Il Giappone e la transizione energetica in ASEAN

Tokyo vuole essere protagonista nelle dinamiche economiche dell’ASEAN post-Covid e grazie alla transizione energetica punta a limitare l’espansione cinese nell’area

Nel recente incontro dei leader del G-7 è stato messo sul tavolo della discussione anche il complicato dossier sui cambiamenti climatici e la transizione energetica. I leader politici si sono ormai resi conto che il tema deve essere affrontato di petto per arrivare ad una soluzione che limiti il più possibile gli effetti negativi del cambiamento climatico. Se i Paesi industrializzati sono in grado di mettere in campo ingenti risorse economiche e know-how per garantire la transizione energetica e raggiungere la de-carbonizzazione delle economie, lo stesso non può dirsi di quelli a medio reddito che stanno attraversando un processo di sviluppo economico, largamente basato su risorse energetiche fossili, ma che mancano sia delle risorse economiche che delle conoscenze tecnologiche per mettere in campo progetti di conversione ecologica delle loro società. Il Sud-Est asiatico si trova in questa condizione e necessità del sostegno dei Paesi sviluppati per poter portare a compimento l’ASEAN Plan of Action for Energy Cooperation (APAEC) 2016-2025 in modo da ridurre la dipendenza dalle fonti fossili. 

Pertanto, il Giappone si appresta a investire per favorire la transizione energetica dell’ASEAN. In un recente meeting tra i Ministri dell’energia dei Paesi ASEAN e il Ministro dell’Economia e commercio del Giappone è stata rilasciata una dichiarazione comune che impegna le parti a rafforzare la cooperazione e il Paese del sol levante a investire 10 miliardi di dollari in supporto alla transizione tramite la Japan Bank for International Cooperation (JBIC) e altre istituzioni finanziarie. Questo denaro sarà finalizzato a incrementare le rinnovabili, l’efficienza energetica, la transizione dal carbone al gas, l’utilizzo di tecnologie per la cattura e stoccaggio della CO2 e per ultimo il trasferimento di know-how. Tokyo vorrebbe aiutare ognuno dei 10 Paesi ASEAN a stilare una road map per arrivare a zero emissioni, senza però indicare precisamente una deadline entro la quale raggiungere l’obiettivo. Va però ricordato che ad oggi solo tre Paesi ASEAN, cioè Cambogia, Myanmar e Laos, hanno rilasciato dichiarazioni ufficiali per il raggiungimento della neutralità entro il 2050 e il Giappone sta premendo su tutti gli altri membri affinché stilino dei piani e definiscano le tempistiche. 

Gli investimenti in sostenibilità ambientale promossi dal Giappone non devono essere visti come una mossa a sé stante, ma rientrano in una logica di sistema più grande che il Paese asiatico ha da tempo messo in campo. Infatti, negli ultimi anni Tokyo è tornata ad interessarsi al Sud-Est asiatico e ha rafforzato le relazioni diplomatiche ed economiche con i Paesi ASEAN. Nello specifico, il Giappone è molto attivo in investimenti nei comparti della difesa, delle infrastrutture, delle risorse e dell’automotive e ultimamente ha lanciato un piano di sussidi fiscali per favorire lo spostamento delle imprese nipponiche con sede in Cina verso il Sud-Est asiatico. Tokyo ritiene che investire nell’ASEAN, delocalizzandovi imprese e aiutare la regione nella transizione ecologica possa tornare utile sia per se stessa in termini di crescita economica, sia per controbilanciare l’influenza cinese nell’area Per esempio, diminuire la dipendenza dal carbone dei Paesi ASEAN indirettamente significherebbe limitare l’influenza cinese verso di loro visto che Pechino è un grande investitore e costruttore di centrali termiche a carbone.

È chiaro che tutte queste azioni, oltre ad avere un risvolto economico, hanno anche una valenza geopolitica. Tokyo guarda con allarme alla Belt and Road Initiative di Pechino e in conseguenza di ciò è stato l’unico Paese asiatico a non aver aderito alla Asian Infrastructure Investment Bank nata appunto per finanziare la nuova Via della Seta cinese. D’altra parte, il Giappone può contare sulla Asian Development Bank con sede a Manila. L’istituto, fondato negli anni ’60 e di cui Tokyo detiene la percentuale più ampia e pertanto ne esprime sempre il presidente, ha contribuito a investire massicciamente nel Sud-Est asiatico e ora sta orientando i flussi finanziari affinché sostengano la transizione energetica nell’ASEAN

Con Jareeporn Jarukornsakul la logistica è un affare per donne

Articolo a cura di Michelle Cabula

Jareeporn Jarukornsakul, imprenditrice di 53 anni al capo del WHA Group, figura nella lista dei 50 cittadini più ricchi in Thailandia nel 2020 stilata da Forbes. La sua è una storia di successo che coniuga imprenditoria femminile, attenzione alla sostenibilità e sinergia virtuosa tra settore pubblico e privato.

Dopo la laurea in Scienze della Salute alla Mahidol University e un master in Amministrazione Aziendale presso la Bangkok University, all’età di soli 26 anni, Jareeporn Jarukornsakul fa il suo ingresso nel mondo della logistica e nel 2003 co-fonda insieme al marito Somyos Anantaprayoon la WHA Group. Ad oggi ricopre congiuntamente le cariche di Presidentessa del consiglio amministrativo e di amministratrice delegata dell’azienda leader in Thailandia nel settore della logistica integrata, dello stoccaggio e della fornitura di impianti industriali.

Oltre al patrimonio netto da 480 milioni di dollari statunitensi (che le è valso il 48° posto nella classifica di Forbes dei 50 più facoltosi del suo Paese), a sorprendere è la presenza di Jarukornsakul tra le figure più influenti di un settore considerato ancora prettamente maschile. Nonostante il divorzio dal marito le sia costato una discesa nella classifica (insieme si aggiudicavano la trentaduesima posizione nel 2015), l’imprenditrice ha saputo imprimere una svolta all’attività aziendale sin da quando ne ha assunto la direzione sei anni fa, con l’obiettivo di convertirla in una multinazionale nel giro dii tre-cinque anni. Già nel 2016, in occasione dell’acquisizione della Hemaraj Land And Development Plc. (attiva nel campo dello sviluppo immobiliare industriale), Jarukornsakul si era detta determinata ad espandere il proprio business sia nel mercato domestico che nei mercati esteri, puntando su un’expertise sempre più articolata e completa.  

Sotto la direzione di Jarukornsakul, le attività della WHA Group si sono legate a doppio filo con l’iniziativa del Corridoio Economico Orientale (ECC), il progetto pilota del governo thailandese che mira a convertire le province della costa est – Chachoengsao, Chonburi e Rayong – in un hub regionale di innovazione tecnologica e industrialeattraverso lo sviluppo di infrastrutture pubbliche di trasporto e logistica. La società si impegna infatti al fine di intercettare su diversi livelli le esigenze delle industrie high-tech, muovendosi con un certo anticipo nei distretti commerciali designati a divenire in futuro sempre più attrattivi sotto il profilo degli investimenti.

Con un piano d’investimento del valore di 43 miliardi di bath (1,4 milioni di dollari circa) annunciato nell’agosto 2016, la Presidentessa ha inoltre reso chiaro l’intento della società di porsi come il primo fornitore di soluzioni logistiche, immobiliari e industriali complete nel contesto dell’ASEAN Economic Community. “Grazie a Hemaraj, giochiamo un ruolo cruciale nello sviluppo dei clusters automobilistici, elettronici e petrolchimici, e ci impegniamo a divenire dei partner attivi nello sviluppo delle industrie del futuro”, ha affermato.

Il lancio della WHA Industrial Zone – Nghe An nel febbraio del 2017 ha rappresentato “una chiara dichiarazione dell’impegno della società nel Paese e nella regione del Sud-Est Asiatico”, al punto che l’impresa pensa già a replicare. Tra i progetti futuri vi è la realizzazione di un’ulteriore zona industriale nei pressi di Hanoi che possa divenire una nuova base produttiva per le società cinesi, giapponesi e taiwanesi e gli investitori dell’ASEAN che intendono trasferire le loro attività per sfuggire ai danni economici derivanti dalla guerra commerciale USA-Cina.

Jarukornsakul ha definito il Vietnam “la nuova stella luminosa” dell’area, sottolineando come la sua posizione geografica, la sua economia in rapida espansione, la disponibilità di forza lavoro istruita e il suo coinvolgimento in numerosi accordi di libero scambio la rendano una destinazione privilegiata per gli investimenti dell’impresa, che già vanta 30 anni di esperienza sul territorio thailandese. Secondo quanto dichiarato sul sito della società, la WHA Industrial Zone – Nghe An si avvantaggiano delle infrastrutture esistenti per offrire il proprio contributo all’espansione economica e alla creazione di nuove opportunità lavorative nella regione di Nghe An, nel rispetto degli aspetti sociali, culturali e ambientali. 

Alla fine dello scorso anno, la WHA Group si è aggiudicata il “Thailand Sustainability Investment 2020”, riconoscimento conferito dalla Borsa valori thailandese (Stock Exchange of Thailand, SET) alle società particolarmente attente alle istanze ambientali, sociali e di governance (Environmental, Social and Governance, ESG). Il gruppo si è mostrato sensibile al tema della sostenibilità, nella consapevolezza che “la crescita e il progresso devono essere accompagnati dalla responsabilità”, come ha affermato Vivat Jiratikarnsakul, Direttore Operativo Industriale e Internazionale per l’azienda.

L’impegno sociale della WHA Group si è concretizzato nel virtuoso progetto Clean Water for Planet. L’iniziativa lanciata nel 2016 si sostanzia in una serie di collaborazioni con vari istituti scolastici e agenzie governative orientate a sensibilizzare sull’importanza di una corretta gestione e della tutela delle risorse idriche e a fornire acqua pulita alle comunità locali. Il programma prevede anche la fornitura di servizi di gestione delle acque reflue ai propri clienti: nel 2019 la compagnia ha annunciato il completamento di un impianto nel distretto di Pluak Daeng della provincia di Rayong pensato per trattare le acque reflue attraverso processi depurativi per via biologica. 

L’iniziativa fa propri i principi della Sufficiency Economy Philosophy (SEP) ideata dal defunto re Bhumibol Adulyadej, padre dell’attuale sovrano di Thailandia. Questo innovativo approccio allo sviluppo “implica che si agisca con moderazione e ragionevolezza e che si ricerchi sempre conoscenza e moralità nel proporre e attuare progetti di sviluppo”. Il modello di business promosso da Jarukornsakul si allinea perfettamente con le strategie elaborate a livello nazionale: un perfetto esempio di come stato e impresa possano muoversi all’unisono. Non a caso, nel 2021 il Bangkok Post la sceglie come “donna dell’anno” per il settore industriale, celebrandone le doti di leadership e visione strategica.

La risonanza della storia di Jarukornsakul si estende ben oltre i confini thailandesi, come dimostrano i numerosi riconoscimenti internazionali che l’imprenditrice può vantare. Tra gli altri, il suo nome compare nella lista Asia’s Power Businesswomen 2020, in cui lo staff di Forbes raggruppa le donne asiatiche in posizione di leadership che, a fronte della sfida pandemica, hanno saputo dare prova di resilienza e che si preparano plausibilmente a guidare le imprese verso la ripresa. 

Oltre a tracciare il ritratto di un’imprenditrice di successo, la storia di Jareeporn Jarukornsakul alla conduzione della WHA Group ci racconta di alcune virtuose pratiche di corporate social responsibility che stanno prendendo piede nell’area del Sud-Est asiatico. Sempre più spesso le imprese si impegnano in uno sforzo condiviso a fianco delle autorità governative e delle organizzazioni regionali con l’obiettivo di generare sviluppo locale e migliorare la connettività nell’area ASEAN. L’esperienza pionieristica di Jarukornsakul diventa anche fonte di ispirazione per le future generazioni di giovani imprenditrici e imprenditori i quali, sempre più sensibili ai temi della sostenibilità, saranno ben propensi ad abbracciare i valori dell’imprenditoria inclusiva e della condotta d’affari responsabile.

L’influenza russa nel Sud-Est passa per le armi

La Russia punta sulla cooperazione militare nel Sud-Est asiatico. Detiene il primato nell’esportazione di armi, e continua ad approfondire le relazioni con alcuni attori regionali attraverso la cosiddetta “diplomazia della difesa”

Negli scorsi giorni, il Ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov ha incontrato l’omonimo laotiano Saleumxay Kommasith a Vientiane, capitale del Laos. Il Ministro Kommasith ha ringraziato la Russia per l’aiuto ricevuto durante la pandemia da Covid-19. L’incontro si innesta nel quadro della più ampia politica “turn to the East” perseguita da Mosca come strategia per rafforzare le relazioni con l’Asia-Pacifico, che si impernia sul primato russo nella vendita di armi e negli investimenti difensivi. Strategia che proprio di recente ha visto sviluppi in Laos, con l’avvio della costruzione congiunta di un aeroporto e di infrastrutture difensive.

Vladimir Putin riconosce nel Sud-Est asiatico un grande potenziale, e avanza i propri obiettivi strategici puntando sulla diplomazia della difesa. Questa enfasi sull’hard power è una peculiarità della politica estera del Cremlino, la cui cultura politica valorizza meno la pervasività del soft power. Secondo diversi analisti, sono proprio le velleità geostrategiche e gli imperativi di sicurezza di Mosca che hanno consentito un rafforzamento della cooperazione con la regione dell’Asia-Pacifico.

Negli ultimi anni Mosca ha intensificato gli sforzi per la vendita di armi in Asia orientale. Il primato incontestato nella vendita di forniture militari nella regione sembra mostrare, però, segni di cedimento. Le esportazioni sono in declino, perlopiù per via del Countering America’s Adversaries Through Sanctions Act (CAATSA), approvato nel 2017 dall’amministrazione Trump. Davanti al continuo coinvolgimento della Russia nelle guerre in Ucraina e Siria e alla sua interferenza nelle elezioni statunitensi del 2016, la reazione di Washington non si è fatta attendere: la legge impone sanzioni a chiunque abbia rapporti commerciali col complesso militare-industriale russo. Nel periodo 2015-19, le esportazioni di armi della Russia nella regione dell’Asia sudorientale ammontavano a 2,7 miliardi di dollari, in calo rispetto 4,7 miliardi di dollari del 2010-14, secondo Ian Storey dell’Institute for Southeast Asian Studies (ISEAS). Tra il 2010 e il 2019 anche le esportazioni globali della Russia sono diminuite, scendendo da 36,8 miliardi di dollari nel 2010 a 30,1 miliardi di dollari nel 2019 con un calo del 18%. 

I Paesi del Sud-Est asiatico rivestono un ruolo strategico. La crescita della spesa nazionale per la difesa è andata di pari passo con lo sviluppo economico. “Le armi sono affluite nel Sud-Est asiatico negli ultimi anni in parte perché le nazioni dell’ASEAN possono ora permettersi di acquistarle” ha dichiarato Siemon Wezeman, ricercatore presso lo Stockholm International Peace Research Institute (SIPRI). Il commercio con la Russia presenta diversi vantaggi: i prezzi delle armi sono decisamente più competitivi di quelli di concorrenti come USA, Cina ed Unione Europea. In più “La Russia è flessibile sui metodi di pagamento diversi dai contanti, il che le dà un vantaggio nelle economie in via di sviluppo“, ha affermato Shinji Hyodo, direttore degli studi politici presso l’Istituto Nazionale Giapponese per gli Studi sulla Difesa. Ad esempio, l’Indonesia dovrebbe pagare metà del suo pagamento per i jet Su-35 con esportazioni di olio di palma, gomma e altri prodotti. Ma il vero vantaggio strategico è il fatto che Mosca non richiede alcuna contropartita ideologica, al contrario di quanto accade con Stati Uniti ed UE, che richiedono garanzie sul trattamento dei diritti umani e sulla democrazia. A questo proposito, il Myanmar non può importare armi dall’UE per via di un embargo in vigore già dal 1990 e anche in Thailandia il colpo di stato militare del 2014 ha provocato restrizioni da parte dei fornitori europei. 

Vietnam e Myanmar sono invece le principali destinazioni di armi russe, seguite da Malaysia, Indonesia e Laos. In Vietnam la Russia domina il 60% delle importazioni per la difesa. In Myanmar il ruolo di fornitore di armi è oggi particolarmente controverso, a causa del recente colpo di stato militare. Il mese scorso una delegazione russa ha visitato segretamente la giunta militare golpista, tra le proteste degli attivisti per i diritti umani. Tra gli altri membri della delegazione anche una rappresentante di Rosoboronexport – agenzia statale che si occupa di esportazioni di beni e servizi legati alla difesa. Il Generale golpista birmano Min Aung Hlaing ha ricambiato la visita il 22 giugno, a riprova che la cooperazione militare tra i due Paesi non sembra mostrare segni di cedimento. Anzi: la Russia è stata tra i Paesi che alle Nazioni Unite si sono astenuti alla risoluzione assembleare che richiedeva un embargo sulle armi in Myanmar: Russia e Cina sono infatti i due maggiori fornitori di armi del Paese. 

I Paesi della regione si stanno ritagliando un ruolo autonomo dell’arena politica internazionale, e i vantaggi competitivi rappresentati dalla Russia potrebbero essere surclassati da calcoli diversi. All’urgenza di gestire questioni securitarie come il Myanmar e il Mar Cinese meridionale, si aggiunge il desiderio di tutelare la stabilità regionale e il quieto vivere dei suoi abitanti. La diplomazia della difesa del Cremlino dovrà diversificare la sua offerta di beni e servizi legati alla difesa se vorrà competere con l’aumento della concorrenza internazionale.

Surfare l’onda al momento giusto: il caso Flash Group

Nonostante una competizione spietata, la scale-up thailandese mira ad essere leader nella logistica e-commerce ASEAN

L’e-commerce del Sud-Est asiatico è in enorme fermento, con prospettive di crescita rosee: Il trend è già stato precedentemente analizzato ed è ormai una diffusa convinzione fra gli analisti finanziari. 
Con una crescita del 46% annua nel 2021, un volume annuo di affari di circa 80 miliardi di dollari, l’e-commerce ASEAN è forte di prospettive di crescita sostenuta, soprattutto grazie all’aumento massiccio di online consumers in pochi anni, con oltre 350 milioni in più solo nel 2021.

È importante tuttavia analizzare come l’industria dell’e-commerce in ASEAN stia cambiando, e sottolineare i trend che possono portare a nuove opportunità, sia presenti che future.

Ad esempio, un fattore cruciale che ha permesso il passaggio da offline a online retail è stato l’aumento necessario, ma improvviso ed inaspettato, del traffico logistico negli hub commerciali della regione. Questo è accaduto non solo nei porti maggiori, ma anche e soprattutto nelle realtà più piccole, ovvero laddove si era soliti vivere ‘on the street’ al fine di approvvigionarsi beni di prima necessità.

A questo proposito, bisogna anche ricordare che l’Asia è il secondo sistema commerciale più integrato al mondo, dopo l’Unione Europea, e che il traffico regionale interno vale il 58% del totale. Non sorprende che una regione già best in class per la gestione del traffico commerciale sia riuscita a evolversi e brillare, nonostante l’emergenza dovuta alla pandemia.

In generale, molti Paesi della regione (Thailandia in primis) stanno accelerando la realizzazione di network di infrastrutture di quinta generazione, con l’esplicito intento di ridurre i disagi durante potenziali periodi di lockdown.

A questo proposito, nel mondo imprenditoriale spesso si fa riferimento a ‘surfare l’onda quando è alta, all’altezza giusta e con vento favorevole’, ed è questa la filosofia che ha portato Flash Group, una scale-up thailandese, a raccogliere più di 150 milioni di dollari in finanziamenti.

Flash opera nel settore della logistica, e nello specifico nei servizi logistici per l’e-commerce. Kosman Lee, che fondò l’azienda nel 2017 a 29 anni e con circa un milione di dollari in finanziamenti, intuì l’importanza di servire i mercati online ASEAN. Stabilì quindi un obiettivo preciso: diventare il leader logistico dell’online retail nel Sud-Est asiatico nel giro di pochi anni.

Il suo progetto ha convinto anche investitori istituzionali, tanto che colossi come Siam Bank, PTT Oil (leader thailandese del petrolio) e Buer Capital, un fondo di Singapore, hanno investito nel gruppo più di 150 milioni di dollari.

Come conseguenza, nell’immediato futuro il gruppo prevede di gestire 2 milioni di beni al giorno nei suoi magazzini, incrementando il traffico di ben 10 volte rispetto al volume attuale.

La competizione è tuttavia intensa: la presenza di player logistici come Best Inc. (Cina) e Kerry Express (Hong Kong SAR) rendono infatti l’obiettivo di diventare il leader della logistica in salita fin dai primi passi. Non solo, Flash vorrebbe anche sviluppare una sua piattaforma e-commerce interna, andando così a competere con player internazionali come JD.com (leader in Thailandia), oltre che con realtà già consolidate e in forte sviluppo come Sea, Grab e Tokopedia.

Ostacoli di questo tipo potrebbero scoraggiare qualunque imprenditore. Bisogna ricordare però una regola d’oro del commercio: se la torta cresce (o si fa in modo che cresca) tutti crescono con essa e nessuno può perdere nell’immediato futuro. E non esiste una industria in cui questo fenomeno sia limpido come nel traffico logistico internazionale.

 

Il dilemma delle aziende estere in Myanmar

Il boicottaggio dei manifestanti, l’opinione della comunità internazionale e la crisi economica stanno facendo vacillare le aziende presenti nel Paese.

Il colpo di Stato in Myanmar ha inflitto un duro colpo all’economia del Paese, già resa fragile lo scorso anno dall’emergenza del COVID-19. Le imponenti proteste degli ultimi cinque mesi, gli scioperi degli operai e le azioni violente perpetrate dall’esercito birmano hanno portato i lavoratori ad abbandonare le grandi città e i propri posti di lavoro nelle aziende per rifugiarsi nei piccoli villaggi e nelle foreste.

Con l’interruzione dei servizi pubblici e bancari e con il blocco quotidiano di internet la crisi economica si è ampliata a dismisura e i dati dell’ultimo report stilato dalla World Bank parlano chiaro: il settore industriale birmano ha subito una contrazione di 11 punti percentuali rispetto al 2020 mentre il settore relativo ai servizi ha perso oltre 13 punti. Nel corso degli anni entrambi i settori hanno dato un contributo importante alla crescita economica del Paese: dal 2014 al 2019 il 6% della crescita annua del PIL birmano proveniva dal settore secondario e terziario, ma questi numeri sono scesi fino all’1% nel 2020 e con un 2021 che prospetta dati ancora più negativi.

Questi segnali erano già stati percepiti già all’inizio di marzo quando, a causa del colpo di Stato della giunta militare, il 13% delle aziende in Myanmar aveva dovuto chiudere i battenti nell’attesa di un ritorno alla normalità. L’instabilità del sistema bancario e il non poter effettuare pagamenti online ha inflitto un notevole colpo alle aziende: secondo una ricerca che ha coinvolto 372 compagnie che operano in Myanmar, il 77% ha affermato che è proprio il fragile sistema bancario che ha portato ad una netta diminuzione del fatturato.

Inoltre, non essendoci molta liquidità di denaro, i cittadini sono stati costretti in questi mesi ad acquisti essenziali fatti grazie ai pochi kyat che potevano essere ritirati presso le banche birmane.

Dopo cinque mesi dal golpe militare, le aziende internazionali oggi sono costrette a due scelte: chiudere gli stabilimenti oppure stringere i denti nell’attesa che ritorni una situazione stabile nel Paese. Foodpanda, azienda leader nel settore food-delivery di proprietà della tedesca Delivery Hero, ha deciso di continuare ad operare in Myanmar nonostante le difficoltà incontrate in questi mesi con il blocco di internet e degli acquisti online. Scelta diversa è stata quella della Telenor, il colosso delle telecomunicazioni norvegese che si è vista costretta ad annullare contratti e tutte le operazioni nel Paese per una perdita stimata intorno ai 780 milioni di dollari. Nei confronti delle aziende, anche il movimento di protesta civile birmano (CDM) sta giocando un ruolo importante nel boicottare quelle aziende che collaborano e foraggiano il governo militare del generale Ming Aung Hlaing: negli scorsi mesi è stata creata l’applicazione “Way Way Nay” che permette di sapere se un’azienda o una compagnia sono direttamente collegate alla giunta militare, in modo da non acquistare prodotti presso di loro. Ciò ha portato al boicottaggio dei prodotti creati dalle aziende cinesi, come ritorsione nei confronti di Pechino che fino ad oggi non ha mai assunto una posizione netta e che più volte ha votato contro le sanzioni economiche previste dall’ONU nei confronti del regime militare.

Per il movimento di disobbedienza civile boicottare le aziende collegate alla giunta militare potrebbe essere la soluzione migliore per indebolire i militari e le loro finanze. Un caso interessante è quello della vendita della birra birmana, le cui aziende appartengono alla giunta militare, che hanno visto una diminuzione delle vendite pari al 90%. Per colpire maggiormente le finanze della giunta militare, anche i membri della Lega Nazionale per la Democrazia in una nota dello scorso marzo avevano chiesto agli investitori internazionali nel campo dell’estrazione di petrolio e gas di non pagare le tasse alla Myanmar Oil and Gas Enterprise, la principale società di estrazione di petrolio e gas controllata dall’esercito birmano.  

Da non sottovalutare infine il peso della comunità internazionale: alcuni brand internazionali hanno deciso infatti di interrompere i contatti con il governo militare spinti dal timore di episodi che potrebbero danneggiarne il marchio, come già accaduto per alcuni brand internazionali come Nike e Adidas che recentemente hanno annunciato di non voler più utilizzare il cotone prodotto nella regione dello Xinjiang.  H&M ad esempio, l’azienda leader nel settore del vestiario, ha fatto sapere lo scorso marzo di aver interrotto per il momento il rapporto con i propri fornitori in Myanmar a causa delle drammatiche vicende di violazione dei diritti umani degli ultimi mesi.Come H&M, altre società internazionali come McKinsey, Coca Cola e l’agenzia media Reuters hanno abbandonato i propri uffici presenti a Sule Square, un imponente complesso commerciale presente a Yangon e di proprietà dell’esercito birmano, in modo da non foraggiare la giunta militare.

Le potenzialità delle relazioni UE-Indonesia: dal commercio alla cooperazione politica

Articolo a cura di Pierfrancesco Mattiolo

Per l’UE, approfondire i rapporti con Giacarta e gli altri Paesi ASEAN è un’opportunità – forse addirittura una necessità. La visita dell’Alto Rappresentante Borrell a inizio giugno ne è un segnale.

“Il centro di gravità globale si sta spostando verso la regione Indo-Pacifica”. Con queste parole, pubblicate in un suo articolo per il Jakarta Post, Josep Borrell ha messo in chiaro con quanta attenzione Bruxelles stia guardando agli sviluppi politici ed economici nei Paesi ASEAN. L’Alto Rappresentante UE per gli Affari esteri e Vicepresidente della Commissione Europea si era recato a inizio giugno a Giacarta in visita ufficiale, dove aveva incontrato figure di primo piano del Governo indonesiano – il Presidente Widodo, i Ministri degli Affari esteri e della Difesa, esponenti del Parlamento – e dell’ASEAN – tra cui il Segretario Generale Lim Jock Hoi.

La rinnovata attenzione dell’UE verso l’ASEAN ha molteplici ragioni. Se da un lato Bruxelles ha fatto un salto di qualità nei suoi rapporti con due Paesi membri, Vietnam e Singapore, grazie ai recenti accordi di libero scambio, rimangono delle distanze notevoli con altri Governi. Ad esempio, sul piano politico, l’UE ha risposto al coup in Myanmar con una serie di sanzioni contro alcune personalità legate al Tatmadaw e, l’anno scorso, alle ripetute violazioni dei diritti umani in Cambogia con la revoca del regime commerciale di favore EBA (Everything But Arms). Sul piano commerciale, Bruxelles è stata adita due volte in giudizio innanzi alla World Trade Organization (WTO) per le sue misure sull’olio di palma e i biocarburanti con esso prodotti, rispettivamente da Kuala Lumpur e da Giacarta. Nonostante la disputa legale in corso, il futuro dei rapporti commerciali tra UE e Indonesia è promettente e un rafforzamento della cooperazione, anche politico-strategica, con lo Stato più popoloso dell’ASEAN è nel pieno interesse di Bruxelles. Borrell è stato chiaro sul punto: “il potenziale del nostro rapporto è inespresso. Possiamo fare molto di più”. 

Sul piano commerciale, i negoziati per l’Accordo di libero scambio tra UE e Indonesia sono in fase avanzata ed entrambe le parti sembrano interessate ad accelerare i tempi. Uno dei dossier più caldi, la questione dell’olio di palma, potrebbe essere spostato su un altro tavolo negoziale, così da raggiungere un compromesso separato e rendere più agevole il confronto sul capitolo TSD (Commercio e Sviluppo Sostenibile) dell’Accordo. Borrell stesso sembra aver suggerito questo approccio nel corso della sua visita a Giacarta. Le discussioni sugli altri capitoli proseguono in modo positivo, nonostante su alcuni temi sia più complesso trovare un punto di incontro – ad esempio, sulle barriere tecniche al commercio (TBT), sull’accesso agli appalti pubblici e sulla tutela dei diritti di proprietà intellettuale. L’Accordo conterrà un capitolo dedicato agli investimenti, tema particolarmente caro al Governo indonesiano. Risale allo scorso 4 marzo il regolamento attuativo della Omnibus Law, l’ambizioso piano di riforme economiche di Giacarta che ha aperto il Paese agli investimenti stranieri in molti settori – tra cui telecomunicazioni, trasporti, energia, servizi edili – e ha previsto vari incentivi per attrarli. Questa apertura potrebbe essere rafforzata ulteriormente dall’Accordo di libero scambio e portare nuove opportunità alle imprese europee. Per il momento, il mercato indonesiano è particolarmente favorevole ai competitors dei Paesi che hanno sottoscritto il RCEP (Regional Comprehensive Economic Partnership, l’accordo commerciale tra Paesi ASEAN, Cina, Giappone, Corea del Sud, Australia e Nuova Zelanda). In particolare, l’Indonesia ha bisogno di investimenti stranieri sulle sue infrastrutture, la cui inadeguatezza costituisce un ostacolo per la crescita economica del Paese, e la Cina si è dimostrata ben lieta di intervenire, approfittando delle recenti aperture.

L’appeal degli investimenti cinesi, oltre al supporto ricevuto nella gestione della crisi COVID-19, sta spingendo il Governo indonesiano a riallacciare i rapporti con Pechino, particolarmente tesi in passato a causa delle dispute sulle zone di pesca nel Mar Cinese Meridionale. La crescente influenza cinese nella regione rientra senza dubbio tra i motivi che hanno spinto l’UE e alcuni suoi Stati membri – Francia, Germania e Paesi Bassi – a formulare una nuova e più coraggiosa “strategia Indo-pacifica” che passa proprio da Giacarta. Se il dialogo con Myanmar e la Cambogia è difficile a causa delle divergenze molto profonde – di cui la Cina ha approfittato per aumentare la sua influenza in questi due Paesi – sulla forma di Stato e sulla tutela dei diritti, l’UE non ha problemi a riconoscere nell’Indonesia “una delle più grandi democrazie ed economie al mondo” e un Paese like-minded, quasi a voler sottolineare l’intenzione di voler collaborare anche sul piano politico, oltre che commerciale. Giacarta ha lanciato segnali incoraggianti in questo senso: dopo il colloquio con Borrell di inizio giugno, la Ministra degli Affari esteri Retno Marsudi ha ribadito l’impegno del suo Governo a ottenere la nomina di un inviato ASEAN per il Myanmar, la cessazione delle violenze e la liberazione dei prigionieri politici da parte delle forze golpiste birmane.La cooperazione politica potrebbe diventare presto anche strategica. L’UE ha espresso l’intenzione di essere presente nel Sud-Est asiatico anche con le proprie marine militari. Si tratta di un cambiamento non da poco per Bruxelles, alla ricerca di un approccio pragmatico in equilibrio tra cooperazione – economica e politica – e proiezione strategica nell’Indo-pacifico, anche per bilanciare il protagonismo cinese. L’Indonesia – che, tra l’altro, ricoprirà la presidenza del G20 il prossimo anno, subito dopo l’Italia – è sicuramente un partner fondamentale, probabilmente necessario, per concretizzare questa nuova visione.

Introduzione al mercato del lavoro nei Paesi dell’ASEAN

Articolo a cura di Carola Frattini

Il lavoro è come il carburante di un’economia e per questo è importante avere un quadro del mercato del lavoro nei Paesi ASEAN per comprenderne lo sviluppo e i possibili scenari futuri.

Il lavoro è di vitale importanza in uno stato ed è ovviamente anche al centro della costituzione italiana. In particolare, il mercato del lavoro influisce sull’economia di un Paese essendo l’insieme dei meccanismi economici che riguardano il modo in cui domanda e offerta di lavoro entrano in contatto. Per esempio, avere un sano mercato del lavoro permette una crescita economica più rapida e solida. Un mercato del lavoro forte permette di avere tassi di occupazione e salari più alti e, a livello sociale, diminuisce le disuguaglianze tra gli individui. Inoltre, i dati relativi al mercato del lavoro sono importanti anche per gli imprenditori che vogliono aprire un’attività nel Paese di interesse e per gli investitori che vogliono investire in aziende locali.

Più della metà della manodopera mondiale si trova nei Paesi asiatici e, in particolare, il 10%   è situata nel Sud-Est asiatico. Principalmente per analizzare il mercato del lavoro di un Paese si guarda ai tassi di occupazione, disoccupazione e al tasso di partecipazione alla forza lavoro. Se si guarda al tasso di disoccupazione dei Paesi dell’ASEAN nell’ultimo decennio, si può constatare che alcuni di questi hanno avuto i tassi tra i più bassi al mondo. In generale nel periodo dal 2006 e il 2020 il tasso di disoccupazione è rimasto sempre più alto in Europa che nei Paesi dell’ASEAN. Questa tendenza sembra continuare poiché secondo i dati del Ministero degli Esteri italiano, il tasso di disoccupazione dell’ASEAN 2021 è del 3,2% mentre quello europeo è del 7,3%. Inoltre, con un range tra il 67.5% e l’84.4% la Cambogia, la Thailandia e il Vietnam hanno il tasso di partecipazione alla forza lavoro più alto tra i Paesi ASEAN.

Molti Paesi dell’ASEAN, prima del Covid-19, mostravano incoraggianti segni di sviluppo del mercato del lavoro. Per esempio, le Filippine, una delle tre grandi economie del Sud-Est asiatico, stavano vivendo un momento di espansione, accompagnato da un aumento dei salari e una diminuzione delle persone impegnate in impieghi nell’ambito del “lavoro informale”. Infatti, uno dei problemi del mercato del lavoro delle Filippine è sempre stato il lavoro informale, un rapporto di impiego in cui non vengono rispettati i diritti di lavoratori. Purtroppo, però, il Covid-19 ha fermato e forse ribaltato queste tendenze portando a una risalita del numero di persone coinvolte nel lavoro informale ma soprattutto ad un aumento del tasso di disoccupazione.

Anche se i Paesi membri dell’ASEAN non hanno ancora pubblicato i dati ufficiali e completi sulla disoccupazione del 2020, secondo uno studio dell’”Asia-Europe Institute”, alcuni Paesi del Sud-Est asiatico hanno un forte incremento del tasso di disoccupazione. Un aumento del tasso di disoccupazione può avere effetti a lungo termine. Quando uno shock molto importante e negativo, come il Covid-19 e le sue conseguenze, colpisce l’economia è possibile che si verifichi un’isteresi della disoccupazione. Un problema serio, perché le persone disoccupate nel lungo periodo perdono negli anni delle capacità fondamentali nel lavoro e pertanto sarà più difficile per loro essere assunti e riprendere a lavorare e, di conseguenza, il tasso di disoccupazione farà più fatica a ridursi.

Il Covid-19, inoltre, ha portato a una ricollocazione dei posti di lavoro nei diversi settori. Questo cambio nel mondo del lavoro si sta iniziando a far sentire nei Paesi dell’Asean. Durante la pandemia, infatti, i settori del turismo e tutti quei settori dipendenti dal contatto personale sono stati i più colpiti e sono anche quelli che ora stanno facendo più fatica a riprendersi. I settori che invece si stanno riprendendo più in fretta sono quelli che richiedono una manodopera più specializzata e competenze più specifiche ai lavoratori. Questo però costituisce un problema per l’incontro tra domanda e offerta nel mercato del lavoro, poiché essendo salito il tasso di disoccupazione ci sono più lavoratori che cercano un lavoro ma non sempre i lavoratori hanno le competenze richieste. Questo può portare ad una persistenza della disoccupazione a lungo termine.

Nonostante questi potenziali problemi, l’organizzazione internazionale del lavoro sembra credere che il mercato del lavoro dei Paesi membri dell’ASEAN si stia già riprendendo mostrando che il Covid-19 ha solo rallentato e non fermato il suo sviluppo.  

Per ulteriori informazioni sul mondo del lavoro nei paesi ASEAN

Min Aung Hlaing: Il generale che pensava di capire il “suo” popolo (ma si sbagliava)

Lo scorso 8 novembre, giornata di elezioni semi-libere nella “democrazia disciplinata” birmana, Min Aung Hlaing, Comandante in Capo delle Forze Armate del Myanmar, si impegnò ad accettare la volontà popolare ed i risultati del voto. Meno di tre mesi dopo, però, un colpo di stato guidato dai militari ha portato all’arresto di Aung San Suu Kyi, leader del partito risultato vincitore alle elezioni, alla dichiarazione dello stato di emergenza e alla nomina del Comandante a Presidente del neocostituito Consiglio di Amministrazione dello Stato. Eppure, il sessantaquattrenne generale non è persona che cambia facilmente idea.

Min Aung Hlaing è nato nel 1956 a Tavoy, oggi Dawei, capitale del Tenasserim, regione all’estremo sud del Paese, al confine con la Thailandia, anticamente contesa dai regimi birmani e siamesi. Come scrive Le Monde, il generale non è dunque homme du sérail (‘uomo di palazzo’), ma, piuttosto, “un provinciale”, trasferitosi a Yangon a seguito del padre, impiegato ministeriale, e con il sogno di perseguire carriera militare. Min Aung Hlaing si iscrisse così alla facoltà di giurisprudenza dell’Università di Rangoon (ora Yangon) mentre preparava l’esame di ammissione alla prestigiosa Defense Services Academy, dove infine entrò nel 1974, al suo terzo tentativo.

I compagni di classe lo ricordano come un uomo di poche parole che preferiva mantenere un basso profilo. Silenziosamente, dunque, il futuro generale cominciò la sua scalata al vertice del Tatmadaw. La svolta arrivò nel 2002 con la nomina a responsabile militare dello Stato Shan, situato nel cuore del Triangolo d’Oro, dove viene prodotto l’82% dell’oppio birmano. Qui Min Aung Hlaing avrebbe imparato a trattare con i numerosi gruppi etnici che da decenni combattono tra loro e contro l’esercito birmano. L’offensiva del 2009 contro i ribelli cinesi-birmani del Kokang, zona auto-amministrata al confine con la Repubblica Popolare, gli fece guadagnare la fiducia di Than Shwe, l’uomo forte del Myanmar dal 1992 al 2011.

Proprio nel 2011, un po’ a sorpresa, il “vecchio” leader lasciò al “giovane” Min Aung Hlaing, “guerriero temprato dalle molte battaglie” ma anche “studioso serio e gentiluomo”, il comando dell’esercito nel momento in cui il Myanmar si preparava ad una transizione democratica. La costituzione del 2008 aveva messo al sicuro il ruolo del Tatmadaw di guardiano dell’unità nazionale e il Comandante in Capo era realisticamente l’uomo più potente del Myanmar”. Min Aung Hlaing era infatti in grado di scegliere personalmente i Ministri di difesa, interno, e questioni confinarie, nominare direttamente un quarto dei parlamentari, ed impedire ogni tentativo di limitare il proprio potere.

La Lega Nazionale per la Democrazia (LND), uscita vittoriosa dalle elezioni del 2015 (le prime libere dal 1990 dopo il primo tentativo “controllato” del 2010), dovette quindi scendere a patti con il generale, che, negli anni successivi, si presentava accanto ad Aung San Suu Kyi negli eventi ufficiali e instaurava relazioni con dignitari stranieri. La violenta repressione della minoranza musulmana dei Rohingya, nel 2016-2017, gli costò un’accusa di genocidio da parte del Consiglio ONU per i diritti umani ma aumentò la sua popolarità presso la maggioranza buddista del Paese. Prima di essere bloccato da Facebook, il suo profilo attirava centinaia di migliaia di likes e Min Aung Hlaing si era persuaso che avendo accesso alle “giuste informazioni” le persone avrebbero capito che l’esercito difendeva “i loro interessi”.

Quando le elezioni dello scorso novembre hanno decretato una vittoria schiacciante della Lega, tra le accuse di brogli da parte dell’esercito, si era parlato di un possibile compromesso che avrebbe portato Min Aung Hlaing alla presidenza. Quando questa eventualità non si è materializzata e l’LND ha deciso di non accettare condizioni, il Generale, convinto da tempo che “la storia del Paese non può essere separata dalla storia del Tatmadaw” ha deciso di valersi del diritto dell’esercito ad “assumere ed esercitare il potere sovrano dello Stato”. Nella prima intervista dopo il colpo di stato, concessa a fine maggio ad un’emittente cinese ad Hong Kong, Min Aung Hlaing ha confidato di essere stato un po’ sorpreso dalla mobilitazione del popolo: “Devo ammettere che non pensavo sarebbe stata così tanta”.

Una nuova ondata di Covid minaccia la ripresa dell’Asia

Diversi Paesi asiatici avevano reagito con efficienza allo scoppio della crisi sanitaria, contenendo e talvolta prevenendo i contagi. La tempestività delle misure adottate rischia di essere ora compromessa dalla scarsa disponibilità di vaccini

Una nuova ondata di contagi da Covid-19 ha travolto nelle scorse settimane la regione dell’Indo-Pacifico. Mentre dall’altra parte dell’emisfero la pur contrastata diffusione dei vaccini consente di ritornare progressivamente alla normalità, il virus fa breccia in diversi Paesi asiatici. Tra questi anche vari stati ASEAN come Singapore, Vietnam e Malesia. E dire che i primi due nel 2020 erano state considerate tra le roccaforti mondiali della lotta al Covid-19. Le autorità erano state a tal punto virtuose nel contenere l’epidemia, che si era parlato di un vero e proprio modello asiatico di prevenzione della crisi sanitaria. Un modello che appunto, oltre ai casi più noti di Cina, Corea del Sud e Taiwan, includeva anche diversi Paesi ASEAN. Allora gli osservatori internazionali si erano interrogati a lungo sulle ragioni politiche e culturali di questo successo. Stavolta invece la causa principale della nuova emergenza è chiara: mancano i vaccini.

Secondo l’istituto di ricerca Our World Data, meno del 20% della popolazione è stata vaccinata in otto dei Paesi ASEAN – eccetto Singapore, che ne ha vaccinata la metà, e il Myanmar, i cui dati sono parziali e arrivano solo al 15 maggio scorso. Rispetto alle stime di Paesi più avanzati lo svantaggio è netto: è vaccinata il 52.71% della popolazione statunitense, il 46.6% di quella dell’Unione Europea e il 43.21% di quella cinese. L’approvvigionamento iniziale è stato una sfida in tutto il mondo, ma sono stati i Paesi più ricchi e colpiti maggiormente dalla pandemia a dotarsi più rapidamente dei brevetti vaccinali. Quelli del Sud-Est asiatico, con tassi di infezione più bassi, non hanno cavalcato questo vantaggio comparato o sono rimasti esitanti di fronte al traslare della competizione sino-statunitense dal piano commerciale a quello della diplomazia dei vaccini.

“Per porre fine alla pandemia, sono necessarie strategie sia difensive che offensive. La strategia offensiva sono i vaccini”, ha suggerito Jason Wang, docente presso la Stanford University School of Medicine. Secondo il Prof. Wang, quando la minaccia percepita dalla popolazione si è abbassata, i governi si sono limitati a rispondere a quella minaccia in modo reattivo. Ecco che quindi la strategia più diffusa in area ASEAN è stata la chiusura dei confini nazionali, una misura difensiva funzionale volta anche a placare alcune derive xenofobe che stavano conquistando spazio nel discorso pubblico sulla crisi sanitaria. Inoltre, come ha dichiarato Peter Collignon, medico e professore di microbiologia presso l’Australian National University, “la realtà è che coloro che producono i vaccini li tengono per sé”. Nel cercare risposte politicamente accettabili a questa realtà, i rappresentanti dei governi nazionali in Asia orientale hanno pensato che in fondo non c’era alcun motivo di affrettarsi. Mentre in Europa e negli Stati Uniti la corsa al vaccino è stata anche motivo di orgoglio nazionale, il Ministro della Sanità sudcoreano ha per esempio dichiarato a fine 2020: “Ce la siamo cavata abbastanza bene con il Covid-19, quindi non abbiamo fretta di partire con le vaccinazioni quando i rischi [dei vaccini] non sono stati ancora verificati”.

Attualmente il Vietnam, che aveva ricevuto l’encomio della comunità internazionale per l’efficienza con cui aveva prevenuto il diffondersi delle infezioni, sta subendo l’ondata più grave dall’inizio della pandemia. Dall’inizio della nuova ondata, cominciata la fine di aprile, è passato da pochissimi casi giornalieri ad averne quasi 500 ogni 24 ore, con un incremento esponenziale delle infezioni totali in soli due mesi (da 3.000 a 13.000 casi circa). Anche  Thailandia, Cambogia e Malesia sono alle prese con nuove restrizioni, specialmente Kuala Lumpur, che ha previsto un’estensione del lockdown nazionale almeno fino al 28 giugno.

Alcuni Paesi dell’area speravano di risollevare il turismo, attraverso la graduale riapertura dei confini. In Cambogia, Filippine e Thailandia, infatti, il contributo del settore all’economia nazionale è vicino al 20-30%: per questo una rapida ripresa dei viaggi internazionali avrebbe potuto contribuire fortemente alla ripresa economica regionale. Al contrario, il traffico passeggeri internazionale nel Sud-Est asiatico è fermo da diversi mesi a circa il 3% dei livelli pre-pandemia, secondo Channel News Asia. La situazione non può che peggiorare, dal momento che il successo delle campagne vaccinali in altre aree del mondo consentirà al settore turistico di riprendere fiato, lasciando indietro diversi Paesi asiatici.

La Thailandia è determinata ad attuare le misure necessarie perché l’economia del settore possa risollevarsi. Mercoledì 16 giugno i rappresentanti del governo si sono detti pronti a riaprire i confini entro 120 giorni per i viaggiatori che esibiscano un certificato di vaccinazione valido. Phuket è la meta individuata per il programma pilota che prevede l’accoglienza di turisti provenienti da Paesi a basso e medio rischio, a condizione che questi non lascino l’isola per almeno 14 giorni. Si tratta del “Phuket Sandbox plan”, che è stato approvato a fine maggio dalla task force economica del governo thailandese, e arriva a pochi giorni dall’inizio di una campagna di vaccinazioni di massa. La speranza è che questo possa aiutare chi vive di attività legate al turismo e ha subito gravemente l’assenza dei 40 milioni di turisti l’anno che visitavano il Paese prima della pandemia.

Gli sforzi di Bangkok potrebbero risultare insufficienti se i Paesi continueranno a reagire in modo disomogeneo alla nuova ondata da Covid-19. Una ripresa economica coordinata non può fare a meno della sicurezza sanitaria legata ai vaccini. Il contraccolpo subito dai Paesi ASEAN, e più in generale da buona parte dell’Asia orientale e meridionale, rischia di rallentare la ripresa economica post Covid della regione e di rendere vana la straordinaria tempestività con cui diversi governi asiatici avevano arginato i contagi nel 2020.

Si riapre il dialogo per un accordo commerciale UE-Malesia

Nonostante la controversa questione dell’olio di palma, i gruppi industriali europei e malesi spingono per riavviare i negoziati commerciali

Dopo gli accordi di libero scambio con Singapore e Vietnam, l’Unione Europea punta a espandere la sua rete di intese bilaterali nel Sud-Est asiatico. Con una situazione economica disastrata dalla crisi pandemica, Thailandia e Filippine hanno manifestato interesse a riaprire i colloqui, mentre procedono i negoziati con l’Indonesia. E ora sembra proprio che ci siano le premesse per rilanciare le trattative anche con la Malesia, dopo che alcuni gruppi industriali hanno annunciato di voler fare pressione su Bruxelles e Kuala Lumpur per la conclusione di un accordo.  

La Malesia si presenta oggi come uno dei Paesi complessivamente più progrediti del Sud-Est asiatico: è la terza regione in termini di Pil (12%) ed il terzo partner dell’UE nell’ASEAN. È  il secondo produttore di petrolio della regione ed il terzo maggiore esportatore di gas naturale liquefatto al mondo, grazie anche alla posizione strategica tra le principali rotte per il commercio di energia.

La Malesia ha già provato ad avviare colloqui con l’Unione Europea nel 2010, che si sono però interrotti due anni dopo, a causa della difficoltà a trovare un’intesa su alcuni elementi chiave. L’ostacolo principale, oggi come allora, rimane la controversa questione dell’olio di palma. Da tempo, infatti, in Indonesia e Malesia, che riforniscono  l’84% della produzione globale di olio di palma, le lobby si oppongono alle norme di protezione ambientale europee sull’import di biodiesel. Soprattutto perché le coltivazioni rappresentano una fonte di reddito importante per gli abitanti delle zone rurali, che costituiscono a loro volta una fetta consistente dell’elettorato in entrambi i Paesi. Dall’altro lato si trovano gli ambientalisti, che lottano strenuamente contro la produzione intensiva di olio di palma, causa primaria della deforestazione che distrugge l’habitat degli oranghi e di altre specie a rischio.

Ecco perché nel 2018, con la Renewable Energy Directive II e con il successivo Regolamento Delegato, la Commissione ha stabilito rigorose “misure eco-friendly” per il settore energetico europeo, che includono il bando totale delle importazioni di tutti quei biocombustibili che causano anche indirettamente l’aumento di emissioni di gas serra entro il 2030, incluso l’olio di palma.

Ora però, analogamente all’Indonesia, Kuala Lumpur ha deciso di aprire a gennaio di quest’anno un procedimento contro l’UE utilizzando il meccanismo di risoluzione delle controversie del WTO. Entrambi gli Stati accusano l’UE di perseguire pratiche commerciali discriminatorie e protezionistiche. Una mossa rischiosa, che potrebbe mettere a repentaglio le negoziazioni con l’Unione Europea, e tutto per un prodotto che rappresenta meno del 5% delle esportazioni verso il vecchio continente.

Tuttavia, considerata l’importanza economica di un accordo di libero scambio, alcuni analisti ritengono che la ben nota questione dell’olio di palma verrebbe agitata soprattutto per ragioni di politica interna ed evidenziano come il Primo Ministro malese, Muhyddin Yassin, e il suo governo di minoranza, in vista delle elezioni generali previste nel 2023, sono impegnati a condurre un’agenda nazionalista a beneficio della maggioranza musulmana del Paese, che rappresenta la gran parte dei proprietari e dei lavoratori nell’industria del settore.

Ma intanto sta crescendo la pressione sul governo malese, portata avanti soprattutto dalle imprese locali, ben consapevoli che un accordo di libero scambio con l’UE stimolerebbe la ripresa post-pandemica. E allo stesso tempo il riavvio del negoziato consentirebbe ai Paesi europei di trarre vantaggio dalle opportunità commerciali e di investimento offerte da un mercato dinamico in un’area di mondo sulla quale le imprese comunitarie puntano molto. Oggi, dunque, dopo i falliti tentativi del recente passato, i tempi sembrano finalmente maturi affinché Malesia e UE si siedano attorno a un tavolo per riavviare i negoziati.

Myanmar, l’UE impone nuove sanzioni ai golpisti

Terzo ciclo di sanzioni imposto dal Consiglio Europeo a 8 individui, 3 entità economiche e un’organizzazione per il golpe e la repressione delle proteste

Fonte: consilium.europa.eu

L’Unione Europea batte un nuovo colpo in risposta al golpe militare birmano e alla successiva repressione violenta delle proteste. Il Consiglio Europeo ha infatti imposto nuove sanzioni a 8 persone, 3 entità economiche e all’Organizzazione dei veterani di guerra. Tra gli 8 individui sono inclusi ministri, viceministri e la procuratrice generale, che l’Ue ritiene responsabili di aver “compromesso la democrazia e lo Stato di diritto e commesso gravi violazioni dei diritti umani nel Paese”. Le quattro entità colpite sono invece di proprietà dello Stato o sono comunque controllate dalle forze armate e contribuiscono in maniera più o meno diretta alle attività del Tatmadaw.

Lo scopo delle misure, che si concentrano sui settori delle pietre preziose e del legname, è quello di limitare la capacità della giunta militare di trarre profitto dalle risorse naturali birmane e sono concepite in modo da “evitare danni indebiti alla popolazione”. Si aggiungono alle precedenti misure restrittive imposte dall’UE, che includono un embargo sulle armi e sulle attrezzature che possono essere utilizzate per reprimere le proteste, un divieto di esportazione di beni a duplice uso destinati ai militari e alla polizia di frontiera, restrizioni all’esportazione di apparecchi per il monitoraggio delle comunicazioni e un divieto di addestramento e cooperazione militare col Tatmadaw.

Allo stesso tempo, l’UE continua a fornire assistenza umanitaria alla popolazione birmana, nel 2021 ha stanziato 20,5 milioni di euro in aiuti per far fronte alle necessità immediate delle comunità sfollate e colpite dal conflitto in corso. Bruxelles, che si dice pronta a cooperare con il centro di coordinamento ASEAN per l’assistenza umanitaria, si contraddistingue per le azioni messe in atto in riferimento al golpe. Mentre, nel frattempo, il Giappone continua a non applicare sanzioni e il generale Min Aung Hlaing viene ricevuto in Russia.

Leggi il provvedimento integrale

 

Energia, i Paesi ASEAN puntano sul nucleare

Articolo a cura di Sabrina Moles

Cinque Paesi ASEAN (Indonesia, Malesia, Vietnam, Thailandia e Filippine) hanno incluso lo sviluppo dell’energia nucleare civile nelle strategie di sviluppo dei prossimi anni

La sicurezza energetica nei Paesi ASEAN è un problema urgente per la loro strategia di sviluppo. La necessità di rispondere alle sfide per l’energia di domani è, inoltre, sempre più legata a doppio filo alla questione climatica e all’obbiettivo emissioni zero. In questo complesso quadro politico, economico e sociale si fa avanti un’opzione mai presa in considerazione dal gruppo fino agli ultimi anni: l’energia nucleare.

I Paesi ASEAN stanno raggiungendo gli altri Paesi nella corsa alle energie di nuova generazione, finanziando progetti ambiziosi per le rinnovabili. Così l’ASEAN punta a creare un ecosistema di collaborazione, confronto e crescita per il settore energetico, strategia che ora cerca di trasferire anche al settore nucleare. Tra i fattori determinanti emerge soprattutto la domanda energetica dei Paesi della regione, che dal 2000 è aumentata dell’80%. A questo si unisce la ricerca di fonti energetiche alternative e meno inquinanti, proprio perché la rapida crescita dei consumi ha anche dato la spinta alle emissioni con conseguenze dirette anche sulla salute pubblica. Si stima che negli stati ASEAN moriranno per causa delle emissioni nocive più di 650 mila persone all’anno entro il 2040, rispetto alle circa 450.000 vittime del 2018. Spinti da esigenze ambientali, economiche e sociali la regione ha registrato uno dei più promettenti tassi di crescita nel settore delle rinnovabili. I piani dei Paesi ASEAN sono ambiziosi, e puntano a far salire la quota delle energie rinnovabili al 70% sul totale del mix energetico. Ma per raggiungere l’obbiettivo delle emissioni zero servirà uno sforzo importante: per questo motivo, il nucleare appare come una soluzione coerente con gli obbiettivi del gruppo.

La crisi post-Covid ha portato i governi a ripensare la strategia di sviluppo energetico con maggiore pragmatismo, facendo rientrare nel calcolo anche l’opzione nucleare. Gli impianti sono sempre più longevi: in pochi anni si è passati da stime intorno ai 40 anni di vita degli impianti per arrivare a calcoli, più ottimisti, che raggiungono i 90-100 anni. L’impatto ambientale del nucleare in rapporto all’efficienza giustificherebbe ulteriormente gli investimenti in questo settore. Secondo l’ASEAN Centre for Energy (ACE), il nucleare ha la stessa impronta climatica dell’eolico, quando vengono calcolate anche le emissioni del processo di estrazione delle materie prime, la manutenzione e lo smantellamento delle infrastrutture. Un altro elemento chiamato in campo è il cosiddetto fattore CF (fattore di capacità). Questo misura il rapporto tra energia generata ed energia generabile, offrendo un quadro dell’affidabilità di una fonte energetica, quanto effettivamente è l’output prodotto in base alle potenzialità. Stando ai calcoli dell’Energy Information Administration (EIA) degli Stati Uniti il CF dell’energia nucleare ha toccato il 93,5% nel 2019, un valore molto più alto di tutte le altre fonti di energia. Cifre che in questo caso raggiungono al massimo il 52% con l’eolico, mentre crollano al 21% per il solare.

Per le nazioni ASEAN c’è un forte interesse a promuovere l’energia nucleare, che è stata sempre – anche prima della pandemia – “sottovalutata”. Per questa ragione i piani promossi dal gruppo dei Paesi del Sud-Est asiatico prevedono una precisa roadmap per implementare i progetti per l’energia nucleare nella regione. Un elemento interessante, che ricorre spesso nel Memorandum of Understanding firmato a marzo 2021 con la World Nuclear Association (WNA), è la questione dell’accettazione pubblica. Alla cosiddetta “alfabetizzazione” dei cittadini sul tema del nucleare sono dedicati alcuni paragrafi del capitolo sul nucleare nel documento per la fase II dell’APAEC (Piano d’azione e cooperazione energetica ASEAN) per il 2021-2025. In Asia le preoccupazioni sul nucleare sono arrivate dopo l’incidente all’impianto di Fukushima-Daiichi, seguite da un’ondata di dichiarazioni da parte dell’Occidente sulla recessione dal nucleare. Stati come Germania, Belgio, Spagna e Regno Unito hanno già dichiarato da tempo che desiderano spegnere i reattori entro il 2030. Ciononostante, la tendenza non è globale, anzi. Sono altrettanti i Paesi che stanno intraprendendo nuovi progetti, dal Medio Oriente (Emirati Arabi Uniti, Egitto, Iran) all’Asia, passando per la Russia.

Per avviare la nuova strategia non servirà solo la comunicazione, si evince dal documento sulla fase II, ma occorreranno altre forme di preparazione antecedenti l’inizio dei cantieri. Tra questi, la creazione di una solida base conoscitiva del mondo dell’energia nucleare e degli standard di sicurezza internazionali.  Qui entrano in campo attori più importanti sulla scena, che hanno permesso all’ASEAN di affidarsi anche alla cooperazione internazionale per progettare il suo futuro nucleare. Dal 2016 è iniziata una collaborazione con il governo del Canada nel quadro del progetto “ACE-Canada”. Dal lavoro congiunto è emerso il primo vero studio di fattibilità per l’energia nucleare nei paesi Asean. Rilasciato nell’aprile del 2018, il report dà un quadro generale dello stato del capitale umano ed economico a disposizione dell’ASEAN per lanciare un programma di sviluppo energetico. La collaborazione con l’estero permette di inquadrare gli obbiettivi del gruppo in un’ottica di condivisione delle competenze non solo da un punto di vista tecnico, ma anche come capacità in ambito legislativo, di adattamento delle politiche locali e della comunicazione dei rischi e dei benefici.

Metà dei Paesi ASEAN hanno sufficienti conoscenze e risorse per avviare dei piani di nucleare civile. Indonesia, Malesia, Vietnam, Thailandia e Filippine vengono identificati come l’avanguardia anche per i quadri normativi avanzati, la capacità di costruire infrastrutture nucleari e la formazione di risorse umane competenti sui diversi aspetti progettuali (ma non solo). Questi cinque Paesi hanno già incluso l’elemento nucleare nelle loro strategie di sviluppo dei prossimi anni. Le Filippine puntano ad attivare la centrale nucleare di Bataan, nel nord del Paese, e mai  operativa sin dalla sua costruzione terminata nel 1984. La scelta del nucleare di allora era nata durante lo shock petrolifero del 1973 come strategia di sicurezza energetica e oggi ritorna per rispondere sia a rischi sistemici sul mercato energetico, sia per allinearsi agli obbiettivi globali per il clima. La prima centrale indonesiana è programmata per entrare in funzione nel 2030, insieme ad altre due che arriveranno nel 2035. Anche Malesia e Thailandia guardano alla stessa scadenza: tra tutti la Malesia risulta il Paese più preparato al salto verso il nucleare, grazie alla collaborazione efficace tra governo e l’ente responsabile del programma per l’energia nucleare, la Malaysian Nuclear Power Corporation.

Non è esclusa l’opzione nucleare anche per Laos, Cambogia e Myanmar. Questi Paesi hanno intrapreso degli accordi in merito con la Russia, anche se per ora prevalgono i progetti per idroelettrico e solare con la Cina. Questa scelta avviene anche fronte della disponibilità di capitali cinesi destinati a questi progetti, mentre le centrali nucleari hanno importanti costi iniziali per la loro costruzione che frenano le ambizioni dei governi. Ciò non esclude che prossimamente la commercializzazione dei reattori cinesi raggiunga anche i vicini a sud, soprattutto per il potenziale dei cosiddetti Small modular reactors su cui la Cina sta puntando nella sua strategia di apertura sui mercati dell’energia globali. Brunei e Singapore sono le due grandi incognite del nucleare targato ASEAN, anche se nella metropoli-stato asiatica si sta lavorando per sviluppare un know-how di rilievo nel settore della sicurezza nucleare, e l’autosufficienza sostenibile sembra diventato il nuovo imperativo della fase post-pandemica.

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