Zepeto, la piattaforma più frequentata del momento in Asia, attira 2 milioni di utenti attivi al giorno interessati ad acquistare capi di abbigliamento (virtuali) di alta moda per abbellire la versione digitale di se stessi e a fare amicizia online.

Secondo i fan, la piattaforma permette di incontrare persone da tutto il mondo e realizzare desideri che non potrebbero facilmente soddisfare nel mondo reale, come acquistare beni di lusso e scattare selfie con la propria star K-pop preferita. “Ci sono vestiti che non posso permettermi di indossare nella vita reale, ma nel mondo digitale posso comprarli tutti”, ha spiegato Monica Louise, utente filippina di ventotto anni nota come Monica Quin e famosa per i video e i contenuti creativi che realizza con i suoi avatar Zepeto. Grazie alle sue attività sulla piattaforma, Monica è in realtà diventata a tutti gli effetti una virtual influencer dallo stipendio a sei cifre.

Ma il metaverso si conferma più di un mercato alternativo in cui provare ad inseguire guadagni stratosferici o di una vetrina in cui sfoggiare virtualmente abiti alla moda e acquisti stravaganti. La Generazione Z, che rappresenta il più grande gruppo di utenti Internet in Asia, sfrutta la prolungata presenza online e la propria dimestichezza con le tecnologie digitali per trasformare l’universo virtuale in uno spazio di rivendicazione di istanze reali.

Emblematico in questo senso è l’esempio di Bangkok Naughty Boo, il primo cyber influencer di questo tipo, che si autodichiara eterno diciassettenne, non binario e con il sogno di diventare una pop star. La sua figura “racchiude anche messaggi sociali importanti come il desiderio di costruire un futuro senza distinzioni di genere, e offre un’immagine della capitale thailandese più moderna e progressista”, ha notato Roberta Maddalena per Forbes. Come illustrato dall’esperto di marketing Nick Baklanov all’agenzia AFP di Bangkok, il numero di influencer virtuali è più che triplicato, raggiungendo quota 130 in soli due anni, mostrando come l’Asia si avvii a confermarsi il luogo privilegiato per lo sviluppo del settore dei virtual idol e, più in generale, delle tecnologie del metaverso.

Il continente asiatico si avvia verso una decrescita demografica?

Nascite in calo e invecchiamento della popolazione non sono solo problemi cinesi: la lenta trasformazione demografica sta cambiando il volto del Sudest Asiatico.

L’Asia, storicamente il continente più popoloso al mondo, sta attraversando una transizione demografica senza precedenti. Il tasso di crescita della popolazione è infatti in calo per gran parte dei paesi, e le politiche per incentivare la fertilità non sembrano avere successo. Gli asiatici stanno invecchiando, vivono più a lungo e tendono a muoversi dalle metropoli verso città secondarie, mentre è in atto un cambiamento sociale che vede le donne lavorare di più e partorire sempre meno figli.

Il caso più eclatante è quello della Cina, dove la ​​crescita della popolazione continua a rallentare e la “finestra demografica”, ovvero proprio la fase che aveva aiutato la Cina a creare le condizioni per la crescita economica senza precedenti a cui abbiamo assistito negli ultimi anni, si sta chiudendo.

La Cina nel 2016 ha allentato la “politica del figlio unico” adottata nel 1980 da Deng Xiaoping, uno dei più rigorosi provvedimenti di pianificazione familiare della storia, permettendo così alle coppie di avere due o in alcuni casi tre figli. Ma la riforma, nonostante un lieve aumento nei due anni immediatamente successivi, non è riuscita a invertire la tendenza in discesa del tasso di natalità del paese, come peraltro confermato dal censimento effettuato alla fine del 2020. Le cause sono da ritrovarsi probabilmente nell’aumento del costo della vita, ma anche del livello di educazione delle donne, le quali ora sono più attente alla pianificazione familiare e tendono a prediligere una carriera fuori dalle mura domestiche.

Tuttavia, Pechino non è la sola a essere testimone di questa traiettoria demografica: nella maggior parte dei paesi dell’Asia orientale, anche senza politiche di controllo della fertilità come quella cinese, il tasso di fertilità si sta abbassando sempre di più. La popolazione della Corea del Sud, per esempio, nel 2020 ha registrato per la prima volta una popolazione in discesa, con il numero di nascite in calo del 10% rispetto all’anno precedente e in parallelo, anche la composizione dei nuclei familiari va via via riducendosi, e diventano sempre più comuni le famiglie composte da una sola persona, che in Corea del Sud rappresentano già quasi il 33% del totale.

Il Sudest asiatico non è un’eccezione, con un tasso di crescita demografica dimezzato dal 1990 (2%) al 2020 (1%) e moltissimi paesi tra cui Brunei, Thailandia, Singapore, Malesia e Vietnam con un tasso di fertilità inferiore al livello di sostituzione. La decrescita interessa comunque tutta la regione, con eccezioni di natura prevalentemente culturale o religiosa all’interno dei vari paesi (per esempio le famiglie di etnia malese in Malesia continuano ad essere più numerose perché la loro cultura favorisce famiglie e comunità più grandi, così come nelle Filippine la natalità è più alta a causa della minore diffusione dell’uso di contraccettivi per motivi religiosi).

Complice di questo trend al ribasso può essere stata l’adozione di programmi di pianificazione familiare per frenare l’esplosione demografica degli anni ’70 e il numero crescente di donne che decidono di studiare ed entrare nella forza lavoro. Esiste poi una chiara correlazione tra bassi tassi di natalità e livelli di reddito. A causa dell’elevata crescita economica che ha investito questi paesi sin dagli anni ’60, il reddito pro capite è aumentato, cambiando stili e scelte di vita, rendendo sempre più comune la scelta di rimanere single e sposarsi in età più avanzata, portando dunque a tassi di natalità più bassi.

Nel complesso, inoltre, gran parte dell’Asia sta invecchiando – e velocemente, specialmente grazie a migliori abitudini alimentari, progressi nella prevenzione delle malattie e nelle misure igienico-sanitarie, al miglioramento di strutture e servizi sanitari ma anche servizi come le assicurazioni sanitarie. Entro il 2050, si stima che il 21,1% della popolazione del sud-est asiatico avrà 60 anni o più, creando un grosso problema al sistema pensionistico che probabilmente causerà inoltre una revisione dei sistemi di previdenza sociale. La transizione da una “società che invecchia” (ovvero con una proporzione di anziani, considerati come persone di 65 anni o più, tra 7-14% ) a una società cosiddetta “anziana” (ovvero con una proporzione di persone anziane tra il 14-21%) sarà però molto rapida: si stima che ci vorranno solo 22 anni in Thailandia e 19 in Vietnam, che significa che la Thailandia diventerà una società “anziana” nel 2024 e il Vietnam lo sarà nel 2039. Un numero molto basso, se pensiamo che in Svezia e Francia ci sono voluti rispettivamente 85 anni e 115 anni.

Per rallentare questo processo, alcuni paesi del sud-est asiatico stanno iniziando ad attivare politiche di incentivi alla natalità, che vanno dal diritto al congedo parentale ai sussidi per la riproduzione assistita. Tuttavia, non tutti i governi possono permettersi queste politiche, il più delle volte oltremodo onerose per le casse statali.

L’ASEAN si candida per i Mondiali del 2034

Secondo Gianni Infantino, presidente della Fifa, l’ASEAN ha le capacità economiche e calcistiche per ospitare la massima competizione internazionale

L’ASEAN potrebbe ospitare i Mondiali di calcio nel 2034. Il Presidente della Fifa, Gianni Infantino, ha aperto a questa possibilità al termine di una visita allo stadio Jalan Besar a Singapore, in occasione dell’inaugurazione della nuova sede della Federcalcio dell’Isola e del nuovo tappeto d’erba dello stadio, a cui l’ente mondiale ha contribuito con 2,53 milioni di dollari. “Ospitare il Mondiale è una grande ambizione – ha detto Infantino – Questa parte del mondo ha sicuramente la capacità economica e calcistica per farlo”. A convincerlo sarebbe stata “la grande passione per il calcio” che nutrono gli abitanti di questa regione, oltre, naturalmente, all’economia in crescita. L’Indonesia, poi, ospiterà i Mondiali Under 20 nel 2023, e questo “sarà un banco di prova” per mostrare le capacità dell’ASEAN. Infantino ha dunque accolto con favore la decisione di Singapore di candidarsi come ospite della World Cup 2034, aggiungendo che il Paese vanta “una federazione molto ambiziosa e un governo che sostiene il progetto”.

“È responsabilità della Fifa cercare di ridurre il divario tra nazioni – ha ricordato il Presidente dell’associazione – aumentando le opportunità per i Paesi di rilevanza calcistica minore, come quelli dell’ASEAN, ad affiancarsi a quelle più affermate”. Non è un caso, infatti, che dalla sua nomina, nel 2016, la Fifa abbia incrementato il numero di squadre che partecipano aI Mondiali, da 32 a 48 a partire dall’edizione del 2026. Infantino, inoltre, ha recentemente suggerito di aumentare la frequenza dei Mondiali, abbandonando il formato quadriennale, per svolgerli ogni due anni. Una proposta che ha suscitato non poche critiche, soprattutto da parte delle federazioni dell’Unione Europea e di quella degli Stati Uniti. Ma anche questo sarebbe un modo per rendere più inclusiva la competizione, permettendo anche a potenziali nuovi host, come l’ASEAN, di entrare più facilmente nel circuito. Infantino ha anche promesso di garantire che il processo di appalto per ospitare i Mondiali, sommerso dalle accuse di corruzione nelle precedenti edizioni, sarà reso “il più possibile trasparente e professionale”.

Da qui al 2034 l’ASEAN avrà un obiettivo, ha aggiunto Infantino: “Far crescere il calcio”. È in corso, infatti, una discussione tra Fifa e Federcalcio dell’ASEAN sulla possibilità di includere la Coppa Suzuki, che riunisce le nazionali dell’area, tra i tornei ufficiali della Fifa. Il torneo per il momento è solo accreditato presso la Fifa, ma non è supervisionato da quest’ultima né disputato in una finestra internazionale. Ciò implica che i club calcistici non sono obbligati a rilasciare i propri giocatori per parteciparvi. Per questo molti dei migliori giocatori dell’ASEAN con sede in Europa non riescano a prendere parte al torneo.Certamente la candidatura ad ospitare i mondiali del 2034 passa attraverso lo sviluppo di un’offerta congiunta da parte dei Paesi membri dell’ASEAN. Una necessità che il premier thailandese Prayut Chan-o-cha ha fatto presente nel corso del 34° summit del blocco svoltosi a Bangkok, invitando “tutti i popoli dell’ASEAN a sostenere collettivamente le federazioni nazionali di calcio degli stati membri dell’associazione, al fine di realizzare insieme questo sogno”.

Il ruolo dei Paesi asiatici nelle supply chains “democratiche”

Mentre la tensione tra le due grandi potenze del Pacifico – USA e Cina – aumenta, le catene del valore dell’economia globalizzata sembrano sempre più fragili e i rapporti di interdipendenza economica tra i due rivali più scomodi. Washington ha bisogno dei suoi alleati asiatici per creare supply chain più resilienti e “democratiche”. Ma con quali effetti sulla regione?

Gli osservatori più preoccupati la chiamano già “nuova guerra fredda”. E, in effetti, la guerra commerciale combattuta tra Stati Uniti e Cina si sta ingarbugliando sempre di più. Se le tensioni tra i due Paesi, qualche anno fa, apparivano collegate quasi esclusivamente all’impatto dell’export di Pechino sull’economia americana, la narrazione di questo confronto ha assunto di recente toni più accesi. La competizione non sembra più solo tra due modelli economici, ma tra due modelli politici. Siamo davvero di fronte a una seconda guerra fredda? Anche accettando questa lettura, non la si sta combattendo con le armi della prima. Nel mondo globalizzato, il terreno di scontro per le superpotenze sono le catene di approvvigionamento e di valore globali. L’influenza sui Paesi terzi si esercita con gli investimenti nelle infrastrutture e con lo sviluppo di nuove partnership commerciali. Lo scontro ideologico, in fondo, rimane innanzitutto uno scontro economico, anche se raccontato in modo diverso. 

In questi ultimi anni, i consumatori – e i loro governi – si sono accorti di quanto fragili siano le catene di approvvigionamento globali per certi beni. Il caso più emblematico è la crisi dei superconduttori, componenti essenziali per molti settori e asset strategico nell’epoca digitale, la cui produzione avviene in larghissima parte in Asia. La questione è tanto seria da diventare politica. Stati Uniti e Unione Europea non si vogliono limitare a rafforzare le supply chain: intendono affermare la propria sovranità digitale, spostando parte della produzione di chip nel proprio territorio. Mentre Bruxelles mantiene una posizione conciliante con Pechino, Washington è decisa a promuovere catene di approvvigionamento “democratiche”. Nel concreto, dipendere meno dalla Cina e fare più affidamento sui partner che condividono lo stesso modello politico. Per l’amministrazione Biden, una rinnovata “alleanza delle democrazie” è essenziale per realizzare i propri obiettivi di politica estera.

Ma quali sono i partner “democratici” con cui collaborare? A inizio anno, il premier britannico Boris Johnson aveva proposto di trasformare il G7 che stava presiedendo in un D10, un summit delle dieci principali democrazie mondiali, coinvolgendo India, Corea del Sud e Australia – tre paesi dell’Asia-Pacifico. La lista degli invitati era ben più lunga per il Summit for Democracy organizzato dalla Casa Bianca tra l’8 e il 10 dicembre. Questi esercizi presentano sempre lo stesso problema a chi li organizza: non sempre un Paese formalmente libero e democratico lo è anche nella sostanza. La scelta di chi ammettere o meno nel club potrebbe sollevare qualche perplessità. Inoltre, come già ricordato, i Paesi UE cercano di distendere i rapporti con Pechino e vogliono evitare iniziative che potrebbero essere percepite come “alleanze anticinesi”.

Tornando all’esempio dei semiconduttori, Washington intende riorganizzare le proprie catene di approvvigionamento facendo maggiore affidamento sui suoi alleati in Asia orientale. Alcuni già giocano un ruolo importante nel settore – come Corea, Giappone e Taiwan, partner fondamentali per raggiungere gli obiettivi dell’ordine esecutivo del presidente Biden sulle supply chain –, altri sono attori emergenti, come i Paesi ASEAN – gli States intendono investire ingenti risorse per rafforzare la cooperazione con il blocco. La Malesia è un produttore importante di chip ed è stata invitata al summit globale delle democrazie. L’Indonesia è riconosciuta dai suoi partner come una delle più grandi democrazie ed economie al mondo e ha il potenziale per inserirsi maggiormente nelle catene del valore mondiali. Occorre però stare attenti ai rischi della creazione di un “club delle democrazie”. Qualche Paese ASEAN potrebbe non apprezzare il fatto di essere lasciato fuori. È il caso di Singapore, escluso dal summit organizzato a Washington ed entrepôt strategico nel mercato mondiale dei chip.

Gli Stati Uniti vogliono collaborare con i propri alleati per ridurre la dipendenza dai prodotti cinesi non soltanto con riferimento ai semiconduttori. Terre rare, batterie ad alta capacità, forniture mediche e militari. Sono molti i settori che verranno gradualmente influenzati dalla nuova dottrina americana. Un altro terreno di confronto con Pechino sono gli investimenti infrastrutturali nei Paesi terzi. La Belt and Road Initiative è una delle bandiere della politica estera cinese e uno strumento formidabile di influenza. USA e UE hanno proposto le loro alternative, rispettivamente la Build Back Better World (B3W) Initiative e il piano strategico Global Gateway. I due nuovi piani di investimento avranno sicuramente tra i propri beneficiari i Paesi dell’Asia più bisognosi di infrastrutture, la cui mancanza rappresenta uno dei principali colli di bottiglia per il loro sviluppo economico. Per Washington, la presenza cinese nelle reti infrastrutturali va tenuta sotto controllo non solo all’estero, ma anche dentro i propri confini, come abbiamo visto con l’esclusione di Huawei dallo sviluppo della rete 5G.

Riuscirà Washington a riforgiare le catene di approvvigionamento globali con una tempra più resiliente e “democratica”? Senza dubbio la politica degli Stati Uniti favorirà le aziende dei loro partner asiatici, che esporteranno nel mercato statunitense una maggiore quantità di beni sostituendo i loro concorrenti cinesi. Allo stesso tempo, rimane incerto valutare le conseguenze di questa strategia negli altri mercati. Le altre democrazie ridurranno effettivamente la loro dipendenza dalle merci cinesi? Non tutti gli alleati di Washington condividono la linea dura rispetto Pechino – Europa in primis – e per i Paesi asiatici potrebbe essere difficile e dannoso ridurre i propri legami commerciali con il vicino. In questo caso, potrebbero non essere così entusiasti di seguire la leadership americana.

La scommessa della finanza decentralizzata nel Sud-Est: un “gioco da ragazzi”?

La trasformazione digitale sta rivoluzionando il mondo della finanza e aprendo a nuove opportunità di guadagno. Nel contesto ASEAN, investire diventa un’operazione particolarmente facile e divertente e alla portata di tutti, vista anche la diffusa familiarità con il mondo dei videogiochi e con gli strumenti tecnologici.

Nel Sud-Est asiatico, la diffusione delle criptovalute cresce di pari passo con la ludicizzazione delle piattaforme di trading. L’incontro di queste due tendenze dà vita a piattaforme di finanza decentralizzata (DeFi) che riescono a trasformare le “fredde e noiose attività finanziarie in divertenti avventure comuni che assomigliano alle esperienze di gioco con cui i giovani investitori asiatici hanno dimestichezza”.

La sinergia tra l’industria del gaming e il mondo della finanza digitale si è finora mostrata particolarmente vincente in Asia, data anche la centralità che entrambi i settori ricoprono nell’economia del continente. Grazie alla decentralizzazione e alla trasparenza tipica della tecnologia blockchain, la cripto-finanza si presenta agli occhi degli investitori più giovani come un’alternativa più equa e accessibile rispetto alla finanza tradizionale. Inoltre, spesso le piattaforme sono pensate per rendere il trading sempre più simile a un videogioco, che lascia intravedere la possibilità di arricchirsi con semplici e divertenti operazioni.

Axie Infinity, sviluppato dallo studio vietnamita Sky Mavis, è tra i giochi play-to-earn più popolari: durante la scorsa estate, il volume storico delle transazioni ha superato il miliardo di dollari, mentre la piattaforma raggiungeva la quota di un milione di utenti attivi al giorno (DAU). L’ecosistema, che si appoggia sulla tecnologia blockchain di Ethereum e si basa su token non fungibili (NFT), coinvolge i giocatori in attività di mining, offrendo sostanzialmente la possibilità di convertire la moneta virtuale accumulata in guadagni reali.

Queste caratteristiche hanno reso Axie Infinity attrattivo non solo per i giovani nativi digitali, ma anche per i lavoratori precari, per i quali le operazioni mining diventano quindi non solo un passatempo proficuo ma anche una vera e propria attività remunerativa che garantisce una certa stabilità economica. Basti pensare che per un cittadino delle Filippine dedicare quotidianamente un tempo minimo di due ore a sviluppare e sostenere l’economia virtuale del gioco può avere un impatto significativo nella vita reale, arrivando a fruttare quasi il doppio di un salario medio mensile. Lily Z. King, CEO di Cobo, società di gestione patrimoniale e custode di criptovalute con sede a Singapore, ha osservato che “per i suoi 2 milioni di utenti, il gioco è già diventato un luogo di lavoro, una banca e un mercato azionario”. 

L’Indonesia è un altro Paese ASEAN in cui parte della popolazione fa affidamento sulla DeFI gamificata per coprire le spese quotidiane. Del milione di utenti che usufruiscono dei servizi di intrattenimento e asset digitali offerti dalla singaporiana Digital Entertainment Asset, circa la metà sono indonesiani, in quanto le criptovalute guadagnate durante le sessioni di gioco online sono facilmente convertibili nella valuta locale, passando per exchange come Indodax. 

La recente tendenza alla gamification della finanza digitale sembra portare con sé una serie di vantaggi, tra cui l’inclusione nel mondo finanziario di sempre più ampi e variegati settori della società. Tuttavia, alcuni osservatori sottolineano i potenziali rischi di un sistema che fa leva sul coinvolgimento emotivo e la cui dimensione ludica può facilmente sfociare in dipendenza, soprattutto per i più giovani e inesperti. La semplificazione e la natura open-source delle tecnologie blockchain non impediscono infatti che gli utenti possano incorrere in gravi perdite derivanti dai rischi tipici del settore, quali l’estrema volatilità e il pericolo bolle speculative, mentre gli alti rendimenti non si accompagnano a garanzie come quelle offerti da banche e conti di investimento tradizionali. 

Per questi motivi, le autorità sono chiamate ad investire nell’educazione finanziaria, assicurandosi di fornire alla popolazione gli strumenti e le conoscenze per evitare che il tentativo di restare al passo con la trasformazione digitale e l’innovazione tecnologica si trasformi in un gioco pericoloso. Ad aprile, un gruppo di associazioni di blockchain australiane e del Sud-Est asiatico hanno firmato un Memorandum of Understanding dando vita all’Asean Blockchain Consortium (ABC), la prima collaborazione tra attori del settore mirata a promuovere la formazione sul tema, oltre a proporre collaborazioni transfrontaliere e con le autorità di regolamentazione per garantire la conformità legale dei regolamenti e incentivare l’adozione della tecnologia.

La tecnologia blockchain e i mercati dei crypto-asset si avviano a rivoluzionare i paradigmi del settore, rendendo la finanza più coinvolgente e inclusiva. Come ha osservato in occasione della firma dell’accordo Chia Hock Lai, co-presidente della Blockchain Association Singapore (BAS), tutti gli attori in gioco hanno il compito di “supportare la crescita del settore ad un ritmo sano e sostenibile, fornendo allo stesso tempo spazio per l’innovazione”.

Gli interessi della Russia nei Paesi ASEAN

La Russia sta porgendo sempre più attenzione al Sud-est asiatico, intensificando la cooperazione con i paesi ASEAN su vari fronti.

Dal 2 al 4 dicembre 2021 si è svolta la prima esercitazione navale congiunta tra la Marina Russa e quella dei paesi dell’ASEAN, in acque indonesiane, lungo lo Stretto di Malacca, una delle rotte marittime più importanti del mondo. Per l’esercitazione Indonesia, Thailandia, Singapore, Vietnam, Malesia, Myanmar e Brunei hanno messo in campo le loro navi da guerra o i loro aerei militari, mentre le Filippine si sono limitate ad assistere all’esercitazione come osservatore virtuale. Questa è la prima esercitazione congiunta tra i paesi dell’ASEAN e la Russia. D’altra parte, singoli Stati come l’Indonesia nel 2020 e il Laos nel 2019 hanno già portato a termine esercitazioni militari con Mosca. Infatti, il legame tra Russia e alcuni Paesi dell’ASEAN in tema di difesa e sicurezza sembra essere piuttosto solido. Basandosi sui dati per il periodo dal 1999 al 2019 Mosca risulta essere la prima esportatrice di armi per i Paesi del Sud-Est asiatico; il 26% di tutte le importazioni di armi nei paesi ASEAN risultano fornite dalla Russia, mentre il 20% dagli Stati Uniti, secondo un report stilato dallo Stockholm International Peace Research Institute.

In generale, bisogna sottolineare che i Paesi dell’ASEAN hanno interesse ad avere un ampio portfolio di fornitori in modo da rimarcare la loro politica di non allineamento e per non rischiare di avere una cattiva relazione con altri stati fornitori. Connie Rahakundini Bakrie, un’analista militare indonesiana dell’Istituto di Studio sulla difesa e sicurezza, ha descritto l’esercitazione congiunta tra Mosca e i paesi dell’Associazione delle Nazioni del Sud-Est asiatico come un ulteriore segnale di non allineamento del blocco ASEAN. Infatti, durante gli anni questi Stati hanno cercato di costruire una politica per cui non debbano prendere né le parti della Cina, stato a cui sono legati da stretti legami economici, né le parti degli Stati Uniti, che sono sicuramente una garanzia contro qualunque possibile disputa data dal potere crescente di Pechino. Con l’eccezione di Laos, Cambogia e Myanmar, che sono molto più legati alla Cina, gli altri Paesi dell’ASEAN stanno tessendo dei forti legami con i paesi occidentali.

Questa politica estera dei Paesi ASEAN sembra far comodo anche alla Russia, la quale sta porgendo sempre più attenzione al Sud-Est asiatico, tanto che nel 2018 la relazione tra Mosca e i Paesi dell’ASEAN è passata ad essere definita come un “partenariato strategico”. Inoltre, il 28 ottobre 2021 si è tenuta in videoconferenza il quarto Summit ASEAN-Russia per festeggiare il trentesimo anniversario delle relazioni tra Mosca e i paesi dell’ASEAN. Questo summit ha avuto anche come risultato la stesura di documenti atti a sviluppare un piano di azione per implementare il loro partenariato strategico. Come affermato da Richard Heydarian, professore di Storia e Scienze Politiche presso l’Università Politecnica delle Filippine, la Russia molto probabilmente vede il Sud-Est asiatico come un terreno strategico per promuovere un ordine globale multipolare e non uni o bi-polare. Da un lato, infatti, Mosca vuole certamente compromettere lo status globale di cui godono gli Stati Uniti, ma questo ovviamente non significa che la Russia voglia lasciare libero spazio all’ascesa della Cina, lasciando che quest’ultima controlli delle regioni che ad ora si dichiarano non allineate, come il Sud-Est asiatico.

Lo stato appartenente all’ASEAN, a cui la Federazione Russa è più legata è sicuramente il Vietnam. L’amicizia tra i due paesi è stata anche dimostrata dalla visita del presidente del Vietnam Nguyễn Xuân Phúc in Russia dal 29 novembre al 2 dicembre 2021. I leader dei due Paesi durante questa visita hanno rilasciato una dichiarazione di visione congiunta sul partenariato strategico globale Vietnam-Russia fino al 2030 e inoltre hanno espresso il desiderio di voler incrementare la loro collaborazione in materia di sicurezza e di difesa ed inoltre di voler rafforzare i loro legami commerciali e di investimento. Il legame tra Hanoi e Mosca deriva soprattutto dalle affini vedute politiche dei due Paesi durante il periodo della guerra fredda. Il Vietnam, infatti, ha un’importanza strategica per la Russia poiché funge da ponte tra Mosca e il blocco ASEAN. Dall’altra parte, il Vietnam probabilmente spera che la Russia possa in qualche modo arginare le pretese della Cina nel Mar Cinese meridionale. Probabilmente però difficilmente Mosca sacrificherebbe i suoi rapporti con la Cina per il Vietnam.

Richard Heydarian, inoltre fa una considerazione molto interessante sui legami tra Russia e Paesi ASEAN. Mosca, infatti, ha un’altra fonte di attrazione per questi Paesi: l’ideologia. La politica che Putin rappresenta in realtà risulta molto attraente per alcuni leader del Sud-Est asiatico che non si riconoscono del tutto nei sistemi democratici degli Stati Uniti e dell’Unione Europea. In un certo senso la politica autoritaria, nazionalista e populista di Putin sembra esercitare una sorta di soft power su alcuni membri dell’ASEAN. Da ultimo, la Russia ha anche applicato la cosiddetta diplomazia dei vaccini su molti paesi del sud est asiatico. I Paesi ASEAN, infatti, hanno molto apprezzato l’intervento della Russia in risposta alla pandemia COVID-19, anche attraverso la distribuzione nell’area del vaccino “Sputnik V” e la formazione di esperti sanitari, invocando il rafforzamento degli impegni ASEAN-Russia per garantire l’effettiva attuazione delle strategie di ripresa post-pandemia.  

RCEP, al via l’accordo che promette l’integrazione asiatica

Il 1°gennaio 2022 entrerà ufficialmente in vigore la Regional Comprehensive Economic Partnership (RCEP), un accordo che porta con sé grandi aspettative per il processo di integrazione asiatica. Ecco di cosa si tratta

Tutto pronto per l’entrata in vigore del Regional Comprehensive Economic Partnership (RCEP) per il 1°gennaio 2022. Si tratta del più grande accordo commerciale della storia al di fuori dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC), che coinvolge 16 paesi della regione asiatica. Al momento del lancio ufficiale saranno però 10 le nazioni coinvolte dalle nuove misure, mentre 5 devono ancora ratificare l’accordo all’interno dei propri meccanismi legislativi. A partire da gennaio saranno incluse nel RCEP 6 nazioni ASEAN: Singapore, Brunei, Thailandia, Laos, Cambogia e Vietnam. Insieme a loro entrano Cina, Giappone, Nuova Zelanda e Australia. Per la Corea del Sud, infine, bisognerà attendere la sessione plenaria dell’Assemblea nazionale per ufficializzare l’ingresso nell’accordo.

Sul potenziale del Rcep sono state già spese molte parole, tanto quanto sono alte le aspettative. Un trattato di questa portata non potrà che accelerare l’integrazione economica della regione, facendo incontrare realtà economiche, politiche e sociali molto diverse tra loro. IL RCEP coprirà un mercato di 2,3 miliardi di persone, con un valore della produzione che supera i 26 trilioni di dollari: si tratta di circa il 30% della popolazione mondiale e oltre un quarto delle esportazioni esistenti sui mercati globali.

I punti dell’accordo

Il RCEP mira ad abbattere le barriere tariffarie fino al 90% tra i paesi aderenti nell’arco di 20 anni. Per la Cina e i paesi ASEAN significherà un rafforzamento dell’Accordo di libero scambio (ALS) già in vigore, riducendo il 70% delle tariffe sui beni importati dal Sudest asiatico, mentre Brunei, Singapore, Thailandia e Vietnam elimineranno circa il 75% delle tariffe sui prodotti importati dalla Cina. Il tutto correlato da uno sforzo di semplificazione e accelerazione delle pratiche amministrative legate agli scambi commerciali tra i paesi RCEP. Questo passaggio punterà sulla crescita delle competenze in ambito digitale dei paesi coinvolti, ma anche sull’armonizzazione di dati, documenti e comunicazioni.

Il secondo aspetto più rilevante dell’Accordo regionale riguarda l’abbattimento delle cosiddette misure non tariffarie (NTM), ovvero tutte quelle limitazioni alle importazioni legate – per esempio – agli standard di qualità e di sicurezza di una determinata industria. Si tratta di un punto importante, che insieme al vincolo della trasparenza facilita le transazioni internazionali lungo la supply chain. Un esempio è quello del Vietnam, che importa una parte significativa di componenti ad alta tecnologia da Cina e Corea del Sud: questo tipo di trattative sono continuamente soggette a procedure di conformità che fanno lievitare i prezzi sia dei materiali che dell’output finale, mentre l’assenza di standard uniformi ostacola l’inserimento del prodotto sui mercati internazionali. Costi tutt’altro che irrisori, in quanto chiedono un’analisi molto approfondita e aggiornata dei requisiti normativi del partner commerciale, e l’adozione di nuovi strumenti e competenze certificati. Con l’arrivo del RCEP, questo processo viene adottato in una soluzione unica a livello nazionale, con le autorità competenti che hanno lavorato per applicare le misure necessarie ad uniformare i regolamenti nazionali con quelli previsti dall’accordo.

L’integrazione digitale è uno dei passaggi dell’accordo più innovativi nel panorama degli ALS. I paesi aderenti promettono creare maggiori opportunità per le piccole medie imprese nel settore e-commerce, oltre a fornire loro maggiori competenze digitali per facilitare gli scambi sul mercato internazionale. Secondo un sondaggio del 2021 del World Economic Forum, l’87% dei dirigenti di PMI ASEAN conta sulla digitalizzazione come uno strumento importante per superare la crisi economica. Nei piani del RCEP questa evoluzione dovrà passare attraverso canali nuovi, dove dovranno avvenire le transazioni monetarie e lo scambio di documenti e atti amministrativi. Da qui nasce l’opportunità di scambiare tecnologie ed expertise utile con più facilità: le aziende di Singapore, paese che eccelle nell’indice di competenze digitali globale (DSGI) (con un punteggio di 7.8), possono contribuire allo sviluppo tecnologico di partner ancora distanti dall’upgrade tecnologico soft e hard (come la Cambogia, che ha solo 2,8 di DSGI).

Le prospettive 

Il RCEP viene lanciato in un momento storico difficile, dove lo sviluppo economico deve fare i conti con le ondate di contagi Covid. Ogni processo di integrazione economica su larga scala richiede diversi anni prima di mostrare i primi risultati concreti. L’accordo offre ai paesi più avanzati l’opportunità di ridurre i costi lungo la supply chain, mentre ai paesi in via di sviluppo permette di importare più facilmente alcune tecnologie sofisticate e know how. Sia gli investitori asiatici che le aziende estere inserite sul mercato RCEP potrebbero vedere ampliato il ventaglio di opportunità di crescita, sia in termini di acquisti che di vendita di beni e servizi.

Le promesse dell’accordo sono integrazione commerciale, razionalizzazione tariffaria, liberalizzazione economica, rivitalizzazione delle PMI, accessibilità al mercato e beneficio reciproco tra pari. Ciò non elimina per intero il rischio che alcuni paesi possano approfittare dell’accordo per inserirsi nelle zone grigie delle normative nazionali, soprattutto laddove viene meno la tutela verso le PMI. Il tempo delle disquisizioni è giunto al termine per (quasi) tutti i paesi: saranno le azioni dei prossimi anni a dimostrare il potenziale del RCEP tanto per i privati, quanto per la cooperazione internazionale.

Quale sarà il futuro dell’economia ASEAN nel 2022?

Negli anni precedenti alla pandemia da Covid-19, i Paesi ASEAN concorrevano per diventare la quarta potenza economica mondiale entro il 2030 ma i vari lockdown, le ondate e i milioni di contagi rischiano di mettere in stand-by questo grande obiettivo.

L’Asia da millenni stupisce e meraviglia l’Occidente con nuove scoperte e grandi passi avanti in campi nei campi della tecnologia e dell’economia. In questo preciso momento storico le aspettative che tutto il mondo, ma in primis i vari Paesi ASEAN, ripongono sulla rinascita asiatica stanno tardando a concretizzarsi ma questo non significa che non si materializzeranno. Secondo i dati elaborati da Oxford Economics, il prolungarsi della pandemia sta solo ritardando la ripartenza dei Paesi ASEAN. Nel primo trimestre del 2021 Indonesia, Thailandia e Filippine, le tre maggiori economie del Sud-Est asiatico, si sono trovate costrette ad attuare diverse misure di contenimento per far fronte a nuove ondate di contagi, registrando rispettivamente una contrazione dello 0,7%, 2,6% e 4,2% del Pil rispetto allo stesso periodo del 2020. Se dunque gli analisti hanno rivisto al ribasso le previsioni di crescita del blocco per l’anno corrente, dal 5,5% al 4,9%, i segnali positivi che arrivano dal commercio globale e il graduale ritorno degli investimenti suggeriscono una ripresa ancora più forte nel 2022 (+6,5%).

Per la maggior parte dei Paesi ASEAN, il secondo trimestre del 2020 è stato il primo periodo in cui si è fatta sentire l’influenza della pandemia. Proprio per questo motivo, sarà più facile per le economie regionali registrare una crescita annua nel trimestre in corso. Tuttavia, il futuro è ancora avvolto nell’incertezza a causa del recente peggioramento del virus in tutta la regione. Le restrizioni hanno rallentato la spesa per consumi privati, che è scesa dello 0,5% su base annua nel primo trimestre, superando la crescita dello 0,9% registrata nel quarto trimestre del 2020.

Il progresso dei programmi di vaccinazione in ogni Paese avrà un impatto sulla spesa delle persone. Il 5 maggio di quest’anno, la Bank of Thailand ha fatto proiezioni economiche basate su determinati scenari: se entro la fine del 2021 verranno distribuite 100 milioni di dosi di vaccini per ottenere l’immunità di gregge entro il primo trimestre del 2022, l’economia crescerà del 2,0% nel 2021 e del 4,7% nel 2022. Un ritardo nel raggiungimento dell’immunità di gregge fino al terzo trimestre del 2022 ridurrebbe la crescita economica della regione all’1,5% nel 2021 e al 2,8% nel 2022. Se ci vorrà fino all’ultimo trimestre del 2022, l’economia crescerà solo dell’1,0% e dell’1,1%, secondo le proiezioni della banca.

Durante il primo trimestre, la Thailandia è stata colpita dalla seconda e dalla terza ondata del virus. La seconda ondata, che si è evoluta a metà dicembre ed è durata fino all’inizio di febbraio, ha portato a orari di apertura più brevi, alla chiusura di attività come bar, pub con karaoke e centri massaggi nell’area metropolitana di Bangkok. Dopo le proteste del settore della ristorazione, il governo ha iniziato a consentire l’accesso ai servizi di ristorazione anche nelle province più colpite. Tuttavia, le entrate dei ristoranti sono rimaste basse, poiché la capacità di posti a sedere è limitata al 25%. Le restrizioni hanno rallentato la spesa per consumi privati, che è scesa dello 0,5% su base annua nel primo trimestre, superando la crescita dello 0,9% registrata nel quarto trimestre del 2020. La mancanza di turisti non ha aiutato l’economia. Sebbene il governo thailandese sia desideroso di aprire il Paese vista la dipendenza dal turismo, le ondate di virus hanno interrotto i flussi di visitatori. Le esportazioni di servizi, che includono la spesa dei non residenti come i turisti, sono diminuite del 63,5% nei tre mesi conclusi a marzo. Le esportazioni di merci sono cresciute per la prima volta in quattro trimestri, registrando un aumento del 3,2%.

La Malesia era sulla buona strada per soddisfare le previsioni ufficiali di crescita dal 6% al 7,5 per cento fino a quando la pandemia di coronavirus ha colpito nel marzo 2020. Ciò nonostante, il Paese ha continuato e continua a lavorare per raggiungere la prevista crescita del prodotto interno lordo (PIL) compresa tra il 6,0 per cento e il 7,5% nel 2021. La strategia futura del governo malese prevede una maggiore attenzione ai settori economici più colpiti dalla pandemia di coronavirus come il turismo e il commercio al dettaglio. Kuala Lumpur aspetterà che la ripresa prenda piede prima di considerare eventuali nuove tasse. Poiché l’obiettivo è quello del rilancio dell’economia, questo sarà possibile solo attraverso un equilibrio tra l’iniezione fiscale a breve termine e il consolidamento fiscale a medio e lungo termine.

Nelle Filippine, il governo ha parlato del potenziale del Paese di tornare a un rapido tasso di crescita, aiutato dalla spesa pubblica e da un’eventuale fine ai blocchi. Il Pil è sceso del 4,2 per cento nel trimestre di marzo rispetto a un anno prima. L’economia filippina si è ridotta più del previsto nel primo trimestre, anche se lo slancio sequenziale ha mostrato che era in corso una ripresa e ha suggerito che la banca centrale manterrà i tassi ai minimi storici. Anche l’economia è migliorata su base sequenziale, con la produzione in aumento dello 0,3 per cento rispetto ai tre mesi precedenti su termini destagionalizzati per segnare la sua terza crescita consecutiva trimestre su trimestre. Manila sta combattendo uno dei peggiori focolai di coronavirus dell’Asia con oltre un milione di casi registrati e oltre 18.000 morti. Una nuova ondata di infezioni a partire da marzo aveva indotto la re-imposizione di limiti alla mobilità più severi, ma i nuovi casi giornalieri sono diminuiti rispetto al picco.

Un esempio di strategia di contenimento del Covid-19 di successo e di ripresa economica efficace è sicuramente quello del Vietnam. Con uno dei più bassi casi di casi e decessi al mondo, il viaggio del Vietnam contro il COVID-19 si è distinto nel Sud-Est asiatico e in tutto il mondo. Al governo è stato ampiamente attribuito il successo del Paese nel tenere sotto controllo i tassi di trasmissione di COVID-19 grazie al suo rapido processo decisionale, all’efficacia dei messaggi sulla salute pubblica e alla tracciabilità dei contatti aggressiva, sebbene non senza critiche. Ma, come in altri Paesi, le restrizioni ai movimenti e le misure di allontanamento sociale per ridurre la diffusione di COVID-19 hanno influito sul sostentamento delle persone. Alcune famiglie si sono affidate agli aiuti per le loro necessità di base. Altri, come i lavoratori informali che non erano in grado di presentare la documentazione per accedere agli aiuti del governo, si sono affidati alla carità per l’assistenza. Diverse organizzazioni sociali vietnamite che lavorano con le comunità rurali svantaggiate, hanno fornito pacchi alimentari e prestiti alle famiglie del Vietnam centrale, dove il sostentamento è garantito attraverso il lavoro agricolo. Il governo ha stanziato 62 trilioni di dong vietnamiti, circa 2,6 miliardi di dollari, per l’assistenza sociale, ma l’aiuto era in gran parte inaccessibile a coloro che non avevano documentazione legale o che lavoravano nel settore informale. Sono molte le comunità che non hanno ancora ricevuto aiuti dal programma del governo. La narrativa dell’esecutivo non fa discriminazioni, ma alcuni dei suoi regolamenti e condizioni pongono inevitabilmente degli ostacoli ad alcuni membri della popolazione. Hanoi dovrà, quindi, lavorare per garantire una migliore inclusione sociale se vorrà mantenere il titolo di “economia di successo” tra i Paesi ASEAN.

Le stime della Banca Mondiale

La ripresa economica dell’Asia-Pacifico rischia una battuta d’arresto a causa della diffusione della variante Delta del coronavirus e dello stress protratto a carico di imprese e famiglie, che si tradurranno probabilmente in un rallentamento della crescita economica e in un ulteriore aumento delle diseguaglianze. È l’analisi formulata dalla Banca mondiale nel suo ultimo aggiornamento sull’economia regionale. La Banca ha rilevato un rallentamento dell’attività economica a partire dal secondo trimestre 2021, e ha conseguentemente rivisto al ribasso le previsioni di crescita per la maggior parte delle economie della regione. Mentre la previsione di crescita del Pil cinese viene innalzata rispetto alle previsioni di aprile dall’8,1 all’8,5 per cento, il resto della regione crescerà in media quest’anno del 2,5 per cento, quasi due punti percentuali in meno rispetto alla precedente proiezione dell’organizzazione.

Tra le economie che scontano la riduzione più marcata delle previsioni di crescita figurano quelle del Sud-Est asiatico precedentemente citate: per la Thailandia, la Banca Mondiale prevede ora una crescita di appena l’uno per cento nel 2021, contro il 3,4 per cento previsto ad aprile. Il Vietnam, dove la pandemia ha colpito con durezza i principali centri economici e produttivi, vede ridursi la stima di crescita del Pil per l’anno corrente dal 6,6 per cento al 4,8 per cento, e sconta una riduzione simile anche la Malesia: dal 6 al 3,3 per cento. Più contenuto l’aggiustamento operato dalla Banca mondiale alle previsioni dell’Indonesia, che quest’anno potrebbe crescere del 3,7 per cento (ad aprile la stima era del 4,4 per cento).

Per concludere, si può affermare che la ripresa economica globale continua, ma con un divario sempre più ampio tra le economie avanzate e molti dei mercati emergenti e in via di sviluppo. Le prospettive di crescita per le economie avanzate quest’anno sono migliorate di mezzo punto percentuale, ma ciò è compensato da una revisione al ribasso per i mercati emergenti e le economie in via di sviluppo, guidata da un significativo declassamento della crescita per i Paesi emergenti dell’Asia.

Eni e la transizione energetica nell’Asia Pacifico

Abbattere l’impronta carbonica in una regione che ha fame di energia 

Articolo a cura di Davide Tramballi

Institutional Support for Business Development MENA & APAC, Public Affairs, Eni

Sulla scia della COP-26, gli obiettivi net zero si stanno diffondendo in tutta l’Asia. Cina, India e Indonesia hanno rilanciato i propri impegni; più di 4 miliardi di persone, circa il 60% della popolazione globale, ora vivono in Paesi che hanno dichiarato ambiziosi obiettivi net zero. Questa situazione ha implicazioni importanti per i mercati dell’energia e per il loro futuro sviluppo. In primo luogo, il target net zero sta diventando una priorità per le nazioni in via di sviluppo; questa non è più una caratteristica esclusiva dei paesi OCSE. In secondo luogo, le nazioni asiatiche più grandi stanno aumentando la pressione sulle nazioni relativamente “piccole” della regione per fare significativamente di più e meglio. In terzo luogo, gli obiettivi net zero si stanno configurando come una necessità economica per i Paesi dell’area, dato che hanno il più grande deficit energetico di tutte le regioni del mondo, aggravato dalla necessità di un’immediata riduzione dell’inquinamento condivisa da quasi tutte le principali città asiatiche. In ultimo luogo, i Paesi asiatici (specialmente nel Sud-Est del continente) stanno facendo sempre più leva sugli impegni verso il net zero per attrarre investimenti, che sono e saranno determinanti per permettere alle nazioni asiatiche di aumentare la capacità di generazione da fonti rinnovabili. 

In generale, soprattutto nell’area Asia-Pacifico, gli obiettivi net zero sono controbilanciati dagli importanti bisogni energetici delle rispettive economie e popolazioni in rapida crescita, che hanno trasformato la regione nel più grande emettitore di CO2 del mondo (con circa la metà di tutti i gas climalteranti globali) e si prevede che guideranno il 60% della crescita totale della domanda energetica globale da qui al 2040. I primi tre fattori che contribuiscono alle emissioni di CO2 sono la produzione di elettricità e calore, la produzione e il trasporto, in larga parte come risultato della crescente urbanizzazione in Asia. In particolare la Cina e il Sud-Est asiatico mostrano la domanda di energia in più rapida crescita a livello globale, domanda che fin dai primi anni 2000 è stata soddisfatta per oltre il 90% dai combustibili fossili. Per permettere ai paesi asiatici di raggiungere il livello di crescita richiesto, i combustibili fossili sono destinati a rimanere un pilastro dell’approvvigionamento nei prossimi decenni. Secondo lo scenario target del 6° Asean Energy Outlook, pubblicato a novembre 2020 e da rivedere alla luce degli sviluppi del 2021 (compresi i risultati della COP26), la capacità di generazione da energia a carbone è destinata ad aumentare da 103 gigawatt (GW) nel 2020 a 207 GW nel 20401.

Guardando a queste tendenze, le tecnologie e il know-how che Eni ha sviluppato nel proprio percorso di innovazione stanno chiaramente emergendo come una risposta efficace alle esigenze di transizione energetica dell’area Asia Pacifico. In primo luogo, mentre i Paesi della regione iniziano a eliminare gradualmente il carbone dal loro mix energetico, in linea con una delle principali priorità della COP26, i progetti LNG-to-power si sono moltiplicati nella regione, incentivando la domanda di gas dal settore energetico. Eni mira ad aumentare la produzione locale di gas naturale in quest’area e a commercializzare volumi crescenti di gas naturale liquefatto (GNL) in sostituzione del carbone. Questo aspetto sarà cruciale per ridurre le emissioni dei Paesi dell’area APAC, permettendo al contempo di soddisfare la loro crescente domanda di energia2. Parallelamente, Eni intende fare leva sulla propria esperienza nelle fonti di energia rinnovabili come il solare e l’eolico, al centro della strategia dell’azienda con un aumento previsto a 60 GW nella propria capacità installata globale entro il 2050, per sostenere gli ambiziosi obiettivi di elettrificazione dei paesi dell’area APAC. L’elettrificazione è fondamentale anche per rendere la mobilità sempre più sostenibile, ma non è una soluzione sufficiente o abbastanza rapida per decarbonizzare il settore dei trasporti. A questo proposito, la leadership di Eni nella produzione e commercializzazione di biocarburanti avanzati rappresenta una soluzione immediata e complementare, promuovendo anche progetti di economia circolare basati sul riutilizzo degli scarti alimentari e agricoli attraverso filiere ecosostenibili. Il carburante Eni Biojet, che conterrà il 100% di componente biogenica e potrà essere combinato con il carburante convenzionale fino a un mix del 50%, giocherà un ruolo importante per soddisfare la domanda di carburante sostenibile per l’aviazione (SAF) che viene dai mercati in rapida crescita dell’aviazione regionale. La cattura, l’utilizzo e lo stoccaggio dell’anidride carbonica (meglio conosciuta con l’acronimo CCUS) potrebbe essere un altro strumento chiave per la decarbonizzazione dei sistemi energetici regionali e un primo abilitatore dell’economia dell’idrogeno, sbloccando la produzione di idrogeno low carbon a costi accessibili nel breve termine.

I Paesi più rilevanti di presenza Eni nell’Asia-Pacifico

Eni è presente in tredici paesi asiatici con attività che coprono l’intera catena del valore dell’energia. In linea con la strategia dell’azienda, anche in Asia le operazioni stanno progressivamente combinando i tradizionali progetti oil&gas con iniziative di transizione energetica – in vista della totale decarbonizzazione dei prodotti e dei processi Eni entro il 2050. Lo dimostrano gli sforzi che Eni sta portando avanti in alcuni dei più importanti paesi della regione.  

L’Indonesia è uno dei “giganti” dell’area APAC, e il suo recente obiettivo net zero al 2060 è stato una svolta nella regione. Tuttavia, questo si scontra con l’importante produzione ed esportazione di carbone dell’Indonesia (specialmente verso la Cina), e con la pianificata aggiunta di 33.000 MW alla produzione elettrica del Paese, la cui probabile eliminazione apre una significativa finestra di opportunità per gli sviluppi del gas naturale, insieme alle tecnologie di decarbonizzazione CCUS. Eni è ben posizionata per contribuire efficacemente a questi obiettivi, in quanto possiede già un totale di 12 blocchi esplorativi e produttivi di gas naturale. La società produce gas dal giacimento Jangkrik dal 2017 e dal giacimento Merakes dall’aprile 2021, rifornendo il mercato interno indonesiano e il portafoglio GNL di Eni: la maggior parte del gas viene liquefatto nell’impianto di Bontang e venduto alla società Pertamina con contratti a lungo termine, sostenendo in modo decisivo lo sviluppo dell’Indonesia e gli ambiziosi obiettivi di uscita dal carbone. Negli ultimi anni, Eni e Pertamina hanno anche esplorato nuove opportunità di cooperazione nella bioraffinazione, nell’economia circolare, nei prodotti a basso contenuto di carbonio, nella gestione dei rifiuti, nelle biomasse e nell’R&D.

Il Vietnam è un altro paese chiave nella strategia asiatica di Eni. L’azienda ha fatto una significativa scoperta di gas e condensati nell’offshore del Paese nel 2019, scoprendo risorse che potenzialmente giocheranno un ruolo cruciale nel ridurre la dipendenza dal carbone del Paese, sempre più in contrasto con il suo impegno net zero al 2050, garantendo al contempo la sua crescente domanda di energia. Inoltre, l’azienda ha discusso nuovi potenziali sviluppi negli ambiti delle rinnovabili, della filiera dei biocarburanti e di altri progetti ambientali.   

L’Australia rappresenta un altro esempio di integrazione della produzione di gas con i processi di decarbonizzazione e le rinnovabili. Eni opera nell’offshore nord-occidentale del Paese dai primi anni 2000, con attività incentrate sull’esplorazione e produzione di gas naturale. Nel 2019-2020 Eni ha acquisito tre impianti fotovoltaici per una capacità totale di quasi 60 MW nel Territorio del Nord, che rappresentano il suo ingresso nel mercato australiano delle rinnovabili. Inoltre, a maggio 2021, la società ha firmato un MoU con Santos per migliorare la cooperazione nello sviluppo di un impianto di cattura e stoccaggio/utilizzo della CO2 (CCUS) nell’area di Darwin, al servizio non solo degli asset di proprietà delle due società ma aperto a qualsiasi progetto di terzi interessati, con l’obiettivo a lungo termine di facilitare la creazione di un hub per la gestione della CO₂ nel Territorio del Nord in Australia.

Come maggiore emettitore mondiale di gas serra, i piani energetici della Cina e gli obiettivi net zero rimangono fondamentali per il successo dei processi globali di decarbonizzazione e transizione energetica. Gli impegni presi dal presidente Xi e sanciti dal 14° piano quinquennale (2021-2025) sono ambiziosi3, e devono essere conciliati con le enormi esigenze energetiche di un’economia dinamica, oltre che con l’eccessiva dipendenza del Paese dal carbone – soprattutto nel settore industriale, dove le grandi imprese statali (come il colosso China Energy Investment Corporation, il più grande produttore di carbone al mondo e generatore di energia a carbone) rappresentano circa il 65% delle emissioni totali di carbonio della Cina. La necessità di tagliare drasticamente la generazione a carbone e quindi aumentare la dipendenza dalle energie rinnovabili e dal gas naturale apre diverse opportunità nel settore energetico cinese in rapida evoluzione. Eni ha rafforzato la propria posizione nel Paese fin dal 1984 e oggi ha una presenza integrata nell’esplorazione e produzione oil&gas, nella fornitura di GNL, nelle tecnologie di raffinazione e nel trading di greggio e prodotti chimici. A dicembre 2020, la società ha firmato con l’International Cooperation Center della National Development and Reform Commission (ICC-NDRC) un accordo per promuovere la collaborazione nella transizione energetica, concentrandosi sulle fonti di energia a basso contenuto di carbonio, sulle tecnologie avanzate e sulle iniziative di economia circolare.

Il XXI secolo è stato definito da molti esperti come il “secolo asiatico” e il modo in cui i paesi dell’area APAC affronteranno la sfida energetica sarà decisivo per la transizione energetica globale. Tenendo questo a mente, negli ultimi anni Eni ha costruito una presenza integrata nel cuore di questa regione chiave per l’energia, con un forte impegno a diversificare le fonti di energia e a sostenere la crescita economica. Guardando al futuro, l’azienda sta cercando di rafforzare ulteriormente la propria presenza, facendo leva sulle proprie tecnologie proprietarie e sulle soluzioni di decarbonizzazione per aiutare i Paesi dell’area nel loro percorso verso un’energia più sicura e sostenibile per tutti.

 

Note

1 Il 60 Outlook, pubblicato a novembre 2020, è stato integrato nel 2021 dall’ASEAN Plan of Action for Energy Cooperation, Phase II 2021-2025, affermando che: “Tenendo conto della pandemia COVID-19, le proiezioni ACE indicano che l’approvvigionamento totale di energia primaria regionale (TPES) potrebbe diminuire leggermente del 3% nel 2040 nello stesso scenario di riferimento” (pag.1)

2 Develoments in Asia Downstream LNG, Wood Mackenzie, Dec.2021

3 Picco delle emissioni di COprima del 2030; neutralità carbonica prima del 2060; https://racetozero.unfccc.int/chinas-net-zero-future/ 

Lo sviluppo delle monete digitali in ASEAN

Dall’e-riel cambogiano alle ultime dichiarazioni del MUI indonesiano: i Paesi del Sud-Est si interrogano su come regolamentare il mercato delle criptovalute e pensano a monete digitali ufficiali.

Articolo a cura di Fabrizia Candido

Si chiama ‘Cryptocurrency and Regulation of Official Digital Currency Bill’ il progetto di legge a cui l’India il 23 novembre ha annunciato di star lavorando. L’obiettivo sembrerebbe essere quello di vietare le  criptovalute private (sebbene si faccia riferimento ad alcune, vaghe, eccezioni) e, allo stesso tempo, aprire la strada a una valuta digitale ufficiale emessa dalla Reserve Bank of India. Non è una notizia del tutto inaspettata, se si considera che nel corso del 2021 il governo indiano aveva persino preso in considerazione la possibilità di criminalizzare il possesso, l’emissione, l’estrazione, il commercio e il trasferimento di asset in criptovalute. Il timore, come espresso dal Premier Narendra Modi qualche settimana fa, è che le criptovalute possano “finire nelle mani sbagliate, rovinando la gioventù”. Ma l’India non è l’unico Paese asiatico in cui le criptovalute, private e/o di Stato, sono oggetto di discussione.

A interrogarsi su come regolamentare il mercato, per definizione deregolamentato e intrinsecamente volatile, delle criptovalute e a immaginare una valuta digitale ufficiale ci sono anche alcuni dei Paesi ASEAN. 

In Indonesia, la banca centrale del paese dal 1 gennaio 2018 vieta l’uso di criptovalute, incluso il Bitcoin, come mezzo di pagamento: la rupiah è l’unica valuta legale nel Paese. Tuttavia, è permesso il trading di criptovalute come opzione d’investimento insieme ai commodity futures, ovvero contratti futuri in cui ci si obbliga a scambiare una prefissata quantità di merce a una data prefissata, e a un determinato prezzo fissato alla data della contrattazione. Lo scorso 11 novembre, però, il Consiglio Religioso Nazionale Indonesiano Ulema (MUI) ha dichiarato il trading di criptovalute haram e non conforme alla Sharia, ad eccezione di quei casi in cui esso comporta “chiari benefici”. Sebbene la decisione del MUI non significhi che tutto il trading di criptovalute verrà interrotto in Indonesia, ci si aspetta che il decreto dissuaderà parte dei musulmani dall’investire in criptovalute. Secondo il ministero del commercio indonesiano, alla fine del 2020 il numero di trader aveva raggiunto i 6.5 milioni. 

Meno rigida è la Malesia, che tramite uno statement sul sito web della Bank Negara dal 2014 avverte i propri cittadini che il Bitcoin non è riconosciuto come valuta legale nel Paese, che la banca centrale non ne regola le operazioni e che pertanto si raccomanda prudenza nell’utilizzo di questa criptovaluta. Nel luglio 2021, tuttavia, la nota piattaforma di scambio di criptovalute Binance è stata bannata dal Paese.

A non optare per il ban, ma per una rigida e selettiva regolamentazione che gli permetta al contempo di essere ancora un hub attivo, c’è infine Singapore. Circa 170 aziende hanno richiesto una licenza dalla Monetary Authority of Singapore (MAS), portando il numero totale di aziende che cercano di operare ai sensi del suo Payment Services Act a circa 400, dopo l’entrata in vigore della legge nel gennaio 2020. Da allora, solo tre società di criptovalute hanno ricevuto le tanto ambite licenze. “Non abbiamo bisogno che 160 di loro aprano un business qui. La metà di loro può farlo, ma con standard molto elevati, che penso sia un risultato migliore” aveva commentato in un’intervista a Bloomberg Ravi Menon, Direttore del Monetary Authority of Singapore

A guardare invece ad una valuta digitale di Stato sono Cambogia e Laos. La Cambogia, nello specifico, ha intrapreso un ambizioso progetto per far crescere la sua Central Bank Digital Currency (CBDC). Bakong, questo il nome scelto per la valuta digitale cambogiana, grazie ad un massivo progetto pilota oggi conta già 5.9 milioni di utenti. Secondo quanto riportato dal Nikkei Asia, durante la prima metà del 2021, gli utenti Bakong hanno effettuato circa 1.4 milioni di transazioni per un valore di 500 milioni di dollari. Il progetto è stato presentato per la prima volta dalla Banca nazionale della Cambogia (NBC) nell’ottobre dello scorso anno, basato sulla tecnologia blockchain sviluppata congiuntamente dalla società fintech giapponese Soramitsu. Obiettivo principale l’esplorazione dei pagamenti digitali, l’incoraggiamento all’uso della valuta locale e la riduzione della dipendenza dal dollaro, e l’inclusione finanziaria dei cittadini rimasti fuori dal sistema bancario tradizionale.

Lo scorso ottobre la fintech giapponese Soramitsu è stata ingaggiata anche dalla Banca centrale della Repubblica Democratica Popolare del Laos, per esplorare l’emissione di una CBDC laotiana. Una versione digitale del kip supporterebbe le autorità nel raccoglimento dei dati necessari a misurare il polso dell’economia, come la quantità di denaro in circolazione. Ma non solo: l’iniziativa segna un tentativo da parte del Laos di estendere la portata della sua valuta mentre lo e-yuan digitale si profila come una presenza potenzialmente invasiva nella nazione del sud-est asiatico per cui la Cina è il secondo partner economico.  

Anche il Vietnam ha deciso di esplorare la creazione di una propria valuta digitale, con la Decisione 942 del Primo Ministro che si allinea con la strategia per digitalizzare il governo entro il 2030. La policy invita la State Bank of Vietnam a ricercare, “sviluppare e sperimentare l’uso della valuta digitale basata sulla tecnologia blockchain.” In Vietnam, l’utilizzo di criptovalute per effettuare acquisti è illegale, ma queste vengono ancora acquistate attivamente come strumenti di investimento: il Paese è tra i primi tre a livello globale per percentuale di persone che affermano di detenere una qualche forma di criptovaluta, secondo un sondaggio di Statista.

Mobilità green, l’ASEAN punta sulle auto elettriche

L’ASEAN punta sulla produzione di veicoli elettrici per conciliare impegni di sostenibilità e crescita delle sue economie emergenti.

Sulla scia della conferenza sul clima di Glasgow 2021 (COP26), i Paesi del Sud-Est asiatico si sono impegnati ad accelerare la diffusione di veicoli elettrici per limitare le emissioni e rientrare negli standard stabiliti dall’accordo di Parigi. Secondo una ricerca di Our World in Data, i trasporti su strada sono responsabili del 15% circa delle emissioni totali di anidride carbonica, e la domanda di automobili è in aumento in tutto il mondo, in accordo con lo sviluppo delle economie emergenti e con l’incremento demografico. Per queste ragioni, molti decisori politici nell’area ASEAN hanno scommesso sulle nuove tecnologie per conciliare crescita economica e imperativi di sostenibilità. Il presidente della COP26, Alok Sharma, ha dichiarato che è necessario accelerare ulteriormente l’adozione di veicoli elettrici (EV) se si vuole fare la differenza per il pianeta: le stime che li vedono rappresentare circa la metà delle vendite di nuove auto entro il 2040, per quanto già ottimistiche, non sono più sufficienti.

In ASEAN la Thailandia e l’Indonesia guidano la svolta per la mobilità green, mentre le Filippine e la Malesia sono i Paesi più in ritardo. Anche il Vietnam, un’economia in rapida evoluzione nel panorama dei mercati emergenti asiatici, ha progetti nazionali molto ambiziosi in proposito. Ma gli approcci degli Stati Membri dell’ASEAN sono ancora frammentari, secondo gli esperti. Ad esempio, il Socio-Cultural Community Blueprint 2025 sulla cooperazione regionale non menziona la necessità di ricorrere alle nuove tecnologie dei trasporti nella sua agenda per il rafforzamento dell’Associazione come attore regionale e globale. In un’intervista rilasciata a Nikkei Asia, Vivek Vaidya, partner associato alla società di consulenza Frost & Sullivan, ha dichiarato che “ogni paese ha il proprio approccio, ogni paese ha le proprie considerazioni e quindi ha le proprie strategie”. Non ci sarebbe dunque una risposta univoca e coerente per la promozione degli EV nel blocco delle 10 nazioni del Sud-Est asiatico. 

La Thailandia è stata definita per anni la “Detroit dell’Asia”, per via del suo primato indiscusso nelle catene globali del valore che riguardano l’industria automobilistica. A questo proposito la strategia nazionale “Thailand 4.0” è il vettore della svolta elettrica intrapresa dal Paese, che cerca di mantenere i suoi vantaggi competitivi allineandosi con le istanze ambientaliste e con gli accordi internazionali. L’obiettivo finale per Bangkok è quello di permettere esclusivamente la vendita di veicoli elettrici dal 2035. Il piano prevede incentivi fiscali per attirare investimenti esteri di supporto alla sua crescita economica. Come suggerisce Pietro Borsano del Torino World Affairs Institute, si tratta di una strategia comprensiva volta ad “aumentare la competitività del sistema Thailandia”. La logica del governo thailandese ruota intorno al ruolo delle esportazioni come motore di crescita, per questo, secondo gli esperti, è ben accetto “qualsiasi tipo di investimento nella produzione che aumenterà le esportazioni”. Questo lascia spazio alla competizione tra i principali investitori internazionali del settore dell’automotive del Sud-Est asiatico, tra cui Giappone, Cina, Corea. 

Ma il ricorso alle nuove tecnologie ha aperto la strada ad un altro attore chiave nella global value chain delle automobili: l’Indonesia. Già in lizza per superare il primato di Bangkok grazie a una crescita del settore che si concentra più sulla domanda interna che sul commercio internazionale, Giacarta nasconde un asso nella manica che potrebbe segnare definitivamente il destino della sua rivale. Possiede, infatti, uno dei più grandi depositi di nichel grezzo del mondo. Si tratta di uno dei materiali fondamentali per la creazione delle batterie a ioni di litio, che alimentano le auto elettriche. Il governo thailandese ne ha recentemente vietato l’esportazione per spingere le aziende straniere a investire nella realizzazione in loco di prodotti finiti, e sta pensando di dare vita a un’industria di batterie a litio propria attraverso la Indonesia Battery Holding. 

Anche se i decisori politici manifestano spesso grande entusiasmo per questa nuova rivoluzione elettrica, alcuni attivisti ritengono che non sia la soluzione su cui puntare. Nonostante l’impiego di veicoli elettrici possa abbattere drasticamente le emissioni di CO2 attribuite ai trasporti su strada, ci sono una serie di altri fattori da considerare: le circostanze di estrazione del litio sono spesso controverse, la libertà di fare scelte sostenibili richiede un’autonomia economica che condanna le persone marginalizzate e, per estensione, i Paesi più poveri alla sistematica esclusione dal sogno della mobilità elettrica, e infine serve la volontà politica di coordinare gli sforzi rispondere alle istanze sindacali di quei settori che verrebbero sostituiti dall’elettrificazione del trasporto su strada. 

Quest’anno si è tenuta la prima conferenza su energia e ambiente promossa dall’ASEAN Center for Energy. In questa occasione è intervenuto l’esperto Muhammad Rizki Kresnawan, sintetizzando i temi principali della svolta elettrica nel Sud-Est asiatico. Innanzitutto, l’ingente fabbisogno di capitale per la creazione di infrastrutture potrebbe esporre ulteriormente le economie regionali alla dipendenza da investimenti esteri. Inoltre, i combustibili fossili dominano la produzione regionale di elettricità, e questo potrebbe comportare il ricorso a carburante importato che rischia di compromettere la sicurezza energetica dell’area. Anche se è opinione diffusa che le nuove tecnologie possano accelerare la transizione verso un’economia più verde, le sfide politiche, sociali e ambientali che si intersecano potrebbero rendere la diffusione di veicoli elettrici meno lineare di quanto le economie ASEAN avrebbero sperato.