Una moneta comune per l’ASEAN?

Con le pressioni inflazionistiche globali torna d’attualità l’ipotesi di una valuta unica per i Paesi della regione del Sud-Est asiatico. Ma restano degli ostacoli

Editoriale a cura di Lorenzo Lamperti

Una moneta comune per l’area ASEAN. Tra i primi a lanciare la proposta fu l’ex Premier della Malesia, Mahathir Mohamad, dopo la crisi finanziaria asiatica. Proposta reiterata nel 2019, quando parlò di una valuta commerciale comune agganciata all’oro, “non da utilizzare a livello locale ma per regolare gli scambi”. L’ipotesi è tornata di attualità in queste settimane caratterizzate da turbolenze economiche globali e pressioni inflazionistiche. A rilanciarla è stato in particolare Vijay Eswaran, uomo d’affari malese e Presidente Esecutivo della multinazionale QI Group, con sede a Hong Kong ma operativa in circa 30 Paesi. “Perché la spinta per una moneta comune nell’ASEAN? Basta guardare all’Europa, dove l’euro è il miglior esempio di moneta comune. Nei 20 anni trascorsi dalla sua introduzione, l’euro ha contribuito alla stabilità, alla competitività e alla prosperità delle economie europee. La moneta unica ha contribuito a mantenere i prezzi stabili e ha protetto le economie dell’area dell’euro dalla volatilità dei tassi di cambio”, sostiene Eswaran in un commento pubblicato nei giorni scorsi sul Jakarta Post. Molte economie di mercato emergenti asiatiche detengono ingenti attività di riserva denominate in dollari USA come strumento di autoassicurazione contro la potenziale instabilità finanziaria. Secondo l’uomo d’affari, “con questa dipendenza dal dollaro, i Paesi asiatici sono altamente esposti agli shock derivanti da cambiamenti nella politica economica e nelle condizioni relative agli Stati Uniti”. Una moneta comune, prosegue Eswaran, “potrebbe aiutare a eliminare l’incertezza dei tassi di cambio, a difendersi dagli attacchi speculativi e ad aumentare il potere contrattuale dell’ASEAN”, coi tassi di interesse a lungo termine che “potrebbero diminuire e diventare meno volatili” e i flussi commerciali intraregionali facilitati. I benefici potrebbero esserci anche per i singoli individui, con maggiore accessibilità per i servizi come l’assistenza sanitaria, l’istruzione e il turismo. “Manodopera e talenti potrebbero essere scambiati più facilmente, portando a maggiori opportunità di lavoro e a una maggiore integrazione economica tra i Paesi ASEAN”, conclude Eswaran. Il maggiore ostacolo a sviluppi concreti in materia resta però la grande diversità di sviluppo economico tra i Paesi membri. Basti pensare che Singapore ha un reddito pro capite 60 volte superiore a quello del Myanmar.

L’arte del telaio: il futuro della moda sostenibile

L’industria della moda è responsabile di circa il 10% delle emissioni globali di carbonio e del 20% delle acque reflue. Questo dato non deve sorprendere, visto che i tessuti sintetici sono il pilastro dell’industria del fast fashion. Ma Bangkok sta lavorando duramente per renderla sostenibile.

Article by Dr. Vilawan Mangklatanakul

Quante volte si indossa un capo di abbigliamento prima di gettarlo via?

Uno studio condotto su 2.000 donne dall’associazione benefica britannica Barnado’s rivela che un capo di abbigliamento viene indossato in media sette volte prima di essere buttato. La moda veloce ha reso possibile cambiare costantemente il proprio look a basso costo. La cultura di Instagram alimenta la spinta a comprare spesso nuovi vestiti. Gli abiti che “non danno più gioia” possono essere facilmente scartati. Ma questa mentalità “lontano dagli occhi, lontano dal cuore” sta rapidamente inondando le discariche di tutto il mondo di capi non amati.

L’industria della moda è responsabile di circa il 10% delle emissioni globali di carbonio e del 20% delle acque reflue. Questo non deve sorprendere, visto che i tessuti sintetici sono il pilastro dell’industria del fast fashion. Tessuti come il poliestere e filati da fili di plastica si decompongono in microplastiche che finiscono nel suolo e nell’acqua, entrando infine nella catena alimentare. Infatti, microplastiche sono diventate uno dei principali inquinanti marini. Anche se i Paesi hanno una buona gestione dei detriti marini e delle acque reflue, le microplastiche provenienti dalle fibre sintetiche presenti nella biancheria potrebbero ancora minacciare il benessere della vita sott’acqua.

Al contrario, i filati naturali utilizzati per gli indumenti in seta e cotone thailandesi sono biodegradabili e quindi non biodegradabili e quindi non si decompongono in microplastiche.

I consumatori thailandesi sono altrettanto assuefatti alla fast fashion. Ma c’è speranza all’orizzonte perché un numero crescente di thailandesi amanti della moda sta scegliendo stilisti nostrani che che realizzano abiti con tessuti tradizionali thailandesi. 

Per i clienti attenti all’ambiente e alla società, i tessuti artigianali thailandesi sono una parte della risposta. I tessuti tradizionali thailandesi sono realizzati in seta, cotone o canapa. Inoltre, sono prodotti in modo etico e contribuiscono allo sviluppo delle comunità. In Thailandia, i telai a mano sono fortemente radicati nei villaggi locali e sono organizzati intorno a iniziative guidate dalle donne. Infatti, le donne hanno la possibilità di essere le responsabili delle decisioni e di provvedere al sostentamento delle loro famiglie. Il reddito generato da queste imprese è direttamente destinato a migliorare l’istruzione e l’assistenza sanitaria dei membri della comunità.

 

Ban Hat Siew, nella provincia di Sukhothai, Thailandia settentrionale: una donna Tai Phuan modella meticolosamente un “Pha Sinh Teen Chok”, un tipo di sarong per uso cerimoniale. 

“Pha Sinh Teen Chok”, una sorta di sarong per uso cerimoniale. 

Crediti: sito web takemetour

Ban Phon nella provincia di Kalasin, Thailandia nord-orientale: una donna Phu Tai tesse la seta Phrae Wa a Kalasin. 

 

Anche la produzione di tessuti artigianali thailandesi è strettamente legata alla natura.  

Per la seta, gli abitanti dei villaggi coltivano alberi di gelso e raccolgono le foglie per nutrire i bachi da seta. Gli scarti della coltivazione dei bachi da seta diventano fertilizzanti di buona qualità. A differenza dei coloranti chimici, i colori derivati da fonti naturali come l’indaco per il blu, i semi di ebano per il grigio e il nero, il lac per il rosso, sono atossici, quindi possono essere scartati senza causare un inquinamento nocivo. Le vecchie tecniche tradizionali, quindi, continuano a dimostrarsi migliori sia per il pianeta che per le persone. 

Tuttavia, l’industria tessile tradizionale tailandese potrebbe non aver visto la luce, se non fosse per una donna e la sua potente visione. 

Mentre accompagnava Sua Maestà il defunto Re Bhumibol il Grande nei suoi numerosi viaggi verso villaggi lontani della Thailandia, Sua Maestà la Regina Sirikit, la Regina Madre, riceveva molti doni di tessuti tradizionali tessuti a mano dalle donne del luogo.

I disegni intricati e meticolosi fecero un’impressione duratura sulla Regina, il cui apprezzamento per l’arte del telaio apprezzamento per l’arte del telaio divenne ben noto e, ovunque andasse, gli abitanti dei villaggi venivano a presentare le loro creazioni. Si informava su ogni pezzo, prestando molta attenzione alle loro storie. 

Sua Maestà si preoccupò di sentire che questa forma d’arte tradizionale thailandese rischiava di 

di scomparire. I contadini erano più interessati a mandare i loro figli in città per avere migliori opportunità. Il telaio a mano era un’abilità e una conoscenza trasmessa da una generazione all’altra. 

E se queste donne si organizzassero intorno a un’industria artigianale per tessere tra le stagioni di coltivazione tra le stagioni di coltivazione come modo per integrare il reddito delle loro famiglie? Potrebbe essere un modo di salvare questo patrimonio culturale dall’estinzione, sostenendo al tempo stesso l’occupazione nelle comunità rurali. 

Sua Maestà la Regina Sirikit ha lanciato la Fondazione SUPPORTO per istituzionalizzare l’iniziativa reale di iniziativa reale di sviluppare le industrie artigianali in tutto il Paese. Fornendo uno sbocco al mercato per prodotti per raggiungere il mercato, la Fondazione SUPPORT ha svolto un ruolo cruciale nel garantire che gli abitanti dei villaggi avessero effettivamente mezzi di reddito alternativi all’agricoltura. Di conseguenza, alcuni di loro hanno iniziato a sviluppare seriamente l’attività dei tessuti fatti a mano.

 

La Fondazione SUPPORT di Sua Maestà la Regina Sirikit di Thailandia 

Credit: Pagina Facebook della Fondazione SUPPORT

 

Nel frattempo, Sua Maestà è diventata la trendsetter della moda tradizionale tailandese. I suoi eleganti abiti realizzati con tessuti tradizionali provenienti da diverse regioni del Paese hanno ispirato le signore di città a inviare tessuti di seta e cotone thailandesi alle loro sartorie. Ha fondato un movimento alla moda che ha suscitato un senso di orgoglio per il patrimonio culturale della nazione. A sua volta, la domanda di tessuti tradizionali thailandesi trasformò i piccoli telai domestici in imprese commercialmente redditizie. In seguito, politiche governative, come One Tambon One Product (OTOP), avrebbero formalizzato il sostegno statale per le microimprese che si occupano di arti e mestieri tradizionali, con i telai a mano come prodotto principale. 

Questa è la storia di Baan Hua Fai, un villaggio della provincia di Khon Kaen, nella regione di Isan, o nord-est della Thailandia. Il celebre motivo locale del mudmee, o ikat, della seta thailandese è stato tramandato di madre in figlia, realizzato per occasioni speciali come i matrimoni o dati in regalo. Quando Sua Maestà la Regina Madre visitò la regione nel 1983, rimase molto colpita dalla maestria unica della seta di Baan Hua Fai e li invitò a inviare dei campioni a Palazzo Chitralada. Poco dopo, agli abitanti del villaggio è stato concesso il patrocinio reale nell’ambito della Fondazione SUPPORTO.

 

Esempi di mudmee locali del villaggio di Baan Hua Fai. 

Credito: Sito web del turismo in Isan http://i-san.tourismthailand.org/6906/

 

Nel corso degli anni, Baan Hua Fai è diventata una cooperativa di villaggio con quasi 200 membri, la maggior parte dei quali donne. Oggi è diventata un’impresa modello OTOP che accoglie i visitatori e funge da luogo di apprendimento e collaborazione per le tecniche di progettazione e produzione. Le generazioni più giovani stanno adottando nuovi modelli di business in base al cambiamento dei gusti e dell’ambiente di marketing. Vendono prodotti online tramite Facebook e Instagram e collaborano con i migliori designer thailandesi.

La prossima fase della traiettoria di crescita della moda tradizionale tailandese è quella di una vera e propria “globalizzazione”. Seguendo le orme di sua nonna, Sua Altezza Reale la Principessa Sirivannavari Nariratana ha guidato la creazione del Thai Textiles Trend Book. In qualità di redattore capo, Sirivannavari ha supervisionato la compilazione di “toni thailandesi”, nonché di modelli e materiali che avrebbero reso i tessuti tradizionali thailandesi commerciabili al di fuori della Thailandia. Disponibile gratuitamente in versione cartacea ed elettronica sul sito web del Ministero della Cultura, il Trend Book offre un pronto per tessitori, designer, studenti e chiunque stia sviluppando nuove idee per i tessuti thailandesi.

 

Evento di lancio del libro: “Thai Textiles Trend Book SS 2022”. 

Crediti: sito web di Hommes Thailandia https://hommesthailand.com/2020/12/thai-textiles-trend-book-ss-2022/

 

Oltre ad ispirarsi all’eredità di Sua Maestà la Regina Madre, la Principessa Sirivannavari intende intrecciare la sostenibilità con l’artigianato tradizionale tailandese e la saggezza locale. L’uso di pigmenti naturali, fibre e tecniche di produzione a basso contenuto di carbonio corrisponde al modello di economia verde bio-circolare di consumo e produzione sostenibile promosso dal governo thailandese. Le imprese thailandesi di telai a mano rappresentano anche storie di successo nel raggiungimento degli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile (SDG) delle Nazioni Unite. Questi includono, tra gli altri, l’SDG 1 (No alla povertà), l’SDG 5 (Uguaglianza di genere), l’SDG 8 (Lavoro dignitoso e crescita economica) e l’SDG 12 (Consumo e produzione responsabili).

La storia dell’industria della moda sostenibile tailandese ci dà una lezione importante: possiamo guardare al nostro passato per trovare risposte per il futuro. In Thailandia, la famiglia reale è stata determinante nel preservare le conoscenze tradizionali e la saggezza locale, che per secoli hanno mostrato la via per la nostra gente di vivere in equilibrio con l’ambiente naturale.

Ecco perché il concetto di sostenibilità trova un pubblico pronto in Thailandia. È quasi innato nel vero stile di vita thailandese.

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La dott.ssa Vilawan Mangklatanakul, Vice Segretario Permanente per gli Affari Esteri della Thailandia, diplomatica di carriera dal 1995, ha maturato la sua esperienza nella politica estera e nel diritto internazionale della Thailandia, avendo ricoperto il ruolo di Direttore dell’Ufficio di Politica e Pianificazione, di Direttore Generale del Dipartimento degli Affari Economici Internazionali e di Direttore Generale del Dipartimento dei Trattati e degli Affari Legali.

Nel novembre 2021, la 76a sessione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha eletto la dott.ssa Vilawan come uno dei 34 membri della Commissione di diritto internazionale (ILC) per il periodo 2023-2027. È la prima e unica donna thailandese candidata dal Gruppo Asia-Pacifico e la prima donna giurista internazionale dell’ASEAN a essere eletta a tale carica. Durante la sua campagna elettorale per l’ILC, la dott.ssa Vilawan ha sostenuto l’emancipazione femminile e la necessità di preparare meglio le comunità alle sfide future.

Laos, la crisi opportunità per le riforme

Aumentano debito pubblico e inflazione, ma secondo diversi analisti i problemi attuali dell’economia laotiana possono diventare una spinta per il futuro

Articolo di Ilaria Zolia

Il Laos è stato colpito duramente dagli effetti della pandemia ma anche dalla crisi alimentare e inflazionistica. Con l’aumento dei prezzi del carburante causato, in parte, dal deprezzamento del Kip, numerosi contadini hanno abbandonato le campagne e si sono recati all’estero in cerca di lavoro. Secondo l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura, circa il 20% dei contadini laotiani non può permettersi di piantare riso a causa degli aumenti. I recenti risultati economici del Laos descrivono questa realtà. Il debito pubblico è passato da circa il 70% del PIL nel 2019, all’88% nel 2021, secondo i dati del governo laotiano. Anche l’inflazione è aumentata, passando da meno del 2% nel febbraio 2021 (su base annua) al 30% nell’agosto 2022, minacciando il tenore di vita soprattutto delle famiglie urbane a basso reddito. L’energia idroelettrica e l’industria mineraria si sono invece espanse rapidamente, diventando settori dominanti. Gli investimenti per espandere questi due settori sono stati finanziati con prestiti esterni, ma questi progetti non hanno ancora prodotto entrate a causa dei lunghi periodi di gestazione. Tuttavia, secondo alcuni analisti la crisi può rappresentare un punto di partenza per l’implementazione di importanti riforme di sviluppo. Questa svolta potrebbe avvenire attraverso riforme sulla riduzione del debito pubblico e miglioramenti riguardo la gestione della spesa pubblica, le quali garantirebbero un aumento delle entrate. Secondo Nikkei Asia, il Paese dovrà saper sfruttare al meglio le risorse di cui già possiede, quali il suo capitale naturale e i suoi giovani cittadini. Sarebbe dunque importante per il Laos investire sulla propria popolazione, aumentando la spesa per la salute e l’istruzione al fine di creare nuova forza lavoro, conclude Nikkei. L’economia laotiana presenta comunque buone potenzialità per poter intraprendere un percorso di riforme. Non va dimenticato infatti che con un tasso di crescita del prodotto interno lordo del 7% per oltre due decenni, il Laos è stata una delle economie in più rapida espansione del Sud-Est asiatico per oltre due decenni fino al 2019.  

Spazio per Italia e UE nella rivoluzione green dell’ASEAN

I Paesi del Sud-Est asiatico devono e vogliono accelerare sulla transizione green. Una grande opportunità da cogliere anche dalle imprese italiane

Editoriale a cura di Valerio Bordonaro

I Paesi del Sud-Est asiatico devono accelerare la transizione energetica e restare fedeli agli obiettivi per il contenimento del cambiamento climatico. Secondo un rapporto dell’Agenzia internazionale per le energie rinnovabili (IRENA), è necessario un investimento medio annuo di 210 miliardi di dollari da investire nei settori delle energie rinnovabili, dell’efficienza energetica e delle relative infrastrutture entro il 2050 per limitare un aumento della temperatura globale a 1,5 gradi C. Un investimento di questo tipo sarebbe più di due volte e mezzo l’importo attualmente pianificato dai governi dei Paesi ASEAN. La regione del Sud-Est asiatico ospita il 25% della capacità di generazione geotermica mondiale, ma la regione possiede anche importanti riserve di carbone. L’Indonesia, ad esempio, ha emanato un nuovo regolamento per l’energia pulita. Si tratta di uno dei maggiori esportatori mondiali di carbone, che alimenta attualmente il 60% circa del fabbisogno elettrico del Paese. La recente misura è pensata per diversificare il mix energetico e aumentare la quota delle energie rinnovabili al 23% entro il 2025. Finora si trova al 12% circa. Il regolamento stabilisce inoltre che non verranno costruite nuove centrali a carbone, anche se quelle già attive potranno continuare a rimanere in funzione. Le emissioni di queste centrali, tuttavia, dovranno essere contenute. Il governo ha anche stabilito un nuovo sistema di prezzi per le fonti energetiche pulite, per incoraggiare gli investimenti. Per aumentare gli investimenti, il governo fornirà anche incentivi fiscali, inclusi finanziamenti. Secondo il rapporto, se i Paesi del Sud-Est asiatico desiderano realmente contribuire alla lotta al cambiamento climatico, è necessaria un’azione collettiva e concertata: di recente i passi in tal senso appaiono concreti. Secondo IRENA la regione punta a ricavare il 23% della sua energia primaria da fonti rinnovabili entro il 2025. E gli investimenti sono in aumento, con ampi spazi di cooperazione anche per i governi e le imprese internazionali, a partire da Europa e Italia.

L’alleanza Chip4 e il suo impatto sui semiconduttori ASEAN

La partita (politica) dei semiconduttori diventa gioco di squadra. Almeno da un lato del campo. L’alleanza a quattro voluta dagli USA mira contenere la Cina. Da che lato giocheranno i Paesi ASEAN?

I semiconduttori sono essenziali per la vita e la crescita della società digitale. L’approvvigionamento “sicuro” di questi prodotti rappresenta ormai una priorità – e un grattacapo – per i governi di tutto il mondo. È tuttora in corso una crisi globale delle supply chain del settore – una crisi che si inserisce in un più ampio contesto di “globalizzazione in affanno” – che rende difficile per le altre industrie procacciarsi i componenti necessari. Il problema è reso ancora più complesso dalle sue ricadute politiche. Stati Uniti e Cina infatti gareggiano anche nello sfruttamento dei dati e nello sviluppo di nuove applicazioni dell’intelligenza artificiale. Questo porta i due giganti a richiedere un enorme quantità di chip e provare a limitare la presa del rivale sul mercato. Nei mesi scorsi, Washington ha mosso i primi passi verso la formazione di un’alleanza a quattro sui semiconduttori con i suoi partner storici affacciati sul Mar cinese – Giappone, Corea del Sud e Taiwan –  per poter sviluppare catene di approvvigionamento “democratiche”, dalla fabbrica al consumatore, senza dover coinvolgere necessariamente la Cina. Pechino guarda con sospetto all’iniziativa americana, temendo di finire “esclusa” dalle value chain più importanti del mondo globalizzato.

La fragilità e l’importanza strategica delle supply chain dei semiconduttori hanno spinto i governi ad attivarsi per mettere in sicurezza la propria sovranità tecnologica. Molti Paesi si sono attivati per rafforzare la produzione di chip nel proprio territorio, in collaborazione con i colossi del settore: solo per menzionare due iniziative, la taiwanese TSMC sta costruendo un impianto produttivo da 12 miliardi in Arizona con il supporto dello Stato e del Governo federale; Intel e il Governo italiano stanno chiudendo le trattative per la creazione di un sito produttivo in Veneto. Ciononostante, la value chain dei semiconduttori non può essere rinchiusa nei confini di un singolo Paese, né riorganizzata così facilmente. Ogni fase della filiera produttiva richiede una forte specializzazione di interi distretti industriali e attrezzature ad altissima tecnologia. Al momento, non sembra possibile fare a meno dei Paesi dell’Asia orientale. Pertanto, i governi cercano anche di rafforzare le proprie partnership internazionali, in modo da rendere più sicuri gli approvvigionamenti e superare certi colli di bottiglia nella produzione. Ciascuna economia del Chip4 è particolarmente forte in uno degli “anelli” della catena e l’alleanza riuscirebbe ad organizzare gli approvvigionamenti tra partner in modo quasi autonomo da attori esterni. Non ci sono solo considerazione economiche dietro l’iniziativa di Washington, però. I quattro Paesi sono democrazie like-minded che guardano con una certa attenzione alla influenza cinese crescente non solo nella regione, ma anche nell’economia digitale e in alcuni suoi settori d’avanguardia. In uno scenario di crescenti tensioni con Pechino, i Paesi Chip4 potrebbero avere interesse a non dipendere dall’industria dei semiconduttori cinese. 

Eppure, non è così facile estromettere la Cina dalla value chain, soprattutto per la Corea del Sud. Il 60% dell’export dei chip di Seul infatti va verso il vicino. Partecipare a un’alleanza che potrebbe essere percepita come anticinese esporrebbe i produttori coreani alla rappresaglia commerciale, quindi all’esclusione da un mercato di notevoli dimensioni. Allo stesso tempo, Pechino potrebbe non essere in grado di rinunciare ai semiconduttori Made in Korea, dato che certe tecnologie avanzate sono sviluppate solo lì o negli Stati Uniti – e Washington ha imposto sanzioni e misure di export control contro le aziende cinesi ancora nel 2020. In altre parole, provare a escludere un Paese dalla supply chain e, più in generale, intervenire nel settore con obiettivi politici comporterà sempre dei pesanti costi e potrebbe peggiorare ulteriormente la crisi degli approvvigionamenti. La sovranità tecnologica potrebbe rivelarsi un obiettivo irraggiungibile e, appunto, costoso – non ci sono solo i dazi imposti dai governi, ma anche la spesa in sussidi per attirare le aziende private sul proprio territorio – dato che il ritardo anche in una fornitura di secondaria importanza potrebbe paralizzare l’intero settore a livello mondiale.L’iniziativa statunitense potrebbe coinvolgere a un certo punto anche alcuni Paesi ASEAN. L’industria dei semiconduttori si sta sviluppando velocemente nella regione e alcuni Paesi giocano già una parte fondamentale – soprattutto Malesia e Singapore. In alcuni casi, si tratta di partner riconosciuti da Washington anche sul piano politico. Prima o poi, gli USA potrebbero provare a coinvolgerli in iniziative come Chip4. Tutte le principali economie ASEAN hanno un rapporto ambivalente con la Cina: da un lato, partner economico fondamentale; dall’altro, vicino sempre più assertivo. Pertanto, per i loro governi potrebbe porsi lo stesso dilemma affrontato oggi da Seul. In ogni caso, occorre ricordare che l’industria mondiale dei semiconduttori non può prosperare senza un sistema commerciale liberalizzato e schermato, quanto più possibile, dalle tensioni politiche, a causa della fitta rete di interdipendenze tra Paesi. L’acuirsi delle tensioni tra Washington e Pechino in questo campo avrebbe, in ogni caso, effetti profondamente negativi sul settore e ne renderebbe ancora più complicata la crisi.

La rivoluzione del caffè in ASEAN

Articolo di Chiara Suprani

Mentre continua ad aumentare il consumo locale della bevanda, i produttori regionali a partire da quelli del Vietnam sono preoccupati per l’incombente carezza di caffè che rischia di far volare i prezzi

L’Asia è la rinomata patria delle piantagioni e dei rituali del tè, tuttavia secondo l’Organizzazione Internazionale del Caffè, la regione dell’Asia-Oceania ha accresciuto il suo consumo di caffè del 1,5% negli ultimi cinque anni, superando di un punto in percentuale la crescita del consumo in Europa (che resta comunque per il momento più alta) nello stesso periodo. Per alcuni la questione è da rifarsi all’ascesa della classe media, che sarebbe più incline ad esplorare nuove tendenze e a consumare prodotti occidentali. Per altri, invece, l’inclinazione andrebbe ben oltre la semplice curiosità: si tratterebbe ormai di una questione culturale tale da provocare nei consumatori la ricerca e l’attenzione verso i “chicchi” locali. Non solo, al caffè gli abitanti del Sud-Est asiatico attribuiscono un retaggio coloniale. Nel XIX secolo, la Francia raccoglieva nel Vietnam semi conosciuti con il nome di “boccioli di ciliegio”, dal colore cremisi, e i Paesi Bassi ne esportavano grosse quantità dall’Indonesia.

Sebbene la caffeicoltura, specialmente quella della più pregiata varietà di caffè arabica, sia notoriamente legata alle economie del Sud America, le alluvioni in Colombia e i raccolti carenti del 2021 di Honduras, Guatemala e Nicaragua, hanno negli ultimi due anni riorientato le catene di approvvigionamento.

Per alcuni Paesi dell’Associazione delle Nazioni del Sud-Est asiatico, gli ultimi anni sono stati propizi per il commercio del caffè. Il Vietnam a gennaio 2022 era il secondo Paese per export di caffè al mondo, dopo il Brasile. L’Indonesia da febbraio 2021 a gennaio 2022 ha esportato sette milioni di sacchi da 60 kg di caffè, superando l’Uganda. 

I “boccioli di ciliegio” del Vietnam

Anche nel Vietnam, il caffè è radicato nella cultura. Nel lessico, le tangenti sono chiamate “soldi del caffè” mentre socializzare si dice andare a “ca phe ca phao”. Famoso per la sua varietà di caffè robusta, il Vietnam ha esportato 1,24 milioni di tonnellate di caffè per un valore di 2,82 miliardi di dollari durante i primi otto mesi del 2022, registrando aumenti del 14,7% in volume e del 39,6% in valore rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Eppure, Hanoi guarda preoccupata alle prospettive dei prossimi mesi. Il rialzo dei prezzi globali sta già colpendo il settore, che vedrà un calo nella produzione dei semi di caffè il prossimo anno. La disponibilità locale verrà ridotta a sua volta, con le ritenute dei coltivatori che crolleranno dal 13 al 2% della loro produzione annua. Il crollo dell’approvvigionamento della varietà di robusta, che rappresenta il 90 per cento della produzione nazionale, ha spinto i prezzi nella provincia di Dak Lak, che copre un terzo del raccolto del Paese, fino a 49.100 dong vietnamiti (US$ 2.10) per chilogrammo. Un prezzo da record.

Indonesia: la mecca del caffè

L’Indonesia è il secondo Paese in Asia per produzione di caffè. Iman Kusumaputra è uno dei co-fondatori di Kopikalyan, la risposta indonesiana a Starbucks, e ha sottolineato in un’intervista a Nikkei che “se una volta la produzione era principalmente orientata all’esportazione, ora i contadini si tengono la miglior qualità di caffè per sé”. Inoltre, la conformazione geografica dell’Indonesia, ossia la più grande nazione arcipelago al mondo, permette al Paese di coltivare numerose varietà di caffè, ciascuna che rispecchia le caratteristiche dell’isola in cui viene piantata. Un altro aspetto che ha probabilmente contribuito a portare il consumo di caffè in Indonesia a 5 milioni di sacchi da 60 kg nel 2020/21 è la ricerca di una bevanda non alcolica da condividere in momenti di socialità in un Paese a maggioranza musulmana.

I weed cafè thailandesi

L’8 giugno di quest’anno il governo thailandese ha dichiarato che non è più illegale coltivare e commerciare marijuana e prodotti alla canapa. Era stato previsto che questa mossa, in un Paese conservatore e di religione Buddhista, avrebbe avuto conseguenze limitate per il commercio, dato il divieto sull’uso ricreativo e la produzione di droghe con un livello di THC maggiore dello 0,2 per cento. Negli ultimi mesi, tuttavia, nel tentativo di riattivare il turismo post pandemico, a Bangkok sono spuntati numerosi weed cafè. Nel biennio 20/21 il consumo di caffè in Thailandia ammontava a quasi un milione e mezzo di sacchi da 60kg. L’allentamento delle misure anti-Covid assieme alla legalizzazione della marijuana ha incentivato i giovani imprenditori nazionali all’apertura di nuovi locali che potessero combinare questi due settori.

Resta da vedere se le previsioni per settembre si confermeranno corrette. In tal caso, in Paesi come Germania, Stati Uniti ed Italia, tra i principali importatori di caffè dal Vietnam, i prezzi subiranno un’impennata. E la disponibilità del prodotto diminuirà data anche la tendenza in crescita del consumo domestico di caffè nei Paesi del Sud-Est asiatico.

L’ASEAN guida del commercio globale

Tra il 2021 e il 2026 il Sud-Est asiatico sembra destinata a essere la regione con la più forte crescita di esportazioni al mondo

Tutti gli indicatori confermano: il motore della crescita dei prossimi anni sarà sempre di più il Sud-Est asiatico. Secondo il rapporto Trade Growth Atlas del fornitore di logistica globale DHL, il blocco dei Paesi ASEAN dovrebbe infatti guidare il mondo in termini di crescita delle esportazioni dal 2021 al 2026. Alle spalle della regione del Sud-Est si dovrebbero affermare Asia meridionale e centrale. Si prevede che l’ASEAN registrerà una crescita del volume delle esportazioni del 5,6% nel quinquennio, seguita dall’Asia meridionale e centrale con il 5% e dall’Africa sub-sahariana con il 4,4%, con la prosecuzione della riscrittura degli equilibri commerciali globali. Il Sud-Est asiatico e l’Asia meridionale e centrale sono dunque destinati a essere sempre di più “nuovi poli” di crescita del commercio. In primissimo piano Vietnam e Filippine, che hanno stime di crescita del PIL e delle esportazioni elevatissime nei prossimi anni, anche grazie alla diversificazione della produzione e delle catene di approvvigionamento globali. Sempre più colossi internazionali, a partire da quelli tecnologici e digitali, stanno rafforzando la loro presenza in una regione dove la classe media è in costante ampliamento.

Secondo la ricerca DHL, per altro, la pandemia non rappresenterà una battuta d’arresto tanto grave come previsto inizialmente per il commercio globale. E anche nonostante la guerra tra Russia e Ucraina, le recenti previsioni indicano che nel 2022 e 2023 il commercio globale dovrebbe crescere leggermente più veloce rispetto ai dati degli anni pre pandemici. Il tutto anche grazie all’impennata delle vendite dell’e-commerce, la cui crescita transfrontaliera dovrebbe proseguire. Le vendite globali potrebbero raggiungere il trilione di dollari nel 2030, rispetto ai 300 miliardi di dollari del 2020. E anche su questo fronte l’ASEAN può giocare un ruolo fondamentale, visto il netto aumento del settore nella regione. Il Sud-Est asiatico sta diventando un esportatore sempre più importante di beni strumentali sofisticati, come attrezzature industriali e motori. Insomma, la crescita non è solo quantitativa ma anche qualitativa.

Dal durian una lezione su pro e contro del libero commercio

Da quando il  Regional Comprehensive Economic Partnership (RCEP) è entrato in vigore lo scorso primo gennaio, per i Paesi ASEAN esportare è diventato indubbiamente più facile. Il recente boom di vendite del durian in Cina offre importanti spunti di riflessione sulla sostenibilità dell’accordo e sulle sfide che derivano dalla creazione di una zona di libero scambio con un mercato grande come quello cinese.

Il RCEP rappresenta attualmente il 30% del PIL mondiale, nonché il più grande blocco commerciale del mondo. Per le dieci economie ASEAN, l’adesione all’accordo ha costituito un forte impulso all’esportazione dei propri prodotti. Accanto al quasi totale abbattimento delle barriere tariffarie, le più rapide tempistiche di sdoganamento delle merci deperibili costituiscono un grande vantaggio quando la freschezza è fondamentale a garantire l’alta qualità e la competitività del prodotto. È il caso del durian, diventato il frutto più importato in Cina, sia in termini di volume che di valore.

Stando alle statistiche delle dogane cinesi, nel 2021 le importazioni di durian fresco hanno raggiunto le 821.600 tonnellate, per un totale di 4.205 miliardi di dollari, registrando significativi incrementi rispetto agli anni precedenti. Paragonate a quelle del 2017, le importazioni del “re dei frutti” sono cresciute di ben quattro volte e un’ulteriore accelerazione delle vendite è prevista quest’anno.

Sebbene i costi si siano ridotti in seguito all’entrata in vigore del RCEP, questo non ha impattato sui prezzi, i quali seguono in crescita, parallelamente all’impennata della domanda del prodotto da parte dei consumatori cinesi. Ad oggi, un durian costa generalmente più di 7 dollari al pezzo, ma il prezzo elevato non ha fermato la richiesta nei supermercati e la diffusione di piatti a base di durian, come torte, crepes al latte di durian e addirittura hotpot al durian, recensiti con entusiasmo dai consumatori sui social media cinesi e popolari nei ristoranti di lusso.

In risposta, i Paesi produttori del Sud-Est asiatico stanno provvedendo ad ampliare la propria capacità produttiva. Solo dal 2019 al 2021, la Thailandia ha aumentato di circa il 30% la sua produzione di durian. “Le importazioni cinesi sono già elevate, ma si prevede che il consumo pro capite della Cina crescerà ulteriormente. Gli agricoltori thailandesi sono molto motivati a espandere la produzione”, ha spiegato a Nikkei un funzionario dell’ambasciata thailandese in Cina. 

La Malesia sta disboscando parte delle sue foreste pluviali tropicali per fare spazio a piantagioni di durian “Musang King”, la varietà più pregiata e in voga, non senza causare conseguenze irreversibili sull’ecosistema e sulle comunità locali, secondo alcuni esperti. Una dichiarazione congiunta firmata da trentasei organizzazioni della società civile e promossa dal gruppo ambientalista B.E.A.CC..H individua nel disboscamento la causa principale delle recenti inondazioni nell’area di Gunung Inas, nel distretto di Baling, le quali hanno travolto 42 villaggi e aree residenziali, colpendo 1.500 abitanti del villaggio e causando la perdita di 3 vite umane. Anche Laos e Vietnam stanno ricevendo flussi crescenti di investimenti su larga scala, anche da parte cinese, destinati all’espansione della coltivazione del durian.

Il timore condiviso è che la moda del durian in Cina possa un giorno scemare, o che Pechino possa usare misure di restrizione delle importazioni come strumento diplomatico, come già avvenuto lo scorso marzo con il divieto di importazione di ananas taiwanesi. In altre parole, l’inclusione della Cina nella principale piattaforma di integrazione economica regionale, in nome di una maggiore cooperazione in tema di commercio e investimenti, è parsa auspicabile agli occhi di molti. D’altra parte, esiste il rischio che questo possa accrescere la dipendenza economica dei Paesi ASEAN dalla Cina, lasciando spazio a improvvise perturbazioni, anche nelle nicchie di mercato attualmente più redditizie, come quella del durian.

Riforma del lavoro e codice penale in Indonesia

Il nuovo codice penale Indonesiano è attualmente nella sua bozza definita in parlamento, entrando  presumibilmente in vigore prima della fine del mandato di Jokowi

Articolo di Aniello Iannone

Durante la pandemia Covid-19, in particolare durante la massiccia prima ondata del 2020, in Indonesia il governo ha promulgato una delle più controverse leggi sulla riforma del lavoro, Undang-Undang Cipta Kerja, nota ai  più come Omnibus Law. La nuova legge fu criticata aspramente sia dalla comunità accademica Indonesiana, sia da NGOs. 

Il motivo principale di tali critiche, che in seguito si trasformeranno in proteste, era il corpus della nuova legge che secondo i critci discriminava e danneggiava  i diritti dei lavoratori. L’approvazione della legge scatenò manifestazioni, in particolar  modo a Giacarta. Per giorni i manifestanti scesero in piazza per condannare la scelta del governo Indonesiano, tanto che la polizia dovette intervenire per fermare le proteste. 

Le proteste contro la riforma del lavoro non sono state le uniche e neanche le più violente. Un anno prima,  durante la prima bozza di revisione del codice penale (Rancangan Kitab Undang-Undang Hukum Pidana o RKUHP) violente proteste di scatenarono nella capitale. Le proteste scoppiarono quando una prima bozza della legge dichiarava come reato i rapporti extra-matrimoniali o fuori dal contratto matrimoniale. Inoltre la bozza  indeboliva notevolmente i reati per corruzione, tema molto sensibile nel paese visto l’alto livello di corruzione. Le proteste hanno tardato la riforma, portando ad un ripensamento da parte del governo. La violenza delle proteste del 2019, guidata dal grido della popolazione TolakRKUHP (respingere la riforma del codice penale).Senza una revisione chiara della riforma la possibilità di nuove sommosse rimangono alte. 

Il diritto dell’Indonesia attraverso la storia 

La giurisprudenza Indonesiana prende molto dal periodo coloniale olandese. Il codice penale non fa eccezione. Anche se sono passati decenni dell’Indipendenza del paese, il sistema penale utilizzato è quello risalente al periodo olandese. Storicamente la struttura giuridica Indonesiana si può dividere in 4 fasi principali pre indipendenza e 4 post indipendenza (Sylvana et. al., 2021) : 

  • il periodo pre-colonizzazione caratterizzato dal diritto consuetudinario non scritto di stampo religioso(Harahap, 2018)
  • il periodo VOC (Compagnia delle Indie Orientali) quando per la prima volta il diritto occidentale penetra nell’arcipelago con l’instaurazione dello Statuto di Batavia nel 1642 e il Mucharaer Book of Law nel 1750 che conteneva una raccolta di leggi islamiche penali, mantenuto anche durante il periodo Inglese fino al 1810

Tra il 1814 e il 1855, detto Besluiten Regering, il diritto Indonesiano venne influenzato dal sistema monarchico costituzionale Olande senza però vere e proprie modifiche al codice penale. Gli anni che vanno invece dal 1855-1926, noti come Regering Reglement, che coincide con il passaggio da monarchia costituzionale in Olanda a monarchia parlamentare, vedono una riduzione del potere del re sulle colonie. In questa fase il codice penale, come tutta la struttura giurisdizionale, comincia a prendere forma con la creazione di un codice penale che sarà esteso su tutta la popolazione Indonesiana dell’epoca. 

  • Il periodo dell’occupazione Giapponese 1942-45. Durante questo periodo si verifica un dualismo nel codice penale, da un lato il sistema olandese dall’altro il sistema giapponese (Saleh & Pelengkap, 1981)
  • Il periodo Indonesiano. Il problema del doppio codice penale trovò risoluzione dopo la sostituzione della Costituzione del 1945 con l’emanazione della legge 73 del 1958 che riprendeva la legge N.1 del 1946 dichiarando il sistema penale olandese Indonesiano, attualmente applicato nel paese (Bahiej, 2006) 

La riforma del codice penale: diritti, religione e politica 

Analizzando la proposta di riforma del codice penale i punti che hanno visto più critiche sono principalmente 14. In questa analisi ne prenderemo in considerazione solo alcuni, in particolar modo quelli che più vanno ad intaccare le libertà personali. 

La proposta del nuovo codice penale prevede una modifica agli art. dal 218 al 220,   dall’art.240 al 241 e dell’art 273. La modifica introduce una pena (dai 3 ai 4 mesi di detenzione) in caso di critica nei confronti del Presidente e del Vice-Presidente anche se le critiche sono trasmesse tramite social media (art.240) con una pena fino a 4 anni per diffamazione alle autorità. 

Nel contesto Indonesiano, senza una giusta motivazione all’interno della legge per critica e diffamazione, queste norme possono essere usate per mettere a tacere eventuali critiche/opposizioni nei confronti delle autorità. Già durante l’introduzione della legge ITE (Electronic Information and Transactions) e dell’Omnibus Law molti tra accademici e non furono condannati per diffamazione delle autorità, anche se stavano solo criticando la legge ITE  e  la più recente  Omnibus Law.  

L’art. 273 pone delle restrizioni alle  manifestazioni studentesche e sociali, rischiando di minare un diritto fondamentale trascritto nella costituzione, cioè il diritto alle dimostrazioni sociali. 

La revisione della legge penale, inoltre, inserisce norme molto severe  riguardanti temi legati alla religione. Partendo da questo punto di vista, bisogna analizzare questa parte della riforma in maniera trasversale. L’ Indonesia è il paese con la percentuale più alta di fedeli mussulmani al mondo. L’87 % della popolazione professa l’islam sunnita principalamente secondo il pensiero delle due scuole di pensiero presenti nel paese, la Nahdlatul Ulama (la corrente piu’ diffusa e piu’ consevatrice) e la Muhammadiyah (la corrente piu’ moderata). 

La religione ha un ruolo fondamentale  nella politica Indonesia. In tal senso l’Indonesia costituzionalmente non è uno stato Islamico ma uno stato semi-laico. Professare una religione è obbligatorio, però nessuna religione si impone sull’altra, costituzionalmente.  La revisione del codice penale enfatizza il ruolo della religione. L’art. 302 propone una detenzione per 5 anni in caso di blasfemia. Le condanne per blasfemia non sono nuove nel paese, il più noto è il caso dell’ex governatore di Jakarta Basuki Tjahaja Purnama noto come Ahok.

Altra critica in tema religioso riguarda l’art. 304 della riforma. Nell’articolo si stabilisce che chiunque costringa un’altra persona a cambiare religione rischia una pena fino a 4 anni. In questa legge si può trovare un difetto non tanto nell’obbligo o meno di costringere una persona a credere o no ma nella sua mancata spiegazione su come il caso dovrebbe essere riportato alle autorità, divenendo una minaccia per la libertà d’espressione. 

Inoltre gli articoli 415 e 416 condannano con una pena fino ad un anno per adulterio, evadendo quelli che sono i contratti matrimoniali.  In particolar modo l’art 416 condanna tutti coloro che vivono “come” marito e moglie ma non hanno contratto matrimonio con pena di reclusione fino a 6 mesi di carcere. 

Conclusione 

Il nuovo codice penale Indonesiano è attualmente nella sua bozza definita in parlamento, entrando  presumibilmente in vigore prima della fine del mandato di Jokowi. Le varie  critiche e le lacune all’interno del nuovo codice potrebbero però spingere il Mahkamah Agung ( la corte suprema indonesia) a dichiarare incostituzionale la revisione del codice penale, cosa già accaduta con l’Omnibus Law. Anche quella volta la corte suprema Indonesiana dichiarò l’incostituzionalità della legge, che  passando comunque in parlamento scateno violente rivolte in Indonesia. 

 

Riferimenti 

Bahiej A. (2006) Sejarah dan Problematika Hukum Pidana Material di Indonesia. SOSIO-RELIGIA, 5(2)

Harahap A. (2018) Pembaharuan Hukum Pidana Berbasis Hukum Adat. EduTech Jurnal Ilmu Pendidikan dan Ilmu Sosial, 4(2)

Sylvana Y., Firmansyah Y., Wijaya H., Angelika M,S. (2021). History of criminal law in Indonesia. Jurnal Indonesia Sosial Sains, 2(4) : 645-655

Il Sud-Est asiatico al centro

Prima la ministeriale dell’IPEF, poi il China-ASEAN Expo: la regione porta avanti la sua linea di neutralità e cooperazione internazionale

Editoriale a cura di Lorenzo Lamperti

La guerra in Ucraina ha acuito una tendenza che era in atto già da qualche tempo: la richiesta, implicita o meno, di scegliere “da che parte stare”. Non solo sulla Russia, ma anche in riferimento alla Cina. L’ASEAN sembra però aver scelto da tempo da che parte stare, vale a dire da quella di neutralità e pacifismo. Una strada che sta ponendo il Sud-Est asiatico, una delle regioni in più rapida crescita al mondo, al centro delle relazioni commerciali (e non) internazionali. La dimostrazione plastica arriva nel corso di questo mese di settembre, con due eventi rilevanti nel giro di una settimana. Tra l’8 e il 9 settembre i rappresentanti di Brunei, Indonesia, Malesia, Filippine, Singapore, Thailandia e Vietnam hanno partecipato a Los Angeles alla prima riunione ministeriale dell’Indo-Pacific Economic Framework for Prosperity (IPEF), la piattaforma di cooperazione commerciale lanciata qualche mese fa dagli Stati Uniti del Presidente Joe Biden. Al termine del summit, i 14 Paesi che fanno parte del progetto hanno concordato sulle linee guida fondamentali per negoziare i quattro principali “pilastri” di un futuro accordo: il commercio (compresi i flussi di dati e i diritti dei lavoratori), la resilienza della catena di approvvigionamento, l’energia verde e gli standard ambientali, le misure anticorruzione e fiscali. Da venerdì 16 a lunedì 19 settembre è invece in programma la 19esima edizione del China-ASEAN Expo e del China-ASEAN Business and Investment Summit. L’evento si svolge a Nanning, nella regione autonoma del Guangxi, con la partecipazione fisica di oltre 300 imprese e di altre duemila imprese in modalità virtuale. La Malesia, in qualità di Paese d’onore, ospiterà una serie di attività sul tema del 10° anniversario dello sviluppo di due parchi industriali (a Qinzhou nel Guangxi e a Kuantan in Malesia), chiamati ad approfondire ulteriormente gli scambi economici e commerciali e la cooperazione tra Cina e ASEAN, anche nell’ambito della Regional Comprehensive Economic Partnership (RCEP). Pechino è da tempo il principale partner commerciale dell’ASEAN. Nei primi sette mesi del 2022, l’interscambio è ulteriormente aumentato. Segnale di un legame importante per entrambe le parti. La possibilità di “aggiungere”, per altri attori internazionali, è concreta. E lo dimostra la cooperazione in fase di approfondimento tra ASEAN e Unione Europea. “Sostituire”, invece, appare molto più complicato.

Singapore contende a Hong Kong il ruolo di hub finanziario globale

Il ruolo finanziario di Hong Kong sta cambiando e sembra che Singapore ne trarrà vantaggio. 

Per la prima volta Singapore ha superato Hong Kong nell’ultima classifica delle giurisdizioni globali di Vistra. Più di 600 dirigenti di servizi aziendali hanno valutato l’importanza dei principali centri finanziari. Hong Kong e Singapore si contendono da tempo il primato di hub finanziari midshore, che fungono anche da accesso per l’Asia. Dal 2010, quando Vistra ha avviato l’elaborazione della classifica, Hong Kong è sempre stata predominante. Quest’anno Singapore è salita al primo posto insieme a Regno Unito e Stati Uniti, mentre Hong Kong è scivolata in quarta posizione.
Anche se si tratterebbe di un vantaggio marginale, – il 46% degli intervistati ha preferito Singapore come centro finanziario per la propria organizzazione, contro il 43% che ha affermato lo stesso di Hong Kong – è il capovolgimento delle sorti dei due rivali ad essere di fondamentale importanza per comprendere la traiettoria futura di ciascuno.

La turbolenza politica che affligge Hong Kong è sicuramente uno dei fattori più favorevoli per Singapore, ma la sua ascesa è dovuta specificamente alle azioni governative in ambito finanziario. Singapore è stata proattiva nell’aumentare la sua attrattività finanziaria, in particolare la gestione di fondi e la pianificazione patrimoniale. Nel 2018 Singapore ha introdotto una nuova struttura di fondi di investimento, la Variable Capital Company (VCC), per far aumentare il domicilio di fondi alternativi. Il VCC offre maggiore flessibilità agli investitori, risparmi sui costi operativi e vantaggi fiscali, entrando in sfida con i principali domicili di fondi come le Isole Cayman. Negli ultimi anni, Singapore sta attirando anche un’importante quota di clienti asiatici con un patrimonio netto in crescita. Le sue trust law offrono riservatezza a migranti e beneficiari, nonché esenzioni fiscali. Attratti da aliquote fiscali favorevoli e da un contesto normativo stabile, sempre più imprenditori miliardari decidono di stabilire family office nella città-stato. L’Autorità Monetaria di Singapore ha approvato più di cento domande di family office nei primi quattro mesi di quest’anno. Oltre al capitale portato a Singapore, questi investitori richiedono anche servizi finanziari sofisticati, creando posti di lavoro per i gestori patrimoniali. L’accumulo di capitale finanziario e umano contribuisce ad aumentare la competitività di Singapore come hub finanziario.

Lo sviluppo economico regionale è un altro aspetto vincente. Le politiche zero-COVID della Cina hanno spinto i produttori a spostare le catene di approvvigionamento verso il Sud-Est asiatico. Singapore può facilitare tali spostamenti grazie alla sua duratura presenza commerciale nella regione e alla familiarità con i processi cinesi. Le istituzioni finanziarie mettono in contatto i clienti con gli investitori, gli studi legali supportano l’apertura di nuove filiali e le società di consulenza forniscono indicazioni sull’approvvigionamento dei fornitori regionali e provvedono alla formazione del personale. 

Oltre a quello finanziario, Singapore e Hong Kong si contendono anche il primato delle proprietà commerciali ecologiche. Entrambe attraggono importanti finanziamenti per sostenere lo sviluppo di progetti urbani ecocompatibili. La città-stato si è classificata al primo posto nell’ultimo indice di sostenibilità per l’Asia-Pacifico, elaborato dalla società di consulenza immobiliare Knight Frank. Shenzhen e Hong Kong sono state le successive città asiatiche meglio classificate, appena sotto Australia e Nuova Zelanda, con le città di Sydney e Wellington. Tokyo ha completato la top 10. La classifica di Knight Frank considera come fattori principali il numero di edifici verdi e la volontà dei governi locali di spingere verso un’urbanizzazione sostenibile, guardando anche al mercato degli asset verdi investibili. Il report di Knight Frank ha evidenziato il piano singaporiano “80-80-80 nel 2030”, con l’obiettivo di avere l’80% degli edifici con caratteristiche eco-compatibili, l’80% dei nuovi edifici a risparmio energetico, e per quelli che sono già leader nella sostenibilità ambientale è previsto un ulteriore efficientamento energetico dal 65% all’80%. Singapore, come Hong Kong, sta lottando anche per il finanziamento verde nel settore immobiliare. L’anno scorso, le società immobiliari City Developments e MCL Land hanno annunciato di aver ottenuto prestiti verdi per un importo di 610 milioni di dollari per finanziare due progetti nella città-stato nell’ambito di una joint venture.

La distanza tra Singapore e Hong Kong come hub finanziari si sta riducendo. La percezione globale di Hong Kong è stata indubbiamente alterata e ora deve adattarsi a una nuova realtà, ma in quanto porta d’ingresso alla Cina e storico centro finanziario globale, continuerà a mantenere un ruolo importante a livello internazionale.

Building Resilience through Food Security

Articolo by Dr. Wiwat Salyakamthorn*

“[T]he strengthening of our economic foundation [should begin] by assuring that the majority of our population has enough to live on… Once reasonable progress has been achieved, we should then embark on the next steps…”

His Majesty King Bhumibol Adulyadej the Great


Thailand is world-renowned for her flavorful culinary delights with dishes like Pad Thai and Tom Yum Kung born out of a unique gastronomic history, maintained by the ingenuity of Thais to evolve their dishes in celebration of their culture. But all of this is only possible because of one simple fact – Thailand enjoys an abundance and diversity of agricultural produce.

 

Sufficiency Economy Philosophy

Source: Thailand International Cooperation Agency (TICA)

 

From the steep stepped farmlands of the North to the rain-soaked terrain of the South, agricultural best practices well-suited to each of the country’s topographical feature provide a steady stream of fresh produce that has been woven into the rich tapestry of Thai cuisine. What might be a lesser-known fact is that the country owes much of her agricultural success to the lifelong dedication of His Majesty King Bhumibol Adulyadej the Great, in fostering resiliency through advancing food security for the Thai people. King Maha Vajiralongkorn Phra Vajiraklaochaoyuhua has taken the concept further, by ensuring that Thais nationwide continue to enjoy food security through scalable best practices in agriculture.

His Majesty King Bhumibol Adulyadej the Great initiated more than 4,000 development projects for the betterment of the Thai people’s livelihoods, all of which were based firmly in his philosophy of Sufficiency Economy, which advances fundamental principles of Thai culture deeply rooted in Buddhist precepts. The philosophy espouses development in all aspects based on moderation, prudence and self-immunity. It emphasizes living within one’s means and with limited resources, thereby decreasing dependence on externalities and susceptibility to market volatility while increasing one’s control over the means of production and output.

 

The New Theory Agriculture

Source: Thailand International Cooperation Agency (TICA)

 

Development by steps according to the new theory Source: Thailand International Cooperation Agency (TICA)

 

At the time of the Philosophy’s conception, Thailand was still an agrarian country but one poised for significant economic development. His Majesty the late King had the foresight and vision that such development could not and should not leave anyone behind. This compassion was then engendered the New Theory, under which the essential principles of the philosophy of sufficiency economy are applied to agriculture. Given the historical context, food security at the individual and the household levels would come to underpin more stable economic growth by lessening the risk of external shocks at the grassroots level. By reaching the furthest first, the New Theory is one of the most concrete examples of the application of the philosophy of Sufficiency Economy as it seeks to foster balanced and sustainable living through the management of land and water conservation, especially for those whose livelihoods were particularly susceptible to impacts of economic crises and natural disasters. This, in turn, allows farmers and small-scale land owners to holistically manage their lands while living harmoniously with nature and within society as they can rely on locally sourced produce for sustenance, even in the face of economic hardship.

 

The New Theory Farming Practice

Source: Thailand International Cooperation Agency (TICA)

 

Staying true to His Majesty’s Oath of Accession to “continue, preserve and build upon the royal legacy”, the Khok Nong Na Model expands on the New Theory to maximize both land use and water retention, both on the surface and underground, for agricultural production. The concept essentially calls for the building of a small weir on a plot of land that acts as a reservoir to prevent flooding during rainy season but also retains and acts as a source of water during dry season, both of which have been exacerbated by the adverse effects of climate change.

 

The key principle of the Khok Nong Na Model is to store sufficient water focused in three main areas: mound, marsh, and rice field.

Source: Surin Provincial Agriculture and Cooperatives Office website

 

“Khok Nong Na” is an amalgamation of three Thai words that encapsulate key elements of the eponymous concept. First, a small ridge (Khok) is built of soil obtained through swamp digging or other substrate rich in nutrients suitable for growing fruit plants and trees, capable of withstanding local conditions, to generate food and household income. The next important element is a weir (Nong) that runs the length of the plot of land with sufficient depth to store water for agricultural use all year round while providing moisture through the breadth of the land. The last key element is the rice paddy (Na) on which organic rice farming should be practiced with the aim of restoring essential nutrients to the soil so that yields are pesticide-free and safe for human consumption. The overall objective of the Khok Nong Na Model is to ensure food and financial security from the smallest units within society by becoming self-dependent while minimizing susceptibility to externalities. This will in turn translate into food system resilience for the country.

The success of the model is now being scaled up throughout the country by various agencies including the Foreign Ministry’s Thailand International Cooperation Agency and the Community Development Department. Pilot projects and vocational programmes designed to acquaint those keen to explore the application of the Khok Nong Na Model of their own volition, have been implemented nationwide. The Community Lab Model aims to offer a better quality of life through the upskilling and reskilling of recent graduates, whose prospective jobs COVID-19 has taken away, in 330 districts with over 3,300 participants. Similarly, the Household Lab Model has been converting plots of land belonging to almost 6,000 model farmers in more than 300

districts countrywide into Khok Nong Na model lands. Building upon his father’s legacy, His Majesty King Maha Vajiralongkorn Phra Vajiraklaochaoyuhua has guided the Thai people to put into practical application the Khok Nong Na model of agricultural practices to ensure that food system resilience remains one of Thailand’s crowning achievements in the years to come.

Overview of “Khok Nong Na Model” Source: Narathiwat Science Center for education

* * * * *

 

Dr. Wiwat Salyakamthorn became well known from decades of training farmers on the application of Sufficiency Economy Philosophy to the agricultural sector to promote sustainable productivity and livelihoods.   He has experience working at the Office of the Royal Development Projects Board and in experimenting with the development concept on his own family’s farm in Chon Buri, with great success. He is also a former Minister of Agriculture and Cooperatives and the Founder of the Agri-Nature Foundation which runs community workshops at his farm. In addition, he holds other prominent positions, including President of the World Soil Association, and President of the Institute of Sufficiency Economy.

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