Come sarà il G20 dell’Indonesia

Speciale G20 Indonesia

Giacarta ha il potenziale di dirigere l’attenzione del mondo verso l’Asia in via di sviluppo, ma potrebbe perdere l’occasione di uscire dal mainstream del dialogo multilaterale. Ecco le sfide della sua presidenza di turno

Dal 1° dicembre 2021 al 30 novembre 2022 l’Indonesia guiderà la presidenza del G20. È la prima volta che Giacarta ottiene la posizione di guida del gruppo multilaterale, che comprende 19 tra le maggiori economie e l’Unione Europea. Nata nel 1999 come piattaforma per la discussione di tematiche economiche, si è presto estesa ad altre questioni. Il passaggio di consegne tra Italia e Indonesia, completato in occasione del summit a Roma del 30-31 ottobre è stato l’occasione per metterle in luce: crisi climatica, emergenza sanitaria, gestione dei mercati globali sono solo alcuni dei termini più menzionati dai leader riuniti in quell’evento.

La presidenza dell’Indonesia, che sfocerà nel summit di Bali dell’ottobre 2022, apre una stagione che vedrà protagoniste le economie emergenti, non solo nei contenuti del dialogo tra i Paesi del G20: nel 2023 sarà il turno dell’India, seguita dal Brasile e poi dal Sudafrica. “Questo è un onore per noi, per l’Indonesia, e allo stesso tempo una grande responsabilità, che dobbiamo svolgere bene”, ha detto il Presidente indonesiano Joko Widodo, meglio conosciuto come Jokowi. Non per niente il tema del 2022 è “Recover Together, Recover Stronger”, espressione che contiene quel carattere di inclusività in cui la presidenza a guida indonesiana cercherà di puntare.

Secondo quanto dichiarato in chiusura del summit di Roma, nel 2022 andrebbero concretizzati i progetti in ottica di sicurezza sanitaria, di riduzione delle emissioni e di gestione dei mercati per contenere la crisi economica provocata dalla pandemia. Sfide non semplici, che Giacarta dovrà portare sulle proprie spalle in quanto unico membro ASEAN incluso nel club. 

Crisi climatica e sviluppo sostenibile

Come altri paesi del Sud-Est asiatico, l’Indonesia è esposta a eventi climatici estremi sempre più frequenti (2510 segnalazioni nel 2020, contro le 535 del 2005). Jokowi ha affermato che l’Indonesia, durante la sua presidenza, spera di offrire una piattaforma per partenariati globali e finanziamenti internazionali per sostenere la transizione energetica verso fonti rinnovabili più pulite. 

Giacarta conosce bene le difficoltà delle economie emergenti davanti alle trasformazioni che la transizione energetica richiede. Quella che viene considerata una delle principali soluzioni sul tavolo è, per i Paesi in via di sviluppo, una sfida che richiede innanzitutto l’accesso universale all’energia elettrica di qualità. La sola Indonesia ha la sovranità su 17,500 isole e una capitale che sta sprofondando, mentre la politica economica è profondamente radicata intorno alle fonti fossili. I progetti sono tanti e ambiziosi, come un parco solare a Java che verrà completato entro la fine del 2022 e sarà, con i suoi 145 Megawatt, il più grande del Paese.

Lo sviluppo sostenibile richiede un approccio diverso rispetto a quello adottato dal Nord globale, e l’approdo dell’Indonesia a capo di una delle organizzazioni rappresentative di questa realtà potrebbe portare nuovi spunti spesso sottovalutati. Dal 2014 Jokowi ha iniziato a introdurre molte riforme in un’ottica di accrescimento del benessere individuale, tanto che il coefficiente di Gini per la disuguaglianza di reddito in Indonesia ha ripreso a scendere dopo quasi 15 anni: oggi si è stabilizzato intorno al 38,2 (quello dell’Italia è a 35,9). Rimarrà importante anche il tema della cooperazione sanitaria per sostenere i paesi in difficoltà, che rimane un argomento importante anche per la politica interna: negli ultimi anni, per esempio, Jokowi ha introdotto una revisione delle assicurazioni sulla salute in un’ottica di universalizzare il sistema sanitario.

Giacarta mantiene delle politiche fiscali prudenti, al punto che il debito nazionale si mantiene sotto il 40% del Pil. Questa visione politica è accompagnata, non senza criticità (come nel caso delle leggi sul lavoro) da un netto appoggio alle liberalizzazioni. In questo modo le riforme di Jokowi hanno contribuito a migliorare la posizione dell’Indonesia nell’indice Doing Business della Banca Mondiale dal 120º posto nel 2014 al 73° nel 2020. In questo senso Giacarta rimane un membro gradito del G20, e potenziale esempio di sviluppo economico per il resto della regione.

Cooperazione internazionale

La cautela dell’Indonesia rimane alta anche in politica estera, dove Jokowi ha saputo tenere legami attivi sia con la Cina che con gli Stati Uniti. Il controllo sul debito pubblico ha permesso di accogliere i progetti cinesi della Belt and Road initiative per accelerare i piani di sviluppo infrastrutturale, mentre rimane alta l’attenzione verso altri potenziali investitori. Non per niente la landing page del sito dedicato alla presidenza dell’Indonesia fa emergere l’intenzione di presentare il Paese al mondo, renderlo più attrattivo e degno di fiducia da parte della comunità internazionale. Da un punto di vista politico, inoltre, Jokowi ha saputo gestire le conflittualità interetniche nel Paese e rappresenta l’unico leader musulmano effettivamente arrivato alla presidenza tramite procedure democratiche regolari. 

Cautela e compromessi: la presidenza indonesiana contiene quella leadership accomodante che si presta a tamponare le frizioni ideologiche in una fase storica particolarmente complessa per la comunità internazionale. Diverso, ma complementare a un modello politico ed economico affine alle democrazie occidentali. Il G20 di Roma intendeva riaffermare il modello di relazioni internazionali multilaterali, mentre il mondo rischia di scivolare verso piccole o grandi conflittualità di vicinato che ostacolano la cooperazione e la supervisione di attori esterni. La presidenza indonesiana cercherà di riportare l’attenzione verso quei Paesi che devono colmare il ritardo col resto del mondo.

L’esodo, non così facile, delle aziende straniere dal Myanmar

Le aziende straniere attive in Birmania faticano a continuare le loro operazioni vista la situazione politica ed economica. Ma faticano anche ad andarsene: vediamo perché.

A seguito della pandemia da COVID-19 e della crisi politica ed economica innescata dal golpe militare dello scorso febbraio, le aziende straniere presenti in Myanmar si trovano in una situazione molto critica, come confermato dal crollo degli investimenti che tali imprese hanno effettuato nel Paese, ai minimi negli ultimi otto anni. 

L’economia birmana, secondo la Banca dello Sviluppo Asiatico, ha subito nell’ultimo anno una contrazione del 18,4% e la situazione non sembra destinata a migliorare nel futuro prossimo, tanto che il Fondo Monetario Internazionale ha recentemente rivisto al ribasso le sue previsioni per il tasso di crescita economica nel 2022. Alla base il crollo  della valuta locale, il kyat, e il significativo aumento dei prezzi dei prodotti alimentari,  tutti fattori che contribuiscono al crescente disagio della popolazione.

L’incertezza politica, il crollo della domanda locale e la volatilità della valuta hanno  spinto molte aziende straniere alla chiusura o al ridimensionamento delle attività locali. La scarsità di liquidità e le disfunzioni del settore bancario hanno inoltre limitato la capacità delle imprese di pagare dipendenti e fornitori. Anche l’accesso a internet è stato pesantemente limitato nei tre mesi successivi al golpe. Questi shock hanno indebolito i consumi, gli investimenti e il commercio e hanno limitato le operazioni delle imprese anche per ciò che concerne  la fornitura di manodopera e degli altri fattori produttivi.

Già nei primi mesi dopo il rovesciamento del regime, grosse aziende come i colossi dell’energia EDF e Petronas, ma anche il gruppo thailandese Amata e la società di ingegneria di Singapore Sembcorp hanno cessato o sospeso le operazioni in Myanmar. Inoltre, lo scorso ottobre la British American Tobacco (BAT) ha annunciato che lascerà il mercato birmanoalla fine del 2021, benché ufficialmente la sua partenza sia stata motivata in base a mere decisioni commerciali. In realtà, avendo iniziato ad operare  in loco nel 2013 con un investimento iniziale di 50 milioni di dollari, l’uscita di BAT dal Myanmar dopo meno di un decennio riflette la criticità della situazione in cui è precipitato il Paese. Sempre nello stesso mese ha poi cessato le operazioni il Kempinski Hotel, nella capitale Naypyidaw, che avendo anche ospitato il presidente Barack Obama durante la sua visita di stato nel 2014 era un importante simbolo dell’  apertura del Paese. 

Ma l’uscita dal Myanmar non è un passo semplice per tutte le aziende. Molte, infatti, hanno investito in infrastrutture pluriennali, e una exit strategy immediata risulta impraticabile. E’ il caso, per esempio, del colosso australiano del gas naturale Woodside Energy che si limita ad affermare che “tutte le decisioni commerciali in Myanmar sono in fase di revisione”. 

Un’altra azienda che si trova in difficoltà a lasciare il Paese, seppur per altri motivi, è il gigante norvegese delle telecomunicazioni Telenor. Quest’ultima è fortemente motivata a cessare le operazioni in Myanmar non solo a causa del grave deterioramento del contesto commerciale, che ha fatto registrare una perdita di oltre 782 milioni di dollari americani, ma anche per non soccombere ai tentativi del governo di controllare le attività dell’azienda.  La giunta militare avrebbe infatti tentato diverse volte, seppur invano, di costringere Telenor a limitare il traffico web e intercettare gli utenti per permettere alle autorità di spiare le chiamate e i messaggi. 

L’azienda sta però ancora aspettando di ottenere l’approvazione per la vendita delle attività alla compagnia libanese M1. Ciò accade in seguito a un ordine confidenziale, emesso lo scorso giugno, che impone agli alti dirigenti delle imprese di telecomunicazioni, sia stranieri che burmesi, di poter lasciare Naypyidaw solo con un’autorizzazione speciale, la quale sembra però non arrivare. 

Inoltre, non va sottovalutato che la problematica situazione finanziaria non fa che complicare la possibile uscita delle aziende. Le banche, prese d’assalto dalle lunghe code che si sono formate ai bancomat all’inizio di quest’anno, sono ancora sotto pressione e la liquidità scarseggia, rendendo così estremamente arduo il rimpatrio del capitale residuo. Come se non bastasse, è sopraggiunta anche la pandemia, che impone restrizioni di viaggio e onerosi requisiti di quarantena per coloro che attraversano i confini.

Rimane una profonda imprevedibilità sulla situazione politica nel medio e lungo termine, che va ad aumentare il margine di incertezza delle imprese straniere sull’opportunità di rimanere o meno nel Paese. Queste aziende, che hanno iniziato ad investire in Myanmar dal 2011, quando si sperava che il processo di transizione democratica potesse essere irreversibile, vivono nel dilemma se fare le valigie o aspettare che passi la tempesta. 

Netflix, Facebook e Google sotto la pressione dei governi del Sud-Est

La rimozione su richiesta di Manila di due puntate della serie australiana Pine Gap dal catalogo di Netflix Philippines è solo la punta dell’iceberg delle recenti pressioni governative sulle piattaforme digitali occidentali in Asia.

Il 1° novembre il governo filippino ha richiesto e ottenuto la rimozione dal catalogo di Netflix Philippines degli episodi due e tre della serie australiana “Pine Gap”. L’irritazione di Manila è scaturita dall’apparizione di una cartina geografica del Mar Cinese Meridionale rappresentante la cosiddetta “linea dei nove tratti”, tipica delle carte geografiche cinesi di quelle acque ricche di risorse contese tra Cina, Filippine, Brunei, Malesia, Indonesia, Taiwan e Vietnam. L’autorità filippina per la classificazione dei film ha definito gli episodi eliminati come “inadatti alla messa in onda” e il Dipartimento degli Affari Esteri filippino sostiene che l’apparizione di tale mappa va contrastata poiché tesa alla legittimazione della “linea dei nove tratti” col rischio di “corrompere la conoscenza e la memoria dei giovani filippini circa i veri territori del Paese”. La rimozione dei due episodi incriminati è stata pressoché istantanea, avvenendo la stessa serata. La celerità con cui Netflix ha adempiuto alla richiesta del governo filippino non è stata però la stessa nel fornire spiegazioni a Reuters, rispondendo solo a notte inoltrata. La decisione di cancellazione è stata resa pubblica solo il 1° novembre per motivi attualmente sconosciuti.

Non è la prima volta che i servizi di streaming hanno problemi con le autorità circa le rappresentazioni cinematografiche che toccano temi sensibili nella regione. Il Vietnam è l’esempio di come la pressione dei governi locali possa divenire vera e propria coercizione. Se Pine Gap si è vista eliminare due episodi nelle Filippine, in Vietnam la serie è stata interamente cancellata dal catalogo per lo stesso motivo. Similmente, nel 2019 Hanoi aveva ritirato dalle sale il film della Dreamworks “Abominable” oltre alla rom-com cinese “Put Your Head on My Shoulder” e il dramma politico americano “Madam Secretary” dai servizi on demand per evitare di “ferire i sentimenti dell’intero popolo vietnamita”.

Netflix è solo uno degli attori in questa relazione tra governi e piattaforme. Nell’Asia-Pacifico si trova il 40% degli utenti dei social di Meta, ex Facebook, che ha quindi grandi interessi nell’area. Solo il Vietnam conta 100 milioni di utenti e un mercato dal valore di un miliardo di dollari. I filippini sono i più attivi sulle piattaforme Meta, passando in media oltre quattro ore al giorno online secondo eMarketer, mentre gli indonesiani usano WhatsApp come principale mezzo di comunicazione e informazione. Dato il grande impatto di Meta sulle popolazioni della regione, i governi locali pongono particolare attenzione a quanto avviene sulle sue piattaforme, in particolare dal 2017.

Facebook collabora con il Ministero dell’Informazione e Comunicazione (MoIC), la Banca di Stato del Vietnam, il Dipartimento Generale della Tassazione e il Ministero della Pubblica Sicurezza per identificare e perseguire i reati politici sui social media. Sotto minaccia di oscuramento e con l’obbligo di mantenere sede legale, server e dati locali in Vietnam, Facebook avrebbe preso parte alle attività di censura del governo di Hanoi: secondo Transparency Report, dal 2019 la repressione del dissenso nel Paese è aumentata del 983%, anno in cui Facebook ha buttato giù 200 siti antigovernativi. Dai Facebook Papers, documenti trapelati quest’anno insieme a un’inchiesta del Washington Post sulla società californiana, emerge che a inizio 2021 Mark Zuckerberg avrebbe dato il placet alla censura di molti dissidenti vietnamiti sulla piattaforma in concomitanza con il tredicesimo Congresso del Partito comunista vietnamita, fondamentale per la selezione della leadership dei cinque anni successivi. YouTube di Google non è escluso da queste dinamiche. Nel 2019 è stato costretto a rimuovere contenuto critico verso il governo di Hanoi cancellando oltre 7000 video e 19 canali. Dal Play Store sono stati eliminati 58 giochi vietnamiti, come anche da Apple.

Facebook di Meta ha un certo peso anche nelle Filippine. Dal 2017, partecipa col governo di Rodrigo Duterte allo sviluppo delle infrastrutture internet veloci nel Paese. Il bilanciamento di Facebook nei rapporti col governo è difficile: Duterte non ha accolto bene la chiusura nel 2020 di vari account collegati alla polizia e all’esercito filippino a causa del loro ruolo nella guerra alla droga avviata dal Presidente. Duterte ha minacciato il social dicendo che per i filippini ci sarebbe stata una vita dopo Facebook e che i delegati del social avrebbero dovuto dare spiegazioni dell’accaduto.

In Indonesia, il governo sfrutta la Legge sull’Informazione Elettronica e le Transazioni (ITE) per contrastare i dissidenti. Invocata circa duecento volte dal 2019, secondo Amnesty International questo eccessivo ricorrervi viola la libertà d’espressione. A completare questa legge, entrerà in vigore da dicembre 2021 il Regolamento Ministeriale 5 che permetterà di tassare le piattaforme straniere e coinvolgerle nel processo legislativo, pena l’oscuramento per evitare che venga diffuso materiale “proibito, illecito o che disturbi l’ordine pubblico”. Per questo motivo Facebook collabora con il Ministero della Comunicazione e della Tecnologia dell’Informazione (Kominfo).

Sotto la superficie del mare digitale, la libertà di espressione si congela sempre di più, ingrandendo così l’iceberg della repressione.

Chipped away. Cosa ci insegna la carenza globale dei semiconduttori?

La supply chain dei semiconduttori è in crisi dal 2020 e la scarsità durerà ancora. Basta poco per bloccare i flussi commerciali globali. I governi di tutto il mondo intendono investire nel settore per rafforzare la propria autonomia tecnologica, ASEAN e UE potrebbero giocare un ruolo importante.

Il 2021 sembra un annus horribilis per il commercio globale, ancora più del 2020. Molti settori dell’economia hanno beneficiato del “rimbalzo” post-crisi e sembrano tornati ai livelli precedenti alla pandemia. Altri invece sono ancora in difficoltà, con effetti tangibili per i consumatori. L’energia, le materie prime, le automobili, i prodotti IT. Tutto è più difficile da reperire e quindi più caro. Di particolare rilevanza è la carenza di chip, componenti essenziali ormai per tantissimi oggetti di uso quotidiano. La crisi globale della supply chain dei semiconduttori è un caso di studio eccellente per comprendere la natura e le fragilità dell’economia globalizzata. E tocca da vicino i Paesi ASEAN: un paio di loro – Singapore e Malesia – sono tra i principali produttori globali e buona parte dei chip, anche quando proviene da altre parti dell’Asia, passa per le acque del Sud-Est asiatico. 

La global value chain dei semiconduttori presenta delle caratteristiche molto particolari. Tutte le economie del mondo hanno bisogno di questi prodotti, eppure la loro fabbricazione è concentrata in pochissimi Paesi tra di loro interdipendenti, dato che ogni fase della filiera produttiva si svolge in uno Stato diverso. Le aziende di ciascun Paese si sono specializzate in una specifica fase della produzione o in un certo tipo di chip, creando a volte dei veri e propri monopoli regionali. Ad esempio, il 92% dei semiconduttori di dimensioni inferiori ai 10 nanometri viene prodotto a Taiwan. Una sola azienda UE, la ASML, è l’unica produttrice mondiale di scanner EUV, un’attrezzatura essenziale per produrre poi i chip sotto i 7 nanometri a Taiwan. Questa fitta rete di scambi ha spinto i governi a ridurre notevolmente i dazi e infatti i semiconduttori sono tra i prodotti meno tassati del sistema commerciale globale

I chip devono necessariamente circolare e hanno bisogno di un mercato globale liberalizzato e interconnesso. I grandi eventi capaci di rallentare i flussi commerciali, come la crisi Covid, producono in questo settore un susseguirsi di “colli di bottiglia” e infine la scarsità globale senza precedenti a cui stiamo assistendo. Molte fabbriche di chip in Asia sono state costrette a chiudere o a ridurre la produzione a causa della pandemia. Anche il settore dei trasporti sta attraversando un momento di crisi e non riesce più a distribuire i semiconduttori prodotti in Asia nel resto del mondo. Aumentare la capacità produttiva in Asia potrebbe non bastare, se poi mancano i vettori. Anche la guerra commerciale tra USA e Cina condotta da Donald Trump fino allo scorso anno ha avuto un impatto: le restrizioni all’import di chip cinesi ha portato le aziende americane a rivolgersi alla Taiwan Semiconductor Manufacturing Co. (TSMC) e alla coreana Samsung, i cui livelli di produzione erano già al limite. La crisi Covid o le tensioni commerciali non sono però le sole cause scatenanti. La novità è che anche fatti di minore entità, a prima vista dotati di rilevanza solo locale, hanno effetti globali. 

“Se una farfalla sbatte le ali in Brasile, può provocare un tornado in Texas”. L’effetto farfalla teorizzato dal meteorologo statunitense Edward Lorenz si applica anche alla globalizzazione e al mercato dei semiconduttori. Una manovra mal riuscita di una sola nave – costruita in Giappone, operata da una società di Taiwan, registrata a Panama e la cui manutenzione è gestita una ditta tedesca: la ormai celebre Ever Given – ha bloccato il canale di Suez per giorni, fermando il 12% del commercio mondiale e quasi 10 miliardi di dollari in merci per ogni giorno di ostruzione. Poche settimane dopo l’incidente a Suez, un altro evento apparentemente locale, la siccità che ha colpito Taiwan, ha avuto un impatto negativo sul mercato globale dei semiconduttori – per giunta, attirando l’attenzione del pubblico su quanta acqua sia necessaria per la loro produzione. Poche settimane prima invece, un incendio in una singola fabbrica in Giappone aveva dato un ulteriore colpo alla capacità produttiva del settore, causando la costernazione dell’industria automobilistica mondiale, per la quale ormai i chip sono sempre più indispensabili. 

Quanto tempo sarà necessario per risolvere questa crisi, secondo i produttori di chip? Almeno un altro anno. Lisa Su, CEO di AMD, ritiene che nel 2022 assisteremo a un miglioramento della situazione, mentre Pat Gelsinger, a capo di Intel, è meno ottimista e prevede che la scarsità di semiconduttori durerà fino al 2023. Nel breve periodo, i prezzi dei semiconduttori rimarranno alle stelle, anche a causa dell’hoarding, l’accumulazione dei chip da parte delle aziende. Hoarding che sta assumendo dimensioni e forme inaspettate, causando anche la reazione dell’amministrazione Biden. Su EBay e le altre piattaforme online sono attivi freelance che puntano i singoli pezzi usati o smontati, li comprano all’asta e poi li rivendono alle aziende. Un sintomo delle difficoltà che le ditte stanno affrontando nell’approvvigionamento. È naturale allora chiedersi cosa stiano facendo le aziende e i governi per affrontare l’emergenza. La soluzione condivisa sembra consistere in massicci piani di investimenti per aumentare la produzione. I governi di Stati Uniti e Unione Europea vogliono però che i nuovi impianti siano aperti sul proprio territorio. La questione va ben oltre il rafforzamento della supply chain o il ritorno economico e occupazionale: i semiconduttori sono un asset strategico troppo importante per correre il rischio di lasciarlo in monopolio ai paesi asiatici.  Nei discorsi di Joe Biden e Ursula Von der Leyen sul tema, espressioni come “sicurezza nazionale” e “sovranità tecnologica” compaiono puntualmente. Anche le aziende sono interessate a spostare parte della produzione fuori dall’Asia, specie dietro promessa di generosi incentivi pubblici: la TSMC ha già avviato la costruzione di un impianto da 12 miliardi di dollari in Arizona e promette ulteriori investimenti negli States, mentre Intel intende investire fino a 80 miliardi di dollari per aprire nuove fabbriche nell’UE. Occorre solo capire dove. L’Italia sta corteggiando il colosso americano per attirare parte dell’investimento, come anche la Baviera, dato che uno degli impianti sarà probabilmente costruito in Germania.

Sfortunatamente questi progetti potrebbero non avere l’effetto sperato. Per quanto la global value chain dei semiconduttori sia studiata con attenzione e rigore dagli esperti, rimane difficile ‘codificare’ i vantaggi competitivi delle aziende leader del settore. Il know-how richiesto cade, per una buona sua parte, nel campo della conoscenza tacita e non può essere trasferito facilmente dalle fabbriche in Asia a quelle in Europa o negli USA. Tanto è che le aziende costruiscono i nuovi impianti riproducendo in modo fedelissimo l’organizzazione e la planimetria di quelli già esistenti – coerentemente con la propria, celebre, strategia Copy Exactly!, Intel riproduce dettagli come la pressione barometrica, la temperatura del colore dell’illuminazione o la tinta dei guanti. Inoltre, il fatto che la produzione mondiale dei semiconduttori sia così concentrata in una singola regione, l’Asia dell’est, e dipenda da un fitto intrecciarsi di catene del valore regionali costituisce una debolezza, ma anche un punto di forza del settore. Le nuove fabbriche lontane dall’Asia riusciranno a trovare il loro posto nella global value chain? Riusciranno ad essere competitive?

I Paesi ASEAN possono giocare un ruolo importante nel futuro dei semiconduttori e già valgono il 22% dell’export mondiale di componentistica elettronica. Come accennavamo, Singapore e Malesia sono già degli attori importanti del settore e potranno attrarre nuovi investimenti da USA, Taiwan e Corea. Thailandia e Vietnam hanno varato dei piani ambiziosi di incentivi e investimenti per favorire la crescita del settore nel proprio territorio. Hanoi dovrebbe portare avanti un piano ambizioso di potenziamento infrastrutturale e riforme, se vuole attirare anche investimenti diretti dall’estero. Anche l’Indonesia è un ambiente promettente per lo sviluppo dell’industria dei semiconduttori, anche se tale sviluppo è frenato dalla mancanza di infrastrutture e dalla mancanza di accordi commerciali significativi con i suoi partner internazionali. Anche per i semiconduttori, infatti, i trattati di libero scambio giocheranno un ruolo cruciale nello sviluppo delle supply chain regionali e globali: tutti i Paesi ASEAN sono parte dell’accordo RCEP e, tra loro, Singapore e Vietnam già beneficiano di un legame molto stretto con l’UE. 

È difficile prevedere il futuro del mercato mondiale dei semiconduttori. O meglio, dove sarà tale futuro. Gli Stati produttori tradizionali intendono mantenere la propria centralità, mentre i Paesi ASEAN, l’UE e gli USA intendono iniziare a giocare un ruolo maggiore. L’unica cosa certa è che, negli anni a venire, il settore attrarrà miliardi di dollari in investimenti privati e pubblici.

Si ringrazia Filippo Bizzotto per il supporto nella preparazione e nella revisione dell’articolo.

Green e strategia: l’interesse di Londra per il Sud-Est asiatico

L’ambizione massima britannica è quella di tornare ad avere un ruolo rilevante nel contesto internazionale. Consolidare il rapporto con i Paesi dell’ASEAN è reputato un tassello fondamentale in questa strategia.

Articolo a cura di Luca Sebastiani

L’annuncio è arrivato durante la Cop26 di Glasgow. Il Regno Unito finanzierà con 110 milioni di sterline i progetti infrastrutturali sostenibili nel Sud-Est asiatico. Un sostegno economico al “Catalytic Green Finance Facility” dell’ASEAN (l’Associazione delle Nazioni del Sud-est asiatico), gestito dalla Banca Asiatica di sviluppo (Adb). I Paesi in via di sviluppo della regione potranno quindi beneficiare dei fondi per avviare dei programmi legati alle energie rinnovabili, a trasporti puliti e alle tecnologie “green”.

È una dichiarazione che si mescola con altre di simile impatto rilasciate nelle ultime ore dal governo britannico, come per esempio quello dei nuovi investimenti nel continente africano, e che è accompagnata da comunicati simili di altri paesi e organizzazioni – tra cui l’Unione europea. Nonostante questo, è una notizia degna di particolare attenzione.

La linea dettata dal premier Boris Johnson, in particolar modo dopo la Brexit, è chiara: “Riappropriarsi dei vecchi amici e abbracciarne di nuovi”. E la regione del sud-est asiatico è una delle aree preferite da Londra in cui stringere amicizie economiche e diplomatiche. Le 110 milioni di sterline, infatti, sono solo l’ultimo segnale e l’ultimo esborso di soldi che procede in questa direzione. Oltre a evidenziare l’incremento di occupazione e lavoro nel Regno Unito derivante dall’investimento, Liz Truss, Foreign Secretary britannica, ha definito l’ASEAN “un partner importante per la Global Britain”, esplicitando la volontà di approfondire i legami reciproci e portare il rapporto in una nuova era. Un ulteriore passo avanti dopo che nell’agosto del 2021 l’associazione del Sud-est asiatico ha conferito alla Gran Bretagna lo status di “dialogue partner”, un riconoscimento che non veniva rilasciato da più di 25 anni. Un segnale inequivocabile che anche da parte dell’ASEAN c’è la volontà di intessere rapporti ancora più stretti.

La ricerca obbligata di appoggi e di accordi commerciali in giro per il mondo, portata avanti da Londra dopo l’uscita dall’Unione europea, ha trovato particolare sfogo nell’area Indo-pacifica. Non una scelta casuale visto che oggi questa regione è sotto i riflettori dell’attenzione mondiale ed è considerata la zona strategica per eccellenza. Tra il 2020 e il 2021, i Paesi dell’ASEAN (Indonesia, Thailandia, Malesia, Singapore, Filippine, Vietnam, Myanmar, Cambogia, Laos e Brunei) con cui il 10 di Downing Street ha siglato trattati di libero scambio sono stati Singapore e Vietnam, sulla scia degli accordi simili già in vigore tra le due nazioni con l’Ue. Ma, per rafforzare le relazioni economiche, il Regno Unito ha firmato patti bilaterali con quasi tutti gli altri Stati.

D’altronde questi Paesi sono in una fase di espansione economica imponente. Attualmente l’ASEAN ricopre la sesta posizione tra le più grandi economie del mondo, ma la previsione è che entro il 2030 possa essere il quarto mercato del mondo, dietro a Stati Uniti, Cina e Ue (non per forza in questo ordine). Già solo questi dati spiegano il motivo delle particolari attenzioni britanniche. In questo momento il valore degli scambi di beni e servizi tra le due parti è importante. Nel 2020 le esportazioni britanniche verso i paesi dell’Asean erano pari a 21,5 miliardi di dollari, mentre le importazioni a 24 miliardi, per un totale di circa 46 miliardi. Una cifra in ribasso a causa della pandemia del Covid-19, visto che nel 2019 raggiungeva i 52 miliardi. E nello stesso anno gli investimenti provenienti dal Regno Unito, e diretti nel blocco regionale, raggiungevano i 36,5 miliardi di dollari.

Ma se la Global Britain si dirama da una parte con gli accordi commerciali, dall’altra emergono in maniera plastica i fattori diplomatici, strategici e militari. Nel novembre del 2019 Londra ha stabilito la sua missione in ASEAN e ha nominato un ambasciatore specifico per l’area. Lo scorso marzo, più di recente, è stata rilasciata dal governo britannico la “Integrated Review of Security, Defence, Development and Foreign Policy” dal titolo emblematico “Global Britain in a Competitive Age”. Nel documento viene evidenziato l’interesse verso l’Indo-Pacifico e i paesi dell’Asean. Tra gli obiettivi posti dal Regno Unito c’è quello di supportare il ruolo centrale dei paesi del sud-est asiatico per la stabilità e prosperità regionale.

In ultimo il carattere militare. In questi mesi, il Carrier Strike Group – con in testa la portaerei britannica HMS Queen Elizabeth – ha percorso e sta percorrendo le acque più scottanti del globo, attraversando quei celebri colli di bottiglia fondamentali per il commercio ed il controllo dei mari. Le più significative tappe del suo viaggio sono state effettuate proprio nei porti e nelle basi dell’area indo-pacifica e in alcuni paesi sud-est asiatici. Durante il dispiegamento, il gruppo ha svolto esercitazioni con diversi eserciti alleati, ma soprattutto ha avuto il compito di dimostrare la forza del Regno Unito – o quantomeno la sua volontà – di poter essere un valido strumento di contenimento in chiave anti-cinese utile agli Stati Uniti in un futuro.

L’ambizione massima britannica è quella di tornare ad avere un ruolo rilevante nel contesto internazionale. Consolidare il rapporto con i paesi dell’ASEAN è reputato un tassello fondamentale in questa strategia.

Il Grand Tour che salvò una nazione

Il soggiorno europeo del re thailandese Chulalongkorn come lezione di soft power

L’autore è Kitti Wasinondh, senatore ed ex diplomatico con una carriera in molti ruoli al Ministero degli Affari Esteri thailandese. Ha servito come direttore generale del Dipartimento degli Affari ASEAN e del Dipartimento dell’Informazione, nonché come Ambasciatore straordinario e plenipotenziario alla Corte di St James

All’Assemblea Generale delle Nazioni Unite di quest’anno, il mondo ha assistito alla forza inarrestabile del soft power sudcoreano, mentre i membri della band K-Pop BTS si esibivano con la loro megahit “Permission to Dance” presso la Sala dell’Assemblea Generale. Nel diffondere il messaggio riguardo gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile delle Nazioni Unite a milioni dei loro fan in tutto il mondo, i BTS hanno fatto la loro parte nel promuovere l’immagine della Corea del Sud come leader mondiale della sostenibilità, integrando il ruolo del Paese come organizzatore dei vertici del Partnering for Green Growth and the Global Goals (P4G).

Il “soft power”, forse meno tangibile dell’“hard power”, è diventato un’importante risorsa e strumento di influenza per i Paesi che cercano di elevare il proprio status nel mondo degli affari. Piuttosto che usare la forza militare o l’influenza economica per costringere gli altri a cedere ai propri desideri, è molto meno costoso farsi piacere dagli altri e far loro fare come vogliono. Il termine, coniato da Joseph Nye, ha aiutato a spiegare il trionfo della democrazia sul comunismo alla fine degli anni ’80. A quel tempo, i jeans, le cassette di contrabbando di Bruce Springsteen e le trasmissioni di Voice of America attraversarono la cortina di ferro e diffusero l’idea di libertà e democrazia.

Oggi, la Thailandia si comporta piuttosto bene sulla scala soft power, arrivando al numero 33 su 100 Nazioni intervistate dal Global Soft Power Index 2021. Ma ciò che forse è più notevole è che questo concetto di soft power trovava applicazioni molto precedenti in Thailandia, e offre una risposta plausibile alla domanda spesso posta sul perché la Thailandia sia stata in grado di rimanere l’unico Paese del Sud-Est asiatico che non è mai stato colonizzato.

Quando il Siam ha affrontato la pressione colonialista che ha minacciato la propria indipendenza nel XIX secolo, il suo re ha avuto la percezione che migliorare l’immagine nazionale e conquistare amici influenti era molto più conveniente nel salvaguardare la sovranità del regno che andare in guerra.  

Infatti, fin dai primi giorni del suo regno, re Chulalongkorn capì che la modernizzazione era essenziale per il Siam per sfuggire all’assalto del colonialismo. La modernizzazione è stata effettuata non solo per migliorare le infrastrutture, la governance e la qualità della vita del Siam, ma anche per migliorare l’immagine e la statura del Paese. Il re impiegò diversi consulenti e professionisti occidentali per assisterlo nella realizzazione di diversi progetti impressionanti, dal governo, l’istruzione e le riforme sociali, alla modernizzazione dei trasporti e delle telecomunicazioni, intento a portare il Siam al livello delle nazioni “civilizzate”.

Eppure, la rapida modernizzazione del Siam non fu sufficiente a contrastare le crescenti minacce espansionistiche delle potenze europee. Durante gli anni 1886-1896, il Siam dovette affrontare una serie di crisi. Nel 1893, la Francia inviò cannonieri lungo il fiume Chao Phraya, richiedendo un risarcimento dal Siam per contrasti che portarono alla morte di truppe francesi. Il Siam cedette dolorosamente territori considerevoli, ad est del fiume Mekong, pagò 3 milioni di franchi e consegnò il controllo temporaneo del porto di Chanthaburi alla Francia come garanzia. Tre anni dopo, nel 1896, Francia e Gran Bretagna firmarono l’accordo anglo-francese, rendendo il Siam un “cuscinetto” tra gli interessi coloniali francesi e britannici nel Sud-Est asiatico. Tuttavia, i termini dell’accordo si limitavano ad affermare che Francia e Gran Bretagna non avrebbero violato la sovranità del Siam senza il previo consenso dell’altra parte. Questa dichiarazione non offriva una solida garanzia per l’indipendenza, ma piuttosto indicava che la Francia e la Gran Bretagna non sarebbero entrate in guerra per il Siam.

L’anno seguente, re Chulalongkorn intraprese il suo primo storico soggiorno europeo. Era inconsueto per il re andare all’estero, così i funzionari di palazzo dissero al pubblico thailandese che il re stava viaggiando per coltivare i legami diplomatici e conoscere la civiltà occidentale. Tuttavia, la stampa europea ebbe una opinione diversa sulla sua visita e riportò ampiamente che il re stava cercando supporti dalle maggiori potenze europee per mantenere la sovranità del Siam.

Come uno dei primi monarchi asiatici, insieme al sultano ottomano e lo scià di Persia, a visitare tutte le importanti capitali europee, re Chulalongkorn e il suo viaggio furono oggetto di grande curiosità e fascino. Il suo modo affabile e la scioltezza nella lingua inglese lo resero ben rispettato e ammirato tra la nobiltà e l’aristocrazia europea. I giornali e le riviste europee seguirono da vicino i suoi movimenti e riferirono ogni suo impegno in eventi sia ufficiali che sociali.

Il re non era un viaggiatore inesperto. Durante la sua giovinezza, viaggiò per la prima volta all’età di 18 anni a Singapore e Giava nel 1871. Successivamente visitò l’India nel 1872, dove ricevette i massimi onori e venne invitato ad osservare un’esercitazione militare su larga scala, fuori da Delhi. Il suo itinerario fu diffusamente annotato nella stampa del tempo. I giornali discussero anche delle minuzie, come l’eccitazione dei negozianti appassionati di esporre le loro merci al seguito del re.

Il turbinio di interesse della stampa durante la sua visita in India non passò inosservato. Per il suo primo viaggio in Europa, la visita del re fu attentamente e strategicamente progettata per creare le giuste impressioni, mettendo la monarchia thailandese alla pari delle dinastie europee, ed anche per inviare un messaggio diretto a coloro che minacciavano la sovranità del Siam.

Re Chulalongkorn fece appello ai suoi potenti e simpatizzanti amici, l’imperatore Guglielmo II di Prussia e lo zar Nicola II di Russia, ben prima della sua visita in Francia e Gran Bretagna. Inoltre, fece visita all’anziano statista europeo Otto von Bismarck nella sua residenza, che suscitò molta attenzione da parte dei media in tutto il continente. La fiducia del re nelle sue relazioni amichevoli con la Prussia portò all’impiego di molti tedeschi in settori strategici della modernizzazione del Siam. Tra loro ci fu Karl Bethge, il primo governatore della Ferrovia di Stato della Thailandia e Theodor Collmann, il primo ispettore del Dipartimento Posta e Telegrafo della Thailandia.

Nel frattempo, gli stretti legami personali del re con la Casa Reale di Russia, dove mandò uno dei suoi figli, il principe Chakrabongse, a studiare per otto anni, aiutarono direttamente il Siam nei confronti delle ambizioni coloniali francesi e britanniche. L’alleanza franco-russa funzionò anche a favore del Siam. Dopo aver stabilito legami diplomatici con il Siam durante la visita di re Chulalongkorn a San Pietroburgo nel 1897, lo zar Nicola II inviò uno dei suoi migliori delegati a Bangkok. Aleksandr Olarovskij, che servì come primo console generale di Russia nel Siam, fu determinante nel ricucire le relazioni franco-siamesi e persuase la Francia a far ritornare Chanthaburi nel Siam. Inoltre, la Russia, in contrasto con la Gran Bretagna nel “Grande Gioco” afgano, ebbe anche un interesse diretto a prevenire che il Siam cadesse sotto la sfera d’influenza della Gran Bretagna.

In Europa, re Chulalongkorn divenne presto ampiamente riconosciuto come uno dei monarchi più importanti del mondo ai suoi tempi. Nonostante le difficili relazioni che il Siam aveva con la Gran Bretagna e la Francia, re Chulalongkorn si preoccupò molto di proiettare un’immagine di amicizia con i loro capi di Stato, creando così sentimenti favorevoli tra l’opinione pubblica. In Inghilterra fu ospitato a Buckingham Palace e pranzò con la regina Vittoria a Osborne House, la sua residenza privata sull’Isola di Wight. Nella Francia repubblicana, fu accolto con tutto il fasto e le circostanze che si addicevano ad un monarca europeo, nonostante i dubbi iniziali che ci sarebbero potute essere proteste organizzate contro il sovrano siamese.

Re Chulalongkorn mostrò al mondo che, con la giusta combinazione di acume diplomatico e comunicazione pubblica efficace, riuscì ad attrarre influenti leader europei, e anche il pubblico occidentale, per sostenere la sua causa. D’altra parte, la diplomazia efficace del re svolse un ruolo fondamentale nel garantire la statura della Thailandia come nazione indipendente nel corso della storia, impartendo una lezione senza tempo che attesta il valore e l’efficacia del “soft power”.

Tutti i progetti portano all’Indo-Pacifico

Quella sull’AUKUS è solo l’ultima di una serie di iniziative multilaterali focalizzate sulla regione. Dagli Stati Uniti al Regno Unito, dall’Australia all’Unione Europea, tutti hanno un motivo per aumentare la loro presenza nell’area.

Articolo a cura di Dmitrii Klementev

Tutte le strade portano a Roma – si poteva dire quando l’Impero romano si estendeva attraverso la vastità del Mediterraneo. La grandezza delle antiche civiltà ha modellato la maniera in cui la maggior parte di noi vede il pianeta avvicinandosi a una mappa del mondo concentrata sul Mediterraneo. Ora vediamo come il mondo stia andando nella direzione opposta – verso la regione dell’Indo-Pacifico. Ogni anno un numero crescente di progetti viene avviato in questa parte del mondo. Sempre più attori globali adattano le loro strategie tenendo in considerazione la sua crescente importanza. Questo articolo cerca di far luce sui più significativi di loro, traendo alcune conclusioni sul futuro dell’ordine mondiale.

Di recente, la firma dell’accordo AUKUS ha provocato accese discussioni in tutto il mondo. Alcuni paesi sono stati addirittura colti alla sprovvista dalla decisione degli Stati Uniti, del Regno Unito e dell’Australia. Tuttavia, AUKUS non è che un anello di una grande catena di eventi che si è sviluppata gradualmente durante l’ultimo decennio e non si tratta di uno sviluppo sorprendente.

Riguardo al Regno Unito, il concetto di politica estera “Global Britain”, pubblicato nel marzo 2021, ha sottolineato in particolare l’importanza della regione Indo-Pacifica per il Paese. Questo cambio di orientamento della politica estera britannica è stato già dimostrato nel 2016, quando Londra ha votato per uscire dall’Unione Europea. In linea con la nuova strategia, i Paesi europei sono considerati dei competitor del Regno Unito nella regione, vista l’intenzione di Londra di “stabilire una presenza maggiore e più persistente di qualsiasi altro Paese europeo” nell’Indo-Pacifico.

Gli Stati Uniti, un altro firmatario dell’AUKUS con il quale il Regno Unito gode di una Relazione Speciale, hanno iniziato a riorientare la loro politica estera verso l’Indo-Pacifico ancora prima. Pertanto, essi dispongono già di una serie di iniziative ambiziose, volte a promuovere la loro influenza nella regione. Il 12 giugno 2021, per iniziativa degli Stati Uniti, i leader del G7 hanno lanciato l’iniziativa “Build Back Better World” (B3W), che ufficialmente si focalizza sulla risposta alle esigenze infrastrutturali nei Paesi a basso e medio reddito. Ma la maggioranza assoluta degli esperti tende a considerare il progetto come un’alternativa alla Belt and Road cinese.

Vale la pena menzionare che l’amministrazione di Biden non ha progettato l’iniziativa B3W da zero. Si basava su un progetto sviluppato sotto Donald Trump – il Blue Dot Network (BDN). Quest’ultimo venne lanciato dagli Stati Uniti, dal Giappone e dall’Australia nel 2019 in occasione dell’Indo-Pacific Business Forum. Il BDN mira a fornire valutazioni e certificazioni dei progetti infrastrutturali in tutto il mondo, garantendo il rispetto di una serie di criteri ambientali, finanziari e sociali. La logica alla base era quella di distogliere i Paesi dalla BRI cinese, che si ritiene li costringa ad indebitarsi e, di conseguenza, cadere nell’influenza di Pechino. Sotto l’amministrazione di Biden, la BDN ha iniziato a operare sotto l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico.

Per il terzo componente dell’AUKUS, l’Australia, l’accordo è diventato un’opportunità per esprimere le preoccupazioni sulla sicurezza regionale. La cooperazione con gli Stati Uniti e il Regno Unito permette a Canberra di costruire una flotta sottomarina a propulsione nucleare, nonché di accedere potenzialmente a missili a lungo raggio e ad alcune altre capacità.

Senza dubbio, la crescente influenza cinese è la ragione principale per cui l’Australia è divenuta un attore attivo nella grande politica del giorno d’oggi. Questo può essere anche confermato dal fatto che nel 2018 l’Australia ha aggiornato le proprie relazioni con il Vietnam a un partenariato strategico. Sia Canberra che Hanoi condividono preoccupazioni riguardo la libertà di navigazione nel Mar Cinese Meridionale, che è il più importante centro di trasporto della regione.

È interessante notare che AUKUS non è la prima iniziativa multilaterale nella regione che riunisce Stati Uniti, Regno Unito e Australia. Insieme al Canada e alla Nuova Zelanda, i suddetti Paesi formano l’alleanza di intelligence Five Eyes, la cui istituzione risale all’inizio della Guerra Fredda. Originariamente progettato per contrastare la minaccia sovietica, oggi l’alleanza mira a fare i conti con la Cina.

Da ultimo ma non meno importante, l’annuncio del patto di difesa AUKUS il 15 settembre 2021, ha messo in ombra un altro evento importante – la presentazione della strategia Indo-Pacifica da parte dell’Unione europea, che non vuole arrendersi nella corsa per l’influenza nella regione.

Preoccupata delle crescenti tensioni nell’Indo-Pacifico, del mancato rispetto dei diritti umani e dei valori democratici, l’Unione europea si affida principalmente allo strumento della politica commerciale e degli investimenti, poiché è in questi settori che l’Unione gode di una serie di vantaggi nella regione.

Questa lista di iniziative, strategie e attori è lontana dall’essere esaustiva. Però, anche questo può essere sufficiente per affermare che l’ordine mondiale è entrato in una fase attiva di transizione. Una fase che rappresenta un’opportunità unica per fare un importante passo avanti per coloro che sono rimasti indietro. Tuttavia, questo processo non avrà egualmente alcuna pietà per coloro che l’hanno ignorato. Probabilmente, tra qualche anno la centralità della mappa mondiale a cui siamo abituati cambierà, dal momento che quasi tutti i progetti portano all’Indo-Pacifico.

I Facebook Papers scuotono anche l’ASEAN

Incitamento all’odio, propaganda politica senza contraddittorio e traffico di esseri umani. Problemi di cui il colosso di Mark Zuckerberg era a conoscenza ma non ha agito, secondo le accuse dell’inchiesta denominata Facebook Papers.

Nelle ultime settimane, Facebook è stato nell’occhio del ciclone dopo che diverse testate giornalistiche statunitensi ed europee hanno pubblicato contemporaneamente articoli basati sui documenti interni diffusi dalla whistleblower ed ex dipendente Frances Haugen su alcune faccende controverse riguardo la stessa azienda.

I documenti trapelati, conosciuti inizialmente come “Facebook Files” e successivamente denominati “Facebook Papers”, raccontano nel dettaglio i fallimenti della dirigenza dell’azienda nel contenere la disinformazione e l’incitamento all’odio e alla violenza sulla piattaforma. La situazione è aggravata dalla presunta conoscenza di Facebook di questi problemi, che non è però riuscita ad arginare, talora per inerzia, talora per mancanza di mezzi tecnici, ma soprattutto, sostiene l’inchiesta, per la scelta di anteporre il profitto e la ricerca dell’engagement alla sicurezza e al benessere degli utenti.

Per oltre un decennio, Facebook ha spinto per diventare la piattaforma online dominante nel mondo. Tuttavia, i suoi sforzi per mantenere il social sicuro ed inclusivo non hanno tenuto il passo con la sua espansione globale. Dai documenti sono anche emersi diverse vicende legate ai Paesi dell’ASEAN, in particolare Vietnam, Myanmar e Filippine, nei quali l’uso dei social network è cresciuto esponenzialmente negli ultimi anni, così come l’accesso alle reti mobili. Per molte persone in questi Paesi, Facebook rappresenta l’unico punto di accesso alle informazioni, e molti considerano i post come vere e proprie notizie.

Uno dei principali aspetti dell’inchiesta riguarda il fatto che Facebook sia in gran parte impreparato a contrastare la disinformazione fuori dagli Stati Uniti e da pochi altri Paesi occidentali. Se consideriamo infatti che, secondo un documento interno pubblicato dal New York Times, l’87% delle risorse della piattaforma sono dedicate a combattere la disinformazione negli Stati Uniti, il 13% rimanente per il resto del mondo appare una cifra assai esigua. Come altre aziende tecnologiche, il gigante dei social network usa degli algoritmi per segnalare ed eventualmente eliminare contenuti ritenuti dannosi prima che si diffondano rapidamente online, ma molti post sono scritti in linguaggi e dialetti locali o presentano riferimenti culturalmente specifici che gli algoritmi comprendono con estrema difficoltà. Ad esempio, fino al 2020 l’azienda non aveva algoritmi di screening in lingua birmana, una falla che ha permesso al linguaggio aggressivo e all’incitamento all’odio razziale di fiorire sulla piattaforma. Facebook è stato accusato di aver svolto un ruolo chiave nella diffusione dell’odio razziale nei confronti della minoranza Rohingya in Myanmar, quando i militari hanno effettuato “operazioni di pulizia” del gruppo etnico, costringendo 650.000 rifugiati Rohingya a fuggire in Bangladesh a causa delle persecuzioni.

Anche il Vietnam si è ritrovato coinvolto nello scandalo dei Facebook Papers, seppur per altre ragioni. Secondo una serie di documenti interni emersi nel corso dell’inchiesta, l’amministratore delegato Mark Zuckerberg avrebbe ceduto alle richieste del governo vietnamita di censurare i post di dissidenti anti-governativi per non rischiare di perdere un miliardo di dollari di entrate annuali nel Paese, cifra stimata da un report di Amnesty International. Il Vietnam è uno dei mercati asiatici più lucrativi di Facebook, con più di 53 milioni di utenti attivi (oltre la metà della popolazione). Secondo Huynh Ngoc Chenh, un influente blogger che si occupa di democrazia e questioni relative ai diritti umani, il colosso di Menlo Park “ha maltrattato gli attivisti eliminando la libertà di parola, trasformandosi in uno strumento mediatico a servizio del Partito Comunista del Vietnam”. Per tutta risposta, l’azienda ha affermato che la scelta di censurare è giustificata “al fine di garantire che i servizi rimangano disponibili per milioni di persone che si affidano a loro ogni giorno”, secondo una dichiarazione fornita al Washington Post.

Ma non finisce qui. Sono infine emersi scandali anche sul comportamento di Facebook nelle Filippine, dove peraltro post e contenuti spesso fuorvianti continuano ad alimentare la popolarità del controverso Presidente Duterte. All’inizio di quest’anno, un rapporto interno di Facebook ha identificato l’esistenza di lacune nel rilevamento di gruppi criminali che si servono della piattaforma per il traffico di esseri umani. Infatti, nonostante il governo delle Filippine abbia una task force impegnata a prevenire tali situazioni, le piattaforme della società sono utilizzate per la recluta e compravendita di collaboratori domestici.

Il cinema thailandese strumento di soft power ASEAN

La pandemia ha avuto un duplice effetto sul comparto cinematografico nel Sud-Est asiatico. Se da un lato ha provocato un blocco delle proiezioni nelle sale domestiche e ha lasciato spazio a nuovi trend di consumo, dall’altro ha confermato la resilienza della cultura più tradizionale del cinema in presenza.

Recentemente, il cinema del Sud-Est asiatico ha fatto la sua comparsa sugli schermi internazionali, a riprova di come il dinamismo della regione trovi espressione anche in una vivace produzione cinematografica. Già nel 2017, in occasione del cinquantesimo anniversario della fondazione dell’organizzazione regionale, Vongthep Arthakaivalvatee, Vice Segretario Generale per la Comunità Socioculturale ASEAN, aveva esaltato il ruolo dell’industria cinematografica quale “veicolo per promuovere la consapevolezza e la comprensione interculturale dell’ASEAN a livello regionale e internazionale”.

In questo panorama, spicca il cinema thailandese. La produzione domestica ammonta a 40-50 film all’anno e normalmente rappresenta circa un quinto del totale degli incassi dell’intero settore, mentre la restante quota di mercato è occupata da pellicole di importazione estera, perlopiù statunitense. Negli ultimi due anni, però, l’industria cinematografica nazionale è riuscita ad assicurarsi una più ampia fetta di mercato, beneficiando dei ritardi e delle complicazioni nella distribuzione dei blockbuster stranieri causati dalla pandemia. Nel 2020, la commedia locale “Riam, Fighting Angel” (2020) ha persino battuto al botteghino “Tenet” (2020) e “Mulan” (2020), entrambe pellicole statunitensi candidate agli ultimi premi Oscar.

Ma è sugli schermi internazionali che si sono registrati i successi più significativi. Nonostante si trovino a competere con le ormai affermate industrie cinematografiche di Giappone e Corea del Sud, le produzioni thailandesi si stanno recentemente facendo strada nel circuito dei grandi festival internazionali, ricevendo il plauso della critica e del pubblico esteri. Solo quest’estate, il regista thai Apichatpong Weerasetakul, già Palma d’Oro nel 2010 con “Uncle Boonmee who can recall his past lives” (2010), si è aggiudicato il Premio della Giuria al Festival di Cannes con il suo ultimo film “Memoria” (2021), nonché il Gran Premio d’Onore al Festival Internazionale del Cinema di Marsiglia. Il film “One For The Road” (2021), prodotto dal celebre cineasta Wong Kar-Wai e diretto dal thailandese Baz Poonpiriya, è stato premiato per la sua “visione creativa” al Sundance 2021, la più importante kermesse internazionale di cinema indipendente, mentre il dramma familiare in bianco e nero “The Edge of Daybreak” (2021) ha vinto un premio della critica all’International Film Festival di Rotterdam.

Di pari passo con l’ondata di attenzione internazionale, si sono intensificate però anche le sfide imposte dalla pandemia. La maggior parte dei titoli thailandesi presentati in anteprima mondiale non ha ancora potuto debuttare nel paese di origine. Ad aprile, una terza ondata di COVID-9 ha indotto a misure di semi-lockdown che non solo hanno costretto l’intero settore alla chiusura, ma hanno anche innescato dei significativi cambiamenti nelle abitudini sociali e di fruizione. Costretti a trascorrere più tempo nelle loro abitazioni, i consumatori si sono orientati significativamente verso servizi di video streaming e, conseguentemente, alcune case di produzione stanno ripensando le strategie di distribuzione riadattandole alle piattaforme on demand.

Alcuni professionisti del settore si sono invece mostrati più restii a salutare per sempre la cultura del cinema nella sua versione più tradizionale e si sono detti pronti a pazientare in attesa della riapertura delle sale per poter proseguire con le proiezioni in presenza. Banjong Pisanthanakun, che ha diretto la coproduzione horror thailandese-sudcoreana “The Medium” (2021), ha sottolineato che i cinefili più appassionati difficilmente rinunceranno all’atmosfera insostituibile che solo il grande schermo sa restituire.I successi collezionati durante gli eventi internazionali non saranno dunque sufficienti a risollevare le sorti economiche del cinema thailandese. Secondo il direttore operativo della seconda più grande catena di multisala del paese, Suwannee Chinchiawsharn, “i cinema dovranno lavorare sodo per offrire non solo contenuti, ma esperienza, per dare qualcosa al pubblico che non può avere a casa. Torneremo, ma anche dopo la pandemia credo che la battaglia continuerà”. Le prossime riaperture rappresentano un’imperdibile opportunità per le autorità del Sud-Est asiatico per rilanciare il settore culturale e dell’intrattenimento, in linea con l’auspicio a intravedere nei film un potente strumento per “connettere le persone e promuovere l’identità ASEAN nel mondo”.

Belt and Road Initiative: a che punto siamo in ASEAN?

Dall’entusiasmo dei primi anni allo stop della pandemia. Pechino non si arrende, alcuni governi tentennano e i dati mostrano pericoli incombenti, ma l’unione dei dieci paesi in diplomazia vede di buon occhio i capitali cinesi.

L’ASEAN ha bisogno della Belt and Road Initiative (BRI). O è la Cina ad avere bisogno dell’ASEAN per portare avanti le nuove Vie della seta? La risposta sta nel mezzo. E cosa sta accadendo dell’ultimo anno racconta qualcosa in più di come evolve il progetto più ambizioso dell’amministrazione Xi, che dal 2014 è molto cambiato nella sostanza e negli obiettivi.

L’arrivo della pandemia e lo stop alle attività produttive non potevano che dare un ulteriore colpo d’arresto ai piani di Pechino. Le previsioni di crescita delle economie del Sud-Est asiatico continuano a mantenere toni cauti, mentre il governo cinese sembra più attento sulla distribuzione dei propri investimenti diretti esteri. Questo non ha impedito alla Cina di mantenere il suo primato come maggiore investitore nella regione, mentre gli Stati Uniti iniziano ad avanzare per sostituire Pechino laddove inizia a perdere terreno. Che siano dispute territoriali nel Mar Cinese Meridionale, oppure semplice scetticismo unito a maggiore potere negoziale, la Cina si trova davanti a una BRI che sta cambiando.

BRI chiama Cina

Come Pechino gestisce i suoi investimenti all’estero è da tempo un fenomeno conosciuto. Gli accordi stretti tra Cina e nazioni più povere nel quadro BRI sono spesso inseriti in obbligazioni che vengono ripagate, in assenza di liquidità, con la fornitura di materie prime, o la concessione a uso proprio di un asset agli investitori. Il fascino dei capitali cinesi rimane, però, uno degli strumenti più potenti della politica estera della Repubblica popolare. Lo scorso 1° settembre al Belt and Road summit i rappresentanti ASEAN hanno annunciato che serve investire di più nei progetti BRI per aiutare l’economia dell’unione a riprendersi dopo la battuta d’arresto della pandemia.

Sono tanti i progetti promossi dall’inizio della crisi Covid19, ma arrivano anche alcuni stop dati dall’incertezza dell’identità delle joint venture tra imprese cinesi e locali. Solo nei primi quattro mesi del 2021 sono stati firmati 61 nuovi progetti con il Vietnam, per il valore totale di 1 miliardo di dollari. È stata avviata la fase di analisi per la Kyaukphyu Special Economic Zone (SEZ) in Rakhine, Myanmar. Un luogo dove la cinese China International Trust and Investment Corporation Group (CITIC) promette collaborazioni con un consorzio cinese-birmano ad hoc, anche se gli incentivi ambiziosi (9-10 miliardi di dollari) stanno lasciando spazio a progetti su “piccola-media scala”. In Malesia l’ultimo progetto nel quadro BRI prevede la costruzione di un nuovo impianto fotovoltaico. Anche in questo caso, le compagnie cinesi (quasi sempre statali) promettono 10,1 miliardi di dollari di lavori.

La Thailandia è un caso a parte. Sebbene come i vicini Cambogia e Laos la guida del Paese sia di facto autocratica, c’è maggiore attenzione e cautela da parte del governo verso i promettenti capitali cinesi. Ci si è accorti che, spesso, si sono favorite soluzioni onerose invece di sistemare i problemi alla radice, e che molti dei progetti cinesi potrebbero finire nel vuoto degli investimenti senza ritorno. Più basso il potere negoziale di nazioni come Cambogia e Laos, dove Pechino sembra dettare le regole con maggiore assenso dei governi, spesso perché le altre forme di organizzazione indipendenti sono più deboli.

Cina chiama BRI

La Cina dal canto suo rimane cauta, anche se i progetti in ambito BRI proseguono. È il caso della ferrovia Thailandia-Cina, che parte da Bangkok, passerà da Vientiane e punta a raggiungere Kunming. Pechino si è anche offerta di farsi carico del progetto di spostamento delle acque dei fiumi, un’ambizione del governo thailandese vecchia di trent’anni, ma che fino a oggi sembrava infattibile date le enormi spese che il progetto richiederebbe. La proattività della Cina, in questo senso, punta a toccare i bisogni dei singoli Paesi, anche se proprio dagli ambientalisti thai arriva la denuncia che un sistema idrico efficiente salverebbe i cittadini dall’acqua persa ogni anno (il 40% di quella trasportata).

A fare da polo attrattivo verso Pechino ci sono anche le numerose iniziative che coinvolgono i dieci paesi del Sudest asiatico. La Cina ha ospitato il primo incontro in presenza dopo 16 mesi con i rappresentanti ASEAN lo scorso 7 giugno, mentre la 18° China-Asean expo del 10-13 settembre ha permesso di avanzare nuove proposte sulla questione degli scambi commerciali. Questa relazione ha ispirato da tempo Pechino, che da allora si propone di superare il concetto di investimenti nella regione come capitale per costruire infrastrutture “vuote”, con una maggiore attenzione alla cooperazione per la ricerca e lo sviluppo avanzati.

Trappola del debito o debiti fantasma?

AidData, centro di ricerca affiliato alla William & Mary University, ha annunciato che i debiti accumulati dai Governi asiatici nei confronti della Cina potrebbero essere molto più onerosi di quanto preventivato. La ricerca ha analizzato i 13,427 progetti cinesi in Laos a partire dal 2000, calcolando un monte spese che si aggira attorno agli 800 miliardi di dollari. Di questi, almeno 385 miliardi sarebbero di debito “fantasma”. In totale sarebbero almeno 44 i paesi che hanno debiti con la Cina pari al 10% del proprio PIL.

Il G20 dello scorso anno aveva stabilito che nel 2020 andava sospeso il debito di 73 economie meno sviluppate per affrontare emergenza Covid. Questo tipo di investimenti, considerati rischiosi per la salute dei bilanci statali, possono però essere nascosti tra le svariate eccezioni contemplate dal diritto internazionale. Per esempio, gli accordi possono essere presi direttamente da aziende statali, joint venture e privati senza necessariamente ricevere la delibera del governo cinese. In questo modo, come nel caso della ferrovia Laos-Cina, il buco finanziario potrebbe essere ben maggiore del previsto. Una questione complessa, che vede protagonisti gli ultimi due progetti più importanti in corso: la ferrovia Laos-Cina e 580 km di autostrada.

I rischi per le nazioni più deboli dell’ASEAN in termini di governance spaventano gli analisti, che temono un ritorno alla “trappola del debito”. Con questo tipo di prassi la Cina ha già risolto diverse controversie ottenendo la concessione di alcuni asset laotiani, tra cui parte della rete elettrica. Anche in questo caso il debito è molto meno nascosto di quanto possa apparire: basta osservare la combinazione della joint venture per osservare che la maggioranza del capitale è controllata da tre compagnie statali cinesi. Un mix complicato di sfide e opportunità, che per ora non ha frenato in modo significativo la corsa di Pechino lungo le nuove Vie della seta, ma ha comunque contribuito a evolvere il ragionamento in alcuni dei governi ASEAN. Un’esperienza utile, che ora richiede più coesione per evitare il rischio di default tra gli stati membri più fragili.

Ambiente, chi sono le Greta dell’ASEAN

L’attivismo giovanile nel Sud-Est asiatico è una risorsa da valorizzare per combattere il cambiamento climatico.

Il messaggio ambientalista di Greta Thunberg anima i movimenti giovanili del Sud-Est asiatico. In questa regione l’incombenza del cambiamento climatico è particolarmente allarmante, specie per Paesi come Indonesia, Vietnam, Thailandia e Filippine. Ecco perché, in concomitanza con l’inaugurazione delle negoziazioni internazionali di Glasgow sul clima, schiere di giovani attivisti e attiviste si sono organizzate per fare pressioni sui governi nazionali affinché si impegnino di più per l’ambiente, per la riduzione delle emissioni di gas serra e per affrontare le implicazioni sociali che la crisi ambientale comporta. 

La speranza di un futuro sostenibile è davvero nelle mani delle nuove generazioni, e nel caso della lotta per la climate action non si tratta di vuota retorica. “Lo sviluppo sostenibile è uno sviluppo che soddisfa le necessità del presente”, si legge nel noto rapporto ONU “Our Common Future” (1987), pietra miliare della cooperazione internazionale sul tema, “senza compromettere la capacità delle generazioni future di soddisfare i propri bisogni”. Questo principio, che prende il nome di inter-generational equity, consiste in una responsabilità collettiva nei confronti del pianeta e di coloro che lo abiteranno, che trova espressione nelle rivendicazioni dell’attivismo giovanile.

Movimenti di informazione e sensibilizzazione sul tema sono proliferati in tutta l’area ASEAN. Nelle Filippine, la 23enne Mitzi Jonelle Tan ha fondato insieme ad alcuni coetanei Youth Advocates for Climate Action, una versione filippina dei Fridays For Future inaugurati da Greta Thunberg. Nelle settimane che precedono l’incontro della UN Climate Change Conference (COP26) che si terrà a Glasgow, gruppi attivisti e attiviste come Tan e il suo collettivo hanno preso parte a numerosi incontri di sensibilizzazione, scioperi e proteste per pretendere un vero cambiamento. In particolare, i giovani nelle Filippine sanno bene che il loro è tra i Paesi più esposti alle conseguenze ambientali e sociali dell’emergenza climatica. Tan ha detto che il Nord globale deve ai Paesi meno ricchi un impegno concreto alla cooperazione climatica, dal momento che loro “hanno causato la crisi climatica”. È quindi opportuno rivendicare un impegno sempre maggiore da parte di questi governi, per avere la sicurezza di “riuscire ad adattarci, ad affrontare le perdite e i danni e a passare alle energie rinnovabili”, ha concluso. 

Anche in Vietnam lo spirito dei Fridays For Future si sta diffondendo. Uno dei primi scioperi per il clima, tenutosi nel settembre 2019, è stato avviato da Huyen Phan. Una volta tornata dagli studi all’estero, questa giovane studentessa ha sentito di dover fare qualcosa per la sua città, Ho Chi Minh, una delle località più esposte ai rischi legati all’innalzamento del livello del mare, oltre che una delle città con la peggiore qualità dell’aria in Vietnam. “Sono rimasta molto sorpresa dal fatto che le persone intorno a me non si preoccupassero affatto del cambiamento climatico o dell’inquinamento atmosferico”, ha dichiarato Huyen, “quando ho sentito dello sciopero globale per il clima, ho provato a trovare un evento a Ho Chi Minh City senza riuscirci, quindi ho deciso di crearne uno io stessa”. Hong Hoang, coordinatore di un’associazione che si occupa di promuovere la rivoluzione energetica sensibilizzando le comunità locali dal basso, ha dichiarato di essere molto orgoglioso dell’evento. “Questa volta lo sciopero non è stato organizzato da nessuna ONG per il clima, ma da individui preoccupati”, ha detto, “questo è il potere popolare che è fondamentale per fare pressione sui leader mondiali affinché prendano le cose più seriamente”.

La determinazione di queste giovani ambientaliste non deve sorprenderci: per le nuove generazioni il cambiamento climatico è una minaccia esistenziale. Ecco perché l’etichetta di “giovane attivista”, impiegata da persone o istituzioni di potere, non è molto apprezzata. L’effetto è quello di sminuire in senso paternalistico l’impegno concreto che questi movimenti giovanili stanno rivendicando davanti ai leader mondiali. Si tratta, come suggeriscono alcuni esperti, di un espediente che rischia di continuare a escludere i giovani dai processi decisionali, che invece esprimono una forza dirompente proprio perché “sono orientate al futuro, orientate alla comunità e disposte a pensare oltre lo status quo”. Quello che rivendicano le nuove generazioni di attivisti nel Sud-Est asiatico è proprio che i governi nazionali e le istituzioni internazionali vadano oltre i paradigmi di sfruttamento delle risorse naturali, e immaginino strade di sviluppo alternative. L’azione dal basso dell’attivismo giovanile ha dimostrato finora di saper essere capillare e radicale, proprio il genere di cambiamento richiesto da circostanze eccezionali come l’attuale emergenza climatica. 

 

 

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